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– SE TELEFONANDO
“Pronto?”
rispose la voce
femminile dall’altra parte del telefono.
Ecco. Lo
sapevo. Perché non
risponde mai lui, al telefono e risponde solo
quell’antipatica di Antonella,
sua sorella? Anche se aveva due anni meno di me, Giuseppe, a quel tempo
poteva
oltre ogni dubbio considerarsi il mio miglior amico. Nati nello stesso
mese,
Agosto, io 1 anno 11 mesi e 20 giorni prima di lui. Lui esattamente 1
anno 11
mesi e 20 giorni dopo di me, se preferite. Ma quando scendevo a
Policoro, già
da qualche anno a quella parte, la differenza di età si era
ridotta. Almeno in
rapporto alle nostre età. Giuseppe poteva considerarsi a
tutti gli effetti un
vero amico.
Potevamo,
almeno sportivamente
e scolasticamente considerarci complementari. Lui scolasticamente
preparato, ma
meno di me. Io sportivamente goffo, molto più di lui.
Diciamo che quello che
non vincevo mai contro di lui a calcio, me lo riprendevo a dama. Anche
perché,
nei pomeriggi che passavamo insieme, a casa mia o a casa sua,
purché al fresco,
di più non lo si usava il cervello.
L’anno
seguente lui avrebbe
dovuto incominciare la seconda superiore. Liceo scientifico. Io
già me la
cavavo più che bene all’Istituto Tecnico
Industriale del paese in cui vivevo.
Però guai, d’estate, a parlare di scuola. A meno
di non fare i compiti insieme,
ognuno per conto suo, ma nella stessa camera, per riuscire ad essere
pronti a
giocare alla play station subito dopo aver finito la “razione
quotidiana” di
studio che ci costringevano ad assumere.
La
sorella, invece, ha cinque
anni più di me. È antipatica, ma antipatica, che,
come avrebbe detto un comico
dei miei tempi, se si fosse messa allo specchio, l’immagine
riflessa gli
avrebbe sputato pure lei in un occhio. Almeno così la
pensava la parte bambina
della mia mente fino a quel momento. In realtà era una
ragazza ventenne come
tutte le altre, che, forse, se la tirava un po’ troppo, ma
neanche più di
tanto. Fatto sta che avrei preferito cento volte che mi rispondesse la
madre di
Giuseppe, piuttosto che la sorella. E infatti avrei dovuto capirlo
subito che
quella non sarebbe stata una bella telefonata. Più
imbarazzato che altro,
quindi, risposi.
“Ciao
Antonella! Sono Simone!
C’è Giuseppe?” risposi.
“Ciao
Simone! Si è qui! Te lo
passo!”
Sentii il
telefono appoggiarsi
sul mobiletto. Pochi secondi dopo Giuseppe era al telefono.
“Ciao!
Come va?”
“Ciao!
Che vuoi?”
“Niente!
Volevo
solo sentire come stavi, dirti che arrivo dopodomani e
salutarti!”
“Ah!
Vabbè, se
hai finito, che adesso ho da fare?!”
“Ah!
Ciao!”
“Ciao”
Il tono,
persistente e ritmato, che fuoriuscì dal telefono per
qualche altro secondo, mi
fece capire che dall’altra parte avevano attaccato.
Non so se
vi è mai capitato di
avere una conversazione del genere con un vostro amico. Ecco, non ve lo
auguro.
Quel profondo senso di frustrazione, mista a sbalordimento e rabbia che
si
prova era, a quel tempo, una prova a cui l’amicizia doveva
sottostare. Ma pur
sempre una prova.
Il
problema non stava tanto
nelle cose che mi aveva detto. Capitava anche di trattarci peggio di
così. Ma
sempre per scherzo. Era il tono che mi lasciava interdetto. Giuseppe
era molto
più gentile e solare di me. Praticamente mai
l’avevo sentito di malumore. E
anche quelle poche volte in cui sapevamo che aveva litigato con
qualcuno, con
noi si era sempre comportato egregiamente. Praticamente con noi non si
era
comportato mai così.
Mai.
Tranne una
volta.
Questo
ricordo, di quell’ultima
volta in cui si era comportato così con noi,
però, fece aumentare la
preoccupazione invece che guarirla.
Ma
procediamo con ordine.
Prima di
tutto è doveroso
spiegarvi chi intendo quando uso il “noi”. E potete
stare certi che, ogni volta
che a Policoro userò il “noi”, mi
starò riferendo a noi quattro. Io, Giuseppe,
e gli altri due.
Circa
cinque anni prima che
tutte queste cose entrassero nella mia vita, nella via dove abitava
Giuseppe si
era spostata un’altra famiglia. Marito, moglie e due figli,
Francesco e
Emanuele. Emanuele aveva un anno meno di me e Francesco un anno in meno
di
Giuseppe. Non fu subito amicizia, ma quasi. Nel corso di una memorabile
partita
a nascondino (avevo 9 anni) fu assolutamente chiaro che saremmo
diventati
amici. Veri amici.
E le cose
andarono esattamente
così. Con Francesco e Emanuele si creò
l’amicizia. E da quel momento in poi,
noi quattro divenimmo inseparabili, come era accaduto fino a quel
momento tra
me e Giuseppe. Con ciascuno degli altri tre, ognuno di noi, si sentiva
di
parlare di qualunque cosa. Durante l’inverno io e Giuseppe, a
cui si
aggiungevano in conoscenza gli altri due, ci scrivevamo con cadenza
settimanale. Durante l’estate, poi, dal pomeriggio fino alla
sera tardi, a
parte una piccola pausa per cenare, stavamo sempre insieme.
