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– VIVO PER LEI
Ricordo
ancora quel giorno come
fosse ieri.
Era
incominciato benissimo.
L’ultimo giorno di scuola. Quello più bello. A
quel tempo ero considerato un
secchione; non che lo fossi. Me la cavavo. In tutte le materie.
Sì, forse in
educazione fisica qualche problemino, ma non grossi. Nulla che non si
potesse
risolvere in sede di scrutinio con gli altri professori. E ne uscivo
sempre con
un sette. Nonostante questa fama, anche per me quello era il giorno
migliore
dell’anno scolastico. Poi, che io avessi qualche motivo in
più per essere
contento, quello era logico.
Erano
almeno due settimane che
non facevo niente a scuola. Medie riposte in cassaforte, a parte
fermarmi
qualche pomeriggio per aiutare qualcuno dei miei compagni, chiunque
avrebbe
potuto accorgersi a fatica della mia presenza in classe.
Delle mie
esperienze
scolastiche in quel periodo ricordo solo una cosa brutta. Un
“disprezzo” che mi
ero portato dietro dall’inizio dell’anno
precedente, da quando avevo
incominciato le scuole superiori. Più di ogni altra cosa,
odiavo essere
considerato un “lecchino”. E purtroppo il mio
carattere timido ed introverso mi
spingeva ad essere gentile e affabile con chiunque avesse un minimo di
autorità, fosse anche stata la bidella. Rispondevo con
cortesia a tutti, facevo
qualunque compito scolastico mi veniva richiesto, ma era solo
buon’educazione.
Non travalicavo mai il confine tra le buone maniere e la carineria
sfacciata di
chi vuole ottenere qualcosa in cambio dalle buone azioni che compie.
Purtroppo
non tutti i miei compagni comprendevano queste cose. E con
l’andare del tempo
qualcuno aveva anche incominciato a considerarmi, come dicevo, un
“lecchino”.
Ma poco mi importava.
Se
c’era una cosa che a 15 anni
avevo già incominciato ad imparare, purtroppo anche sulla
mia pelle, era che gli
amici possiamo sceglierceli solo noi, e nessuno può
costringerci ad essere suo
amico. Col tempo avevo capito che se certi miei compagni non si
prendevano la
briga di conoscermi e capire perché mi comportavo
così, forse non meritavano la
mia amicizia. Come risultato ero quel genere di ragazzo che di amici ne
ha
pochi. Pochi ma buoni. Anche quei due, tre compagni di classe che
consideravo
come tali, lo erano veramente. Gli altri? Se mi consideravano un
lecchino, o un
secchione, non potevo farci niente. Non si può cambiare la
testa delle persone,
se queste non lo vogliono. E forse a quei miei compagni di classe
conveniva
comportarsi così. Forse no. Forse ci provavano un certo
gusto. Ma non mi
importava più di tanto. Soprattutto quel giorno.
L’ultimo.
Ben
più importanti, per me,
erano gli amici che consideravo tali. Per loro stravedevo. Sarei stato
disposto
a fare quello che era necessario pur di aiutarli. Sempre e comunque.
L’unica
cosa che non facevo, per nessuno, era scendere a compromessi con i miei
principi, quelli morali con i quali ero stato educato dalla mia
famiglia. Una
famiglia un po’ strana, di certo diversa, ma una famiglia che
mi stava
crescendo nel migliore dei modi.
Nato a
Milano ma non con quelle
origini, a quasi tre anni persi mia mamma, e la mia famiglia
cambiò definitivamente,
da quel momento. Cresciuto con un padre solo, e con i nonni paterni per
buona
parte della mia infanzia, a 15 anni ancora non sapevo cosa significasse
accusarne il colpo. Per me quella era una famiglia normale. Anche dopo
che,
qualche mese prima di quell’ultimo giorno di scuola, mio
padre aveva sposato
un’altra persona e dai due che eravamo, ci siamo ritrovati in
sei, io con due fratelli
e una sorella acquisita. L’unico risultato tangibile fu che,
da quell’anno,
cercai anche di trovare e mantenere un posto e
un’identità in quella “nuova”
famiglia.
Per me
quella era una
situazione normale, un po’ diversa ma che pur sempre
rientrava nella normalità
delle cose. Le giuste regole della casa mi fecero imparare le buone
maniere, un
buon comportamento, che però, ogni tanto, causa
l’adolescenza nel pieno dei
suoi anni, aveva bisogno di uno sfogo. Avevo ormai imparato a
controllarmi per
nove mesi. Poi, però, con la fine della scuola, sapevo che
le cose avrebbero
dovuto forzatamente cambiare. Così arrivava la mia valvola
di sfogo.
