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Autore: tillmorninghighway    17/07/2016    4 recensioni
A Maragho, capitale del ducato di Roviza, è notte. Il cielo è arrossato dagli incendi e su ogni cosa grava un silenzio teso e innaturale. Non è una notte qualsiasi, lo avrete già capito: è la notte della disfatta della città. Le truppe di Nestria, guidate dal comandante Kleist, hanno fatto breccia nelle mura, hanno preso il controllo della capitale e hanno messo agli arresti Elyn Dasayad, sovrana del paese. Ma se Roviza è definitivamente caduta, perché Wenzel Kleist è di umore così tetro?
Storia scritta per il contest "Quietly into the night" indetto da Whiteney Black sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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III

… is be more like me and be less like you

 
 
Tre ceri alti e spessi modulavano la loro luce tremula sulla veste pieghettata della Madre marmorea. Erano neri come la notte, e se in Nestria qualcuno avesse avuto il ghiribizzo di impiegarli al proprio altare domestico, si sarebbe potuto assistere a una di quelle pronte convocazioni dinanzi alla Corte del Tempio Bianco che, con le sue diatribe negromantiche e le sue accuse di favoreggiamento dell’Hakke, tanto suscitavano la segreta ilarità di Wenzel Kleist.

Il culto lunare di Roviza dettava tuttavia usanze diverse, e la Dea di Elyn stava certamente rallegrandosi dell’olocausto di simulacri antelucani che le veniva tributato. Pareva a Kleist, d’altra parte, che la Madre marmorea contemplasse con la consueta ed inanimata indifferenza dei secoli lo spettacolo dei suoi figli che rantolavano nel tempio. Dalla nicchia semicircolare era perfettamente visibile un ragazzino a cui avevano mozzato entrambe le gambe e, mentre il disgraziato si contorceva e gemeva invocando la sua sciocca divinità, Kleist si chiese per l’ennesima volta come potesse qualcuno trovare effettivo conforto in simili credenze. Certo, lui stesso si era ritrovato a invocare Llaw e a sperare nel Giardino non più di un’ora prima, ma fra quello e il rintontirsi di fumi ai piedi del lavoro più o meno degno di un artigiano che, fra un colpo di scalpello e l’altro, aveva senza dubbio scatarrato e bestemmiato come un barbaro per la minestra troppo scarna che gli aveva servito l’apprendista, a suo modo di vedere passava parecchia distanza.

Quanto al simulacro della Madre, poi, il comandante non trovava nulla da salvarvi e sarebbe stato disposto a scommettere che era stato l’opera affrettata di un’artista mediocre e pressato dalla fame. Fosse stato per lui, lo avrebbe fatto rimuovere dalla nicchia e lo avrebbe affidato alle cure dei suoi cannonieri perché lo riducessero in pietrisco per cariche a mitraglia.

«A posto. Ora giù a terra e fatevi ‘na dormita come gli Dei comandano, signore» giunse la voce di Zaius Nokt dal basso. Kleist terminò la sua analisi critica dell’angolo in cui il medico lo aveva trascinato per medicarlo, e gli porse la mano per aiutarlo a rialzarsi. «Dei, le mie ginocchia…» si lagnò quello appena fu di nuovo in piedi.

«È colpa vostra, Nokt. Potevate farmi stendere».

«Non potevo, non potevo affatto. Tamponare un buco con gli umori che stagnano s’ha da evitare, quando si può. Che se no poi s’ha da tagliare e allora tutti giù a cavarsi gl’occhi e a chiamare la mamma coi lacrimoni d’un vitello da latte» bofonchiò il chirurgo, e prese a massaggiarsi con vigore le ossa tondeggianti. «Vi potete stendere mo’, ch’è solo per fortuna sfacciata ch’ancora ve ne state così, fresco e tenero. A riposare, che c’avete più rattoppi che pelle oramai!»

Kleist non si sentiva affatto ‘fresco e tenero’, l’esatto contrario piuttosto, ma concordò sullo stato macilento delle sue carni. Era uscito dall’assalto con un taglio profondo sopra l’occhio, ma era riuscito a causarsi danni ben più seri con le sue stesse mani. Provò a piegare la gamba sinistra. Si morse l’interno della guancia e maledisse in colorite imprecazioni mentali la malaugurata decisione di sguinzagliare il grauma.

