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Autore: FigliadiDurin    10/07/2016    0 recensioni
XVI secolo, la galea Incubo dei mari navigava nei pressi delle coste inglesi pronta per il rientro in patria. La giovane rematrice Eloisa guardava la realtà con ansia e timore: da ormai settimane il suo sonno era disturbato da spaventosi incubi e l’unica cosa che ricordava al risveglio erano i magnetici occhi gialli.
Storia partecipante al contest "Apocalisse: Vivere o Morire" indetto da ManuFury sul forum di Efp
Genere: Horror, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Freddo
«Issate le vele. Fate in fretta.» L’ordine del capitano fu a malapena sentito dal resto dell’equipaggio. Stizzito e con il respiro affannato si recò a poppa; non amava particolarmente cambiare i suoi piani secondo le idee di qualcun’altro, peggio ancora se queste idee erano di una donna.
Il cielo era ormai scuro, cumuli grigi e larghi nascondevano la luna perfettamente piena e chiara. La temperatura era repentinamente scesa e all’odore salmastro del mare se ne era sostituito uno più forte e penetrante: un tanfo di morte, di decomposizione, di qualcosa andato a male.
«Jack, saccheggia la riserva di vino o dammi un cazzotto dritto sul naso, non voglio più respirare» disse sghignazzando Alvaro, primo ufficiale dell’Incubo dei mari, facendo scoppiare una strana ilarità sulla nave; i compagni vennero coinvolti in una risata isterica, perfino Eloisa si lasciò un po’ andare.
«Quel vino fa troppo schifo. Sì, donna, porta tutte le bottiglie che abbiamo» ordinò il grasso Jack con un ghigno beffardo stampato sul viso, mentre sputava le briciole del pane che stava mangiando.
«Dai, sguattera» intonò il resto dell’equipaggio, mentre il capitano se ne stava estraniato abbastanza da non creare ulteriori disagi ad Eloisa.
La ragazza si alzò dalla sua posizione con il capo basso e si incamminò tenendosi la gonna con le mani per evitare che i compagni la toccassero. Era abituata anche a questo; si era ribellata una sola volta per il diritto di portare i pantaloni, ma gli schiaffoni del capitano e i calci dei compagni l’avevano persuasa ad abbandonare ogni idea di insurrezione.
La stiva della galea era bassa e piccola, carica di merci appena comprate dall’Egitto e pronte per essere rivendute nella madrepatria Inghilterra. Eloisa dovette stare attenta a non sbattere la testa ed a causa del buio non riuscì bene a distinguere le riserve là sotto. Nonostante la poca luce riuscì a scorgere le bottiglie di vetro pensando ad un modo che le permettesse di salirne il numero maggiore possibile. Prese due bottiglie del liquido scuro, sbirciò attentamente se ci fosse qualcuno che la seguiva e poi aprì il vino per assaggiarne un sorso. Strinse gli occhi e fece una buffa smorfia al passaggio dell’alcol nella gola e al bruciore che esso scatenava. Non le era permesso bere e nonostante non le piacesse farlo, assaporare furtivamente quella cattiva vendemmia la faceva sentire un po’ più libera.
Chiuse velocemente la bottiglia ma un forte boato la costrinse ad appoggiarsi alla parete di legno della stiva. Il cuore le martellò nel petto e davanti alla retina presero vita gli occhi gialli che animavano i suoi incubi. Urlò, pregò che nessuno la sentisse e cercò di tenersi in equilibrio.
Non capì quello che le era successo: si massaggiò le tempie come per rimettere a posto e nello stesso tempo zittire tutti i brutti pensieri. Si poggiò poi una mano sul cuore e una sulla pancia per calmarsi da un inutile spavento. Rivolse il suo sguardo al mare, come sempre faceva in quei casi; le onde calme e azzurre la mettevano sempre di buon umore, ma poi pensò che il boato doveva essere stato prodotto dal mare e dopo non seppe più su cosa riflettere.
