La casa
della famiglia Miller era illuminata da un sole tardo primaverile. A Jack parve
più silenziosa e ordinata di quanto ricordasse mentre vi entrava. Insieme a
Benjamin attraversò il soggiorno e si ritrovò a lanciare un’occhiata desiderosa
al pianoforte a coda che giaceva in silenzio sotto un’ampia finestra. Aveva una
gran voglia di suonare e si segnò nella mente di farlo appena ne avesse avuto
possibilità.
Era
stato dimesso dall’ospedale il giorno dopo aver incontrato Riley. Fisicamente
si sentiva molto meglio – anche se l’appetito non gli era tornato – ma il suo
umore era cupo. Venendo via dal Washington Hospital Center insieme al padre,
erano passati da casa sua a recuperare indumenti e quant’altro per permettergli
di rimanere almeno una dozzina di giorni lontano dal proprio appartamento.
Quando ne era uscito, con una valigia stipata, aveva involontariamente fatto
scivolare gli occhi sul numero 24 presente sull’ingresso della casa di Riley.
Lei era sicuramente a lavorare; aveva saltato un giorno pur di aspettare il
risveglio di Jack, ma certo non aveva motivo di perderne altri. L’occhiata
lanciata contro la porta era durata a lungo, dopodiché il ragazzo aveva seguito
il padre fino in macchina e, insieme, avevano raggiunto la casa in cui lui avrebbe
trascorso i giorni successivi.
Jack
trascinò la valigia fino in cucina dove la famiglia, al gran completo, lo
salutò dandogli il bentornato.
«Ti
abbiamo preparato la tua stanza» lo informò Penelope, accarezzandogli
dolcemente il braccio. «Dovresti trovartici bene.»
Jack
le sorrise debolmente. Se sentiva a disagio. Gli sembrava che i suoi famigliari
gli stessero rivolgendo delle premure di circostanza. Dentro di lui crebbe il
bisogno viscerale di stare da solo, così da evitare che la frustrazione che gli
stava montando si trasformasse in rabbia che non sapeva su chi sfogare.
«Se
non vi dispiace» esordì, ottenendo l’attenzione di tutti. «Penso che mi
ritirerò nella mia camera. Ci sono già passato in una situazione del genere e
credo di sapere cosa devo fare.»
L’espressione
di Nicole si fece subito dispiaciuta, ma capì di dover lasciare al figlio il
proprio spazio e acconsentì con un cenno.
Jack
afferrò la valigia e fece per avviarsi, ma il fratello si precipitò da lui.
«Lascia,
te la porto io» disse, prendendogli la valigia dalle mani. I due si scambiarono
uno sguardo d’intesa e senza aggiungere parola si avviarono.
La
stanza in cui il ragazzo avrebbe dovuto dormire era l’ultima porta sulla
sinistra, al primo piano. Ampia e luminosa, profumava di rose, addirittura
troppo. Connor entrò, ma Jack si fermò sulla soglia.
«A
ventotto anni torno a vivere da mia madre… di nuovo» disse con tono esasperato.
Il
fratello sorrise: «Sarebbe potuto andarti peggio.»
«Ti
sei mai chiesto com’è possibile che entrambi abbiamo più o meno gli stessi geni
ma che io sia uscito ben più problematico di te?»
Nel
porre la domanda Jack era entrato nella stanza, andando a sedersi sul letto, la
schiena appoggiata contro la testiera. Connor sogghignò, lasciandosi sfuggire
una leggera risata dalle labbra. «Non è vero. Ho fatto anche io dei gran bei
casini.»
Il
sopracciglio di Jack si incurvò alla perfezione. Schiuse le labbra e guardò il
fratello un momento prima di dire: «Tipo tentare il suicidio e poi rischiare di
morire per overdose solo sei mesi più tardi?»
L’altro
allargò le braccia. «Se la metti così deduco che tu voglia vincerla questa
sfida.»
Jack
scrollò le spalle, senza dire nulla. Fu nuovamente Connor a parlare: «Cosa
pensi di fare ora?»