«Saggezza e prudenza mi impongono di non riposare in questo tempio eretico, dottor Nokt», illustrò comunque con apparente serenità. «Manticore e montoni dormiranno nello stesso recinto, annuncia giustamente il Ler Vartae, ma solo dall’altro lato del Ponte Eterno. Poiché la fortuna che giustamente menzionate ha voluto mantenermi in vita, mi vedo costretto a ripagarla con un ultimo piccolo sforzo e a tornare quindi a Palazzo».

Dall’altro lato della scultura si alzò uno sbuffo. «Te lo dissi che ha manie suicide» borbottò Tiril Ferlen, invisibile tranne che per gli stivali scamosciati che, coi puntali melmosi rivolti al soffitto a cupola, facevano capolino oltre il piedistallo squadrato della Madre.

Kleist si tirò su i pantaloni con cautela. «Le vere manie suicide le ha chi accetta di dormire fianco a fianco con uomini a cui oggi abbiamo strappato vittoria, case…», strinse le labbra mentre il Ciulla gli dava una mano a far passare la stoffa ruvida delle brache sui bendaggi freschi «libertà, orgoglio, ricchezze, botti di vino…».

Tiril sbuffò di nuovo. «Non raccontarti storie, Comandante. Non ho manie suicide, se mi ammazzavi non ti dicevo grazie. Che poi dai, se io dormo con questi qua di Roviza è mania suicida e se tu dormi con quella là di Roviza invece no? E che è, ti sono cadute le cervella da quel taglio che c’hai in testa? Vedi che stai stimando male le forze nemiche, bimbo bello». Ridacchiò. Kleist trovò il suono sgraziato e per nulla adatto alla sacralità del posto. Ciullagambe si schiarì rumorosamente la gola. «Mi sa che dovevate metterci n’pochetto di forza in meno quando l’avete dato quella botta n’testa» spiegò con una scrollata di spalle. Si voltò a trafficare coi suoi arnesi giusto un attimo troppo tardi, e non riuscì a nascondere il fastidioso sogghigno della sua boccaccia larga. Kleist s’infoschì.

«L’insubordinazione e le affermazioni al limite dell’ingiuria terminano adesso. Tornate al vostro lavoro, Nokt; Ferlen, taci. Se vuoi restare qui non te lo proibirò, io però ho altro da fare». Lasciò a passo lento la nicchia, ignorando la ruga fra le sopracciglia di Ciullagambe e lo scrollare insoddisfatto del capo rabberciato della custode.

Elmo, che ora sapeva essere il soldato Erseik, lo salutò compito appena fece la sua comparsa nella navata orientale. Era attorniato dallo scompagnato plotoncino di rinforzi arrivato nella Cattedrale giusto in tempo per assistere al pasteggiare dei corvi cittadini sulla carcassa del grauma. Ricambiò il saluto e passò un’occhiata sommaria sull’ospedale.

«La duchessa. Dov’è?» lo interrogò.

«Signore, è nella loggia che chiamano ‘dei montanari’, signore. Ho mandato due dei nostri fanti a sorvegliarla» soggiunse ansioso, e Kleist, benché non fosse affatto dell’umore, si complimentò con lui per la decisione.

«Ben fatto, signor Erseik. Quest’oggi abbiamo commesso troppi errori riguardo Elyn Dasayad, sapere che non ne abbiate aggiunti altri alla lista mi rallegra. Sì, ben fatto. E ora prendetela e portatela qui. Sua Grazia lo avrà forse dimenticato, ma è nostro dovere ricordarle che il suo posto non è in questo tempio di eresia bensì nei suoi appartamenti privati, agli arresti». Erseik si impettì e partì senza indugio verso la Loggia dei Montanari. Il comandante si rivolse a uno dei soldati del plotone, un biondino barbuto che la coccarda annodata all’avambraccio destro presentava come dragone della Prima Compagnia. «Avremo bisogno di un carro, caporale». Sentiva ardere le quattro voragini aperte dalla Morte Bianca nel suo corpo, un malessere così palpitante da far passare in secondo piano le pugnalate regolari che gli squassavano la testa. Ma tant’era, aveva comunque avuto una fortuna divina. Ciullagambe diceva che il grauma non aveva davvero affondato gli artigli, e Kleist era convinto che – in qualche modo – la bestia lo avesse riconosciuto come l’umano che serviva, e che per questo avesse fatalmente esitato. Un altro sarebbe morto. Un altro, però, non avrebbe avuto il problema di tornare al Palazzo Ducale senza crepare lungo la strada. Il carro era una soluzione poco dignitosa, ma tant’era, tant’era.

