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Autore: Restart    22/07/2016    0 recensioni
1934, Montereau Fault Yonne
Jean Lucas stringe un patto con Marion Rousseau, a causa della partenza di lei per Parigi: si dovranno sposare diciotto anni dopo.
La guerra, le perdite, i chilometri di distanza li divideranno inesorabilmente. E la loro speranza di rivedersi si affievolisce ancor di più.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
Capitoli:
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Montereau-Fault-Yonne, 19 novembre 1934
  
    Sono due i bambini sdraiati sull’erba, uno di fianco all'altro, che guardano le nuvole spostarsi leggiadre. 
     "Quella sembra un balena!" la bambina coi capelli neri sta puntando il suo indice paffuto verso il cielo che s'accennava a divenire completamente azzurro. Il bambino aprì un occhio, giusto per testare la veridicità di quello che stava dicendo l'altra. Effettivamente aveva un qualcosa che poteva somigliare ad una balena, notò, ma gli mancava a quella fierezza con cui quegli splendidi, a suo parere, animali scivolavano nell'acqua fredda del mare.
     "Non è una balena" constatò lui richiudendo l'occhio che prima aveva accennato ad aprire. Non capiva quella pazza passione dell'amica per quel gioco così noioso. Lui preferiva mille volte andare a ficcare i piedi nell'acqua gelida della Senna e contare i pesciolini che gli accarezzavano i piedi. D'accordo, non era un'attività più energetica di guardare le nuvole, ma almeno poteva essere a diretto contatto con quello che lo affascinava di più; gli animali. Passava ore ed ore a sfogliare quel vecchio manuale di biologia che si trovava nella biblioteca in cima al paese. O meglio, a lui sarebbe piaciuto andare per così tanto tempo, però gli andava bene se ci riusciva a stare venti minuti, o certe volte anche meno. Se non doveva andare a scuola, doveva aiutare lo zio nei campi; se non aiutava lo zio, doveva studiare, oppure trovarsi con l'amica del cuore. Va bene che l'ultima cosa gli andava più a genio delle altre, ma ritagliarsi un angolo e qualche minuto di solitudine ogni giorno era una delle cose che più lo aggradavano. Sospirò lievemente, tornando a osservare il cielo blu e bianco, mentre la bambina al suo fianco si era allontanata con il broncio schizzato sul suo viso delicato. Il bimbo si sentì ferito per le sue stesse parole. Girò la testa, osservando i piedi veloci della bimba farsi più lontani e capì che era il momento di raggiungerla.
     «Cosa ti è successo Memé?» le chiese ansimando per lo scatto appena fatto. Lei non si voltò neanche, continuando a camminare ma con passo più svelto. Lui non capiva perché lei facesse così, alla fine quella era solo stata una valutazione specifica, no?
     «Memé, Memé!» la chiamò ripetutamente, ma lei si ostinava a cercare di non ascoltarlo. Alla fine lui si fermò, stanco e infastidito per il suo comportamento e prese la strada di sassolini per arrivare a casa. La mamma lo stava aspettando sull'uscio di casa; sarebbe dovuto tornare un'ora prima, appena dopo la fine delle lezioni, ma non così facendo, l'aveva fatta spaventare e arrabbiare, tanto che aveva lasciato il controllo della cucina e del pranzo nelle mani di Cosette, la figlia maggiore.
     «Jean, come ti permetti di tornare a quest'ora?» sbraitò non appena lo vide arrivare al campo davanti alla porta dell'unica stanza che fungeva da cucina, salotto e camera da letto. In quell'angusta stanza ci stavano in tre. Ci stavano per modo di dire, visto che Jean non era quasi mai in casa, così come Cosette. L'unica che ne usufruiva era la madre che, essendo una sarta e un po' zoppa, raramente metteva il naso fuori dall'uscio. 
     Dietro la figura imponente sbucò il dolce viso di una bambina che si affrettava a diventare donna. Aveva profondi occhi turchesi e capelli corvini, un aspetto che secondo la madre "aveva rubato al padre" il quale da giovane doveva essere "bello da portare via il fiato" come sospirava spesso lei. Ma a quanto pare la bellezza era l'unico pregio di quell'uomo che l'aveva abbandonata dieci anni prima.                 Non era raro che un paesano nel pieno di una conversazione con la donna non ci aggiungesse un commento perfido sull'uomo che si era lasciata scappare. E quindi Nathalie era costretta a trattenere le lacrime e a ricomporsi con dignità agli occhi di tutti. In dieci aveva dimostrato agli invidiosi che lei poteva farcela egregiamente ad andare avanti e tirare su due figli.
