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Autore: Francine    22/07/2016    5 recensioni
Ci sono storie che nascono da sole, mentre tu stai facendo qualcos’altro. Succede all’improvviso: il tuo cervello segue un pensiero e tu ti ritrovi a rincorrerlo come il gabbiano che si alza in volo perché ha visto un pesce guizzare argentino tra le onde del mare.
Ci sono storie che non sono buone per farci il brodo, e dare sapore ad una zuppa già avviata. Storie che stanno bene da sole, sì; ma che se le metti in girotondo con le altre si divertono di più. E splendono di più. Come un giro di perle al collo di una ragazza. Storie che ti vengono in mente voltando le carte sul tavolo. Storie che ho raccolto in questo mazzetto di tarocchi, in maniera casuale, nella speranza di farvi piacere.
 
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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#13 – Decanter
Lama XIV– La Temperanza
Personaggi: Aquarius Camus



 
Le guglie della chiesa di Saint Jean-Baptiste si stagliano aguzze contro il cielo come a voler punzecchiare le chiappe delle nuvole, o un bel palloncino rosso, di quelli che le bambine portano legato al polso, e che i fratellini godono nel farli esplodere. Possibilmente, con un gran bel botto, uno di quelli che fanno BOOM, lasciando assordati i presenti.
Maman Louise è già alla finestra, ad osservare Belleville stropicciarsi gli occhi e poi riprendersi dai bagordi della Festa Nazionale. La sigaretta, la prima di una lunga serie, accesa nel bocchino di bachelite d’ordinanza, è a metà corsa.
«Buongiorno, tesoro. Dormito bene?», ti chiede, scrollando la cenere nel vuoto, in una cacofonia di pendagli che le tintinnano dai polsi. «La colazione è pronta.»
«Gli altri?», chiedi, scostando la sedia ed accomodandoti al posto che occupava sempre Rémy.
Maman Louise si stringe nelle spalle.
«Tua madre è andata a messa. Tua sorella e quell’altro sono in giro per la città. Notre Dame, la Conciergerie, le Sacré-Coeur. Il solito giro da piccioncini
Decapiti un croissant. «E tu?»
«Io... Conosco questa città come le mie tasche», ed un altro po’ di cenere cade sui gerani di Madame Cousteau, due piani più in basso, «e la domenica mattina non ricevo, lo sai. Così mi godo il silenzio della mia vecchia casa, quando quella sciroccata di mia sorella se ne sta tranquilla…».
Ti versi il caffè nella tazzinaa. Buono. «Programmi, per oggi?», chiedi.
«Il solito. Un buon pranzo in famiglia, i piatti da lavare, una passeggiata verso le cinque…»
Controlli l’orologio da parete. Le dieci e mezzo. Ed è in quel momento che i tuoi occhi si soffermano sugli stipiti dipinti di bianco, sopra al frigorifero. «Quello?», chiedi.
«Ah», e Maman Louise si stacca dal davanzale e ciabatta fino al tavolo, scosta una sedia e vi si lascia cadere nel tintinnio dei suoi braccialetti. «L’ho fatto fare dai muratori, quando ho affittato l’appartamento qui sotto. Non sapevo dove mettere alcune cose… personali di tua madre e di Rémy.»
La osservi. E ti sembra più piccola che mai. Una statuina, di quelle che si mettono nei presepi. La venditrice di pesci, ma taci, ché se Maman Louise lo sentisse prima ti prenderebbe a padellate sulla testa e poi ti chiederebbe se s’è mai vista una venditrice di pesci di colore.
«Che c’è? Il gatto t’ha mangiato la lingua?»
«Che genere di cose?», chiedi.
Lei sbatte le palpebre, poi si stringe nelle spalle e dice: «Non saprei. Gli scatoloni li ha riempiti tua madre…».
«Hai una scala, da qualche parte?»
 

