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Autore: Nemamiah    29/07/2016    2 recensioni
L'amore è un viaggio che inizia un giorno e finisce un'altro. e in mezzo ci passa una vita. Ma se l'amore durasse all'infinito, allora non potremmo affermare con certezza che non moriremmo mai?
In fondo, se ci pensiamo, il sangue dell'amore non ha il sapore dolce del miele, anche quando ci fa soffrire?
Gli angeli, di questa sofferenza, ne sanno qualcosa.
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Nero come il bianco - Raccolta'
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Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported. Metatron
Aveva caviglie sottili.

Era la prima cosa che aveva notato di lei mentre tornava al bancone dopo avergli servito una tazza di caffé bollente e una fetta di torta alle nocciole. Uomini diversi avrebbero posato il loro sguardo su altre parti del corpo, ma lui non era un uomo come tutti gli altri, e allora le caviglie.
Portava anche delle belle scarpe, alla moda, di un azzurro pastello in tinta con il vestito che indossava una volta tolta la divisa da cameriera. O meglio, l'aveva vista con quel vestito, stretto un vita da un cinturino marrone sottilissimo, in una sola occasione, ma era davvero bellissima.

Gli aveva servito una tazza di caffè e una fetta di torta al cacao due anni prima, in una fredda mattinata di Dicembre in cui aveva ardentemente desiderato di dimenticare il ghiaccio su cui era scivolato appena uscito di casa, e quelle caviglie gli erano così piaciute che era tornato giorno dopo giorno, associandole ad un candido viso sempre sorridente e con una calma tale da tranquillizzare anche la persona più agitata e frettolosa.

Per giorni si erano scambiati occhiate curiose, poi non aveva più potuto rifugiarsi in quel locale a causa del lavoro.

Si erano incontrati così, per caso, una domenica al supermercato. Lei lo aveva riconosciuto per prima e, sfacciatamente, gli aveva chiesto se lo avesse offeso dato che non aveva più frequentato il locale. Non le aveva risposto subito, sopreso che lei si ricordasse così bene di lui.
Finita la spesa l'aveva accompagnata in casa, riparandola dalla pioggia con il suo ombrello grigio fumo.
Avevano cambiato routine: prima si erano osservati come cliente e cameriera; adesso camminavano insieme, parlando e raccontandosi le reciproche esistenze.
Aveva scoperto molto. Era giovane, laureata in Lettere Antiche a pieni voti, ma lavorava al locale per aiutare la zia con cui era cresciuta; non era ricca, ma possedeva abbastanza per poter vivere da sola coccolandosi qualora lo desiderasse; aveva molte amiche, ma tutte si erano trasferite in altre città per il lavoro o il matrimonio e si tenevano in contatto tramite lettere e rare telefonate. Poi c'erano i dettagli interessanti, quelli che conosceva solo lui: amava dormire con i calzini per non sentire freddo ai piedi durante la notte; ascoltava musica di tutti i generi con un vecchio giradischi e i 45 giri, seduta comodamente sulla poltrona con le gambe su uno dei braccioli; le spezie nella dispensa erano ordinate secondo l'ordine alfabetico e ogni giorno aveva un bicchiere speciale da usare. La domenica mattina beveva il caffé amaro e poi andava a cantare nel coro gospel della chiesa del quartiere.
Aveva imparato tutto di lei, ogni suo dettaglio, anche insignificante, eppure lui non si era esposto.
Aveva raccontato le linee generali della propria vita, pochi dettagli che non gli appartenevano, inventati sul momento per dirle qualcosa. Lei si era sempre accontentata, annuendo con la testa e proseguendo a camminare al suo fianco, a braccetto, stringendolo appena. Erano storie credibili, ma non aveva dubbi sul fatto che lei sapesse che mentiva.

Una volta l'aveva invitata a cena. Un locale piccolo, illuminato con lampade di carta a forma di stella, cucina italiana. Aveva realizzato solo una volta seduto a tavola, lei al suo fianco, quanto il luogo fosse incredibilmente romantico e quanto lei sembrasse incredibilmente felice di trovarsi lì. Aveva sorriso e l'aveva chiamata con il suo nome, Anita, per la prima volta, sentendo un calore dolce nello stomaco.
Così anche le cene erano divenute una routine: tutte le settimane, una volta alla settimana, l'accompagnava a casa finita la spesa, aspettava nell'androne della palazzina che lei si preparasse e dopo si allontavano insieme, sempre a braccetto.