Il
più giovane sospirò, ragionando sulla risposta. L’ultima volta che era rimasto
isolato in casa dei suoi genitori non era stato molto bene. Si era sentito in
trappola per tutto il tempo e aveva trascorso le sue giornate suonando il pianoforte
e facendo lunghe conversazioni con la nonna. Il risultato era stato che quando
gli venne dato il permesso di tornare al suo appartamento aveva accumulato una
tale quantità di nervosismo che si era subito buttato su alcol e droga, i suoi vizi peggiori. Tuttavia non
voleva più ripetere quell’esperienza. La sua leggerezza nell’assumere certe
sostanze lo aveva portato a un passo dalla morte e, come se non bastasse, aveva
fatto preoccupare terribilmente perfino Riley. Non voleva accadesse ancora, non
più. Si era deciso a uscirne davvero questa volta. Avrebbe smesso di raccontare
menzogne a sé e agli altri e avrebbe preso veramente fra le mani la propria
vita. In fin dei conti aveva finalmente qualcosa che lo avrebbe aiutato in
tutto ciò. Il night club che aveva sempre sognato e che aveva progettato per
anni esisteva veramente e Riley si era detta disposta ad aiutarlo a liberarsi
dalla sua dipendenza facendo il possibile. Se si fosse impegnato a fondo e non
avesse ceduto agli stimoli sbagliati, sarebbe riuscito a risollevarsi.
«Ehi,
mi vuoi rispondere?»
Connor
incalzò così il fratello, sorpreso e leggermente infastidito per via del suo
lungo silenzio. Jack posò gli occhi su di lui, come se si fosse ricordato solo
in quel momento della sua presenza nella stanza. Appoggiò la testa contro alla
parete alle sue spalle e rispose: «Non penso che tornerò in comunità. Le ultime
volte che ci sono andato non è servito a molto.»
«Non
tornare in comunità significa che non farai niente per la tua dipendenza?»
domandò Connor, attonito.
Jack
sollevò le mani con l’intento di tranquillizzarlo. «Non mi fraintendere. Voglio
smettere di assumere droga, solo che non voglio più tornare in comunità. Gli
incontri, il dover raccontare la mia storia a degli sconosciuti per
“condividere” con loro le mie esperienze» esibì il segno di virgolette e sbuffò
una lunga boccata d’aria. «Non è così che ne uscirò» concluse.
Suo
fratello rimase a guardarlo a lungo, il dubbio perfettamente intuibile nella
sua espressione. «E come pensi di fare senza l’aiuto di professionisti? Non è
che stai prendendo la cosa un po’ troppo alla leggera?»
«No,
assolutamente. So che sarà parecchio complicato.»
Guardò
verso il tavolino accanto alla poltrona su cui era seduto Connor. Vi erano
sistemate tre cornici, ciascuna contenente una fotografia che raffigurava un
diverso momento dell’infanzia dei due fratelli Miller.
«Quello
che mi hanno sempre detto a quegli incontri» ricominciò Jack. «È di trovare
qualcosa per cui vale la pena smettere di rovinarsi la vita. Qualcosa che per
noi conti così tanto da non voler correre il rischio di perderla. Può essere
una persona, o anche una cosa, per ognuno è differente.»
«Ti
stai riferendo al tuo night club?» chiese Connor, che cominciava a capire il
discorso del fratello. Ogni volta che il giovane usciva dalla comunità di
recupero ricominciava a drogarsi perché non era riuscito a trovare qualcosa che
gli desse la forza di tirare avanti con le proprie forze. Gli era sempre
mancato ciò che gli avrebbe permesso di superare i momenti difficili grazie
alla sola consapevolezza di avere quel
qualcosa – o qualcuno.
Jack
scosse la testa: «No, non al night club. A Riley» disse.
Connor
spalancò gli occhi, sorpreso: «R-Riley? Parli della tua vicina di casa?»
«Sì,
esatto» Jack lo guardò come se non riuscisse a spiegarsi una simile reazione,
poi proseguì: «Può essere davvero il mio buon motivo per smetterla di rovinarmi
la vita. Così da evitare di fare del male anche a lei. Ho capito, finalmente.»
Il
fratello continuò a fissare perplesso Jack, dopodiché sorrise, sornione: «Ciò
che hai appena detto suona come una dichiarazione d’amore, ne sei consapevole?»
punzecchiò il più giovane.
«Nonostante
io sia gay?» fu la risposta, pronta.
