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Autore: Solounaltrarosarossa    01/08/2016    0 recensioni
Al Ministro, ci vediamo sulla Luna.
[...] C’era una volta un ragazzo. Più che un ragazzo era un bambino, sperduto in un paesino che a lui sembrava immenso. Questo bambino era davvero speciale, tanto da non saperlo. Vi chiederete allora perché io non vi dica il suo nome. Non lo so. Quel bambino, semplicemente lo aveva dimenticato, come ci si dimentica di comprare il latte tornando a casa o forse un nome non lo aveva mai avuto. Si diceva che fosse orfano ma lui non lo sapeva, lui non conosceva niente. Era giunto non si sa come in quel piccolo paesino, senza un nome come lui e non aveva niente, neanche sé stesso. Aveva con sé solo il suo destino, anche questo senza un nome e una promessa fatta a chissà chi, chissà quando e chissà perché “ci vediamo sulla Luna” ma lui, la Luna non sapeva cosa fosse. [...]
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Camilla vide sua madre piangere, e non sapeva se quelle fossero lacrime di gioia o di dolore, non che Alice sapesse dirlo con certezza.
«Ricordi?» le chiese, andche se era ovvio che ricordasse.
«Sì, e ricordo che non dovrei ricordare.»
«Quindi sai anche che…?» chiese Alice con la voce rotta dal pianto.
«Che dovrai uccidermi? Che hai già ucciso papà e Luca? Che spedirai Marco chissà dove? Ammesso che si chiami ancora Marco, ovvio. Vi siete presi il disturbo di dargli un altro nome, questa volta?»
Alice non capiva, non poteva capire come solo una variabile potesse causare tanto dolore, come potesse stravolgere tanto una vita. E, soprattutto, non capiva perché quella vita dovesse essere proprio la sua.
«Camilla…»
«No, mamma. Ti ho perdonata, davvero. Ti ha perdonata papà, è giusto che lo faccia anche io. E poi sono stanca. Sono stanca di vivere questo eterno déjà-vu, questa vita piena di incongruenze, di puzzle che non possono essere risolti perché qualcuno ne ha nascosto i pezzi. Non voglio più lottare, non voglio più arrivare qui per giungere sempre alla stessa maledetta conclusione. Papà aveva ragione. Noi non avremmo mai potuto vincere, non senza di lui, non senza l’Associazione, non dopo quello che hai fatto. Ci hai precluso ogni chance di vittoria quel giorno, mamma. Chi riesce a tenerti qui come una scimmietta ammaestrata deve esserne stato contento, no?» disse, lo sguardo ricolmo di rabbia rivolto verso la piccola telecamera che l’aveva ripresa ormai tante volte. Lei non aveva paura, Alice lo sapeva. Non aveva paura di tutto quello che la teneva come incatenata a quella stanzetta dalle pareti bianche, piena di strane ampolle contenenti liquidi pericolosi che pochi conoscevano come lei. «Sì, ti ho perdonata, e ora sto per morire. Non dico di non essere in collera con te, per quel che hai fatto quel giorno, quando io ero ancora troppo piccola per fare qualunque cosa… non che ora io abbia l’età giusta. Sono dovuta crescere in fretta, è chiaro. Ma ti ho perdonata, e di certo non ti amo, non ti amo come hanno continuato a fare papà e Luca. Penso che anche Marco ti voglia bene. Ma ti ho perdonato, anche se oggi morirò. Anche se ho nove anni e stavo facendo la cosa giusta, oggi morirò, e non ne sono più di tanto dispiaciuta, non ho paura, non quanta dovrei averne. Magari anche io sono diventata coraggiosa, a furia di leggere di eroi. Anche se è da tanto tempo che sto leggendo lo stesso libro, vero? Saranno state quante: tredici, quattordici volte? Sempre lo stesso libro, sempre la stessa frase. “Da quant’è che non piangi?” e io conosco già la tua risposta. Guardati: stai piangendo, anche ora. Sono io quella che deve morire, oggi. Che deve dimenticare di essere esistita. Sono io. Tu non hai il diritto di piangere per questo. Non puoi. Solo io, solo io posso permettermi le lacrime.» disse, con gli occhi lucidi e la voce che si spezzava sempre di più ad ogni parola. Camilla Lunari stava piangendo. E nessuno ricordava quale fosse stata l’ultima volta in cui aveva pianto.
«Mi… mi dispiace, io non volevo… non sapevo…»
«Già, non lo sapevi. Eppure è successo. Ci hai uccisi, ci hai condannati! Tutti noi, tutti i veri Lunari si erano alleati, avremmo potuto farcela. Saremmo stati disposti a morire, certo. Ma in questo modo la morte di papà, di Luca e di zia Aurora non sono servite a niente!» si sollevò tutta in una volta, come se il suo metro e trenta di altezza potessero incutere paura alla madre, gli occhi rossi e lo sguardo acceso.
«Pensavo… pensavo che mi avessi perdonata.»
«Ci ho provato, ci sto provando, con tutte le mie forze. Ma non credo di avere il tempo di riuscirci. È difficile fare una cosa solo perché credi che sia la cosa giusta. La mia vita lo ha dimostrato, farà lo stesso anche la mia morte.» e detto così si risistemò sulla sedia e si preparò a morire.
