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Autore: Restart    06/08/2016    0 recensioni
1934, Montereau Fault Yonne
Jean Lucas stringe un patto con Marion Rousseau, a causa della partenza di lei per Parigi: si dovranno sposare diciotto anni dopo.
La guerra, le perdite, i chilometri di distanza li divideranno inesorabilmente. E la loro speranza di rivedersi si affievolisce ancor di più.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
Capitoli:
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20 novembre 1934.
 
 Sulla riva erbosa della Senna, un bambino sta leggendo.
    Non un bambino qualunque, ma lo stesso bambino che il giorno prima aveva parlato con la bambina con i capelli neri e lo stesso che in tutto il paese era stato abbandonato dal padre. Un bambino illegittimo se così lo si vuol chiamare. Un bambino che si chiedeva continuamente se la sua amica sarebbe venuto a salutarlo, per poi andare via per sempre e non rivederlo mai più. Un bambino che bambino più non era, un bambinouomo.
    Quel bambinouomo aveva da poco capito che significa amare. E per lui amare faceva schifo. Sì, perché amare significa soffrire e lui non voleva soffrire.
     Però amare era anche bello, perché amare voleva dire vedere gli occhi neri di Marion quando chiudeva gli occhi e sentire il suo profumo anche se lei non era vicina a lui. Amare voleva dire provare i brividi ogni volta che Marion lo toccava o anche solamente quando lo sfiorava.
Amare era bellissimo; come verbo, come sensazione, come parola. Ricercava quel vocabolo nel volume che teneva in mano, solo per vedere i caratteri d’inchiostro impressi sulla carta giallognola.  
        Marion lo osservava già da qualche minuto; la schiena curva sulle pagine del libro, il berretto scucito ben calcato sulla testa e il giaccone sformato stretto addosso per non fare in modo che il vento s’azzardasse ad entrare. Chiuse gli occhi per fermare quell’immagine nella sua mente e non farla più andare via. Solo il pensiero che non l’avrebbe mai più visto gli faceva pizzicare il naso e far salire le lacrime agli occhi. Aveva nove anni, ma ben sapeva cosa vuol dire perdere qualcuno che si ama. Lo aveva già provato quando suo fratello era morto. Jean non sarebbe morto, ma non vederlo l’avrebbe distrutta allo stesso modo. Jean ormai custodiva l’anello chiave della catena che era lei e senza di lui sarebbe stata solo un ammasso di ferro.
       Riaprì gli occhi e lui era sempre lì. Sempre chino sui suoi amati libri, ad imparare qualcosa che non gli sarebbe mai tornato utile nella vita. Marion continuava a fissarlo mentre ficcava le mani rosee nelle tasche del cappottino nuovo di zecca che il papà le aveva portato da Bruxelles. Dopo qualche secondo estrasse il pezzo di puzzle che aveva portato da casa. Era il tassello centrale del puzzle che aveva appeso in camera sua, quello su Parigi. Lo guardò ancora e non aveva niente di speciale o indimenticabile. Era solo un pezzetto di cartone con un disegno grigio sopra. Un angolo che sembrava essere di una finestra e basta, tutto lì. Se lo rigirò ancora un paio di volte tra l’indice e il pollice della mano, per poi stringerlo in una morsa strettissima.
        Raggiunse Jean in qualche falcata a zig zag in modo tale da scansare le buche piene di fango.
        “Che leggi?” lo richiamò con un tono eccessivamente alto e acuto. Jean sussultò, chiudendo di scatto il volume.
        “Memé, che ci fai qui? Non dovevi partire per Parigi?” aveva lo sguardo interrogativo. Marion, presa in fallo, si morse il labbro. Cercò di evitare gli occhi chiari di Jean, ma fu impossibile perché lui le strinse il viso tra le sue mani callose, troppo callose per un bambino.
        “Non partire, ti prego” Marion sentì le lacrime, pronte ad uscire, corroderla da dentro. Lui non le lasciava scampo. Il naso affilato e lo sguardo puntati su di lei. Si divincolò dalla stretta feroce che lui esercitava con le sue forti dita da pianista sul suo viso. Non era proprio la stretta più amorevole che potesse esistere, ma per lei era sufficiente. A lei bastava sentirlo vicino. Ma poi, tutto d’un tratto, Jean mollò la presa e si allontanò da lei. Lo sguardo ferito, le spalle ricurve e le labbra strette.
       “Io parto, Jean, io devo partire. Ma prima ti volevo dire –e dare- una cosa. Innanzitutto, tieni questo” tirò fuori il pezzettino di puzzle dalla tasca del cappotto e lo poggiò sul palmo della mano destra di lui che la guardava con curiosità crescente. “Questa è una parte di me che spero conserverai, fino a che, e qui arriva la parte interessante, non ci ritroveremo. Jean mi prometti che ci ritroveremo, vero? Io voglio fare una promessa a te e con te, sei d’accordo?” lo guardò con gli occhi neri che fremevano dall’impazienza di risentire l’amico vicino. Jean si fece girare il pezzetto di cartone tra l’indice e il pollice studiandolo con attenzione.
        “Certo che sono d’accordo” le sorrise appena. Sapeva che quando Marion faceva le promesse era brava a mantenerle. E quello non sarebbe stato un addio.
       “Allora promettimi che tu, noi, tra…”
       “Diciotto, diciotto anni” intervenì Jean. Diciotto, uno più otto, gli anni di Marion quel giorno. Diciotto anni era l’aspettativa che aveva dato suo padre a sua madre. E per lui era l’età dell’amore. Dopo diciotto anni si sarebbero rivisti e si sarebbero appartenuti per sempre.
        Però a lei pareva un’enormità di tempo. Diciotto anni dopo avrebbe avuto ventisette anni e ventisette anni è troppo tardi per sposarsi e i figli, no? I figli non si fanno a ventisette anni. Maman glielo ripeteva sempre. Inizia già ad essere troppo tardi.
        “Sicuro diciotto? Perché non nove? Quando saremo tutti e due grandi abbastanza per prendere il treno e…”
         “Diciotto” ripeté lui ammiccando un sorriso. Diciottanni (tutto attaccato, ovviamente), il tempo dell’amore.
         “E sia diciotto. Ci ritroviamo. Qui. A Montereau. Noi due, per sempre”
         “Per sempre” Marion lo strinse in un abbraccio pieno di malinconia. Quello non sarebbe stato un addio, neanche per sogno.
Quella fu l’ultima volta che i due si videro.