Prese con difficoltà due bottiglie di vetro, le sue mani erano fredde e dure come il diamante. Udiva le grida dei suoi compagni, altri mormorii leggeri e volgari imprecazioni, ma non erano rivolti a lei e questo la turbò. Si stava ancora reggendo alla parete quando avvertì un secondo boato, più profondo del primo e le urla dei compagni più acute del solito.
L’onda aveva spezzato di netto due remi di babordo, bagnando e squarciando le vele del primo albero. A giudicare dai danni doveva essere stata più forte di quanto lei avesse immaginato.
Robert, il più giovane dei rematori, che a soli quindici anni aveva rubato nella banca di un rispettato aristocratico guadagnandosi presto il rispetto degli altri uomini sulla nave, in quel momento stava estraendo con attenzione una scheggia di legno dal braccio di Alvaro il cui viso era diventato di un bianco cadaverico.
«Donna, aiuta a sistemare» disse il capitano con inaspettata calma, non sembrava particolarmente smosso dall’accaduto; forse arrabbiato e indispettito ma di certo non turbato, come se già si aspettasse un evento simile.
«E voi, femminucce, fate silenzio. Rafforzate le vele e cercate di rimanere in equilibrio sui vostri piedi, il mare questa notte ci riserverà alcune spiacevoli sorprese».
«Sì, capitano» risposero eccitati in coro i rematori più giovani, evidentemente galvanizzati dalla burrasca che non avrebbe permesso loro di chiudere occhio durante la notte, desiderosi di affrontare il pericolo, inesperti e profondamente ingenui.
«Ci sono nubi sì, ma non sembra che stia per piovere. Non ci sono motivi per cui il mare debba essere agitato» azzardò Eloisa, nonostante non fosse solita farlo. Aveva riacquistato un po' di forza e le mani le dolevano ancora, ma il peso sulla sua mente era notevolmente alleggerito.
«Zitta donna, fai quello che ti è stato comandato» gridò qualcuno in sottofondo. Un’onda ancora più alta si infranse rovinosamente nella murata facendo sobbalzare l’equipaggio.
«Stiamo navigando in acqua tranquille. Io, davvero, non capisco» rimuginò il capitano a bassa voce, quasi come per volersi confortare più che informare i compagni. Eloisa udì a malapena quelle parole; cercò il viso accigliato del superiore tra le altre facce entusiaste e smarrite, ma quando vide i suoi occhi sbarrati ne ebbe paura. Si chiese se anche lei mentre pensava avesse lo stesso sguardo terrificante.

«Il fetore è aumentato. Sarà morto qualcosa di grosso nel mare» disse Alvaro stringendo la torcia con il braccio sano, illuminando una piccola chiazza di oceano: nonostante il naso tappato, non riuscì a mantenere il conato di vomito dentro la bocca. Il mare era diventato più scuro, non il colore che ci si aspetti che abbia al calare del giorno, ma un nero simile alla pece. Anche il rigurgito del rematore aveva assunto una sfumatura strana.
Eloisa poggiò sul legno scheggiato della nave una delle bottiglie di vino e dall’altra bevve lunghe sorsate. Ebbe di nuovo un brivido di febbre ma il calore provocato dal vino l’aiutò; inoltre la puzza del cattivo alcool coprì per un breve momento il lezzo proveniente dal mare.
Nonostante i richiami del capitano, l’equipaggio continuava a correre forsennatamente da una parte all’altra della nave. Anche nei suoi incubi il caos era il protagonista. Vedeva sempre forme indistinte dai contorni poco definiti, ne vedeva sempre una gran folla. Una massa che si avvicinava, sogno dopo sogno, sempre di più a lei. Non riusciva mai a scorgere nessun volto o almeno non ricordava di averlo fatto; si riteneva sempre soddisfatta nel sonno e sapeva che se lo avesse visto l’incubo sarebbe diventato peggiore. Solo una volta, l’ultima di notte prima di prendere il largo, le erano apparsi gli occhi gialli. Spalancati, ma poco energici: le pupille erano contratte, ridotte a poco più che semplici fessure per far sì che il giallo dell’iride esaltasse nella notte buia. Da quel giorno, ogni volta che chiudeva gli occhi, la stessa immagine continuava a tormentarla.
