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Autore: Mary_la scrivistorie    31/07/2016    1 recensioni
Terence Hewitt è un bambino cresciuto in un modo un po’ speciale: erede dei lasciti di un nonno scrittore, ha trascorso una vita tra carta e penna. Da quando il nonno ‒ il suo Mentore ‒ è morto, ha abbandonato questa sua passione per dedicarsi esclusivamente all’Alchimia. C’è qualcuno che però non si trova d’accordo con questa sua reclusione e gli lascia strani messaggi: è un segno del Destino quando cadono lettere dal cielo?
[Prima classificata al contest “C’è posta per te!” indetto da iaia86@; seconda classificata e vincitrice del “Premio Calliope” al contest “[Multifandom & Originali] Lucky Star Contest” indetto da BlackIceCrystal; ha partecipato, inoltre, al contest “E all’interno cosa c’è?” indetto da milla4 sul forum di EFP.]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L e t t e r e   d a l   c i e l o
 

*
 
 
 
Capitolo II - Un messaggio dall’Amore
 
 
Due anni dopo.
 
 
«‘Cause even though you left me here I have nothing left to fear
These are only walls that hold me here
Hold me here, hold me here.
»
 
 *
 
 
Terence scavalcò in tutta fretta il muricciolo che separava casa sua da quella di Beatrix Jordan e si sistemò la giacca trasandata con un cenno nervoso che non avrebbe convinto neanche il suo vecchio prozio Alfred, che era affetto dal morbo di Alzheimer e che non ricordava neppure il proprio nome.  Quanto a lui, avrebbe tanto voluto dimenticare chi era e che cos’aveva appena fatto ‒ ma non poteva. Il sigillo di quel pomeriggio era ben impresso in lui e nella sua immagine.
Aveva le labbra mangiucchiate ed in alcuni punti incredibilmente dolenti e sanguinanti, i capelli dorati ferocemente scarmigliati, i pantaloni spiegazzati e la cintura di cuoio slacciata: bastava fare due più due e perfino il più stolto del pianeta avrebbe intuito qual era stato lo svago di lui e Beatrix quel pomeriggio.
Terence meditò su ciò che aveva appena fatto: aveva ceduto, dopo mesi di strenuo diniego, all’irresistibile sensualità del corpo di Beatrix; aveva optato per un nuovo pegno carnale piuttosto che per il sigillo d’amore che attendeva da tempo immemore; aveva infranto un giuramento mai consolidato ma che riecheggiava nitidamente nei battiti del suo cuore ‒ aveva tradito la sua Musa.
Quando s’era arreso dinnanzi all’avvento del suo istinto animalesco ‒ da sempre seppellito ‒ non avrebbe mai creduto che dopo si sarebbe sentito così male. Oltre gli arroganti esulti in cui si crogiolava il mostro insonne che dimorava nel suo petto ‒ felice di aver assaporato il calore della carne femminile ‒ Terence era attanagliato da un tremendo moto di pentimento. La cosa lo mandava fuori dai gangheri: com’era possibile che Lei, flebile fiamma proveniente da remote memorie, dovesse rovinargli quel poco di felicità che era riuscito ‒ finalmente ‒ a guadagnarsi? Com’era possibile che la sua unica opportunità fosse ridursi ad essere l’ombra di quella fanciullesca infatuazione che gli aveva prosciugato ogni sorriso, ogni scorcio di vita? Il dettaglio che lo faceva svalvolare era però che ogni impeto d’angoscia e di nostalgia sorgeva soltanto per lui, come prevedibile. Lei, intoccabile e mistica com’era stata sempre, probabilmente non rammentava neppure il piccolo Terry che le s’era presentato con tanta foga e sfrontatezza quella mattina di mezz’estate; e al quale aveva replicato con la grazia di un angelo ‒ sceso in terra a miracol mostrare [5] ‒ esaudendo ogni suo giovane desiderio ‒ l’anelito di un sorriso, di un riso, di un altro specchio di sguardi, di quegli occhi tanto sconvolgenti, di Lei ‒ e trattandolo con gentilezza e dedizione.
