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Autore: Adeia Di Elferas    10/07/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Roma era stata assediata dal caldo torrido per tutto il giorno e pure quando quel 25 luglio andava spegnendosi in una sera dal tramonto rosato, l'afa rendeva difficile il respiro e penosa ogni azione.
 La stanza di Innocenzo VIII era gremita di gente e un vociare composto, ma insistente impediva al morente di trovare un momento di riposo.
 Seduto accanto al capezzale stava Giuliano Della Rovere, chino sul papa come un confessore, l'orecchio teso verso le ultime parole insensate del malato, che ormai viveva i suoi ultimi momenti in un'aura di confusa autocommiserazione che lo portava a ripetere ossessivamente le solite tre o quattro frasi in cui si incolpava di mancanze di ogni genere.
 Erano presenti anche i nipoti e il figlio Franceschetto, accorsi non appena il medico di corte aveva predetto l'imminente morte di Innocenzo VIII. In realtà erano più interessati a origliare i discorsi dei porporati, che non a portare conforto al moribondo.
 Rodrigo Borja, che era uscito un momento per riprendere fiato, si immerse nuovamente nell'aria bassa e fetida di quella stanza, che non veniva areata da qualche giorno. C'era troppa gente e troppe bocche aperte. Lo spagnolo pensò che se stava mancando il fiato a lui, che era in forma come un ragazzino, al papa quel clima chiuso e maleodorante sarebbe stato fatale in poche ore.
 Ascanio Sforza teneva con discrezione una mano davanti al naso, probabilmente proprio per impedire ai miasmi della morte di disgustarlo troppo, e teneva lo sguardo fisso sul papa.
 Rodrigo poteva immaginare quello che il suo mezzo avversario stava pensando. E comprese pure che quello era il momento per ingraziarselo e per spingerlo a diventare uno dei suoi grandi elettori.
 Raffaele Sansoni Riario stava parlottando con Carafa, occhieggiando di quando in quando verso il Cardinale Federico Sanseverino, che stava declamando qualcosa a Franceschetto Cybo, che l'ascoltava con attenzione.
 Borja si fece pomposamente il segno della croce e, dopo aver giunto un istante le mani sotto al mento, tanto per far vedere a tutti quanto fosse sempre guidato dalla fede, si avvicinò allo Sforza e lo salutò con un cenno del capo: “Eminenza.”
 Ascanio lo guardò di sfuggita e sussurrò: “Pare che ci siamo.”
 Rodrigo gli si mise accanto, rivolgendo gli occhi al papa, notando come Giuliano Della Rovere apparisse compreso nel suo ruolo di consolatore: “Che ne pensate, di quello che accadrà?”
 Ascanio fece un sorrisetto, appena visibile sotto alla mano che gli faceva da filtro: “Immagino che voi non vediate l'ora di prendere il posto del nostro beneamato Innocenzo VIII.”
 L'atteggiamento scandalizzato di Borja non ingannò Ascanio, ma lasciò che lo spagnolo recitasse ancora un po': “Non mi sento affatto degno di una simile carica...” disse subito Rodrigo, cambiando quasi subito tono: “Certo è che la morte del papa e l'elezione del successore aprirà una guerra già destinata a consumarsi.”
 Proprio in quel mentre stava entrando nella stanza anche il settantenne Giovanni Battista Savelli, che, forte del perdono papale per il pasticcio combinato a Forlì, salutò man mano tutti i presenti, andando poi ad appollaiarsi alle spalle di Giuliano Della Rovere.
 “Spiegatevi meglio.” fece Ascanio, aggrottando la fronte, gli occhi sempre puntato sul papa, mentre tutt'intorno a loro il sommesso chiacchiericcio sembrava farsi sempre più rumoroso.
 Il Cardinal Borja strinse le labbra, prima di dire: “Che Napoli e Milano cominceranno a scontrarsi già in conclave. Converrebbe a entrambe le fazioni trovarsi un buon campione.”