La domenica ha una sua sacralità anche in un paese laico per costituzione, come la Francia. Anzi. Le tradizioni non hanno una bandiera religiosa, o politica. Civile, forse. Ed era in un’ottica civile che Rémy Arnoul viveva le domeniche. La colazione tutti insieme, la passeggiata a metà mattina, il pranzo, e sonnecchiare tutto il pomeriggio, una lama di luce che filtrava dalle imposte accostate. Ed era del pranzo che s'occupava Rémy, ma non di cucinare, nossignore; lui non andava oltre un uovo al tegamino.  
Così, mentre Maman spignattava ai fornelli e tu l’aiutavi ad apparecchiare la tavola, Rémy si premurava di scegliere il vino. Rosso. Robusto. Corposo. Selezionava la bottiglia giusta dopo aver letto l’etichetta ed osservato il liquido in controluce, attraverso il vetro scuro. Poi la posava sul tavolo, agguantava il cavatappi e faceva saltare il sigillo con un colpo di coltello.
«Il segreto per gustare al meglio il vino rosso è uno solo. Lasciargli prendere aria.»
Quando Rémy parlava di vini assumeva un’aria seria, da professore, che strideva con la sua scanzonata allegria da canaglia in libera uscita.
A Rémy piaceva scherzare. Troppo, forse; ma quando Maman glielo rimproverava – con un’occhiataccia, un finto colpo di tosse o la punta del piede che pestava ritmicamente il pavimento – lui faceva spallucce.
«La vita è troppo breve, no?», le diceva, col suo sorriso sghembo che faceva sciogliere le donne come ghiaccioli lasciati al sole. Ma Maman no, non si lasciava incantare. Lo liquidava con un sospiro, la testa che andava da destra a sinistra, e la questione finiva lì.
Sì, a Rémy piaceva scherzare. Ma sul vino, no. Sul vino diventava serissimo, come un prete durante la quaresima, uno di quelli dallo sguardo arcigno e severo, pronto a minacciarti con una pioggia di fuoco e zolfo, nemmeno la tenesse pronta all’uso nella tasca della tonaca.
«C’è gente, a questo mondo», diceva, una nota di disgusto misto a perplessità a colorargli la voce, «che posa questo splendore in frigorifero!». E poi accarezzava la curva della bottiglia, nemmeno fossero le spalle di una bella donna da consolare.
«Il vino è un amico fedele, ragazzo. Tu non tradire lui e lui non tradirà te.»
E poi metteva in scena la liturgia del vino. La sua. Quella di cui Rémy Arnoul era unico ed indiscusso ministro, nel silenzio del mistero della penombra della cucina.
 

