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Autore: MadAka    15/07/2016    1 recensioni
Logan Jackson Miller – a tutti noto come Jack – è un personaggio tormentato. Dipendente da droghe, omosessuale, con una vita sentimentale complicata e con un progetto che desidera portare a termine fin troppo ardentemente. Un ragazzo destinato all’autodistruzione.
A impedire che ciò accada – facendolo a sua stessa insaputa – c’è Riley, la ragazza della porta accanto.
Un’amicizia forte la loro, un legame saldo, che in un momento di duplice debolezza si incrina profondamente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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La casa della famiglia Miller era illuminata da un sole tardo primaverile. A Jack parve più silenziosa e ordinata di quanto ricordasse mentre vi entrava. Insieme a Benjamin attraversò il soggiorno e si ritrovò a lanciare un’occhiata desiderosa al pianoforte a coda che giaceva in silenzio sotto un’ampia finestra. Aveva una gran voglia di suonare e si segnò nella mente di farlo appena ne avesse avuto possibilità.

Era stato dimesso dall’ospedale il giorno dopo aver incontrato Riley. Fisicamente si sentiva molto meglio – anche se l’appetito non gli era tornato – ma il suo umore era cupo. Venendo via dal Washington Hospital Center insieme al padre, erano passati da casa sua a recuperare indumenti e quant’altro per permettergli di rimanere almeno una dozzina di giorni lontano dal proprio appartamento. Quando ne era uscito, con una valigia stipata, aveva involontariamente fatto scivolare gli occhi sul numero 24 presente sull’ingresso della casa di Riley. Lei era sicuramente a lavorare; aveva saltato un giorno pur di aspettare il risveglio di Jack, ma certo non aveva motivo di perderne altri. L’occhiata lanciata contro la porta era durata a lungo, dopodiché il ragazzo aveva seguito il padre fino in macchina e, insieme, avevano raggiunto la casa in cui lui avrebbe trascorso i giorni successivi.

Jack trascinò la valigia fino in cucina dove la famiglia, al gran completo, lo salutò dandogli il bentornato.

«Ti abbiamo preparato la tua stanza» lo informò Penelope, accarezzandogli dolcemente il braccio. «Dovresti trovartici bene.»

Jack le sorrise debolmente. Se sentiva a disagio. Gli sembrava che i suoi famigliari gli stessero rivolgendo delle premure di circostanza. Dentro di lui crebbe il bisogno viscerale di stare da solo, così da evitare che la frustrazione che gli stava montando si trasformasse in rabbia che non sapeva su chi sfogare.

«Se non vi dispiace» esordì, ottenendo l’attenzione di tutti. «Penso che mi ritirerò nella mia camera. Ci sono già passato in una situazione del genere e credo di sapere cosa devo fare.»

L’espressione di Nicole si fece subito dispiaciuta, ma capì di dover lasciare al figlio il proprio spazio e acconsentì con un cenno.

Jack afferrò la valigia e fece per avviarsi, ma il fratello si precipitò da lui.

«Lascia, te la porto io» disse, prendendogli la valigia dalle mani. I due si scambiarono uno sguardo d’intesa e senza aggiungere parola si avviarono.

La stanza in cui il ragazzo avrebbe dovuto dormire era l’ultima porta sulla sinistra, al primo piano. Ampia e luminosa, profumava di rose, addirittura troppo. Connor entrò, ma Jack si fermò sulla soglia.

«A ventotto anni torno a vivere da mia madre… di nuovo» disse con tono esasperato.

Il fratello sorrise: «Sarebbe potuto andarti peggio.»

«Ti sei mai chiesto com’è possibile che entrambi abbiamo più o meno gli stessi geni ma che io sia uscito ben più problematico di te?»

Nel porre la domanda Jack era entrato nella stanza, andando a sedersi sul letto, la schiena appoggiata contro la testiera. Connor sogghignò, lasciandosi sfuggire una leggera risata dalle labbra. «Non è vero. Ho fatto anche io dei gran bei casini.»

Il sopracciglio di Jack si incurvò alla perfezione. Schiuse le labbra e guardò il fratello un momento prima di dire: «Tipo tentare il suicidio e poi rischiare di morire per overdose solo sei mesi più tardi?»