      Cosette fissò il fratello che si avvicinava barcollando leggermente. Per lui, lei era sempre stata una seconda madre e i due avevano un invidiabile rapporto fratello-sorella. Lei gli fece cenno di stare zitto e obbedire alla madre, perché quel giorno era più irritabile del solito.
      “Dove eri finito? Maman era disperata. Continuava a parlare da sola a bassa voce, ero quasi tentata di chiamare il prete” gli tolse di dosso il giaccone scuro, troppo grande per il bambino, che loro padre aveva lasciato nell’armadio prima di scomparire e lo attaccò al gancio vicino al letto. Jean la fissava fare quei gesti così abituali che non le pesavano nemmeno. Non le dispiaceva fare le faccende domestiche e aiutare la madre. Non le dispiaceva cucinare e aiutare il fratello a fare i compiti. Adorava anche andare a scuola e sognava di poter studiare di più per andare a vivere a Parigi e fare la scrittrice.
       “Ero sul fiume con Memé. Stavamo, ehm, giocando” disse lui, abbassando ogni parola il grado di voce. Cosette lo fissò con tenerezza, accennandogli un sorriso. Lei non aveva mai avuto degli amici. Jean era l’unico amico che aveva, e lo invidiava moltissimo, perché quella che c’era tra lui e la figlia del notaio Rousseau era speciale come amicizia. Anche se non lo diceva mai ad alta voce, lei sognava che un giorno, diventati grandi, quei due si sposassero. Era sempre stata così, si dilettava a creare coppie certe volte strane, giusto per divertirsi e immaginare storie sempre diverse. Era come Emma, la protagonista di quel romanzo inglese che aveva preso in prestito dalla biblioteca paesana e di cui si era innamorata follemente. Lei era come Emma, con quell’immaginazione così fervida. 
       “Dovevi tornare a casa due ore fa, come mai te ne sei dimenticato? Tu non ti dimentichi mai di niente… E poi non le hai sentite le campane suonare? Lo sai che suonano ogni ora?” cercò nel suo repertorio di maschere quella che somigliò di più all’espressione di rimprovero e la indossò. Le sopracciglia nere e sottili si avvicinarono, dando nascita ai solchi sopra il naso e le labbra si strinsero fino quasi a diventare bianche. Ma alla vista degli occhi supplichevoli quella maschera costruita e studiata si rilassò, ritornando al dolce viso di quattordicenne.
         “Le ho sentite le campane, ovvio, ma non stavo più pensando al dovere. Memé mi ha raccontato una cosa bruttissima che io non voglio che accada” si passò la mano sudicia sul viso candido e dagli occhi azzurri cadde qualche lacrima.
         “E quale sarebbe questa cosa?” Cosette non lo aveva mai visto coì turbato come in quel momento. Si scuoteva in un pianto incontrollato e sonoro, tanto da svegliare l’attenzione della madre che aveva lasciato le pentole sul pavimento ed era accorsa a vedere cosa stava succedendo al figlio.
       “Memé va a Parigi. Ed io rimarrò quaggiù da solo, senza neanche un amico” si strinse al petto della madre e le bagnò il vestito azzurro. Nathalie guardò la figlia dubbiosa sul da farsi. Cosette aveva le labbra strette e fissava un punto vuoto della stanza. Nathalie si sentiva senza ancore; era in mare aperto. E non sapeva nuotare.
       “Ma tutti i tuoi compagni di scuola? Non ci vai d’accordo con loro?” tentò; un tentativo veramente scarso, ma l’unico che le era venuto in mente. Jean tirò su la testa per guardare meglio gli occhi neri della madre che tentava di sorridere.
      “Si, ma non sono Memé” rispose lui. Era ovvio. Nessuno poteva eguagliare Memé. Lei era solare, tenebrosa, chiacchierona e silenziosa, espansiva e chiusa. Lei era la sua luna e il suo sole. Se non c’era lei, lui si sentiva un pesce fuor d’acqua, per usare una di quelle frasi fatte che adorava usare lo Zio.
       La stanza era piombata in un fastidioso silenzio. Si sentiva il fruscio delle foglie che venivano scosse dal vento di novembre. Jean era ancora abbracciato alla vita della madre che finalmente lo riabbracciava di rimando, mandando all’aria tutta la rabbia e la frustrazione di pochi minuti prima. Cosette invece si era seduta, non riuscendo più a pensare a niente. Ancora una volta i suoi progetti erano andati in fumo. E sicuramente, pensò, non sarebbe stata la prima volta che il destino le remava contro. Alzò appena lo sguardo per vedere quello che lei, da sua madre, non aveva mai ricevuto. Amore. Si chiese se con suo padre in casa la situazione sarebbe stata diversa. Se anche lei si sarebbe sentita qualche volta la figlia prediletta.