*
Parigi, Francia, 25 agosto 1944
Dieci anni dopo
      
        Marion si avvicinò al soldato inglese che aveva di fianco. Era un’orfana ormai. Era senza più niente, senza un soldo, senza una casa, con una ferita lungo tutta la gamba che non voleva smettere di sanguinare e che le rendeva difficile perfino camminare o stare in piedi.
        Parigi era libera. E la ragazza in cuor suo sapeva che la pace sarebbe arrivata a breve. Che la parte difficile era passata, che ora c’era solo da piangere i parenti morti. Lanciò uno sguardo alla sua città che nel ’34 le era parsa una donna formosa e bellissima di cui era rimasto solo un cumolo di ossa. La zona dove abitava con la sua meravigliosa famiglia è solo polvere. Come, del resto, anche i suoi genitori. Guardò l’inglese e pianse, pianse tutto quello schifo che sentiva dentro, tutto quel marcio che ormai era la sua anima. Pianse per lasciare posto a quella che sarebbe stata la sua vita da quel momento in avanti. Niente più dolore, perdite o quant’altro.
        Il soldato inglese si sentì a disagio quando quella ragazza francese si gettò addosso a lui. Piangeva disperata e lui non sapeva come reagire. La prese in braccio e la portò all’ospedale più vicino dopo aver visto lo squarcio che si apriva colorito lungo tutta la sua gamba magra. La gonna d’alta moda era ormai tutta macchiata e incrostata del sangue che usciva dalla ferita e la camicetta aperta mostrava i seni rotondi, giovani e perfetti. Cercò di guardare la strada, ma ormai gli occhi seducenti della ragazza gli erano rimasti impressi in mente. I suoi lunghissimi capelli neri ondeggiavano ad ogni passo. Lei era svenuta, e questo convinse il soldato ad allungare il passo fino ad raggiungere la camionetta di francesi che si stava allontanando.
       “Aiuto! Aiutatemi!” urlò a squarciagola per far in modo che il veicolo si fermasse. Solo un soldato aveva alzato lo sguardo sentendo le urla. Guardò quell’inglese correre verso di loro, con gli occhi azzurri che si fermarono sul corpo della ragazza che teneva in braccio.
       “Marion” sussurrò con la voce spezzata. Si alzò di scatto urlando all’autista di fermarsi. Dopo qualche bestemmia, quest’ultimo si decise, seppur a malavoglia, a fermarsi. Non c’era nessuna fretta, per fortuna.
       Jean corse più veloce che poteva verso l’inglese. Sentiva il cuore esplodergli nel petto e le lacrime bagnare il suo bel viso.
      L’aveva ritrovata.
      L’aveva ritrovata.
      La frase gli rimbombava nella testa mentre vedeva il corpo esile sempre più vicino.
      Quando la vide senza sensi il suo cuore si fermò un attimo. Le prese di fretta il polso e appena sentì la vena pulsare sotto le sue dita riuscì a respirare nuovamente con ritmo regolare.
      “È ferita, bisogna portarla in ospedale” la voce dell’inglese gli arrivò lontana. Riusciva solo a spassare le dita sporche tra i suoi capelli d’inchiostro e toccare la sua fronte bollente. Doveva salvarla. Fece cenno all’uomo di seguirlo e gli fece posto accanto a lui sul camioncino.
 