L’altro allargò le braccia. «Se la metti così deduco che tu voglia vincerla questa sfida.»

Jack scrollò le spalle, senza dire nulla. Fu nuovamente Connor a parlare: «Cosa pensi di fare ora?»

Il più giovane sospirò, ragionando sulla risposta. L’ultima volta che era rimasto isolato in casa dei suoi genitori non era stato molto bene. Si era sentito in trappola per tutto il tempo e aveva trascorso le sue giornate suonando il pianoforte e facendo lunghe conversazioni con la nonna. Il risultato era stato che quando gli venne dato il permesso di tornare al suo appartamento aveva accumulato una tale quantità di nervosismo che si era subito buttato su alcol e droga, i suoi vizi peggiori. Tuttavia non voleva più ripetere quell’esperienza. La sua leggerezza nell’assumere certe sostanze lo aveva portato a un passo dalla morte e, come se non bastasse, aveva fatto preoccupare terribilmente perfino Riley. Non voleva accadesse ancora, non più. Si era deciso a uscirne davvero questa volta. Avrebbe smesso di raccontare menzogne a sé e agli altri e avrebbe preso veramente fra le mani la propria vita. In fin dei conti aveva finalmente qualcosa che lo avrebbe aiutato in tutto ciò. Il night club che aveva sempre sognato e che aveva progettato per anni esisteva veramente e Riley si era detta disposta ad aiutarlo a liberarsi dalla sua dipendenza facendo il possibile. Se si fosse impegnato a fondo e non avesse ceduto agli stimoli sbagliati, sarebbe riuscito a risollevarsi.

«Ehi, mi vuoi rispondere?»

Connor incalzò così il fratello, sorpreso e leggermente infastidito per via del suo lungo silenzio. Jack posò gli occhi su di lui, come se si fosse ricordato solo in quel momento della sua presenza nella stanza. Appoggiò la testa contro alla parete alle sue spalle e rispose: «Non penso che tornerò in comunità. Le ultime volte che ci sono andato non è servito a molto.»

«Non tornare in comunità significa che non farai niente per la tua dipendenza?» domandò Connor, attonito.

Jack sollevò le mani con l’intento di tranquillizzarlo. «Non mi fraintendere. Voglio smettere di assumere droga, solo che non voglio più tornare in comunità. Gli incontri, il dover raccontare la mia storia a degli sconosciuti per “condividere” con loro le mie esperienze» esibì il segno di virgolette e sbuffò una lunga boccata d’aria. «Non è così che ne uscirò» concluse.

Suo fratello rimase a guardarlo a lungo, il dubbio perfettamente intuibile nella sua espressione. «E come pensi di fare senza l’aiuto di professionisti? Non è che stai prendendo la cosa un po’ troppo alla leggera?»

«No, assolutamente. So che sarà parecchio complicato.»

Guardò verso il tavolino accanto alla poltrona su cui era seduto Connor. Vi erano sistemate tre cornici, ciascuna contenente una fotografia che raffigurava un diverso momento dell’infanzia dei due fratelli Miller.

«Quello che mi hanno sempre detto a quegli incontri» ricominciò Jack. «È di trovare qualcosa per cui vale la pena smettere di rovinarsi la vita. Qualcosa che per noi conti così tanto da non voler correre il rischio di perderla. Può essere una persona, o anche una cosa, per ognuno è differente.»

«Ti stai riferendo al tuo night club?» chiese Connor, che cominciava a capire il discorso del fratello. Ogni volta che il giovane usciva dalla comunità di recupero ricominciava a drogarsi perché non era riuscito a trovare qualcosa che gli desse la forza di tirare avanti con le proprie forze. Gli era sempre mancato ciò che gli avrebbe permesso di superare i momenti difficili grazie alla sola consapevolezza di avere quel qualcosa – o qualcuno.

Jack scosse la testa: «No, non al night club. A Riley» disse.

Connor spalancò gli occhi, sorpreso: «R-Riley? Parli della tua vicina di casa?»

«Sì, esatto» Jack lo guardò come se non riuscisse a spiegarsi una simile reazione, poi proseguì: «Può essere davvero il mio buon motivo per smetterla di rovinarmi la vita. Così da evitare di fare del male anche a lei. Ho capito, finalmente.»