La vernice bianca s’è ingiallita, il legno è gonfio d’umidità – chissà da quant’è che non lo aprono! – e queste ante hanno tutta l’intenzione di restarsene così come sono. Chiuse. La scala a pioli – quella che hai chiesto in prestito a Madame Cousteau, di legno liscio e scivoloso con qualche foro qua e là, ricordo del passaggio di qualche tarlo – è appoggiata contro la parete della cucina, sì, ma non ti offre l’appoggio necessario. Sdrucciola. E hai la certezza che, se continuerai a forzare quelle ante cocciute, finirai a gambe all’aria, magari scassandoti le corna e qualcos’altro. Per non parlare dei rimbrotti di Maman Louise, che, a quel punto, non avrebbe più nessuna remora per sfondarti la testa a colpi di ventaglio. Quello giallo, dalle stecche lunghe e dalla vernice un po’ sbeccata agli angoli, lo stesso che appare nelle sue grosse mani verso metà maggio – giorno più, giorno meno – per tornare nell’armadio verso la fine di settembre; lo stesso che sta tenendo il ritmo dei tuoi sforzi, mentre ancora insisti a forzare quelle dannatissime ante, chiedendoti se, per caso, Maman non le abbia fatte murare, e non ti abbia avvisato per dispetto.
Sbuffi aria dal naso. No, così non va. Forse, se congelassi appena i cardini, potresti farli saltare e via. Ma poi Maman Louise me li farebbe ingoiare, pensi, prima che quei pezzi di ferro abbiano pietà di te e ruotino sul proprio asse, facendo aprire le ante.
«Era ora», quasi esclami, asciugandoti il sudore sulla fronte. Spalanchi le due antine e sbirci dentro. Un mare di scatoloni, di varie forme e dimensioni, che contenevano vari generi alimentari. Riso, frutta, sale, bottiglie di succhi di frutta.
Il soppalco corre lungo tutto il corridoio, ad occhio e croce. E nessuno s’è preso la briga di segnare all’esterno cosa contengano, tutte quelle scatole.
Afferri la prima e te l’avvicini.
«Mi passi un coltello?», chiedi.
«Si può sapere che diamine stai cercando?»
Il ventaglio di Maman Louise viaggia a velocità forsennata, in un ticchettio di stecche di legno sbiadito dal tempo e dall’uso.  Senti i suoi occhi bucarti le gambe e le chiappe mentre, in bilico sulla scala a pioli, te ne stai a rovistare dentro al soppalco, immerso fino alla vita tra vecchi scatoloni e ragnatele abbandonate.
«La mia eredità», rispondi laconico, spostando una cassetta di legno che contiene vecchi giornali e guide dei programmi televisivi. Oggetti personali un corno.
«E la cerchi nella mia cucina?», insiste Maman Louise, sbuffando. I pesanti cerchi che le pendono dalle orecchie, tintinnano.
«Certo che sì», rispondi, scivolando ancora più in fondo, in punta di piedi sui pioli sbeccati della scala. I piedi sdrucciolano e riacquisti l’equilibrio puntellandoti coi gomiti sul fondo del soppalco.
«Attento!»
La voce di Maman Louise è un suono strozzato. Senti le sue dita che corrono a tenerti la scala contro la parete.
«Vedi non spaccarti la testa in casa mia, vuoi?», ribatte. «Che c’è, hai così tanta nostalgia dell’altro mondo che non vedi l’ora di tornarci?»
Esagerata, pensi. Ma te lo tieni per te, ché quella testona sarebbe capace di berciare per tutto il giorno, e sprecare una domenica mattina è un delitto che non intendi commettere. Così scivoli dentro al soppalco, strusciando sul fondo coperto da un velo di calce e polvere. Provi a metterti in ginocchio. Sbatti la testa. Trattieni un’imprecazione tra i denti.
«Tutto bene?»
«Stavo meglio prima», ribatti, massaggiandoti la testa e tornando ad accovacciarti.
La senti borbottare, dabbasso, chiedendosi se, per caso, tu non abbia perso un venerdì, andando e venendo dal regno dei morti. Eppure, sei sano di mente. Sanissimo. Più che mai. E se sei salito sul soppalco della cucina di Maman Louise non l’hai fatto per movimentare la mattinata, ma perché stai cercando qualcosa che apparteneva a Rémy. E che ti sarà di fondamentale importanza per risolvere la rogna che ti aspetta, nel dopo pranzo. Una rogna alta un metro e ottantacinque e che pesa quasi novanta chili, ti dici, spostando l’ennesimo scatolone ed allungando le dita per continuare la tua personalissima ricerca.
 

