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Autore: Emmastory    20/07/2016    4 recensioni
Esisteva il regno di Aveiron. Fiorente sin dalla notte dei tempi, era governato da un Re e da una bellissima regina, scomoda all'intero regno. Scosso da una tragedia, ospita ancora i suoi abitanti, ridotti alla fame, al freddo e alla povertà. La colpa è da imputarsi a uomini e donne chiamati Ladri, e prima che il regno soccomba alle loro continue razzie, qualcuno deve agire. Rain è una ragazza sola, figlia di un amore che le genti definiscono proibito. Gli incubi la tormentano assieme ai ricordi del suo passato, e con il crollo della stabilità che era solita caratterizzare le sue giornate, non le resta che sperare.
Genere: Avventura, Azione, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Le cronache di Aveiron'
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Le-cronache-di-Aveiron-I-mod
 
 
Capitolo VII

La giungla urbana

Seppur con estrema lentezza, un altro giorno era passata. Riuscendo incredibilmente a svegliarmi poco prima dell’alba, ho avuto il piacere e l’onore di assistere allo spettacolo del sorgere dell’aurora e della comparsa del sole nel cielo, e alzandomi dal letto, ho subito raggiunto lo studio del dottor Patrick. Oltre a Stefan, lui è l’unica persona di cui io riesca a fidarmi, e prendendo posto sulla sedia presente nel suo studio, ho deciso di parlargli del mio piano. Come non facevo altro che ripetere da giorni, sentivo l’impellente bisogno di uscire e andarmene dalla Casa in cui ora ero letteralmente costretta a vivere. “Non dica nulla a Stefan. Lui non deve scoprirmi.” Gli dissi, guardandolo fisso negli occhi e sapendo di poter riporre la mia cieca fiducia in lui. “Sarà fatto. Ti prego solo di fare attenzione.” Mi rispose, giungendo le mani in segno di preghiera. “Lo farò, non si preoccupi.” Continuai, pronunciando quelle parole al solo scopo di rassicurarlo. Subito dopo, provai a voltarmi, e mentre ero nell’atto di farlo, sentii la mano del dottor Patrick toccarmi la spalla. “Aspetta. Prima che tu vada, devi avere una cosa.” Disse, continuando a guardarmi ed estraendo dal cassetto della sua scrivania un piccolo oggetto che per qualche ragione scintillava. Alcuni secondi passarono, e allo scadere degli stessi, scoprii che era una bussola. “Aveiron è enorme, e almeno così non ti perderai.” Continuò, mostrando un debole ma convincente sorriso. Poco prima di lasciarmi andare, mi consegnò anche un piccolo ciondolo. Era a forma di luna, e stando alle parole del dottor Patrick, era un regalo da parte di Stefan. A sentire quel nome, sorrisi, e prendendolo delicatamente fra le dita lo indossai. “La ringrazio.” Conclusi, regalandogli un secondo sorriso e scivolando poi nel più completo silenzio. La nostra conversazione ebbe quindi fine, e lasciandomi andare, il dottor Patrick mi augurò buona fortuna. Mi ritrovai fuori dopo alcuni minuti, e dando un rapido sguardo al contenuto dello zainetto che portavo, ricordai di averci messo uno specchio. Afferrandolo, guardai per un singolo attimo la mia immagine riflessa. Dando poi inizio ad un triste soliloquio, tentai di convincermi di non essere cambiata, ma tutto fu inutile. La bella ragazza che ero sembrava aver cessato di esistere, ed io non mi sentivo più me stessa. Ora come ora, sono il ritratto di mio padre Ronan. Questo semplice pensiero continua a galleggiare nella mia mente, e camminando fra la neve, mi ritengo fortunata. Il mio nome appartiene infatti ad entrambi i generi, e volendo trovare un lato positivo alla mia intera situazione, so bene di non correre il rischio di attrarre attenzioni indesiderate. Intanto, il tempo passa, e mentre il gelido vento continua a spirare riuscendo perfino a congelarmi il sangue nelle vene, mi sento sempre più debole. Non riesco a camminare, e le mie gambe stanno per cedere. La vista sta per abbandonarmi, e raggiungendo il portone di una piccola casa, cado con un tonfo. I miei ultimi attimi di coscienza sono scanditi dal quasi impercettibile battito del mio cuore, e il latrato di alcune povere bestie mi accompagnò fino al momento in cui le mie povere e stanche palpebre non si chiusero definitivamente. Non saprei dare un’effettiva durata alla mia perdita di coscienza, ma quando mi svegliai, mi scoprii sdraiata in un letto che non era il mio. Delle calde coperte mi avvolgevano e fasciavano il corpo, e avevo fortunatamente recuperato le energie. Drizzandomi a sedere, mi guardai confusamente intorno, per poi scoprire di non ricordare assolutamente nulla. Era incredibile. Non sapevo più chi fossi, dove mi trovassi e cosa facessi là fuori. Sapevo solo di essere disgraziatamente svenuta, e di essere quindi caduta in una delle numerose trappole che la giungla urbana era in grado di tendere.
   
 
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