Barbadipaglia scandì prontamente il suo ‘signorsì’ e sparì oltre il portone spaccato del tempio. Nessuno degli altri presenti era un ufficiale, cosa che risparmiò a Kleist ulteriori chiacchiere. Mise su il suo cipiglio altero e si limitò a recitare la parte del grande generale che medita quietamente la sua prossima mossa esaltante. Gli uomini sembrarono soddisfatti, e lui continuò a sudare freddo e a tenere insieme i suoi pezzi scollati in religioso e impalpabile silenzio.

Elyn emerse con fare regale dal fitto colonnato che si apriva a metà della navata sinistra, con Erseik che le marciava alle spalle e coi due fanti che le aveva messo alle calcagna che gli tenevano dietro. Li si sarebbe detti un seguito anziché dei carcerieri. Kleist la guardò inespressivo. Lei si prese tutto il suo tempo, e non lo degnò di un briciolo della sua attenzione. Si fermò tre volte a rincuorare i feriti, l’ultima deliberatamente a portata d’orecchio.

Piegò le gambe sotto di sé e si sedette senza scrupoli sulle sudicie lastre marmoree della Cattedrale. Prese la mano del ragazzino senza gambe nella sua, e quello la strinse convulsamente. «Come ti chiami?» gli chiese. Il mutilato smise di contorcersi e invocare la Dea, e guardò la duchessa come se da lei fosse dipesa la ricomparsa dei propri arti, se non la sua vita stessa. «Gavyn… Gavyn Neys, mia signora» mormorò, le palpebre spalancate sui bulbi arrossati.

«Gavyn…» ripeté Elyn, e prese la pezza che l’assistente del chirurgo aveva lasciato immersa in un bacile scheggiato. La strizzò, ed acqua gocciolò dolcemente in altra acqua. «Cosa ti è successo, Gavyn?» domandò sommessa, iniziando a detergere la fronte sudaticcia del ferito con una tenerezza che Kleist avrebbe voluto commentare con una fragorosa risata.

«Il dottore ha detto che doveva tagliare, mia signora; che doveva tagliare se volevo sopravvivere. Io… sono salito sul bastione di Porta Nuova...». Le lacrime cominciarono a rigargli la pelle cerea, brevi, subito annegate nella massa informe di capelli scuri. Elyn le lavò via con la pezza, piano. «La guarnigione di Jan… del capitano Jan Gedayr… aveva respinto il primo assalto dei nestriani ma era stata decimata. Chiamavano, cercavano volontari… perché quelli là stavano portando le scale e si preparavano al secondo assalto... e se non li fermavamo sarebbero entrati… entrati nella città, mia signora. E allora io sono andato… sono salito… sono salito sui bastioni, e avevo la lancia, e lo scudo e sapevo che dovevo serrare le fila con gli altri e colpire di punta e mirare al collo e ai fianchi. Ma loro non hanno assaltato e…»

Certo che no. Certo che non avevano assaltato. Non ci sarebbe stato neanche il primo assalto se quell’imbecille del barone di Fern non avesse preso l’iniziativa mentre lui era con la cavalleria pesante a sfondare le batterie difensive sul Colle Calvo. La fortuna – sua e dei suoi poveri soldati – aveva voluto che Kleist tornasse in tempo per fermare quello scempio. Aveva fatto avanzare le colubrine e aveva spostato due cannoni sulla piana: la pioggia di proiettili e le palle incatenate avevano fatto il resto, risollevando il morale delle truppe dalla mestizia in cui era precipitato dopo il ripiegamento e, certo, anche dopo il suo sfrenato scoppio di collera che era costato la pelle a Fern.