*
     
   “La conosci da tanto?” il soldato inglese gli porse un bicchiere d’acqua, il massimo di quel che potevano recuperare in una giornata come quella. Jean accettò con un sorriso e lo bevve tutto d’un sorso prima di essere in grado di rispondere.
    “Sì” nonostante l’acqua bevuta sentiva la gola secca e quello era il massimo che poteva esprimere. L’inglese non si era mai trovato in una situazione tanto strana. Non riusciva a instaurare una conversazione con quel suo coetaneo, benché il suo francese fosse impeccabile. I vantaggi d’essere ricco era anche il fatto di permettersi di avere prima delle tate straniere e poi di studiare all’estero. Parlare cinque lingue lo rendeva più orgoglioso che il suo titolo nobiliare e tutta quella montagna di soldi che c’era sul suo conto alla banca d’Inghilterra. E per questo aveva discusso a lungo col padre riguardo alle sue idee innovative e moderne che non conciliavano neanche un briciolo con gli ideali tradizionalisti del vecchio duca.
     “Eravamo bambini insieme giù a Montereau. Lei era figlia dell’uomo più ricco del paese e io della famiglia più squattrinata” Jean faceva roteare il bicchiere tra le dita di una mano, mentre con l’altra era occupato a sistemarsi i capelli che, finalmente, stavano ricrescendo.
     “Ma, mi scusi per la scortesia, non mi sono neanche presentato; Jean Lucas” gli porse la mano che l’inglese strinse caldamente, come faceva al suo migliore amico.
     “Steven, detto Steve, Smith, piacere” accompagnò la stretta con un sorriso che Jean non esitò a ricambiare. Steve si trovò, stranamente, a pensare quanto fosse bello il suo sorriso. Non badava mai quando la gente gli sorrideva, né che fossero uomini né che fossero donne. Ma quello di Jean era particolare, come tutto il suo viso affilato e intrigante. I capelli castani tenuti a spazzola dovevano essere bellissimi se fossero stati più lunghi. E poi gli occhi erano il fulcro del suo volto, della sua persona. Chiari e trasparenti come l’acqua del ruscello vicino a casa sua, ma altrettanto ombrosi come il bosco dentro il quale si rifugiava quando era stanco di stare chiuso dentro le pareti marmoree della villa.
      Non si ricordava di essere stato così tanto tempo a studiare un volto, soprattutto se maschile. Si domandò se quelle fitte che lo colpivano allo stomaco e che gli toglievano il fiato erano una reazione normale per tutti gli uomini alla vista di qualcuno di così affascinante come il ragazzo che ormai non lo guardava più.
      Più volte negli anni successivi, prima di addormentarsi, avrebbe pensato a quel viso, a quei dettagli tanto studiati in quegli attimi di impazienza per quella che non sapeva ancora sarebbe stata la donna accanto a lui nel letto. E se gli accadeva di pensare a quel ragazzo, il suo sonno sarebbe stato tormentato.
     Il loro religioso silenzio fu interrotto dall’infermiera che li richiamò per comunicare che Marion stava finalmente bene. Entrambi tirarono un grande sospiro di sollievo. Seguirono la suora che li accompagnò al letto della ragazza.
     Marion era abbandonata in un sonno profondo e riparatore. Jean si avvicinò e le prese la mano tra le sue. Sembrava così piccola racchiusa in quel guscio di lenzuola pulite. I capelli erano stati tagliati e ora le arrivavano appena sotto il mento. Gli occhi bruni erano chiusi e le labbra rosee erano socchiuse. Jean le baciò la punta delle dita una per una, solamente posando le labbra sui polpastrelli.
     Lei era lì. Era lì.
     Dopo tutti quegli anni lei era accanto a lui.