        Se lo ricordava suo padre, lei. Si ricordava i capelli castani, morbidi, e gli occhi blu, proprio come quelli di Jean. Si ricordava il naso lungo, che gli rendeva il profilo quasi felino. Le labbra erano carnose, grandi che quando sorrideva mostrava quei denti bianchissimi che all’epoca erano piuttosto inusuali. Amava suo padre, lo amava anche se se lo ricordava a malapena. Si ricordava quando andava fuori a fumare quelle sue interminabili sigarette, con il cappello ben calcato sui capelli impomatati e i baffi, due baffi scuri che lo rendevano più vecchio di quanto non fosse.
        Lui se ne era andato con la notte. Quando il buio aveva sollevato il suo pesante telo scuro dai tetti delle case di Montereau, lui aveva preso la sua borsa di tela piena di vestiti, quelli buoni, aveva baciato la figlia sulla fronte, la compagna sulla guancia e poi aveva preso il figlioletto appena nato in braccio. Il piccolo aveva mugolato un paio di secondi, prima di crollare nuovamente in un sonno profondo. Il padre l’aveva guardato con profondo orgoglio e tristezza. In cuor suo non voleva andarsene, ma era quello che doveva fare. Strinse a sé il corpicino del figlio, per annusare per l’ultima volta il suo profumo. Qualche lacrima scivolò sul suo volto fino a bagnare la vestaglina di cotone del piccolo.
      “Mio piccolo Jean, questo è un arrivederci. Io devo tornare da mia moglie, quella moglie che ho abbandonato cinque anni fa, perché avevo incrociato gli occhi di tua madre. Ma ora devo tornare, devo tornare dai miei figli, quell’altri, che però non amo più di te e Cosette. Voi quattro e tua mamma siete l’amore della mia vita. Il sole che mi fa crescere giorno dopo giorno, che mi fa maturare. Vorrei rimanere qui. Lo voglio tanto piccolo mio. Voglio veder crescere te e tua sorella, ma non posso” aveva baciato per l’ultima volta i figli e se ne era andato che non era nemmeno l’alba. Ed era tornato nella sua famiglia, quella ricca, quella a Parigi.
       Cosette si chiese se avrebbe mai perdonato il padre per quello che aveva fatto. Se gli avrebbe perdonato l’errore, l’inciampo, la decisione di lasciarli crescere senza la figura paterna.
       Intanto, intorno a lei, la situazione era cambiata: la mamma stava preparando il pranzo, mentre Jean apparecchiava accuratamente la tavola. Si domandò per quanto tempo era rimasta a pensare al padre, ed evidentemente era passato tanto tempo. Si alzò e meccanicamente si mise a fare quello che più le piaceva fare; aiutare.
                                                                            *
       Memé stava ancora correndo sapendo bene che dietro non aveva più Jean da qualche minuto ormai. Ma continuava a correre, facendo lo slalom tra i paesani che si erano raccolti i piazza per il mercato settimanale. Si fermò solo quando fu arrivata all’elegante portone di ciliegio in fondo alla piazza. Bussò tre volte e quasi immediatamente accorse una cameriera con i capelli rossi e gli occhi neri come la pece.
       “Signorina, ma lo sa che ore sono? Sua madre si stava agitando. Oh, ma come è conciata? Ha tutto il vestito macchiato d’erba” parlò veloce, tanto veloce che la bambina non la stette nemmeno a sentire e salì le scale di fretta per andare dalla madre.
        Arrivata in cima si fermò a prendere un po’ di fiato. Aveva corso per venti minuti buoni e per una signorina come lei non era l’ideale. Ma a lei gli abiti da ricca signora le stavano stretti. Aveva sempre invidiato la vita di Jean, sempre così libero dalle regole che l’alta società aveva scelto per lei. Si passò le mani sporche di terra sul vestito bianco per renderlo più sporco per fare un dispetto alla madre, e bussò alla porta della camera di quest’ultima.