Pochi
giorni, quando non poche
ore dopo la chiusura delle scuole, ero ormai abituato, da anni, a
partire con i
miei nonni verso la meta delle vacanze. I miei nonni avevano infatti
avuto
l’ottima idea, quando se ne andarono dal paesello di nascita
(alla fine degli
anni Sessanta del secolo scorso), di acquistare una casa in un paesino
vicino,
non più in collina, come Pisticci, in provincia di Matera.
Ma al mare, in un
piccolo paese ad una trentina di chilometri dall’altro. Il
paese si chiama Policoro.
Sempre in provincia di Matera. E dopo trent’anni era
diventata una città di
diciassettemila abitanti, a tre chilometri dal mare, nel pieno della
riviera
del Metapontino.
Quello
che, per molti altri,
compresi alcuni miei parenti, era solo un paesino sperduto dove niente
e
nessuno avrebbe avuto mai un interesse ad andarci, per me, che ci
passavo
mediamente due mesi e mezzo ogni anno, costituiva la perfetta valvola
di sfogo.
Il mare
tutti i giorni, i
giochi, gli amici, veri amici, il sole e tutto quanto nella mia mente
di
quindici anni avesse potuto rappresentare il massimo per una vacanza;
ecco, quella
era la mia valvola di sfogo. Così, a parte i principi,
quando ero a Policoro mi
divertivo come un matto, me la prendevo comoda, passavo tutte le sere
con i
miei amici, e da almeno un paio d’anni a quella parte anche
con le mie amiche,
in modo sempre più interessato alle amiche e disinteressato
agli amici. A
quindici anni si può ancora credere che le due cose debbano
necessariamente
viaggiare separate.
Almeno
fino all’anno precedente
le cose erano andate così. Poi quell’anno era
successa una cosa. Che mi aveva
fatto ritornare bambino a Policoro. Quell’anno, quel giugno,
a Policoro sarei
sceso solo per gli amici. Non più per le amiche.
Perché
a Milano, nella
primavera precedente, era successa una cosa che mi aveva fatto perdere
l’interesse nei confronti delle amiche, completamente
soppiantato, sotto quel
punto di vista, dall’interesse nei confronti di
un’unica persona. A Milano,
della mia stessa età, molto più bella di
qualunque altra persona potessi mai
aver visto in vita mia. Visto e apprezzato.
Ma di
Maria vi parlerò più
tardi.
Quell’estate,
quindi, un po’ mi
dispiaceva lasciare Milano. Sapevo che ci saremmo potuti sentire quando
e come
volevamo. Però non sarebbe certamente stata la stessa cosa.
Era
così finito quell’anno
scolastico. Il giorno seguente sarei partito per Policoro. Prenotazione
già
effettuata, solo poche ore e avrei fatto valere il mio diritto di
viaggiatore
sul treno che mi faceva, dopo 12 ore di estenuante viaggio, scendere
alla
stazione di Policoro.
Addio
Milano! Addio famiglia
acquisita! Addio, anzi no, Arrivederci Maria! E tanti saluti.
Quell’anno,
mi ero impegnato anche
con le ripetizioni a ragazzini più piccoli, di matematica e
scienze, mettendo
da parte un po’ di soldi che sarei stato felice di usare,
quella sera stessa
per un cellulare, e nel corso di tutte le vacanze per divertirmi e
svagarmi con
i miei amici.
Scoprii
che, almeno per quanto
riguardava il cellulare, non ce ne sarebbe stato bisogno. Appena
arrivato a
casa, dopo essermi riposato, fu mio padre, in nome suo e di mio zio, a
regalarmi un cellulare. Pregustai, subito, la spesa ingente in
ricariche telefoniche
per telefonare a Maria, che avrei volentieri consumato. Con Maria mi
ero
sentito e salutato poche ore prima. Ma, anche solo per la
necessità di darle il
nuovo numero di telefono, decisi di inaugurarlo con due chiamate.
Una, la
prima, a Lei, ovviamente.
La seconda
alla persona alla
quale tenevo più di tutte a Policoro. Ad un vero Amico. A
Giuseppe.
Credo che,
per cominciare, vi
abbia detto tutto il necessario.
Tranne
forse una cosa della
quale spesso mi scordo, quando mi capita di parlare ad altri di me: mi
chiamo
Simone.
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Eccoci di nuovo qui. qualcuno (ma non molti) potrebbe chiedere: "Ma perché prima la metti, poi la cancelli, poi la rimetti?". Presto detto: ufffff!! questo è quanto.
Chiunque di voi leggesse questa storia per la seconda volta, mi farebbe piacere ricevere un vostro parere.
Per tutti gli altri... beh... mi farebbe piacere ricevere un vostro parere.