«Sei stato coraggioso, Gavyn» assicurò la duchessa. «Hai difeso la tua terra da impavido, ed io non lo scorderò. Pensa a rimetterti, figlio, ché nel giorno in cui festeggeremo la resurrezione di Roviza tu dovrai sedere al mio fianco. Berremo, e ricorderemo una volta di più che la sofferenza è passeggera, la tua come quella di noi tutti. Ricordati della mia promessa, io non dimenticherò la tua audacia. Quel giorno arriverà prima di quanto qualcuno immagina, non mancare: sia tu che io avremo molto da celebrare». Gli posò le labbra sulla fronte, e Kleist sentì pulsare più dolorosamente la sua.

Il ragazzetto mutilato guardò estatico la sua sovrana. “Questo lo capisco, la statua deforme no”. Elyn si rimise in piedi, rassettò la gonna nera e lo raggiunse, senza curarsi di mantenere le distanze richieste dalla formalità. «Ora possiamo andare» gli concesse, indifferente come se stesse andando a danzare una gavotta. Ma usò la lingua frisa perché tutti la capissero, e parlò con voce stentorea così che la sua boriosa noncuranza si riverberasse per l’intera volumetria del vasto tempio. Il plotoncino di Nestria li guardò. Parecchi dei feriti li guardarono. Ciullagambe, anima acida dai principi nobili, interruppe l’analisi della mano recisa di un roviziano e li guardò. Kleist mantenne neutro il suo volto, ma con la mente riandò a poche ora prima, alla sua irruzione nella Sala d’Ambra e allo scacco che aveva inflitto alla donna che adesso si arcuava ad azzannarlo al polso con l’eleganza di una vipera braccata. “Parata e risposta, bravissima mia cara. Che peccato che tu sia tu”.

«Il friso è elementare, Vostra Grazia, mi sorprende che confondiate ‘possiamo’ con ‘dobbiamo’. Siete in cattività adesso, tenetelo a mente per il futuro» ribatté placido. Arretrò di un paio di passi e fece cenno a Erseik e agli altri due. Quelli si decisero ad affiancare debitamente la prigioniera, ma lei non si mostrò minimamente impressionata.

«Poiché siete così galante da ricordarmelo, conte, lo terrò a mente per il presente. Ma per il futuro? Suvvia, dubito che mi sarà di una qualsivoglia utilità».

«Siete in errore, Vostra Grazia, a meno che non stiate filosofeggiando nel cuore della notte. Difatti, se volevate dire che di ciò che chiamiamo ‘tempo’ solo il presente ha concreto stato di realtà, mi vedo in effetti costretto a concordare con voi. Per quanto non vedo come questo vada a mutare il vostro stato che, ripeto, farete meglio a tenere a mente».

Le labbra di Elyn si incresparono mentre, circondati dagli armigeri, si incamminavano verso l’uscita, e Kleist si ricordò per l’ennesima volta di non guardarla più del necessario. Doveva controllarsi, e decise che concentrarsi sul celare il supplizio che stava autoinfliggendosi a ogni passo poteva essere un buon modo per sedare i suoi bollori inopportuni. La Porta Maggiore era stata riaperta, così che poterono uscire evitando di aprirsi un varco fra i bassorilievi frantumati.

«Non filosofeggiavo» ribatté la duchessa passando sotto l’ogiva d’ingresso. «Ma non impedirò a voi di farlo. Sono certa che vi arrechi conforto l’idea di un presente eterno. Crogiolatevi in quest’astrazione, Donaet, ma non siate troppo deluso quando i fatti verranno a bussare con gli arieti alle porte del vostro castello di carte».

«Prima voi» si limitò a risponderle, estendendo la mano ad indicare il carro scoperto che si era già piazzato sul sagrato. Al timone era aggiogato un fek, il roditore gigante endemico delle montagne di Roviza che boscaioli e contadini usavano generalmente per ispessire le brode di cereali in inverno. Elyn contemplò lo spettacolo offerto da quell’enorme ammasso di pelliccia verdastra e arricciò un angolo della bocca. Kleist seppe che i suoi uomini erano appena stati giudicati degli inetti.