Il decanter e la caraffa erano un regalo di Maman. Glieli aveva comperati per Natale, trascinandoti per gli scaffali di Le Printemps e controllando quasi ad ogni passo che la tua mano non lasciasse mai le sue dita. La commessa aveva impacchettato il set controvoglia, ma a Maman era piaciuto lo stesso, ché lei non era mai stata brava, in quelle cose. Così, eravate tornati a casa un po’ più poveri, dopo una camminata lungo Rue de la Fayette fino all'incrocio con Boulevard di Belleville, per risparmiare i soldi del biglietto della metro, immaginando la faccia che avrebbe fatto Rémy scartando quel pacchetto.
Il regalo dalla coccarda rossa era rimasto ad aspettare paziente sul fondo dell'armadio fino a quando Rémy s’era affacciato alla porta una domenica mattina di marzo, con un sorriso sghembo ed un mazzo di fiori di campo dall’aria più stazzonata del suo impermeabile.
Maman gli aveva gettato le braccia al collo, se l’era stretto forte, fino quasi a soffocarlo, ed erano rimasti abbracciati sulla soglia, fino a quando lei non aveva smesso di piangere.
«Ancora un po’ e te lo davo a Pasqua!», aveva protestato lei, tirando su col naso e nascondendo un fazzoletto nella tasca del grembiale.
Lui aveva scartato la carta, gettato via la coccarda rossa ed era rimasto senza fiato trovandosi la valigetta di finta pelle nera. «Ma quanto t’è costato?», le avevano chiesto i suoi occhi.
Lei aveva sorriso, piegando la testa di lato. «Etienne mi ha aiutato a scegliere», aveva aggiunto, e Rémy vi aveva abbracciato, tutti e due, tenendovi stretti al suo petto. E tu avevi aspirato il suo aroma. Tabacco e cuoio vissuto. E il profumo del dopobarba che ancora aleggiava sulla barba di qualche giorno.
Rémy lo chiamava il suo tesoro. E nessuno, tranne lui, era autorizzato a maneggiarli. Lui li toglieva dalla scatola, lui li lavava, li asciugava e li lasciava in attesa, a testa all’ingiù su di uno strofinaccio pulito steso sul tavolo.
Poi era il turno del vino.
Via il sigillo, l’uncino del cavatappi bucava il sughero e si avvitava sempre più a fondo, fino alla fine della corsa. La ballerina alzava le braccia sopra alla testa e Rémy ti lanciava uno sguardo complice, assieme al suo sorriso sghembo.
«Ci siamo!», dicevano le sue sopracciglia, arcuate verso l’alto. Poi abbassava di colpo le braccia del cavatappi e il sughero veniva via, con uno SBOPP stizzito.
Rémy annusava il tappo, arricciava il naso e te lo passava.
«Fai attenzione», ti diceva, prendendo una salvietta pulita e versando il vino nel decanter. Puliva il collo, posava la bottiglia su un piatto e si sedeva ad osservare il vino, come se in quel liquido rosso fossero custoditi chissà quali e chissà quanti segreti.
«E adesso?», chiedevi, il cavatappi tenuto con tutte e due le mani, gli occhi fissi sulle bollicine che increspavano il pelo del vino.
«Aspettiamo», rispondeva Rémy, un gomito sullo schienale della sedia e le gambe accavallate, mentre l’orologio sbucciava i minuti, l’arrosto si cuoceva nel forno e fuori Parigi si preparava a gustare il pranzo della domenica.