Quasi come se stesse leggendo nella sua mente, il capitano Alfieri comandò nuovamente il silenzio ritirandosi in cabina con il suo favorito, il giovane nipote Giacomo, senza dare ulteriori spiegazioni.
I rematori avevano occupato le loro postazioni nonostante procedessero a vele spiegate e il lato sinistro portasse troppi danni del mare impetuoso. Erano abituati a non avere terra stabile sotto i piedi, ma sembravano essere impreparati, colti alla sprovvista. I più temerari raccontavano suggestive storie di tempeste, di pirati, di isole leggendarie; volevano distrarsi oppure dimostrare il loro valore davanti al pericolo, ma a questo Eloisa non seppe rispondere. Si era seduta, abbracciandosi le ginocchia per stringersi dentro ad un riccio impenetrabile e nascondendo sul grembo la bottiglia di vino. Ne bevve un altro sorso quando fu sicura che nessuno la stesse guardando. Sentiva di non avere più paura, la mente si stava annebbiando, ma era una sensazione piacevole che di certo l’avrebbe aiutata a sopravvivere nella difficile notte a venire.
«Sembriamo dentro un libro, uno di quelli che fanno spaventare» disse Jack visibilmente scosso, con la voce meno arrogante e più incerta.
«Non sai nemmeno leggere, stai zitto. Hai chiesto il permesso a mamma prima di salire qui?» lo canzonò Charles, del quale si raccontava che avesse sterminato un’intera famiglia a colpi di ascia. Nessuno però sembrò mostragli attenzione, non rideva più nessuno, ma in compenso tutti tremavano dal freddo. La temperatura continuava a scendere. Le mani dei vogatori erano diventate come lastre di ghiaccio, anche esse scure come il mare in cui navigavano.
«Non sentite questo rumore? Qualcuno sta nuotando vicino alla nave» esclamò terrorizzato Robert che, alzatosi sulle gambe malferme, fu costretto a sedersi da un’altra furiosa ondata.
«Siamo in mezzo all’oceano chi vuoi che nuoti qui?» disse Alvaro puntando la torcia verso il mare e non riuscendo a scorgere niente.
Eloisa bevve un altro po' di vino e strinse forte la bottiglia tra le mani. Si accorse che stava sudando freddo e le nocche le diventarono bianche. «Lo sento anch’io. Il rumore di artigli che graffiano sul legno…
«…Shh. Ascoltate. Unghie affilate sembrano conficcarsi nella chiglia della galea. Fa male. Sentite lo stridere. Posso immaginare le schegge di legno che si insinuano nella pelle provocando altro dolore. Stanno venendo a prenderci. Quelli con gli occhi gialli ci faranno del male. Sono tanti.» cominciò Eloisa a vaneggiare. Non le importava se gli altri la sentissero o la credessero pazza.
Non le apparteneva di certo questo coraggio; si sporse dalla nave per dimostrare la veridicità delle sue parole e far vedere che sotto l’Incubo dei mari si stavano nascondendo veri mostri.
«Che sta dicendo? Fermatela vi prego» gridò Alvaro ma questa volta, sotto il suo umorismo, si nascondeva anche una velata preoccupazione. Non credeva alle fantasticherie della compagna, ma c’era senz’altro qualcosa di sinistro in quella faccenda.
Charles si avvicinò alla ragazza da dietro e le premette una mano sulla bocca ma lei rispose mordendogli la pelle indurita dai calli. Il vecchio le diede un manrovescio che la rematrice cercò di ignorare nonostante il bruciore.
«La galea si è appesantita, però» constatò Jack rimanendo ancorato ad uno degli alberi. Un altro strattone e la nave si inclinò leggermente. Il cielo si era completamente oscurato, perfino la luna era stata completamente nascosta dalle nuvole scure. Nessun bianco, nessuna speranza di mantenere la calma, nessuna luce ma solo notte.