Terence s’era convinto con il tempo che la dea per cui s’era invaghito non era altro che un demone di tenebra, che aveva preteso di persuaderlo e condurlo sulla via del Male ‒ e che cera quasi riuscito. Negli anni, aveva elaborato una gran varietà di supposizioni in merito alla misteriosa identità della fanciulla, tra cui molte erano esattamente contrapposte e confutabili l’una con l’altra: alla fine aveva rinunciato ad assegnarle un nome ed aveva optato per la decisione più ardua possibile ‒ andare avanti. Aveva dato adito ai consigli del suo mentore ed aveva abbandonato ogni sensazione superflua, isolandosi dalle circostanze terrene e vivendo negli alvei della Scrittura ‒ senza saperlo, Terence ci avrebbe vissuto per tutta la durata della sua vita.
Questo avrebbe dovuto comportare l’espulsione di Lei dal suo cuore, tuttavia non era accaduto. Nessuno seppe mai che il giovane non l’aveva mai dimenticata. Bramava ogni giorno di recarsi in libreria e di rivederla: un angelo divino dedito a danzare tra gli scaffali, circondato da un alone di magia e di malie. Stregava ogni dì il povero bambino, riversando su di lui il mortale potere del suo fascino, accendendo la sua mente d’Ispirazione e animando la sua penna di tutte le parole del mondo. Era allora che l’Arte lo invadeva ed il meccanismo cominciava ad azionarsi: ogni parola di Terence era soggetta ai dettami dell’Amore ed impregnata del suo marchio indelebile. Il giovane non aveva potuto fare a meno d’innamorarsi sempre di più e di sognarla ogni notte della sua infanzia, per quanto poteva: l’entusiasmo di incontrarla di nuovo il giorno dopo non gli permetteva di dormire il più delle volte, tant’era trepidante. All’epoca si diceva giustamente: «Sai di essere innamorato quando non riesci a dormire perché finalmente la realtà è migliore dei tuoi sogni.» [!] Così era accaduto anche per lui: nessun sogno avrebbe potuto rispecchiare i bagliori del suo volto e il suo ineccepibile splendore.
Era ovviamente tutto finito quando suo nonno era scomparso. Neanche il ricordo dell’accecante ossessione per lei aveva potuto rinsavirlo dall’ecatombe che quella notizia aveva provocato in lui. Terence aveva abbandonato la Scrittura e, con lei, la fanciulla che l’aveva Ispirato così a lungo.
Era svanita dal suo mondo ma non dai suoi pensieri, che ancora vertevano pericolosamente su quella cotta adolescenziale mai sigillata.
Anche in quel momento, seppur reduce da un intenso pomeriggio di passione trascorso con Beatrix Jordan, non facevano altro che tormentarlo. Terence avrebbe preferito mille volte concentrarsi sulle emozioni di poco prima, sull’istinto primitivo che l’aveva guidato nella scoperta dei doni di Beatrix e sul tepore di quei baci rubati, mentre si smarriva nella bionda e soffice corona di capelli della sua ragazza e si dimenticava chi fosse e a chi avesse giurato fedeltà ‒ almeno sulla carta.
L’aveva detto: ragazza. Fidanzata, innamorata, amica speciale, compagna, ragazza: erano tutti una moltitudine di epiteti che poteva affibbiarle ma che non le appartenevano totalmente. I mesi trascorsi con lei erano stati magnifici: Terence non s’era sentito mai così felice in vita sua – ma, come ben si sa, l’Amore è una creatura spietata: non si ferma alle apparenze e non s’accontenta di regalare gioia alle sue vittime.
Beatrix era una donna stupenda e Terence non s’azzardava a negare che gli piacesse: sarebbe stato impensabile il contrario, data la sua dirompente personalità e i suoi meravigliosi lineamenti. Quando entrava nella Sede, era come il miele in mezzo alle api: tutti ‒ anche chi la detestava con tutto se stesso ‒ si ritrovava a contemplare impotente la sua camminata sicura e maliziosa.
La verità era che c’era un’altra ad assillare i desideri più reconditi di Terence; e, se l’avesse saputo, Beatrix non gli avrebbe detto di andar incontro alla sua nemesi negli affari di cuore.
Invece gliel’aveva detto e Terence era stato troppo ignobile per non approfittare di quell’occasione d’oro.
Beatrix gli aveva chiesto di andare a prenderle un libro.
 