 
Strisci più a fondo. Sposti un paio di scatoloni, e poi la vedi. La valigetta in finta pelle nera dalle chiusure dorate. Sorridi. Eccola, ti dici, allungando le dita fino a sfiorarla. Non ci arrivi. Ti dai una spinta, e senti la scala scivolare all’indietro, e afferri la valigetta proprio mentre senti Maman Louise gridare.
Oddio!, pensi, temendo le sia caduta la scala in testa. Stringi la valigetta e strisci all’indietro, i piedi che sgambettano nel vuoto.
«Maman!», chiami. «Maman, tutto bene?!»
«Sta bene, sta bene.» Milo. Sospiri. Fortuna che c’era lui, pensi. Ma poi ti chiedi che ore si siano fatte. «Si può sapere che stai facendo, appeso lassù?», ti senti chiedere.
«Appoggia la scala al muro, ché scendo.»
Senti un po’ di tramestio, il rumore del legno che si posa contro la parete e poi qualcuno che sale sui pioli.
«Che stai facendo?», ripete Milo, alle tue spalle – o dovremmo dire meglio: alle tue chiappe. Ti volti, come un lombrico che si contorce per rientrare nella terra umida e gli lanci uno sguardo da sopra la spalla.
«Ho trovato una cosa», e mi sono infarinato come una sogliola. «Adesso scendo, se mi fai spazio…»
Ti regala uno sguardo scettico, poi lo vedi stringersi nelle spalle e sparire oltre il bordo del soppalco. «Ti tengo la scala», ti dice. E tu strisci all’indietro, sicuro che le sue dita afferreranno la tua caviglia e l’accompagneranno sui pioli della scala.
Quando scendi, trovi quattro facce incredule – tua madre, Maman Louise, Milo, Coco – che ti osservano come se ti fosse spuntata una seconda testa.
«Cosa stavi…», facendo? Ma Maman non termina la sua domanda. I suoi occhi sono scesi ad osservare il pacchetto che stringi tra le braccia. Riconoscendolo.
«Oh», dice, e allunga le mani verso di te. Le affidi la valigetta e lei la maneggia con cura. Nemmeno fosse un neonato da cullare. «Quanto tempo. Occorrerà dargli una bella lavata, prima di usarlo, no?»
«E ne servirà una anche a me», dici, spolverandoti la polvere dalle ginocchia.
«E alla mia cucina chi ci pensa?», borbotta Maman Louise, la sigaretta accesa e il ventaglio che indica, in ordine: il muro sporco, il pavimento impolverato e la tavola ancora da sparecchiare.
Solidarietà maschile. La cerchi nello sguardo di Milo, ma tutto quello che ottieni è un sorriso sornione, quello di chi non ti aiuterà a venire fuori dai pasticci in cui sei finito, nossignore; e che anzi, si divertirà un mondo a vederti annaspare, prima che il fango si richiuda sopra la tua testa e le tue dita scompaiano sotto il limaccio puzzolente.
Bastardo, dardeggiano i tuoi occhi. E poi vedi una luce, nello sguardo di Milo. Una luce che significa guai.
«L’aiutiamo noi, signora», dice, l’azzurro oltremare che fa cadere le donne a terra come pere mature – Maman Louise inclusa – che splende sotto le ciglia nere. Me ne devi una, ti dice il suo sguardo.
«Figuriamoci. Tu non sapresti nemmeno da che parte incominciare, ragazzotto», ribatte Maman Louise. «Riporta la scala a quella rompiscatole di Madame Cousteau, fammi il piacere. E tu, fila a lavarti, ché si pranza tra poco.»

 
Da dove cominci a raccontare una crisi?
Dall’inizio, come per tutte le cose. Ma è questo il punto. Trovare l’inizio, il bandolo della proverbiale matassa. E una volta che l’hai trovato, che ci fai con quel pezzo di filo? Tiri? Ma non rischi di stringere ancora di più il groviglio che ti ritrovi tra le mani? E allora, che fai? Lasci perdere? Ma allora quell’accozzaglia di lana azzurra non avrà soluzione.
Quindi, tornando indietro di un passo: da dove cominci a raccontare una crisi?
E che cos’è una crisi, dopo tutto?
Una piegolina, un’increspatura nel mare della vita. Senza, non si può navigare, ché sono le crisi a dare sale alla vita. Ed è buffo, a pensarci, ché quando il nostro orizzonte è una calma piatta ed irreale, ci annoiamo. Vogliamo qualcosa. Delle novità. E allora, le aspettiamo. E allora, le cerchiamo. Perché sono belle, le novità. Danno la scossa ad un’esistenza piatta, allontanano la monotonia con un goccio di brio.
Ma le novità hanno un brutto vizio. Non sempre sono piacevoli.
Oh, certo. Noi ce le immaginiamo così, delle ginevrine da sciogliere in punta di lingua, o delle mentine da rigirarci tra i denti, resistendo all’impulso di mordere l’involucro di zucchero. Ovvio. Mica siamo scemi, no?