«Preferirei sgranchirmi le gambe, Comandante» gli disse. Il fatto che fosse tornata al roviziano gli fece capire che per il momento il teatrino era finito. Sospirò di sollievo dentro di sé, mentre lei continuava a parlare. «Se intendete davvero tenermi rinchiusa negli appartamenti ducali questa potrebbe essere la mia ultima passeggiata per lungo tempo, e spero non vogliate negarmela».

«Non ti terrò confinata nelle tue stanze, Elyn; ti conosco, e so che sarebbe una mossa controproducente. Ma non ti lascerò nemmeno sfilare per le strade di Maragho nella notte in cui non avresti dovuto lasciarle. Sali su questo carro, mettiti questo e non provare oltre la mia pazienza». Si sfilò dalle spalle il mantello grigio e glielo porse.

«Non parlatemi a questo modo, Donaet. Mostrate una patina di decenza, se vi sforzate so che vi riuscirà» sibilò. Non prese il mantello ma salì sul carro, aiutata da una giovinetta dalla pelle scura, probabilmente l’ancella che l’aveva accompagnata in quella scampagnata notturna fra le macerie della sua capitale perduta.

Kleist si arrampicò dietro di lei con tutta la scioltezza che riuscì a simulare. Si sedette goffamente e stese le gambe dinanzi a sé, grugnendo suo malgrado per il dolore. Quando finalmente ebbe trovato una posizione accettabile lanciò il mantello alla duchessa, che nel frattempo aveva studiato il suo dibattersi con tacito scherno. «Molto bene, Vostra Grazia. Vogliate essere così cortese da ricevere questa cappa e adagiarla sulle vostre spalle leggiadre». Il piccolo plotone di scorta era salito, per cui fece segno al soldato che era montato a cassetta di partire, e il carro si mise in moto con uno scossone. «Se voleste altresì usarmi la gentilezza di coprirvi il volto con il cappuccio – vedete? Eccolo lì – mi rendereste un servizio per cui vi sarei eternamente obbligato».

«La mia città brucia, conte – e per opera vostra, vorrei ricordare. L’aria è torrida. Non metterò alcun mantello».

«Se volete che ci pensino i miei uomini non avete che da chiederlo».

Elyn lo fissò in viso, glaciale, e mise da parte la cappa. «Alayne, la mia mantella» disse, e l’ancella le allungò con reverenza una manta scura che lei procedette ad avvolgersi attorno, e il cui cappuccio calò sui capelli. Apparentemente non aveva voglia di combatterlo su questioni infime, una novità che il generale di Nestria era propenso a considerare antesignana di catastrofi. Cadde il silenzio.

“Lo nota?” si domandò Kleist. “Si accorge di come questa città dovrebbe contorcersi fra grida e lamenti strazianti e invece tace? Non la guardare” si ricordò poi, e piegò indietro il collo, dedicandosi ad apprezzare lo spettacolo del cielo insanguinato. La nube di fumo aveva perso spessore e al di là delle sue spire cominciava a intravedersi il cerchio lunare. Gli ultimi focolai erano stati sicuramente domati. “Crede sia normale? Crede che d’abitudine un’armata di ventimila uomini che irrompe in una città si dedichi a spegnere gli incendi e a limitare i danni dell’assedio e del bombardamento? Dei, ti ho detto di non guardarla!”. Cercò con le dita il coltello di malachite, intenzionato a verificarne le condizioni dopo l’impatto di punta col bastone cerimoniale della Sacerdotessa. Non lo trovò, e ricordò che in effetti non l’aveva più visto, una volta terminato lo scontro. Ritrasse la mano dal fodero e la lasciò cadere sulla coscia, ove massaggiò discretamente la ferita bendata. Guardò Elyn. Anche lei lo guardò.