 
 
 
 
*
 
«[...]That you and I were made for this
I was made to taste your kiss
We were made to never fall away
Never fall away.
»
 
Terence aveva conosciuto Beatrix in uno dei circoli d’Alchimisti che aveva frequentato. Sfrontata, avventata, ribelle: aveva da subito catturato l’attenzione del ragazzo, non in senso positivo. Aveva veramente detestato quella ragazzina impulsiva e capricciosa che sfruttava ogni opportunità per intralciare i progetti del Comitato: forse le piaceva mettersi nei guai o provocare la rabbia altrui; forse credeva davvero nelle sue ipocrite tesi; o forse nutriva risentimento verso i membri del circolo e verso suo padre, che mai la considerava alle riunioni. Sebbene fosse l’ultima ipotesi quella più accreditabile, Terence non comprese mai quale fosse l’origine di tale atteggiamento. Sapeva solo che la odiava a morte e avrebbe preferito mille volte che se ne andasse per sempre dal Circolo.
Beatrix era una ragazza avvenente sotto molti punti di vista: oltre ad essere estremamente intelligente ed accattivante, aveva lunghi capelli biondi che celava al mondo raccogliendoli sotto la nuca, la pelle luminosa ed ambrata che rimarcava le sue origini australiane ed occhi azzurri incredibilmente sfavillanti ‒ la loro sfumatura oceanica gli rammentava, almeno vagamente, la divina e ultraterrena espressività degli occhi di Lei. Probabilmente era stato quello il motivo per cui Terence l’aveva tanto disprezzata a prima vista.
Questa sua repulsione si era dileguata con il trascorrere dei mesi: aveva visto in Beatrix un’anima condannata in partenza ‒ simile alla sua ‒ e aveva smesso di odiarla di punto in bianco quando l’aveva sorpresa a piangere silenziosamente in un corridoio della Sede del Comitato. Allora si era seduto accanto a lei e, senza proferire alcuna parola, l’aveva abbracciata. Terence non conosceva ancora il motivo per cui aveva pianto quel giorno e, assurdamente, non gli importava più di molto.
Avevano iniziato da amici o conoscenti, non lo sapeva ‒ non era bravo a distinguere queste cose ‒, ed erano finiti a baciarsi circa una settimana dopo. L’aveva baciato lei.
Doveva ammettere però che non si era affatto opposto alla cosa: l’aveva stretta a sé, assaporando il tepore della sua pelle attraverso la felpa, e aveva ricambiato, ricorrendo a tutta l’esperienza che aveva ‒ ovvero nessuna. Si era sentito bene, per una volta nella vita. Sembrava che la coltre di nubi che sommergeva il suo presente fosse destinata ad estinguersi contro l’incandescenza del Sole ‒ di quel sole ‒ che lo stava surriscaldando sempre più, regalandogli vibranti squarci di luce.
Di certo il paragone fra Beatrix Jordan ed il Sole era fra i più azzeccati: tutto in lei pareva emanare calore, perfino un broncio o una smorfia di collera. A Terence piaceva chiamarla teneramente “Trix il piccolo Sole” perché era così raggiante in ogni suo aspetto che non avrebbe potuto denominarla diversamente.
Beatrix era bella. Lui apprezzava il colore pallido e vivido dei suoi capelli ‒ diverso dal suo, che era più scuro e corrotto ‒, gli piaceva la sua carnagione uniforme e levigata, amava il blu profondo dei suoi occhi ‒ sebbene gli ricordasse quello di Lei.
Lei. Terence si risvegliò bruscamente dalle sue riflessioni ed osservò cautamente la libreria che si stagliava dinnanzi a lui: i raggi di sole lambivano le vetrate e creavano piccoli arcobaleni tutt’intorno; la gente s’affollava fuori dalla vetrina per ammirare i romanzi in esposizione; riecheggiava il suono frastornante delle grida d’entusiasmo e di sollievo di chi trovava il libro ricercato o di chi aveva appena ricevuto un regalo; in sottofondo era percepibile il fruscio dei passi di chi usciva con dei pacchi in mano ed un sorriso taciturno dipinto sul volto.