Al mattino
no, semplicemente
perché forze e potenze superiori ci spingevano ad andare al
mare in lidi
diversi. Con “forze e potenze superiori” mi
riferisco a genitori e nonni. E non
riuscivamo a vederci. Anche se quell’anno avevamo deciso di
provare a chiedere
a questi ultimi di incominciare ad andare al mare da soli.
E
già il fatto che Giuseppe
avesse risposto dopo pochissimi secondi al telefono, mi fece pensare.
Di
solito, a quell’ora, Giuseppe era in giro con Francesco e
Emanuele. O al
massimo sotto casa a chiacchierare o a fare una partitella a calcio. Ma
di
certo, alle 19 della sera, Giuseppe poteva essere ovunque tranne che a
casa.
Invece aveva, come dire, risposto troppo presto per essere normale.
E poi
c’è il ricordo.
L’anno
precedente, avevo appena
finito di mangiare e ero in casa, aspettando di sentire qualche voce
che mi
facesse capire che anche i miei amici avevano finito di mangiare.
Sentii il
portone di casa di Giuseppe che si apriva e richiudeva dietro di lui.
Uscii e
corsi nell’altra strada. Avevo appena girato
l’angolo, quando mi accorsi della
situazione. C’erano Amaraldo e Dorian che stavano
importunando Giuseppe. Lo
stavano strattonando, sfruttando la superiorità numerica.
Accortomi della
situazione corsi fin giù e spostai di peso il primo,
mettendo
contemporaneamente in fuga il secondo. Anche Amaraldo se ne
andò, preso alla
sprovvista dal mio arrivo. Rimanemmo da soli io e Giuseppe.
“Che
cosa volevano da te?” gli
chiesi.
“E
a te che te ne importa?” mi
disse, guardandomi con uno sguardo che non avrei mai dimenticato.
Trapelava solo
il profondo e sincero desiderio di proteggermi da quella situazione. Io
fui
colto alla sprovvista da quella reazione e mi fermai cercando di
cambiare
discorso. Dopo una mezz’ora di malumore, fu lui stesso a
chiedermi scusa. Però
quell’avvenimento mi rimase impresso.
Amaraldo e
Dorian erano due
fratelli di origine albanese, nati e cresciuti a Policoro. erano
coetanei
rispettivamente di Emanuele e Francesco e di solito bazzicavano le vie
vicino a
dove abitavano con una terza persona, Salvatore, un altro ragazzino,
coetaneo
di Giuseppe. Da due anni Amaraldo, Dorian e Salvatore avevano
incominciato a
prenderci in giro e stuzzicarci, quasi nel tentativo di farci fare a
botte con
loro. Senza mai riuscirci, ma andandoci spesso molto vicini.
Dall’estate del
’97 si era unito a loro anche un altro ragazzo. Michele.
Michele,
mio coetaneo, fino a
quel momento il mio miglior amico. Poi, pochi giorni di comportamento
“strano”,
una furiosa litigata e non aveva mai più voluto avere
qualcosa di buono a che
fare con noi. La prima volta in cui avevo perso un’amicizia
in modo così
strano. La prima volta in cui l’avevamo persa tutti la sua
amicizia. Da cinque,
gli inseparabili passarono a 4.
Uno si era
separato.
E da quel
momento fu una lotta
alla pari. Quattro contro quattro.
C’è
da dire che correva una
profonda differenza tra Noi e Loro.
Eravamo
coetanei e più o meno
forti nella stessa maniera. Ma loro erano una banda. Avevano come capo
indiscusso Michele che, essendo il più grande, aveva preso
facilmente il
controllo della situazione. E avevano un obiettivo, osteggiare
qualunque nostro
tentativo di vivere una vacanza tranquilla. Almeno così
credevamo.
Noi
quattro eravamo amici.
Questo eliminava qualsiasi capo indiscusso; il fatto che fossi il
più grande
era solo il motivo per cui davano più peso alle mie parole,
ma non mi ero mai
permesso di dare degli ordini a chicchessia, e nessuno aveva mai
accettato di
fare quello che diceva qualcun altro in virtù di un vincolo
di ubbidienza. Mai.
E mai sarebbe accaduta una cosa simile.
Il motivo
per cui vi sto
raccontando tutte queste cose, dovreste averlo già
immaginato. Nel preciso
istante in cui uscii dall’ipnosi scaturita dal tono
persistente e ritmato che
fuoriusciva dal telefono non appena Giuseppe me lo sbatté in
faccia, capii
immediatamente che era successo qualcosa di abbastanza serio, ma che
aveva
avuto, inevitabilmente, origine da parte di Michele, Amaraldo, Dorian e
Salvatore. Ne avrei saputo di più una quarantina di ore
dopo, una volta
arrivato a Policoro, ma le cose stavano sicuramente così.
Ed
ovviamente,
dopo una mezz’oretta, mi arrivò proprio il
messaggio che tanto aspettavo, da
Giuseppe: “CIAO SMN.SCS X 1a MA QI C’è
QLK PROB.VORREI KE NON SCENDESSI
ADESSO,MA SO KE NN PSS IMPEDIRLO.BN VGG. CIAOCIAO” (Ciao
Simone. Scusa per
prima ma qui c’è qualche problema. Vorrei che non
scendessi adesso, ma so che
non posso impedirlo. Buon viaggio. Ciao ciao).
Il vero problema era che questo, unito a tutte le emozioni di quell’ultimo giorno di scuola, invece di farmi passare la voglia di scendere, me l’accrebbero enormemente. E quelle altre 24’ore passarono molto lentamente.
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NdA : Secondo capitolo. grazie a chi ha letto il primo, chi ha recensito il primo, chi ha aggiunto il primo alle storie seguite. Fatemi sapere cosa pensate anche di questo.
GRAZIE!!