 Il modo in cui lo spagnolo parlava del conclave, come fosse stata una giostra per cavalieri, non sconvolse troppo Ascanio, che, malgrado tutto, doveva dar ragione al Borja.
 Quando lo Sforza stava per ribattere in qualche modo, Giuliano Della Rovere si alzò in piedi e, allargando le braccia per attirare l'attenzione di tutti, declamò, in modo abbastanza informale: “Papa Innocenzo VIII ha raggiunto la luce del Signore.”
 Rodrigo Borja strinse i denti, mentre in molti cominciavano a far risuonare preghiere solenni di ogni tipo, come a volersi congedare un'ultima volta dal vecchio pontefice. Si guardò velocemente in giro e si chiese da chi cominciare, per comprarsi alleati e voti.
 Per caso, si accorse di avere a meno di mezzo metro Paolo Fregoso, un altro Cardinale scomodo, uno di quelli che Innocenzo VIII aveva perdonato senza chiedere in cambio quasi nulla.
 Con fare casuale, lo spagnolo sussurrò all'orecchio del genovese: “Come sta vostro figlio? E sua moglie? Mi pare di aver sentito dire che Chiara Sforza, sua moglie, è di nuovo in dolce attesa. Non vorrei che orecchie indiscrete lo venissero a sapere e cercassero vendette trasversali...”
 Mentre gli occhi famelici di Rodrigo correvano ad Ascanio Sforza, che, preso dalle orazioni, non se ne rese nemmeno conto, Fregoso sentì il sangue gelarglisi nelle vene.
 Borja non si fece pregare e concesse: “Certo, se il nuovo papa vi facesse ambasciatore pontificio a Napoli, permettendovi di portare con voi vostro figlio e la sua famiglia, nessun milanese oserebbe più allungare un dito sulla vostra progenie...”
 Paolo Fregoso, un po' curvo e canuto, puntò le iridi spente in quelle ancora vitali del sessantenne spagnolo e, senza dire nulla, fece intendere di aver capito alla perfezione.

 La notizia della morte di papa Innocenzo VIII era arrivata a Forlì con una celerità impressionante.
 “I lavori per il conclave dovrebbero iniziare a breve.” spiegò il messaggero, inviato dal Cardinale Sansoni Riario: “E vostro cugino si auspica che l'elezione del nuovo pontefice possa favorire ancora una volta la vostra famiglia, mia signora.”
 Caterina non sapeva come leggere quell'affermazione. Secondo Raffaele chi era il favorito?
 Giuliano Della Rovere? Era loro parente, quello era vero, ma Caterina aveva sempre avuto forti riserve sulla sua fedeltà alla famiglia. Non aveva in sé la codardia tipica dei Riario e dunque se ne discostava ogni volta che ne aveva la possibilità. Se fosse stato eletto, sarebbe comunque stato difficile sapere come si sarebbe comportato nei suoi confronti.
 Raffaele era da escludersi a priori, perché nessuna persona sana di mente lo avrebbe mai proposto come papa.
 Restava solo Rodrigo Borja, padrino di Ottaviano. Infatti era improbabile che, secondo il Cardinale Sansoni Riario, il Cardinale Ascanio Sforza fosse in corsa per essere papa.
 “Aspetteremo di sapere come andrà il conclave – aveva detto quella sera Caterina a Giacomo, non appena si erano ritirati al Paradiso – e poi deciderò come muovermi.”
 “Secondo me hanno ragione Oliva e Numai.” buttò lì Giacomo, esprimendo per la prima volta da giorni un'opinione personale in merito al clima politico del momento: “Dovresti cominciare a prendere in considerazione qualche contratto matrimoniale per almeno uno dei tuoi figli.”
 La Contessa non voleva per nessun motivo parlare di quell'argomento: “La situazione generale è ancora troppo incerta, non posso impegnarmi con nessuno, nemmeno a parole.”