Il fratello continuò a fissare perplesso Jack, dopodiché sorrise, sornione: «Ciò che hai appena detto suona come una dichiarazione d’amore, ne sei consapevole?» punzecchiò il più giovane.

«Nonostante io sia gay?» fu la risposta, pronta.

Il sorriso di Connor si ampliò ancora. «Cosa vuol dire? L’amore non guarda a questi dettagli.»

Allargò le braccia. «Potresti provare ad andare a letto con una donna, magari scopri che ti piace.»

Jack fece una smorfia, divertito dalla curiosa espressione del fratello. «L’ho già fatto» confessò. «Un po’ di volte» concluse, senza soffermarsi sul numero esatto.

Connor rise, quasi estasiato. «E quindi?» spronò il fratello.

Il più giovane ripropose la smorfia di pochi attimi prima. «Beh, non è male. Con il senno di poi devo ammettere che mi è piaciuto.»

L’altro rise nuovamente mentre Jack si alzava e si sistemava sulla poltrona libera di fronte a quella dove si trovava Connor. Quest’ultimo si ricompose e guardò il fratello. Dentro di lui qualcosa gli disse di fidarsi di Jack. Dopotutto perché non credere al fatto che fosse veramente stanco di vivere una vita perennemente al limite? Ora che Jack aveva trovato qualcosa – o meglio qualcuno – per cui valeva la pena alzarsi alla mattina non c’era motivo di credere che avrebbe mandato tutto all’aria.

Connor si fece serio. Guardò Jack negli occhi e disse: «Penso che ci riuscirai questa volta, dico davvero. Poi mi pare che l’idea di avere Riley sia per te uno sprone ulteriore.»

«Sì, sono… piuttosto fortunato ad averla» rispose Jack, pensando di non potersi definire in maniera diversa, non dopo che Riley lo aveva cercato e aspettato per tre giorni.

Connor fece schioccare la lingua: «Sei sicuro che non sia più di un’amica?» domandò, curioso.

Il fratello distolse lo sguardo, pensando. Non si era mai chiesto cosa fosse esattamente il legame che lo univa a Riley; quell’unione che aveva rischiato di spezzarsi mesi prima per via di azioni errate, ma che si era ricucito insieme, forse più saldo di prima.

Increspò le labbra: «Non te lo saprei dire. Se vuoi ci penso» rispose, con una leggera nota di sarcasmo sulla parte finale della frase. Connor lo guardò di traverso: «Non si riesce mai a fare discorsi seri con te» lo bacchettò.

Jack si finse offeso: «E tutta la confessione che ti ho fatto poco fa?»

Non ricevette risposta. Suo fratello si alzò dalla poltrona emettendo un lieve sbuffo divertito e si voltò a guardarlo senza dire nulla. Fu nuovamente Jack a parlare: «Ti rendi conto che poco fa mi hai chiesto se mi piace una donna nonostante abbia ammesso dodici anni fa di essere omosessuale?»

Connor infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, un sorriso vagamente malizioso sulle labbra. Abbassò la voce e guardò attentamente negli occhi grigio-azzurri del fratello: «Non ti ho chiesto se ti piace “una donna” ti ho chiesto se ti piace Riley.»

Detto ciò si avviò fuori dalla camera, lasciando Jack solo, piuttosto basito, il quale scosse la testa ridendo mentre ripensava alle ultime cose che gli aveva appena detto Connor. Cercò di non soffermarsi più di tanto a pensare a Riley. Non l’avrebbe rivista a breve, ne era consapevole – non gli avrebbero mai permesso di incontrarla prima che potesse tornare al suo appartamento – perciò decise di non spremersi troppo le meningi cercando di capire cosa esattamente provasse per lei. Lo avrebbe scoperto con il tempo.

Iniziò a disfare la valigia e, in fondo a essa, trovò il suo taccuino con tutte le annotazioni e i numeri di telefono del personale e dei fornitori del night club. Quella “reclusione” in casa Miller sarebbe stata diversa dalla precedente. Aveva pur sempre un night da amministrare ed era una cosa che poteva benissimo fare anche senza essere fisicamente sul posto. Era certo che tenere la mente impegnata in qualcosa di produttivo gli avrebbe impedito di impazzire.