Il fek si fermò in quel momento. Si mise a contemplare coi suoi occhioni vispi lo spigolo sbrecciato di un crocicchio, e non ci fu verso di farlo ripartire finché Erseik e Barbadipaglia non scesero giù a tirarlo a forza. Quando il carretto riprese la via traballando sui ciottoli, Kleist si chiese se non dovesse riaprire la bocca e parlare a quella stramaledetta donna.

La coscienza gli prudeva, da qualunque lato rigirasse quella fottuta guerra. Re Arion gli avrebbe rimproverato la linea morbida e Zeischer l’avrebbe sbandierata ai quattro venti come prova di fraternizzazione col nemico. Elyn di Roviza lo avrebbe considerato in eterno l’uomo che non aveva avuto il coraggio di metterla al di sopra del suo sovrano, un tiranno che tutto voleva fagocitare e che lui aveva servito impavidamente anno dopo anno proprio a tale scopo - sì, persino contro di lei. Kleist tamburellò sul fodero vuoto. Un traditore, un traditore per tutti, ecco cos’era diventato. “Ho scelto. Ho scelto?” Non poteva spargere il sale sulle fondamenta di Maragho, non poteva farle questo. Ma non poteva nemmeno rivoltarsi contro il suo re, era un’idea che cozzava contro ogni principio del suo credo. “Non lo capisce?”.

Non parlò.

Il fek si fermò altre due volte a bearsi prima di un nugolo di lucciole e poi di un mucchietto di mattoni bianchi accatastati sul ciglio di una viuzza. Alla fine, il percorso che con Tiril Ferlen aveva fatto di volata, fu coperto in poco meno di un’ora. Era tardissimo e, là dove non arrivava la luce delle torce dagli armigeri piazzati davanti al carro, il buio era compatto.

Kleist era diviso fra sonnolenza e tensione spasmodica. Rifiutò l’aiuto che gli venne offerto e scese a terra per ultimo, con rigidezza impacciata. Congedò gli uomini eccetto Erseik e un altro, ed entrò nel Palazzo Ducale al fianco della duchessa. Una rampa di scale e due corridoi, poi si sarebbero lasciati. Non poteva tacere.

«Credevo fossi scappata» disse a fatica, la voce bassa.

«Credevo lo avrei fatto quando ho visto che eri stato così stupido da lasciare sgombro il passaggio dell’arazzo» rispose lei sullo stesso volume. L’abbandono della cerimoniosità lo consolò più di quanto avrebbe creduto possibile.

«L’ho dimenticato» le confessò.

«Sono sicura di no».

Kleist strinse con forza la ringhiera. «Saresti potuta scappare». Il suo mormorio risuonò nell’aria ovattata dopo una pausa, più distinto di quanto non avrebbe voluto. Ma parlava nella lingua di Roviza, e dubitava che Erseik o il suo compagno la conoscessero.

«E abbandonare il mio popolo?» Elyn emise uno strano suono, simile a una risata affettata a metà da un colpo di alabarda. «È a questo che ti ha abituato il tuo prezioso re, Wenzel? No, che la Dea mi aiuti, il mio posto è qui, fra i miei. Hanno lottato per me e perderò con loro…». Gli scoccò un’occhiata tempestosa che lui non poté impedirsi di incrociare, pallido come un cencio. «… per ora», completò lei, e il suo guizzo azzurro scomparve di nuovo oltre gli orli del cappuccio.

«Questa guerra è finita, Elyn, e l’hai persa. Accettalo e fidati di me. Non siamo i despoti selvaggi della tua propaganda, nessuno soffrirà oltre e se collaborerai…»

«Detesto quella parola» scattò lei. «Non sono una fedifraga, infiggiti l’idea nella testa. Inoltre, se la tua coscienza riesce a stare tranquilla mentre alzi i vessilli di Arion, la possibilità che io mi fidi di te non sussiste».

«È dal giorno in cui mi è stato ordinato di interrompere i negoziati e rientrare in Nestria per preparare quest’invasione che la mia coscienza non riesce a stare tranquilla» proruppe esacerbato.

«Non è abbastanza» tagliò corto lei.