Il
sorriso di Connor si ampliò ancora. «Cosa vuol dire? L’amore non guarda a
questi dettagli.»
Allargò
le braccia. «Potresti provare ad andare a letto con una donna, magari scopri
che ti piace.»
Jack
fece una smorfia, divertito dalla curiosa espressione del fratello. «L’ho già
fatto» confessò. «Un po’ di volte» concluse, senza soffermarsi sul numero
esatto.
Connor
rise, quasi estasiato. «E quindi?» spronò il fratello.
Il
più giovane ripropose la smorfia di pochi attimi prima. «Beh, non è male. Con
il senno di poi devo ammettere che mi è piaciuto.»
L’altro
rise nuovamente mentre Jack si alzava e si sistemava sulla poltrona libera di
fronte a quella dove si trovava Connor. Quest’ultimo si ricompose e guardò il fratello.
Dentro di lui qualcosa gli disse di fidarsi di Jack. Dopotutto perché non
credere al fatto che fosse veramente stanco di vivere una vita perennemente al
limite? Ora che Jack aveva trovato qualcosa – o meglio qualcuno – per cui
valeva la pena alzarsi alla mattina non c’era motivo di credere che avrebbe
mandato tutto all’aria.
Connor
si fece serio. Guardò Jack negli occhi e disse: «Penso che ci riuscirai questa
volta, dico davvero. Poi mi pare che l’idea di avere Riley sia per te uno
sprone ulteriore.»
«Sì,
sono… piuttosto fortunato ad averla» rispose Jack, pensando di non potersi
definire in maniera diversa, non dopo che Riley lo aveva cercato e aspettato
per tre giorni.
Connor
fece schioccare la lingua: «Sei sicuro che non sia più di un’amica?» domandò,
curioso.
Il
fratello distolse lo sguardo, pensando. Non si era mai chiesto cosa fosse
esattamente il legame che lo univa a Riley; quell’unione che aveva rischiato di
spezzarsi mesi prima per via di azioni errate, ma che si era ricucito insieme,
forse più saldo di prima.
Increspò
le labbra: «Non te lo saprei dire. Se vuoi ci penso» rispose, con una leggera
nota di sarcasmo sulla parte finale della frase. Connor lo guardò di traverso:
«Non si riesce mai a fare discorsi seri con te» lo bacchettò.
Jack
si finse offeso: «E tutta la confessione che ti ho fatto poco fa?»
Non
ricevette risposta. Suo fratello si alzò dalla poltrona emettendo un lieve
sbuffo divertito e si voltò a guardarlo senza dire nulla. Fu nuovamente Jack a
parlare: «Ti rendi conto che poco fa mi hai chiesto se mi piace una donna
nonostante abbia ammesso dodici anni fa di essere omosessuale?»
Connor
infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, un sorriso vagamente malizioso sulle
labbra. Abbassò la voce e guardò attentamente negli occhi grigio-azzurri del
fratello: «Non ti ho chiesto se ti piace “una donna” ti ho chiesto se ti piace
Riley.»
Detto
ciò si avviò fuori dalla camera, lasciando Jack solo, piuttosto basito, il
quale scosse la testa ridendo mentre ripensava alle ultime cose che gli aveva
appena detto Connor. Cercò di non soffermarsi più di tanto a pensare a Riley.
Non l’avrebbe rivista a breve, ne era consapevole – non gli avrebbero mai
permesso di incontrarla prima che potesse tornare al suo appartamento – perciò
decise di non spremersi troppo le meningi cercando di capire cosa esattamente
provasse per lei. Lo avrebbe scoperto con il tempo.
Iniziò
a disfare la valigia e, in fondo a essa, trovò il suo taccuino con tutte le
annotazioni e i numeri di telefono del personale e dei fornitori del night
club. Quella “reclusione” in casa Miller sarebbe stata diversa dalla
precedente. Aveva pur sempre un night da amministrare ed era una cosa che
poteva benissimo fare anche senza essere fisicamente sul posto. Era certo che
tenere la mente impegnata in qualcosa di produttivo gli avrebbe impedito di
impazzire.