«Chiamate il capitano, in fretta. Che cosa sta facendo là sotto?» Alvaro aveva perso le speranze; si tenne come tutti gli altri nel lato ancora a galla facendo così sprofondare ancora di più l’altra parte. Ogni membro dell’equipaggio si era ritrovato in situazioni simili altre innumerevoli volte. Ogni lezione assimilata, però, era stata completamente dimenticata.
Eloisa ripeté l’ordine dettato dall’ufficiale. Qualche goccia di rosso le cadde lungo i bordi della bocca e, rimanendo in piedi solo con la sua forza, arrivò a pronunciare anche un secondo ordine. Lo trovò molto soddisfacente.
«In fretta, forza»
«Abbassa la voce donna, non permetterti di parlarmi così» inveì Charles che lasciò la fune, ma anziché risultare spavaldo e fiero finì per scivolare a causa della pendenza della nave. Una colonna d’acqua si alzò dal mare mostrando agli altri rematori quanto fosse sporco l’oceano. Gli uomini non ebbero tempo per essere allarmati perché Charles continuò a parlare, o meglio gridare.
Fu orribile, spaventoso e tutti ebbero il desiderio di essere sordi.
Si sentì il rumore di carne lacerata, di unghie che strappavano la pelle bianca e vecchia, di ossa rotte, dell’urlo che si trasformò in un debole lamento fino a scomparire. Chiazze di sangue rosso su acqua scura: erano le uniche cose che rimanevano del vecchio rematore.
«Che co… cosa è successo?» Jack stava balbettando mentre una lacrima gli rigò il viso rosso per il freddo.
La puzza aumentò e nello stesso tempo si udì un suono chiaro a tutti. L’affondare di denti nella carne morbida e succulente, il fastidioso e raccapricciante masticare, poi deglutire.


***

«Ci saranno una dozzina di squali, sparategli e finiamola con questa pagliacciata» annunciò il capitano, salito spazientito dalla cabina. Aveva il volto ceruleo e teneva due fucili per mano che distribuì agli uomini di cui si fidava maggiormente.
«Non sono squali, capitano, e lei lo sa bene» disse Eloisa schiarendosi la voce ottenebrata, «Sono quelli dagli occhi gialli».
Alfieri posò per pochi secondi gli occhi sulla rematrice: lei si accorse che erano stanchi, le palpebre pesanti e le pronunciate occhiaie avevano assunto una sfumatura nera. Se il capitano le volle comunicare qualcosa lei non lo capì. Il superiore chiuse gli occhi e contemporaneamente lo fece anche lei.
Nonostante il vino e il coraggio che aveva acquistato, in quel momento Eloisa ebbe paura. Una paura diversa rispetto a quella che l’aveva accompagnata nello scorrere della vita; qualcosa che preannunciava la sua sconfitta, che sembrava inevitabile come lo era il pensiero costante alla morte.
Riservando poca fiducia nel capitano, rimaneva a lei combattere quella battaglia e non era ancora convinta di esserne capace.

Se gli occhi di Alfieri erano stanchi non si poteva di certo dire la stessa cosa sul suo fisico; ancora agile nonostante la mole notevole, si rampicò sull’albero centrale e tra le sartie per spezzare la fune che sosteneva la grande vela trapezoidale. Il risultato di ristabilire l’equilibrio della galea non fu molto soddisfacente, ma almeno il passaggio da una parte all’altra della nave era possibile. Il capitano sistemò gli uomini armati di fucile uno per ogni punto cardinale in modo che ogni lato dell’imbarcazione fosse sufficientemente difeso. Eloisa non si stupì del fatto che Alfieri non avesse tenuto un fucile per sé, sapevano entrambi che un proiettile in testa avrebbe solo offeso quelli dagli occhi gialli.
«Al mio segnale sparate. Non abbiate pietà per loro, così come loro non ne avranno per noi.» La voce voleva sembrare autoritaria e grintosa, ma risultò stanca e quasi patetica. Se era preoccupato, comunque, non lo voleva dare a vedere.
   
 
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