 Giacomo stava per farle notare qualcosa, probabilmente che Ottaviano aveva già tredici anni e che molti nobili della sua età erano già promessi, se non già addirittura sposati, ma Caterina lo anticipò, dicendo: “La situazione è tanto incerta che sto anche prendendo in considerazione l'ipotesi di richiamare tuo fratello a Imola, per farlo Governatore della città.”
 L'espressione di Giacomo si indurì all'istante: “Mio fratello?” chiese, con una certa durezza.
 “Se ci si prospettano tempi difficili, vorrei avere un uomo come lui a difendere Imola.” fece Caterina, sperando di non urtare troppo il marito.
 Giacomo, che aveva ormai ventun anni, ma conservava la fresca bellezza dei giorni in cui aveva incontrato per la prima volta la sua signora, osservò un momento la moglie ventinovenne e bellissima che ricambiava lo sguardo con fare perentorio e deciso. Il giovane avrebbe riconosciuto quegli occhi ovunque. Avevano un modo tutto loro di guardare chi avevano di fronte, facendolo subito sentire inferiore. Erano gli occhi di una donna avvezza al comando, di una donna abituata a guardare chiunque, perfino gli uomini, dall'alto al basso, senza paura.
 A volte Giacomo si trovava a chiedersi perché mai una donna del genere si ostinasse a tenerlo al suo fianco. Ormai non potevano nemmeno più godere assieme della compagnia del piccolo Bernardino, per evitare le chiacchiere superflue di nutrici e balie.
 Avvertendo il consueto senso di inadeguatezza che provava quando si sentiva osservato a quel modo, Giacomo sospirò e concordò: “Hai ragione. Lui ne sarebbe in grado.”
 
 Carminati stava contando le cassapanche piene di vestiti di Cecilia Gallerani e si chiedeva come avrebbero fatto a farli entrare tutti quanti nella loro nuova casa.
 Palazzo Dal Verme non era piccolo, ma quegli abiti erano numerosi quanto quelli di una principessa.
 Il matrimonio, fittizio e frettoloso, si era tenuto il 27 luglio, su ordine preciso e perentorio di Ludovico il Moro, che non aveva voluto intrattenersi oltre né col fedele Capitano Ludovico Carminati, né tanto meno con la vecchia amante.
 Cecilia aveva fatto finta di non dar peso a quella mancanza di interesse da parte del Moro, ma si era presa una piccola rivincita chiedendo, anzi, esigendo, di portarsi appresso il quadro che il domine magister Leonardo aveva dipinto per lei.
 Nemmeno a dirlo, vedere il quadro impacchettato e messo assieme alle cassapanche aveva definitivamente abbattuto il povero Carminati. Doveva confessare di essere profondamente felice di avere una donna tanto bella e giovane in casa, ma tutti quei bagagli gli facevano capire a che tipo di vita la sua sposa fosse abituata.
 L'avrebbe amata come una figlia, per quel che avrebbe potuto, ma avrebbe dovuto richiederle molta pazienza e versatilità, perché il suo tenore si sarebbe irrimediabilmente abbassato. Non gli restava che contare sull'intelligenza della Gallerani, che in tutta Milano si diceva essere sconfinata e 'degna di una vera Duchessa'.

 I lavori per il conclave cominciarono in ritardo rispetto al previsto, per via di una lettera veneziana che pregava tutti loro di attendere l'arrivo dell'anziano Cardinale Maffeo Gherardi, di ottantasei anni.
 Rodrigo Borja, da regolamento, avrebbe dovuto presiedere le messe e i preparativi, in veste di protodiacono, ma lasciò volentieri quel compito a Giuliano Della Rovere, che aveva condotto ogni cosa con lo stesso cipiglio usato al vecchio conclave da Todeschini Piccolomini, che aveva sperato come il genovese, di convincere tutti quanti della sua naturale inclinazione verso il papato.