*
Gli
occhi fissi sul televisore, le ginocchia strette al petto, Riley cercava in qualche
modo di portare a termine una partita alla Playstation iniziata ormai giorni
prima, ma che non era ancora riuscita a ultimare. Non riusciva più a
concentrarsi come faceva abitualmente quando iniziava a giocare. Le era
impossibile evitare che la sua mente divagasse e pensasse a tutt’altro anziché
concentrarsi sul rapporto tra tasti del joystick e i movimenti del personaggio.
Da
tempo non faceva altro che pensare a Jack. Erano passati venti giorni da quando
la ragazza lo aveva incontrato l’ultima volta al Washington Hospital Center;
maggio era agli sgoccioli e a lei pareva passata un’eternità da quell’incontro.
Il ragazzo non l’aveva chiamata come le aveva detto, ma Riley sospettava
fortemente che la cosa non fosse dovuta a una sua scelta. Nonostante quello che
le aveva detto Nicole al termine della visita a Jack, Riley sentiva che il
silenzio del ragazzo era in buona parte attribuibile a lei.
Sospirò,
guardando il personaggio del videogioco morire per l’ennesima volta. Avrebbe
fatto meglio a spegnere visto che non si stava minimamente concentrando su
quello che doveva fare, ma la Playstation era comunque un buon modo per
distrarsi – o meglio, provare a distrarsi.
Bussarono
alla porta. Lo sguardo di Riley si mosse svogliato dallo schermo televisivo
all’ingresso di casa. Mise in pausa e si alzò, certa che si trattasse
dell’inquilina del piano di sopra, tornata per restituirle il detersivo che lei
le aveva prestato alcune ore prima.
Quando
aprì la porta, però, davanti agli occhi non si trovò il volto della vicina, ma
il colletto di una t-shirt nera che sbucava da sotto una leggera giacca di
jeans. Alzò istintivamente lo sguardo, così da permettere a questo di
incrociare quello grigio-azzurro di Jack, più luminoso e splendido di quanto avesse
mai visto. Il ragazzo le sorrise; aveva la bocca impastata per via di un
marshmallow a cui non era riuscito a resistere mentre saliva le scale del
condominio. In una mano teneva il sacchetto di cilindretti di zucchero aperto –
la confezione rossa e trasparente – e alzò l’altra per salutare Riley mentre si
affrettava a masticare così da poterle dire finalmente qualcosa. Trovò che
nonostante i capelli arruffati e i vestiti sgualciti continuasse a essere
davvero graziosa. Tuttavia Jack rimase sorpreso dalla reazione della ragazza,
che non si era minimamente aspettato. Era immobile e continuava a guardarlo con
un’espressione indecifrabile in viso.
Riley
sentì gli occhi cominciare a bruciarle. Jack le era mancato terribilmente e
trovarselo davanti, quando lei davvero non se lo aspettava, le aveva fatto
nascere dentro una tale gioia da stordirla. Non stava reagendo come avrebbe
voluto, ma non riusciva a fare altro se non rimanere a fissare il ragazzo come
se la sua presenza in quel posto non fosse reale, mentre quest’ultimo terminava
di masticare guardandola confuso.
Jack
le sorrise, leggermente incerto e fece per dire qualcosa, tuttavia Riley non
gliene diede il tempo. Gli si avvicinò e lo abbracciò. Affondò la testa nella t-shirt
del ragazzo – così intrisa del suo inconfondibile profumo – cercando in ogni
modo di ricacciare indietro le lacrime. Non sapeva davvero spiegarsi perché si
stesse comportando in quel modo, ma non le importava più. Jack era tornato da
lei e non avrebbe potuto chiedere altro.
Il
ragazzo rimase sbalordito dal comportamento di Riley. Abbassò lo sguardo su di
lei, gli occhi ancora spalancati, e la sentì mentre stringeva forte la giacca
sulla sua schiena. Un dolce calore lo pervase insieme a una forte sensazione di
serenità. Era contento di riavere Riley, felice di vedere che lei lo aveva
aspettato.
Prestando
attenzione a non rovinare quel momento – che aveva in sé qualcosa di
sorprendentemente romantico – Jack chiuse con la mano il sacchetto di
marshmallow che aveva preso da condividere con Riley; dopodiché le diede un
bacio sulla testa e la strinse ancora di più a sé.