«Hai… hai un ultimo desiderio?» chiese Alice.
«Da quand’è che quegli avvoltoi del governo concedono desideri?»
«Da quando le madri sono costrette ad uccidere i propri figli nel disperato tentativo di salvarne altri.»
Un istante, si trattò solo di un istante. Camilla riuscì a vedere la propria madre dietro quegli occhi gonfi e quell’espressione esasperata. Poi tutto si sciolse come neve al sole. «Sì. Ne ho uno.»
«Proverò ad esaudirlo.»
«Voglio parlare con mio fratello. Chiunque egli sia ora.»
«Camilla. Tuo fratello ora… io l’ho cancellato. Ricorda solo la promessa. È… è un guscio vuoto… ti farebbe solo male…»
«Beh» disse Camilla «non farà più male di morire.»
 
Qualunque cosa si provasse a morire, Camilla aveva torto. Guardare Marco ridotto in quello stato era decisamente peggio di morire, sempre che Marco si potesse ancora chiamare. Il ragazzino che una volta era stato suo fratello non c’era più, Camilla lo sapeva. Non c’era più, di lui era rimasta solo l’ombra nascosta pavidamente dietro ad una promessa che avrebbe ricordato per sempre, che doveva ricordare per sempre, la promessa per cui era nato. Fuori le stelle splendevano nel cielo, ma non c’era più quel ragazzo, sempre con quell’insolita promessa in testa e nient’altro con sé, c’erano i suoi occhi gelidi ma in essi non c’era più la solita luce vivida, perché spenta dal dolore, c’era solo il silenzio nella stanza, anche quello portato via dai passi di Alice che si muoveva lentamente per arrivare davanti al ragazzo che una volta era il silenzio stesso. Eppure Camilla si comportò da bambina, perché aveva paura e perché per qualche istante voleva smettere di essere grande, perché stava per morire e perché se lo meritava, doveva credere di meritarselo, lei, una bambina, aveva fatto quanto molti adulti prima di lei erano stati troppo spaventati per fare. Perché, in fondo, quando si ha paura, tutti diventano bambini di nove anni e alcuni credono persino di poterselo permettere, senza aver lottato. Lei se lo meritava, meritava di aver paura, perché comunque rimaneva coraggiosa, doveva credere di esserlo, nonostante tutto, nonostante avesse oramai accettato il suo crudele destino. Abbracciò il ragazzino sulla sedia, e lui la guardò stranito chiedendo chi lei fosse, non che gli importasse più di tanto, quando non sapeva neanche chi fosse lui. Camilla non rispose e continuò a tenerlo stretto tra le sue braccia, come se non volesse mai più lasciarlo andare, anche se non era più una delle tante persone che aveva conosciuto: non era più Marco, suo fratello, Stelle, un ragazzo con mille storie da raccontare o Silenzio, un amico strampalato che voleva solo trovare la sua Luna, lui era solo un ragazzino spaventato su una sedia, un’ombra di tutte quelle persone. Eppure, eppure quell’ombra avrebbe dovuto fare quanto tutti i Lunari non erano riusciti a fare, avrebbe dovuto riuscire dove lei, una persona che aveva meritato di aver paura, aveva fallito. Altrimenti sarebbe tutto stato vano, altrimenti tutto sarebbe andato perso, tra stelle e silenzio.
«Mamma, esci.» disse, perché i suoi attimi meritati si erano ormai esauriti.
«Sai… sai che non posso…»
«È il mio ultimo desiderio. E voglio che tu vada via.» si girò verso la madre, il suo viso bagnato dalle lacrime «Per favore.»
Alice la guardò, e, chissà perché, chissà per quale variabile o scherzo del destino, chissà per quale folle pensiero, uscì dalla stanza. «Abbiamo poco tempo.» disse, prima di chiudere la porta.
Camilla prese quindi una cartella verde appoggiata su di uno strano macchinario, e vide che su di essa erano scritte informazioni e appunti di qualche scienziato, appunti su di loro, su come cancellare loro la memoria, ed era ripetuto costantemente “è per la scienza” come se quello stesso scienziato stesse cercando di convincersi che era giusto farlo, che era giusto cancellare persone dall’esistenza solo per fare un esperimento. A giudicare da quante volte era ripetuto sugli appunti, quello scienziato non ci aveva mai creduto, per quanto cercasse disperatamente di farlo. Ovviamente, Camilla aveva ben capito che la cartella verde era di sua madre, ma lei, come quel (forse poi non così tanto) misterioso scienziato, cercava di autoconvincersi che una cosa tanto ovvia non fosse la realtà, che sua madre fosse davvero una persona malvagia, cercava di convincersi che davvero ella avesse avuto una scelta e che avesse fatto quella più sbagliata. Doveva farlo, doveva crederci. Perché non poteva sbagliare, lo sapeva. Se Camilla doveva essere uccisa, avrebbe fatto uccidere e avrebbe salvato chi lo meritava, perché meritare la paura non è da tutti, e lei aveva già riscosso il suo premio. 
   
 
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