 Lo spagnolo aveva fatto in fretta i suoi conti, quando era cominciata la prima votazione. Era uno dei conclavi più incerti di sempre, a suo modo di vedere. Prima di tutto era troppo sbilanciato, con ben sei genovesi e quattro romani, a fronte di ventitré Cardinali, di cui due – Maffeo Gherardi e Federico Sanseverino –  pubblicati da Giovanni Battista Orsini e Ascanio Sforza dopo la morte del papa solo per renderli elettori a tutti gli effetti. Firenze, poi, era quasi un fantasma, in quel conclave, essendo rappresentata solo dal tremolante sedicenne Giovanni Medici, malgrado proprio la città toscana fosse stata la grande elettrice di Innocenzo VIII.
 Era quasi scontato che il primo scrutinio sarebbe andato a vuoto. Quello era il momento di capire quali fossero le correnti davvero pericolose e quali quelle da comprare immediatamente prima di vederle passare al nemico.
 Fin da subito, i due a contrapporsi maggiormente furono Giuliano Della Rovere, che sosteneva a gran voce la candidatura del portoghese Jorge da Costa, i cui ottantasei anni lo rendevano un partito inaccettabile, se non per chi voleva un nuovo conclave a breve, e Ascanio Sforza, che propugnava la candidatura di Oliviero Carafa, sessantaduenne napoletano, fiero oppositore di re Ferrante e quindi potenziale amico di Milano.
 In realtà Ascanio Sforza aveva proposto Carafa come prima opzione perché lo riteneva un uomo facile da manovrare, ma nel caso in cui al conclave quel nome non fosse piaciuto, era prontissimo a mercanteggiare con qualcuno di più accattivante, benché più difficile da tenere sotto controllo: lo spagnolo Rodrigo Borja.
 Dopo la prima votazione, si procedette in fretta allo spoglio, per la gioia dei fedeli che aspettavano in piazza di vedere la fumata.
 Giuliano Della Rovere un po' invidiava i romani che, dopo aver visto il colore del fumo, se ne sarebbero tornati alle loro case. Lui non sopportava lo scarno corredo che veniva dati agli elettori durante la loro segregazione alla cappella. Un tavolo, una sedia, uno sgabello, il necessario per scrivere, qualche asciugamano, dolci, pinoli canditi, biscotti, un martello, posate e ciò che serviva per i bisogni corporei. Nulla, in confronto alle comodità del suo palazzo trasteverino.
 L'esito fu incerto, come previsto, tuttavia Rodrigo ne fu molto compiaciuto, a gran scorno di Giuliano Della Rovere.
 Nove voti andarono a Carafa, che parve sorpreso da quel successo, benché Ascanio Sforza andasse dicendo che era solo l'inizio. Sette voti al veneziano Giovanni Michiel, nipote di quel Barbo che i milanesi avevano sostenuto nel passato conclave. Sette voti allo spagnolo Rodrigo Borja, che aveva preso la notizia con un grande sorriso e le mani appena alzate, in segno di ringraziamento. Sette voti furono pure quelli racimolati da Costa, e Giuliano Della Rovere, che pur doveva sostenere il portoghese, prese per sé ben cinque voti.
 Ascanio Sforza, invece, non ne aveva preso nemmeno uno, e quello era il segnale che Rodrigo avvertì più di ogni altro. Se Giuliano ci aveva provato, convincendo evidentemente qualcuno dei grandi elettori a far confluire i voti dei loro adepti verso di lui, anche a scapito di Costa, Ascanio no, lui aveva puntato tutto sul suo candidato. Dunque sarebbe bastato offrirgli un campione di razza, al posto dell'ottantaseienne e presto i suoi grandi e piccoli elettori si sarebbero convogliati su un unico nome.
 Il nulla di fatto della prima votazione si trascinò anche nella seconda. Rodrigo non aveva mosso troppo le acque, sicuro che i giochi si sarebbero fatti per lo meno al terzo scrutinio.
 Tuttavia il secondo voto lo favorì più del primo, facendogli guadagnare otto voti, mentre Carafa rimase a nove, Giuliano Della Rovere a cinque e sette a Michiel.