No, non lo siamo. Siamo solo stupidi, ché uno scemo, poveretto, non ci arriva, no; lo stupido, invece, sa distinguere cos’è bene e cos’è male, ma ha anche lui un brutto vizio: quello di spegnere il cervello, scollegarsi dalla realtà e viverne un’altra su binari paralleli. Che spesso, però, si trovano a collidere con quelli su cui scivola il mondo. E allora è un attimo, e l’increspatura si trasforma nell’onda perfetta che farà colare a picco te e la tua barchetta senza tante cerimonie, prima di tornare ad essere mare e a luccicare argentea sotto i raggi del sole.
Il bandolo della matassa è stretto tra le tue dita. Non comprendi ancora come usarlo, ma non lo lasci andare. Cosa dovrei farci?, ti chiedi, fissandolo. È quasi sfilacciato, nemmeno fosse stato reciso con un colpo veloce di rasoio. Uno di quelli che usava Rémy per tagliare la corrispondenza. Ma adesso non cincischiare. Bandolo, lui è Etienne, Etienne, lui è Bandolo. Così abbiamo fatto le presentazioni. Ma ancora non sai cosa devi farci, con quel pezzetto di lana azzurra. Né, a dirla tutta, hai ben chiaro cosa devi farne di quel groviglio che Athena insiste a chiamare matassa, e che ti ha messo in mano, sorridendo, prima di riportarti di qua.

Forse dovrei chiedere a lei, pensi, nel canto ossessivo delle cicale. Ma qualcosa ti dice che, fino a quando non avrai le idee chiare sul destino di quel bandolo, neppure Athena potrà aiutarti. E che non avrai tempo ulteriore per traccheggiare, perché la vita è così: noi seguiamo i suoi ritmi, non il contrario. E le dita di Milo stanno tamburellando sul tavolo con una cadenza sempre più ritmata. Tocca a te, dare la stura alla merda che ti sei portato nel cuore. Glielo hai promesso. Tanto tempo fa, durante una giornata infernale che s’è infranta sul Santuario come un’onda di tsunami arrabbiata. E le promesse si onorano. Sempre. Non appena se ne ha la possibilità. E da quanto tempo è, che sei tornato?
Due mesi e mezzo, pensate, tu e lui. E sapete entrambi che fino a quando quel vuoto non sarà colmato – fino a quando tu non colmerai il vuoto che vi divide – non potrete voltare pagina e andare avanti.
Due mesi. Ho perso due mesi, ti dici, specchiandoti nel tuo riflesso distorto, sulla superficie panciuta del decanter. Ti alzi, gli occhi di Milo fissi sulla tua schiena. Afferri una bottiglia di vino. Rosso. Fai saltare via il sigillo, la stappi – e produce un SBOPP sonoro e stizzito – e afferri il decanter e vi versi il vino. Piano piano. Facendolo scivolare lungo il vetro come faceva Rémy, tanti anni prima. Posi decanter e bottiglia, afferri due bicchieri e ti accomodi davanti a Milo.
«Ancora vino?», ti chiede, la testa da una lato.
«Che c’è, hai paura di non reggere?», domandi, un sorriso sornione sulle labbra.
«Io?», e Milo posa entrambi i gomiti sul tavolo.
«Non sono io, quello che si lamenta…»
«E chi si lamenta?», ribatte. «Dico solo che mi hai fatto aspettare anche troppo, non credi? Quando hanno detto che sarebbero rientrate, le donne?»
«Le sei, sei e qualcosa. Quindi torneranno mezz’ora prima. Per vedere se non ci siamo saltati al collo a vicenda e non abbiamo buttato giù il palazzo.»
«Ho promesso a tua sorella che non ti avrei torto un capello», ribatte Milo, mostrandoti i palmi delle mani.
«Ma io no», sibili. Ghignando. E lo sguardo di Milo si allarga. Panico. Ci salteremo davvero al collo? Di nuovo?!, chiedono i suoi occhi. «Ma non preoccuparti. Ci sposteremo altrove, se necessario. Sul balconcino, per le scale che portano al tetto, per strada. N’importe ou. Parleremo fino a farci scoppiare i polmoni, se necessario. Promesso», dici.
«Ok…», ribatte Milo. «Sono tutto orecchie. Dall’inizio. Voglio sentire la tua versione.»
«Ok. Dall’inizio.» Annuisci. Versi il vino. E cominci a raccontare. «Un giorno mi chiamò il Sacerdote…»
 
   
 
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