A lui parve di sentire il suono di quella canzone di Baglioni che aveva ascoltato nella propria radio tanti anni prima con il nonno Daniel quando si erano recati in quello stesso negozio ‒ quando aveva visto per la prima volta Lei.
Senza più indugiare ‒ attratto dal richiamo di suo nonno e di quello di Lei ‒ si avviò verso l’ingresso, dove esitò appena.
Gli bastò una fugace occhiata per inquadrarla all’interno del negozio: gironzolava sempre attorno allo stesso scaffale, quello dei romanzi di narrativa, ma il suo portamento la faceva somigliare più ad uno spettro angelico che ad una persona in carne ed ossa. Era perfettamente identica a come se la ricordava: il trascorrere degli anni sembrava non averla scalfita, così come il maltempo o l’esperienza di Vita. Indossava tuttavia indumenti differenti dal solito: portava un lungo e candido peplo, ornato da un paio di motivi decorativi a forma di penna o rotoli di carta. Terence non ebbe più alcun dubbio sull’identità della fanciulla.
In quell’attimo, come per magia, Lei si voltò verso di lui: fu una caotica successione di riccioli bronzei, pelle nivea e occhi blu oceano. Il suo viso scintillò etereo fra tutti gli altri, illuminando la sala e Terence d’immensità [6], e lui dimenticò all’istante Beatrix e qualsiasi altro problema. In seguito se ne sarebbe a lungo vergognato, ma era perdutamente smarrito nella contemplazione della sua Musa svanita per anni. Per epoche.
Lei articolò un cenno di saluto con le mani soavi e sfoderò un sorriso abbagliante che gli mozzò il respiro. Gli spiragli di sole colpirono le ciocche ondulate di Lei, facendole rifulgere d’oro splendente, e Terence si lasciò guidare dall’armonia dei riccioli che le danzavano armoniosamente sulle spalle.
Senza accorgersene, la raggiunse con foga e le prese la mano d’alabastro ispezionandola a fondo, carpendone ogni millimetro ed ogni segreto. «Sei qua», gli sfuggì in un bisbiglio, mentre aspirava inebriato l’aroma che proveniva dal suo delizioso collo di cigno.
Lei lo inchiodò con il suo sguardo di zaffiro fino a fargli perdere quel briciolo di lucidità che gli rimaneva: quegli occhi color blu mare avevano la capacità di ammansirlo e stregarlo a suo piacimento ‒ di possederlo. Esibì in un sorriso malinconico e gli sussurrò flebilmente: «Sei tornato. Era ora.»
Terence percepì una fitta lancinante al petto e si sentì come se fosse marchiato dalla dannazione per averla tradita ‒ e non solo nel mondo letterario. Si ritenne uno stupido ad aver anche solo pensato di poterla rimpiazzare con Beatrix: lei era altro, era Luce, era Bene, era l’universo parallelo che lui agognava da tanto, troppo tempo. Era un sogno incastonato a cavallo fra la sua fantasia e la realtà e ciò lo faceva impazzire.
«Mio nonno è morto. Non ero pronto per tornare.», proclamò lui, annunciando la verità sintetizzando in brevi, fatali parole ciò che lui aveva vissuto in quegli anni terribili.
Lei si aprì in una smorfia di sconforto e mormorò mesta: «Daniel ha compiuto un bel viaggio, durante la sua vita. Che riposi in pace.»
Terence era ancora concentrato sui suoi lineamenti fatati quando s’accorse delle parole da Lei pronunciate: gli venne il sospetto che lei avesse conosciuto da vicino ‒ e non solo superficialmente ‒ suo nonno. Tutto ciò non fece altro che accreditare le sue teorie riguardo l’identità di Lei.