        Claudine Rousseau, nata Olivier, era una donna tutta d’un pezzo. In casa sua si stava alle sue regole ed era vietato sgarrare. Anche il marito era assoggettato al suo potere. Era lei a gestire la casa, e i soldi. Sapeva risparmiare, glielo aveva insegnato la madre quando alla morte del padre era stata costretta a vendere tutta la roba più buona che aveva e trasferirsi da una bella, ma piccola casa a Parigi in quel paese vicino alla capitale e tirare avanti con quello che poteva. Perciò teneva da parte quasi la metà dello stipendio del marito. Non era più tornata nella sua città, ma ormai si era adattata a Montereau dove poteva vivere da grande signora, quasi da principessa. Il grande sogno che portava nel suo cuore si era trasformato in desiderio di far sposare la figlia con qualche nobile. Era ancora presto, vero, ma si era già informata e aveva già messo l’occhio su qualche pupillo di casate importanti sia in Francia che in Inghilterra. Lo aveva già fatto dopo la nascita di Edouard, ma quando aveva cinque anni la tisi se lo era portato via. Questa volta però, avrebbe protetto la sua bambina da ogni male del mondo. Niente e nessuno le avrebbe fatto male.
        Claudine mise un po’ di crema sul palmo della mano prima di passarselo sul collo lungo e magro. Era la parte del suo corpo che più preferiva. Era stato il suo motivo di orgoglio fin da ragazza quando lo esibiva con collane fatte con cose quotidiane e, dopo il matrimonio, con perle vere e proprie. Aveva un piccolo baule che nascondeva nell’armadio, dentro il quale c’erano una collezione di collane di perle invidiabile. Ne aveva una per ogni occasione, che sfoggiava con grande eleganza. Ma ce ne era una, quella più bella, quella più lunga e preziosa, quella che custodiva per il matrimonio della figlia.
         Si guardò un’ultima volta allo specchio per assicurarsi della sua immagine. I capelli neri e corti, delle onde ben fissate alla testa; gli occhi scuri, due pozze di inchiostro che risaltavano sul viso squadrato ed elegante da signora, le labbra che prima erano carnose ora stavano diventando sempre più sottili e incorniciate da rughe, le stesse che circondavano gli occhi, che s’infiltravano tra le sopracciglia nere. Sorrise triste a quell’immagine che vedeva allo specchio; più invecchiava, più vedeva su di sé il volto severo della madre.
          Un leggero bussare alla porta la svegliò dai suoi pensieri. Una bambina dai capelli corvini e gli occhi identici alla madre fece capolino. Aveva l’abito completamente sporco di terra e le trecce sfatte. Più che la figlia di un uomo importante, sembrava la figlia di un contadino.
           “Buongiorno Maman” disse con voce sottile, cercando di evitare lo sguardo della madre. Ora era in piedi davanti alla porta, le mani giunte dietro la schiena e il viso nascosto tra i capelli.
          “È quasi pomeriggio, Marion, dove sei stata tutto questo tempo?” non si era nemmeno voltata. Osservava la figura gracile della figlia attraverso lo specchio che aveva davanti a sé. Continuava a passarsi strati di rossetto su quelli vecchi già presenti.
           “Ero con Jean giù al fiume. Gli volevo dire di quella cosa, ma…” non riuscì a finire la frase per via di quelle grosse lacrime che si apprestarono ad uscire dai grandi occhi pece. Solo allora la madre si girò a guardarla, con un misto di compassione e tristezza, un’espressione sul viso che non usava molto spesso.
          “Ma?”
          “Ma lui lo sapeva di già e si è arrabbiato tanto con me. Mi ha tenuto il muso tutto il tempo e mi ha giudicato perché mi piace guardare le nuvole… Maman, mi ha fatto piangere tanto quello che ha detto. Io gli voglio tanto bene e non voglio perderlo d vista. Voglio portarlo a Parigi con me, posso Maman?” si stropicciò gli occhi con le mani sudice e fissò la madre.
         Claudine si trovò in difficoltà. Teneva alla famiglia Lucas, stimava molto Nathalie per quello che aveva fatto e per quello che stava facendo per i suoi figli, ma non poteva farlo. Non poteva strappare Jean alla sua famiglia e non potevano andare tutti con loro a Parigi.
        “No, Marion, non possiamo” lo disse con tutta la dolcezza che le era possibile. La bambina scappò via, piangendo, ferita irrimediabilmente. La donna se la vide scappare, capendo solo molto dopo che aveva separato due persone che si amavano. Per sempre.


















Angolo autrice:
Questo capitolo sta a spiegare meglio la relazione tra Jean e Marion.
Come nel primo capitolo, se notate delle "stranezze temporali" ve ne sarei molto grata se me lo farete notare.
Un bacio e alla prossima, 
Restart
   
 
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