     La accarezzò di nuovo sul viso e strinse le sue mani piccole e olivastre tra le sue grandi e abbronzate.
     Non smetteva di studiare il suo volto così diverso da come se lo ricordava, eppure le labbra erano sempre quelle grandi, rosee e carnose di quando aveva nove anni. Così come gli occhi e i capelli entrambi più scuri dell’inchiostro.
     Ma il volto della Marion diciannovenne era più spento, graffiato da sofferenze e perdite, vissuto e triste rispetto a quello gioviale e sorridente che apparteneva ad una che dieci anni prima era solo una bambina. Ora la sua amata era una donna. Una donna fragile e segnata dalle grandi cicatrici che la guerra aveva lasciato sul corpo di ogni persona che l’ha vissuta in pieno.
     Steve stava guardando la scena dall’alto chiedendosi come mai si trovava ancora lì, sentendosi enormemente inadatto e fuori luogo. Perché non se ne era andato? Perché era lì a fissare quei due?
     Eppure non ce la faceva a staccare gli occhi di dosso a loro, dalla loro nuvoletta felice. Lui non traeva nessun profitto da quella dolce riunione tra amanti, ma aveva i piedi incollati al pavimento e le mani strette al suo cappello di feltro marrone che puzzava di sudore, di dolore, di sofferenza come tutto quello che lo circondava. L’aria era impregnata di perdita e malinconia, di nostalgia per la terra natia, di morte.
     “Lucas, devi venire con noi, ci hanno trasferito a est. Si parte domani” un ragazzino che aveva appena, forse, diciotto anni fece capolino dall’entrata. Aveva la divisa coperta di polvere e gli stivali incrostati di fango. Il viso magro era delineato da grandi occhiaie nere e il naso spaccato.
      Jean sentì una fitta al cuore. Doveva lasciare Marion un’altra volta e aveva troppa paura di non riuscire a sopravvivere a questo trasferimento. Strinse ancor di più la mano fragile della ragazza e le lacrime che uscivano copiose dal suo volto la bagnarono inevitabilmente.
     “Va bene Lacroix, di’ al comandante che arrivo” disse con un filo di voce. Il ragazzo girò in fretta i tacchi e uscì dalla stanza. Jean rimase a fissare le unghie sciupate e mangiucchiate di Marion; aveva sempre avuto quell’orribile vizio di mangiarle nei momenti in cui era sotto pressione. Sì alzò dalla sedia e avvicinando il suo viso a quello della ragazza cercò di fermare quell’immagine nella sua testa, di modo che non si togliesse più. Poi le lasciò un leggero bacio sulle labbra socchiuse, come quello che le avrebbe voluto dare dieci anni prima quando lo aveva lasciato per andare a Parigi.
      “Steve, promettimi una cosa” l’inglese sobbalzò lievemente per la sorpresa di sentire la voce di Jean ancora. Era di fronte a lui, con gli occhi fissi su di lui. Sentì di nuovo quella fitta che aveva provato nella sala d’aspetto e in quel momento realizzò che provava per il francese qualcosa di sconosciuto, che aveva provato solo una volta nella sua vita.
        Dopo aver appurato che lo stesse ascoltando, Jean continuò; “Promettimi che la proteggerai. Lei è un fiore raro, e tu devi tenerla al sicuro, in modo che nessuno voglia prenderla o farle del male. Steve, io la lascio a te, sono certo che sei un bravo ragazzo sebbene tu sia inglese”
        Steve sorrise lievemente. Nessuno si era mai fidato così ciecamente di lui come stava facendo quel francese.
       “Lo farò. Puoi fidarti di me” Jean si sentì sollevato. C’era qualcosa dentro di lui, una voce che gli stava dicendo che Steven era uno di cui potersi fidare. E lui si era sempre fidato del suo istinto.
 