 

*

 

Gli occhi fissi sul televisore, le ginocchia strette al petto, Riley cercava in qualche modo di portare a termine una partita alla Playstation iniziata ormai giorni prima, ma che non era ancora riuscita a ultimare. Non riusciva più a concentrarsi come faceva abitualmente quando iniziava a giocare. Le era impossibile evitare che la sua mente divagasse e pensasse a tutt’altro anziché concentrarsi sul rapporto tra tasti del joystick e i movimenti del personaggio.

Da tempo non faceva altro che pensare a Jack. Erano passati venti giorni da quando la ragazza lo aveva incontrato l’ultima volta al Washington Hospital Center; maggio era agli sgoccioli e a lei pareva passata un’eternità da quell’incontro. Il ragazzo non l’aveva chiamata come le aveva detto, ma Riley sospettava fortemente che la cosa non fosse dovuta a una sua scelta. Nonostante quello che le aveva detto Nicole al termine della visita a Jack, Riley sentiva che il silenzio del ragazzo era in buona parte attribuibile a lei.

Sospirò, guardando il personaggio del videogioco morire per l’ennesima volta. Avrebbe fatto meglio a spegnere visto che non si stava minimamente concentrando su quello che doveva fare, ma la Playstation era comunque un buon modo per distrarsi – o meglio, provare a distrarsi.

Bussarono alla porta. Lo sguardo di Riley si mosse svogliato dallo schermo televisivo all’ingresso di casa. Mise in pausa e si alzò, certa che si trattasse dell’inquilina del piano di sopra, tornata per restituirle il detersivo che lei le aveva prestato alcune ore prima.

Quando aprì la porta, però, davanti agli occhi non si trovò il volto della vicina, ma il colletto di una t-shirt nera che sbucava da sotto una leggera giacca di jeans. Alzò istintivamente lo sguardo, così da permettere a questo di incrociare quello grigio-azzurro di Jack, più luminoso e splendido di quanto avesse mai visto. Il ragazzo le sorrise; aveva la bocca impastata per via di un marshmallow a cui non era riuscito a resistere mentre saliva le scale del condominio. In una mano teneva il sacchetto di cilindretti di zucchero aperto – la confezione rossa e trasparente – e alzò l’altra per salutare Riley mentre si affrettava a masticare così da poterle dire finalmente qualcosa. Trovò che nonostante i capelli arruffati e i vestiti sgualciti continuasse a essere davvero graziosa. Tuttavia Jack rimase sorpreso dalla reazione della ragazza, che non si era minimamente aspettato. Era immobile e continuava a guardarlo con un’espressione indecifrabile in viso.

Riley sentì gli occhi cominciare a bruciarle. Jack le era mancato terribilmente e trovarselo davanti, quando lei davvero non se lo aspettava, le aveva fatto nascere dentro una tale gioia da stordirla. Non stava reagendo come avrebbe voluto, ma non riusciva a fare altro se non rimanere a fissare il ragazzo come se la sua presenza in quel posto non fosse reale, mentre quest’ultimo terminava di masticare guardandola confuso.

Jack le sorrise, leggermente incerto e fece per dire qualcosa, tuttavia Riley non gliene diede il tempo. Gli si avvicinò e lo abbracciò. Affondò la testa nella t-shirt del ragazzo – così intrisa del suo inconfondibile profumo – cercando in ogni modo di ricacciare indietro le lacrime. Non sapeva davvero spiegarsi perché si stesse comportando in quel modo, ma non le importava più. Jack era tornato da lei e non avrebbe potuto chiedere altro.

Il ragazzo rimase sbalordito dal comportamento di Riley. Abbassò lo sguardo su di lei, gli occhi ancora spalancati, e la sentì mentre stringeva forte la giacca sulla sua schiena. Un dolce calore lo pervase insieme a una forte sensazione di serenità. Era contento di riavere Riley, felice di vedere che lei lo aveva aspettato.

Prestando attenzione a non rovinare quel momento – che aveva in sé qualcosa di sorprendentemente romantico – Jack chiuse con la mano il sacchetto di marshmallow che aveva preso da condividere con Riley; dopodiché le diede un bacio sulla testa e la strinse ancora di più a sé.

  
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