Annuì con solennità e contemplò incantato la pelle lattea che sbucava dal suo vestito. Gli era mancato poter volgere gli occhi verso quello scenario così paradisiaco; gli era mancato il fresco aroma della sua pelle così prossima alla sua; gli era mancato scrutare le sue iridi screziate di cristalli cangiare di tutte le sfumature marine che il mondo conosceva. Gli era mancata Lei.
«Ho saputo che hai trovato l’anima gemella. Sarò franca, sono contenta per te, ma non devi permetterti che ciò ti distragga dalla Causa.» Quelle parole, che tanto tempo prima gli sarebbero sembrate dense d’ambiguità, gli parvero invece nitide e chiare.
Come si trattasse di conversare alla pari con una vecchia amica, lui le spiegò: «Ho abbandonato la Scrittura, per sempre. Ormai quella vita non mi appartiene più, è solo un effimero ricordo di un’infanzia spazzata via da una bufera avernale.»
Lei chinò piano gli occhi mentre, con inesorabile lentezza, studiava le propria dita affusolate arcuirsi sotto la contrazione dei muscoli, come se non fosse abituata ai meccanismi del corpo umano. Terence la osservò a lungo ed infine constatò che no, tale bellezza non avrebbe mai potuto essere scambiata per umana: era forse la carnagione rilucente di stelle e altre mille cose belle; o forse gli occhi di sovrumana saggezza che sondavano la Terra come se non fosse nient’altro che una nuova, esaltante sfida e nulla di più; oppure ancora il suo sorriso consapevole, decisamente disumano, per quanto riguardava la figura ed i modi ‒ d’altra epoca ‒; o forse le fattezze del suo volto, incantevoli quanto regali e posate; o ancora le proporzioni del suo corpo armonioso, dalle gambe longilinee all’esile vita fino ad arrivare al seno piuttosto florido e tonico. O forse era l’insieme dei tratti di Lei, che così tanto lo ammaliava e lo conduceva nei fitti labirinti di un’Ispirazione appena recuperata ‒ e che avrebbe dovuto ben presto rifiutare.
«Non posso biasimarti per le tue scelte, Terence. È il tuo cuore che ha il diritto di decidere cosa più gli aggrada. Se non ti senti pronto, non importa. C’è solo un’ultima richiesta che avrei da farti prima di scomparire per l’eternità, se non ti arreca disturbo...». I suoi occhi si piantarono su quelli di lui, supplichevoli ma inconsapevolmente attraenti. Inconsapevolmente proibiti.
Lui emise un sospiro profondo, pensando al fatto che l’avrebbe ben presto persa di nuovo ‒ e per sempre, stavolta ‒ e si sforzò di sorriderle: «Ma certo, dimmi pure.»
Lei esitò giusto un attimo e gli rivolse una preghiera, la più importante di tutte, impregnata del chiarore del giuramento che li aveva uniti durante i loro incontri segreti e macchiata di ineluttabili tracce di Vita: «Non rinunciare, Terence. Mi va bene, non diventare uno scrittore, ma non rinunciare. Come ti è già stato detto, nel mondo non bastano i prodigi: occorrono i geni. Occorrono gli eroi. Puoi esserlo anche tu.»
Il suo tono di voce ‒ una melodia proveniente dai sette mari ‒ si affievolì e si spense, rendendo innaturalmente silenzioso lo spazio vuoto che s’interponeva fra loro due.
Lui, distrutto da quella perpetua richiesta, socchiuse le palpebre e, senza guardarla, la salutò per sempre: «Vedrò cosa potrò fare. Arrivederci, colei che ha una bella voce.»
A Lei scintillarono gli occhi di gioia e malizia: quel sorriso malandrino nei suoi occhi rese indubbia la sua natura ultraterrena. «Per gli amici mi chiamo Calliope.»
Sprazzi di vertigini elettriche troppo caotiche per essere distinte, e la Musa Calliope svanì, regalandogli una carezza in cui il ragazzo scorse l’infinito ‒ e oltre.
 
