Ritratto n˚30: Il corridore
“Buying bread from a man in Brussels/ He was six foot four and full of muscles/ I said “Do you speak-a my language?” / He just smiled and gave me a vegemite sandwich/ And he said:/ “I come from a land down under/ Where beer does flow and men chunder/ Can’t you hear, can’t you hear the thunder? / You better run, you better take cover…”
“Faresti meglio a correre e a trovare riparo”. E lui per correre correva, tutte le mattine si infilava le scarpe da ginnastica biancoazzurre e letteralmente volava lungo le strade ancora deserte e desolate della periferia, tra i bidoni e i graffiti sui muri, con il vento che gli alitava sulla nuca e sui corti capelli, ma non avrebbe mai trovato riparo.
Non si sarebbe arreso per nulla al mondo: doveva indurre buona parte della gente del luogo a credere nella loro vera bontà, convincerli che non erano pericolosi e mai li avrebbero privati di qualcosa, che fosse la sicurezza o il posto di lavoro.
E lui, figlio africano di genitori africani immigrati, sin da piccino aveva lottato per l’ integrazione. Non sempre gli era andata bene, ancora sentiva sulla pelle scura il peso dei (troppi!) sguardi di disprezzo e commiserazione e delle parole pesanti, degli insulti.
Ai quali sempre aveva reagito con la forza che lo contraddistingueva, persino con la violenza che non sapeva tenere a bada.
Ma degli amici che s’ era fatto lui era il capo spirituale: non per niente il suo nome significava “condottiero”, era carismatico, perfetto oratore, sapeva trascinare le folle, ma non per questo faceva il despota senza cervello.
E, per quanto potessero essere titanici i suoi sforzi di diventare uno dei tasselli della società, non avrebbe mai rinnegato le sue radici. Come avrebbe potuto? Ancora gli mancavano il vecchio sciamano con la zucca piena di semi, il tramonto sul deserto, la sabbia calda che disorienta, le gazzelle e loro corse disperate per la sopravvivenza.
Quella comunione perfetta tra uomo e natura che in nessun mondo occidentalizzato lui la cercava così, falcando il terreno con quei passi da ghepardo, diretto oltre l’orizzonte più lontano, un passo dopo l’altro.
E intanto la canzone, negli auricolari, continuava il suo corso.
“Lying in a den in Bombay/ With a slack jaw and not much to say/I said to the man “Are you trying to tempt me/ because I come from the land of plenty?...”[1]
[1] Le frasi in corsivo, in apertura e chiusura di testo, sono tratte dalla canzone “Down Under” dei Men At Work.