Imboccarono in un silenzio tirato il corridoio che terminava nella doppia porta degli appartamenti ducali. Kleist sentiva l’impellenza di parlarle ancora, non per chiederle del pugnale – non gli importava, giù nell’Hakke! – ma per qualcos’altro. Voleva la sua assoluzione? No! No… Voleva che di quell’assoluzione non ci fosse bisogno…?

«Mi hai tradita, Wenzel» gli rinfacciò Elyn con ritrovata pacatezza, interrompendo i suoi pensieri.

«Non l’ho fatto» si difese. «Sapevi chi ero».

«Sapevo che mi chiamavi ‘la tua regina’. Sapevo che spergiuravi di restare al mio fianco fino alla fine dei tuoi giorni».

Kleist inspirò rumorosamente, cupo in viso. «Io ti amo, Elyn, ma sono chi sono».

«Non l’uomo che credevo, dunque».

«Non l’uomo che credevi sarei diventato» rettificò per lei, tetro. «Mi spiace, Elyn, ma non posso essere che me».

Gli sorrise come se avesse detto una colossale sciocchezza. «Oh, Wenzel! Credevo avessi imparato meglio il roviziano! E invece confondi ancora ‘posso’ e ‘devo’, temo dovrai applicarti di più». Erano arrivati davanti alla porta, e solo allora Kleist si accordò la grazia di guardare di nuovo il viso della duchessa di Roviza. Parlò, e lo fece con distacco controllato.

«Se anche confondessi questi verbi, mia cara, cosa mai cambierebbe? Non posso essere che me, non devo essere che me, non voglio essere che me. Nulla cambia, perché io scelgo, e nessun altro. Nemmeno tu. Nemmeno Arion. Lo tradirei, se volessi. Ti bacerei, se volessi. Non voglio, e ti auguro la buonanotte».

Non riusciva a credere a quello che aveva detto. Si sentì precipitare al suolo e rinascere nello spazio di uno stesso battito cardiaco mancato. Ma era fatta. “Non era fatta anche quando ho preso il comando dell’Armata e ho accettato di marciare su Refa e Yerkosa, fino a Maragho?” Prove, prove da superare. La guerra non era finita, no, ma quella era un’altra maledetta battaglia vinta. E ora via.

Se ne sarebbe andato seduta stante se Elyn non avesse scelto quel momento per sfilare il coltello di malachite dalle pieghe della sua mantella. Erseik e l’altro soldato, che si erano sorbiti tutta quella conversazione con fare ebete, si riscossero e misero mano alle spade. Klesit non si mosse nemmeno, e li placò con una parola. La sua deliziosa viverna sorrise.  «Mi auguri la buonanotte e mi lasci tenere questo?».

Lui non sorrise affatto. «Puoi tenerlo, non sarà un pezzo di roccia affilato a salvarti».

«No, infatti» disse lei, il tono che si ammorbidiva a sfiorare note suadenti, mentre chiudeva le distanze fra loro. Kleist mantenne un’immobilità statuaria. Lei gli spinse l’arma fra le mani. «Per questo te lo restituisco» sussurrò, il fiato caldo mescolato al suo. Si ritrasse, poi. «Buonanotte, grauma del Re», lo irrise. Lui si ricordò di respirare solo quando Alayne richiuse la porta alle spalle della sua signora.

«Potete andare» disse allora ai due uomini che lo scortavano. Si dimenticò di guardarli in faccia, ma quelli salutarono e sparirono in fretta, e tanto gli bastò per sapere che la scena sarebbe stata sulla bocca di tutti prima che sorgesse il sole.

“Devo… devo richiamarli e ordinargli di tenere le bocche tappate…”

Leggermente stordito, s’incamminò zoppicante sulle loro tracce.

Tutto era buio e muto, e il pugnale di malachite ricurva pesava terribilmente nella sua mano, ben più di un macigno, di una minaccia o della solitudine.

Ben più.

"Come una scelta" rimuginò. "Come il suo contrario..." e, passo dopo passo, s'inabissò nell'oscurità diretto alla sua meta.


 
Angolo autrice:
Fine! Spero vi sia piaciuta! Grazie a chi ha commentato, a chi ha seguito, a chi ha preferito e a chi ha letto fino in fondo questa mia prima mini-long!
   
 
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