*
 
       Marion si svegliò per il dolore alla gamba quando era già notte fonda. La ferita le bruciava talmente tanto che le veniva da piangere. Le veniva da urlare a pieni polmoni ma sentiva la gola secca, troppo secca perfino per parlare. Si tirò su di scatto alla ricerca di un goccio d’acqua per rinfrescarsi. Ma quando riuscì a mettere a fuoco quello che la circondava notò un uomo appisolato sulla sedia accanto alla sua branda. Con la fievole luce della luna che filtrava dai vetri sudici dell’ospedale, riuscì a delineare il profilo dell’inglese che l’aveva soccorsa qualche ora prima. Alla penombra il suo volto sembrava ancora più interessante. Aveva la testa buttata all’indietro e le mani conserte sulla pancia. Marion si avvicinò a lui per studiarlo meglio, ma appena si mosse, la ferita le bruciò così intensamente che cacciò un urlo che lo svegliò.
        Appena aprì gli occhi vide la ragazza contorcersi tenendosi tra le mani la gamba magra. Intanto anche un’infermiera era accorsa con una siringa stretta tra le dita.
       “Stai calma tesoro, stai calma. Ora passa tutto” le sussurrava mentre toglieva l’ago dalla carne del polpaccio della ragazza. Le porse poi un bicchiere d’acqua che Marion buttò giù velocemente. Steve guardava la scena nel silenzio dell’angolino che si era ritagliato tra la branda della francese e di un altro ferito senza una gamba. Quando l’infermiera fu sparita, raccolse tutte le scaglie di coraggio che poteva trovare per chiedere come stesse a Marion. Lei lo guardò per qualche secondo prima di rispondere.
        “Meglio, grazie. Ora possiamo presentarci civilmente. Marion Rousseau” stese il braccio nella sua direzione e gli porse la mano che lui strinse un po’ titubante.
        “Steven Smith” sussurrò. Lei gli sorrise gentile e lui ricambiò senza esitare. Con la ragazza si sentiva stranamente a suo agio, proprio come con Jean. Non c’era bisogno di usare maschere o costruire muri per non entrare troppo in confidenza con gli altri. Sentì il petto riscaldarsi dolcemente mentre si soffermava a studiare i dettagli leggermente orientali di lei, a partire dal taglio a mandorla degli occhi.
        “Quindi sei tu che mi hai salvato? Ti sarò per sempre debitrice” gli fece il più bel sorriso che poteva fare.
        “Sì beh…” si soffermò chiedendosi se fosse il caso di parlarle di Jean. Ma alla fine decise che era meglio per entrambi. “Sono stato aiutato da un soldato francese che è stato al tuo fianco fino a che non ha dovuto andare per obbedire agli ordini del comandante della sua divisione. Si chiamava, uhm, Jean…” Marion trasalì lievemente. Lui era stato lì con lei. Magari aveva anche stretto la sua mano, sentito le sue dita stringerla mentre era completamente incosciente.
       “Lucas. Jean Lucas” rispose secca lei. Jean era stata al suo fianco e lei aveva dormito.
       “Sì, lui. Lo conosci bene vero?” Steven la guardò sorridendo docilmente. Dagli occhi della ragazza erano iniziati a scivolare delle grosse lacrime che rigavano la sua pelle olivastra.
       “Oh sì, molto bene. Lui, io, beh, eravamo bambini giù a Montereau e beh, io…”
       “Lo ami e anche lui” s’intromise Steve. Marion alzò la testa di scatto e lo fissò. Come osava quello sconosciuto dirle cose del genere?