Erano passati secoli, letteralmente, dall'ultima volta in cui si era concesso il lusso di una compagnia femminile, nonostante l'avesse più volte desiderato, negandosi sempre la soddisfazione. Non riusciva a separarsi da quella ragazza: alcune sere cercava di costringersi ad andare via mentre l'aspettava ma falliva ogni tentativo, offrendole il braccio non appena arrivava come se il suo animo non fosse stato in guerra con se stesso.
C'era tranquillità nel loro rapporto, un tacito accordo per rispettare l'uno le necessità e i tempi dell'altro; c'erano sguardi che scavavano più delle domande che si rivolgevano  e ogni tanto credeva che lei sapesse molto più di quanto desse a vedere. C'era lei che faceva scomparire i millenni che pesavano sulle sue spalle solo sfiorandogli per caso la mano e lui che, come si era reso conto all'improvviso, dipendeva dalla sua presenza.
Aveva deciso di corteggiarla seriamente la prima volta che si erano presi per mano, spontaneamente, in una sera primaverile particolarmente ventosa. Aveva iniziato con piccoli regali: una spilla, un libro, dei fiori. Lei li aveva adorati, elargendogli sorrisi generosi. Alcune volte, rare, aveva visto lo spavento nei suoi occhi, il lampo di un secondo, quando faceva apparire i fiori con la magia affinchè fossero freschi e lei sapeva che ci fosse qualcosa di sbagliato ma non capiva.
Ricordava con particolare calore la questione delle rose: non era stagione, ma lui le aveva fatte comparire dal nulla.
«Sai perché le rose hanno le spine?» Gli aveva chiesto ridendo. Lui aveva risposto di no, incuriosito da quello che avrebbe detto.
«Perchè l'amore punge le nostre esistenze: qualche volta è inaspettato e ci fa sanguinare, ma il sangue ha il sapore del miele.»
L'aveva baciata e lei aveva risposto al suo bacio, stringendosi a lui.
Poi gli aveva chiesto da dove arrivassero quelle rose, e aveva rovinato tutto.
Non le aveva mai confessato il suo vero nome, preferendo che lo chiamasse con un banale Luke, senza il cognome; le aveva detto di avere un lavoro, ma non quale. Tutto ciò che lui era veramente era stato omesso, o credeva lei sarebbe scappata via.
Avevano litigato furiosamente e lei aveva tirato fuori tutte le domande che si era posta in quei sei mesi di conoscenza, e lui non le aveva risposto. L'aveva cacciato da casa sua, dicendogli di non volerlo rivedere mai più nella sua vita.

Erano passate settimane in cui lui era rimasto ogni pomeriggio davanti al portone della palazzina, sul marciapiede opposto: la guardava uscire ed entrare, fermarsi a chiacchierare con la postina per qualche minuto, accarezzare il cane bianco della vicina. Era stato sotto la pioggia ad osservarla, sotto il sole ed esposto al vento. Le aveva lasciato un biglietto con il suo vero nome nella cassetta della posta, sperando che capisse.
Una sera gli si era avvicinata: «Metatron, eh? Avresti potuto dirlo fin da subito. Sei una buona persona, rara da trovare, non sarei scappata via urlando.»
L'aveva preso per mano e l'aveva portato nella sua camera, ordinandogli di raccontarle tutto dal principio e così aveva fatto.
«Io sono immortale, come posso costringerti a vivere a fianco a me...»
«La domanda sarebbe come posso farlo io. Sarai tu a vedermi morire. Io avrò vissuto una vita piena e meravigliosa con l'angelo che amo e la natura mi obbligherà ad abbandonarti.»
«Il sangue ha il sapore del miele, no?»
Aveva sorriso e l'aveva baciato. Gli aveva accarezzato le ali. Avevano fatto l'amore.

Avevano vissuto i mesi successivi come uno splendido idillio. Si era sposati e trasferiti in una città più grande: lei insegnava in una scuola, lui badava alla casa.
Quando gli aveva annunciato che aspettavano una figlia si era spaventato, pensando alle possibili conseguenze con altri angeli caduti, ma alla fine la gioia del momento aveva eclissato ogni preoccupazione.

Poi si era ritrovato in una stanza d'ospedale, appoggiato alla spalla di Raziel, a sentire il suono continuo di un cuore ormai fermo mentre Lucifero cullava la bambina appena nata, salva per miracolo, canticchiando vecchie nenie.
La sua bambina meravigliosa, identica alla mamma, che aveva chiamato Astrid e che, senza nemmeno saperlo, era diventata l'unica donna che avrebbe ancora amato nella sua infinita vita.



Coro dell'autrice

Se siete arrivati fino a qua, ne sono immensamente felice e spero che questa minuscola storia vi sia piaciuta, anche se ha solo mezzo lieto fine.
Questo piccolo racconto deriva dalla storia più grande cui sto lavorando, e che un giorno finirò, dove ho inventato una storia tutta mia sui vari angeli e arcangeli esistenti: chiamiamo questa one-shot uno spin-off appena appena accennato. Mi auguro di pubblicarne altri, anche se temo rimarrano decontestualizzati, in quanto per il momento non ho intenzione di pubblicare la storia originale.
Per i meno esperti della religione, Metatron e Raziel sono due Arcangeli del Paradiso, forse un po' meno famosi dei classici Gabriele e Michele, ma sicuramente tra quelli che amo di più, essendomi documentata un po' sulle loro caratteristiche. Lucifero immagino tutti sappiano chi sia, non c'è bisogno di introdurlo né spiegarlo, anche se pure lui è introdotto sempre secondo la mia personale idea creativa. Astrid è invece un nome che amo da sempre e il suo significato è "Amata da Dio". L'ho trovato molto bello, forse anche appropriato.
Come al solito, sono la beta reader di me stessa e spero sia tutto corretto.
Spero vogliate lasciarmi una piccola recensione per farmi sapere il vostro parere, che è sempre ben accolto, sia che sia positivo, sia negativo.
Un saluto a tutti quanti!

Izumi









   
 
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