*
 
 
«One day soon I’ll hold you like the sun holds the moon
And we will hear those planes overhead and we won’t have to be scared
We won’t have to be, we won’t have to be scared.
»
 
Mollare Beatrix si rivelò più complicato del previsto. A Terence non era mai capitato di dover rompere con una ragazza ma di certo non si sarebbe mai aspettato che fosse così tremendo. Era appoggiato al muro, quasi come se gli fungesse da sostegno, e stava osservando con cautela la sagoma slanciata della sua ormai ex fidanzata che camminava avanti ed indietro per il viale. La cosa buffa era che pareva che lei stesse sfogando la sua collera sul libro che lui le aveva appena consegnato, dato che lo martoriava artigliando la rilegatura con le unghie e sbattendolo a sinistra e a manca. Povero Tolstoj: se la sua anima avesse potuto riemergere dai meandri della Sapienza e parlare, ne avrebbe sicuramente cantate quattro a quella ragazza tanto aggressiva e maleducata che lo stava molestando. Anna Karenina fremette nuovamente fra le mani di lei, segno che stava per ricominciare un discorso: Terence si preparò al peggio.
«Cosa sta a significare, “devo andarmene?”». Nonostante il tono gracchiante ed iracondo, era più bella che mai: a braccia conserte, con una canottiera trasparente che lasciava ben poco all’immaginazione e la pelle dorata costellata dai brividi per il freddo ‒ e forse per il terrore che lui se ne andasse.
Lui cercò di reprimere il singulto che gli s’era incastrato in gola e proseguì con la sua interminabile lista di menzogne: «È stato un errore, Beatrix, non dovevamo. Tu non mi piaci ed io non piaccio a te: siamo colleghi e come tali dobbiamo rimanere.»
Lo sguardo diffidente e al contempo colmo d’implorazione che gli lanciò lei lo spiazzò per una manciata di secondi, abbastanza a lungo affinché lei riuscisse a ribaltare le sorti di quel dialogo. «Beh, questo dovevi dirlo prima di fare sesso con me, non dopo. O sei anche tu un adorabile bastardo come la maggior parte dei maschi?», rincarò con determinazione, puntandogli l’indice contro e riversando su di lui chissà quante maledizioni. Chissà quanto era grave la ferita che le aveva inferto al cuore.
Lo scrutò a lungo, indignata, mentre il respiro di lui si faceva sempre più affettato e meno controllato. Meno credibile: non ci crederà mai.
Beatrix doveva essere tanto dura di comprendonio quanto attraente perché ci cascò in pieno. Con un’espressione dapprima affranta e poi piccata, notò seccamente: «Oh. Quindi sei un adorabile bastardo anche tu. Scusami per non averti riconosciuto prima: dovevo essere proprio cieca. Sono solamente un’illusa, ho capito.»
Terence pensò ‒ con un certo spavento, a dire il vero ‒ che avrebbe tanto voluto baciarla e appartenerle, fin quanto poteva. Pensò che forse un giorno in una vita prossima avrebbe avuto la fortuna di avere al proprio fianco una ragazza come Beatrix: per ora, avrebbe dovuto accontentarsi di ricordi, di quei ricordi. Registrò gli scorci più definiti del volto di lei: i suoi capelli biondi e scompigliati dal vento, le labbra corrugate in una smorfia d’odio e d’ira, gli occhi che lampeggiavano minacciosamente sui suoi. Stava esercitando ‒ perfino in quel frangente ‒ su di lui un’incredibile malia ‒ totalmente umana, stavolta.
A dispetto di quei sentimenti inequivocabili, Terence aveva paura di Beatrix e di quella situazione. Forse gli sarebbe saltata addosso per ammazzarlo ‒ o peggio: castrarlo ‒ o picchiarlo; forse si sarebbe accontentata di un calcio; meno probabile di un pugno...Si aspettava comunque una reazione da parte sua, che fosse catastrofica o riduttiva. Era scritto nelle stelle: la personalità esplosiva di lei non poteva permetterle di mettere da parte l’orgoglio e rassegnarsi a quella fine. Era un altro dei tratti che Terence amava di lei: era una combattente nata, che non s’arrendeva dinnanzi agli ostacoli ma li affrontava con coraggio e spavalderia.
Ma lei lo stupì ‒ come faceva ogni volta. Rilassò i muscoli del collo e inarcò le sopracciglia: sembrava piuttosto volersi sciogliere in lacrime. «Vattene, Terence.», sibilò, ma la sua intenzione di apparire distaccata fallì quando le sue parole si spezzarono in una sottospecie di singhiozzo convulso.
Lui, teso come una corda di violino, cercò di osservare il suo volto un’ultima volta ‒ giusto per carpire altri frammenti, altra vita in lei ‒ ma probabilmente doveva essere già in preda alle lacrime e perciò gli sfuggì, voltandosi con un brusco scatto e divincolandosi malamente dalla sua stretta.
L’ultima cosa che Terence Hewitt vide di Beatrix Jordan fu la sua folta chioma ondeggiare prepotentemente sulla schiena mentre era lei, furiosa e addolorata, ad andarsene. Via.
Contemplò ancora per un istante il ritmo inferocito dei suoi passi veloci che la trascinavano via ‒ via da lui, oltre l’orizzonte ‒ con la stessa violenza di un’onda anomala.
Lui tentò di soffocare il rimorso che l’attanagliò subito dopo, trovando consolazione nella promessa che quello scricciolo dai capelli biondi e dagli occhi azzurri sarebbe stata da quel momento in poi la regina segreta dei suoi sogni.
 

 

 
L’Angolo di Mary
Ave, di nuovo! Eccoci al secondo capitolo di questa Mini-long: ho deciso di pubblicare tutto stasera, in modo da togliermi dall’impiccio.
Mi è piaciuto molto il personaggio di Beatrix Jordan e spero di approfondire la sua storia un giorno. Intanto godetevi (?) il capitolo e, se avete voglia e tempo, recensite – sono sempre apprezzati i commenti, perfino le critiche che spronano a migliorare! Ed io riconosco di averne piuttosto bisogno.
Spero che la storia vi piaccia.
Ci vediamo presto con il terzo ed ultimo capitolo! ♥
 
[5] Tratto da “Tanto gentile e tanto onesta pare”, sempre di Dante Alighieri.
[6] Tratto da “Mattino” di Ungaretti (riadattata).
[!] Citazione del Dr. Seuss [prompt del contest].
 
   
 
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