       “Sì lo amo da dieci anni ormai. Ma il mio amore per lui non è più forte come nel ’34. Io ho bisogno di qualcuno vicino a me adesso, non tra otto anni. E lui vuole aspettare così tanto per sposarmi e io non voglio. Io voglio una famiglia. Voglio dei bambini al più presto.” Non stava più parlando a Steve, parlava a se stessa.
       “Ma come? Mi sembri una ragazza così intelligente, non hai un sogno da voler portare avanti?” le prese le mani in modo che lei potesse guardarlo. “Io non sposerei mai una ragazza che nella vita ha come unico obiettivo quello di sfornare dei bambini urlanti e lagnosi.” Marion lo guardò sorpresa. Nessun ragazzo con cui era stata fino a quel momento le aveva avanzato proposte del genere. Nessuno l’aveva mai spinta a continuare gli studi. Nessuno l’aveva spronata per iscriversi all’università che tutti i suoi amici maschi frequentavano. E nessuno le aveva mai fatto una proposta di matrimonio così celata ma allo stesso tempo diretta.
       “Dici davvero? Sai io ho sempre sognato di iscrivermi all’accademia di Belle Arti. Anche a mio padre Gabriel sarebbe piaciuto. Ma ora sono senza un soldo in tasca e un tetto sopra la testa” concluse con malinconia.
      Steve non ci pensò due volte: “Per quello non c’è problema: ti finanzio io. Di soldi ne ho anche troppi e preferisco investirli su una ragazza intelligente e giovane, con tante speranze per il futuro” credeva in ogni singola parola che aveva appena pronunciata. Ai suoi genitori l’avrebbe presentata come fidanzata, loro sarebbero stati contenti e gli avrebbero concesso il cottage vicino a Oxford e nessuno gli avrebbe dato fastidio. Sarebbero stati solo amici.
       Marion rimase in silenzio a fissarlo nelle iride chiare. Aveva veramente detto una cosa del genere? Ma alla fin fine non era una cattiva idea. Ma non risolveva il problema del tetto che non c’era. Dove avrebbe dormito?
       “Potrebbe essere un’idea. Ma io non ho un posto dove dormire e poi chi mi garantisce che questa guerra non duri altri cinque anni e quindi che si muoia tutti da qui al ’49?”
       “Per il tetto non c’è problema, puoi stare da me a Oxford; sai l’inglese giusto? E per la guerra non so che dirti, ma sono abbastanza sicuro che nel ’49 sarà tutta finito.” Le sorrise dolcemente e lei cercò di ricambiare. Le sembrava tutto così ipotetico e poco fattibile.
        Prima cosa; chi le garantiva che quello Steven avesse tutti i soldi che diceva di possedere?
        Seconda cosa; l’inglese lo sapeva bene, ma non abbastanza per vivere in una città in Gran Bretagna.
         Terza cosa; se si innamorava di quello Steve? Se decideva di sposarlo? Che ne sarebbe stato di Jean? Lei lo doveva aspettare, lei amava troppo Jean e avrebbe aspettato otto anni.
O no?
Alla fine aprì la bocca per rispondere: “….






||Nota autrice||
finale col  fiato sospeso che io adoro tanto! 
E' stato un capitolo che ho avuto un po' di difficoltà a scrivere un po' per mancanza di tempo e di ispirazione. Ma ora ho tante idee per i prossimi e per l'evolversi della storia!
Stesso discorso dei capitolo precedenti, poi, è quello del discorso temporale. Mi sono informata il più possibile riguardo ai fatti del 25 agosto del '44, ma non si sa mai; quindi se notate degli errori non esistare a farmeli notare!

Vorrei ringraziare asianoafrica, pandizenzero e Wjnter  per aver aggiunto la storia tra le seguite.

un bacio e alla prossima,
Restart

 
   
 
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