 L'unico, in pratica, che aveva mutato anche se di poco la sua posizione era proprio lo spagnolo che nessuno, nemmeno gli ambasciatori più acuti, dava per possibile vincitore.
 La notte tra il 10 e l'11 agosto, con passo leggero, Rodrigo Borja fece visita a tutti gli elettori che sapeva di poter comprare al modico prezzo di qualche favore e qualche intimidazione.
 Partì da quelli più semplici.
 Federico Sanseverino guardava lo spagnolo con una certa diffidenza, illuminato solo da una misera candela di sego appoggiata al tavolo. I suoi diciassette anni lo rendevano fragile tanto quanto un uomo di novanta, dunque Rodrigo non ebbe problemi a far la voce grossa.
 “La mia casa di Milano.” offrì, senza troppe cerimonie: “In cambio del voto vostro e di quelli che riuscirete a influenzare.”
 “Altrimenti?” chiese il giovane napoletano, che non sapeva che se ne sarebbe fatto di una casa a Milano, dato che re Ferrante e suo figlio Alfonso sembravano pronti a far guerra proprio ai lombardi.
 “Altrimenti niente...” sospirò Rodrigo: “Peccato, però. Il vostro caro re Ferrante mi aveva detto che nei napoletani avrei trovato alleati solidi...”
 Con ancora un ghigno di soddisfazione stampato in volto, Rodrigo uscì dalla stanza del giovane Cardinale, certo di aver fatto centro.
 Fu la volta di Orsini, che si lasciò convincere come nulla fosse a usare in modo assennato il suo voto in cambio delle città di Monticelli e di Soriano, della carica di ambasciatore nelle Marche e del vescovado di Cartagena, che da solo avrebbe fruttato più dei due suddetti paesi.
 Colonna, il suo acerrimo nemico, non fu da meno, e si accontentò dell'abbazia di Subiaco e dei paesini circostanti.
 Pallavicini, nella fierezza dei suoi quarantun anni si aggiudicò il vescovado di Pamplona e con Domenico Della Rovere fu tutto ancor più facile, dato che gli furono sufficienti nebulose promesse di 'alcune abbazie, alcuni vescovadi', che Borja pensava non gli avrebbe forse concesso mai.
 Giovanni Battista Savelli si dimostrò appena più determinato a non cedere, ma a Rodrigo bastò dire a mezza bocca: “Chissà, forse il nuovo papa potrebbe revocarvi il perdono per il disastro che è stato il vostro governo a Forlì. Sapete, ho molti amici. Meglio non avermi contro...”
 Così, con il naso prominente che vibrava come impazzito, Savelli aveva ceduto, facendosi pagare con il feudo di Civita Castellana e il vescovado di Majorca.
 Michiel, benché fosse tra i papabili, si lasciò blandire dalla promessa di ottenere dei terreni vicino a Porto, e il pavido Sansoni Riario piegò la testa in cambio di qualche campo spagnolo e quattromila ducati l'anno e la restituzione di una casa in piazza Navona che era stata di suo cugino Girolamo Riario.
 “La restituirò al giovane Ottaviano.” spiegò subito Raffaele: “Spetta a lui e glielo devo.”
 Rodrigo annuì con fare paternalistico, ricordandosi come il piccolo Conte Riario fosse il suo figlioccio e commentò: “Ricorderemo questa vostra gentilezza.”
 Infine venne il momento di convincere Ascanio Sforza, che si sarebbe tirato dietro pure i voti dei Cardinali Ardicino della Porta e Giovanni Conti.
 Arrivato alla porta del suo presunto avversario e possibile alleato, Rodrigo fece un respiro molto profondo e, con una certa agitazione, bussò un paio di volte, fino a che la voce di Ascanio non chiese: “Chi è, a quest'ora?”
 Rodrigo deglutì e diede un'intonazione molto avvolgente alla sua voce, mentre rispondeva: “Un amico, spero.”
 

   
 
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