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Autore: Solounaltrarosarossa    26/08/2016    0 recensioni
Al Ministro, ci vediamo sulla Luna.
[...] C’era una volta un ragazzo. Più che un ragazzo era un bambino, sperduto in un paesino che a lui sembrava immenso. Questo bambino era davvero speciale, tanto da non saperlo. Vi chiederete allora perché io non vi dica il suo nome. Non lo so. Quel bambino, semplicemente lo aveva dimenticato, come ci si dimentica di comprare il latte tornando a casa o forse un nome non lo aveva mai avuto. Si diceva che fosse orfano ma lui non lo sapeva, lui non conosceva niente. Era giunto non si sa come in quel piccolo paesino, senza un nome come lui e non aveva niente, neanche sé stesso. Aveva con sé solo il suo destino, anche questo senza un nome e una promessa fatta a chissà chi, chissà quando e chissà perché “ci vediamo sulla Luna” ma lui, la Luna non sapeva cosa fosse. [...]
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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C’era una sola domanda ora che doveva aver risposta nella mente di Alice: “Posso davvero farlo?”. Ci aveva già pensato con Luca, e si era spaventata semplicemente all’idea, perciò se l’era tolto subito dalla testa, ma non pensava avrebbe sofferto tanto. Quando era morto Bruno, il suo dolore era stato straziante, certo. Ma quando era morto Luca… beh, credeva che fosse così che Marco si sentisse ogni volta che gli veniva cancellata la memoria. Come se una parte di sé stesse scomparendo per non tornare più. Eppure, poteva davvero farlo, tradire la scienza in questo modo? Tutto quello per cui era stata cresciuta, quello che era destinata a compiere, poteva davvero tradirlo così, per una variabile dai capelli rossi e gli occhi vivaci? No, non poteva, ma doveva farlo. Aspettate… no, che cosa stava pensando!? No, non poteva, perché avrebbe dovuto, quelle erano solo pedine di una scacchiera più grande, perché non avrebbe dovuto darle in pasto al giocatore del colore avversario? Aspettate… di che colore era lei? Nera, dalla parte di chi cerca inutilmente di combattere o bianca, dalla parte di chi ha già vinto? Aveva un colore? E cosa sarebbe stata? La regina? No, non scherziamo. L’alfiere? No, ancora più in basso. Era un pedone? Sì, era solo un pedone. E il suo re? Chi era il suo re? Quello che svettava nella sua armatura immacolata al sicuro, protetto, lì, ad un estremo della scacchiera o quello vestito di tenebre, caduto all’inizio della battaglia? Era sicura della risposta, era sicura di quel che doveva fare ma non voleva dichiararsi sconfitta. Sapeva di esser un pedone vestito di tenebre e verniciato di bianco. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare, ma non sapeva se ne avrebbe effettivamente avuto il coraggio. Non l’aveva avuto, una volta, e un altro pezzo scuro era stato mangiato proprio da lei, verniciata di bianco, per proteggere un re che non era il suo. Eppure il tempo passava, non le dava tregua, l’orologio continuava a ticchettare e i pensieri a farsi largo nella sua mente, a combattere come se stessero giocando una partita senza senso, una partita di scacchi con un unico giocatore. Bianco e nero. Una guerra civile nella sua testa, dove non importa il risultato, perché tutti ne usciranno sconfitti comunque. Avrebbe perso comunque. Bianco o nero? Conosceva la risposta. Poteva farlo? No, probabilmente, ma lo avrebbe fatto comunque.
La ragazza dai capelli rossi continuava a scrivere sulla cartelletta freneticamente, come se non riuscisse a fermarsi, o come se sapesse che di lì a poco avrebbe dovuto. Le telecamere non potevano riprenderla, non potevano vederla scrivere, e di certo non potevano capire cosa stesse scrivendo. Si era creata un punto cieco. Dalle telecamere sembrava che stesse piangendo su suo fratello, leggendo le parole della madre sulla cartella. Se avessero imparato a conoscerla, non avrebbero mai creduto a quella farsa, ma a quanto pare agli scienziati quelle che venivano considerate semplici cavie non stavano molto a cuore. Dopo aver finito di scrivere rivolse un sorriso a quel che era stato il fratello, ringraziando silenziosamente quegli sciocchi del governo che lasciavano le persone a cui era stata cancellata la memoria senza catene. Luca non aveva avuto il coraggio di fare quel che andava fatto, ma lei doveva averlo, doveva essere abbastanza forte. Avevano preparato un piano, per le situazioni di emergenza ma non avrebbe voluto usarlo, nessuno di loro avrebbe mai voluto. Strappò il foglio e mise il bigliettino in mano a Marco. Il tempo passava, inesorabile, e, Camilla poteva sentirlo, non gliene restava molto. Eppure assaporò ogni singolo istante che poteva passare con quegli occhi gelidi e quei capelli spettinati. Una volta non erano di quel colore, lo ricordava. Ora che aveva recuperato la memoria ricordava ogni cosa, proprio come i Lunari dovrebbero fare. Eppure era sicura che i ricordi del passato che aveva lei fossero più confusi di quelli che suo padre e altri Lunari prima di lui avevano ereditato. I Lunari non dimenticavano, mai, e se lo facevano morivano. Ma lei non era una Lunari, non del tutto. Era un misto, un ibrido; aveva anche il sangue della madre, ma a quanto pare non ne aveva abbastanza. Non quanto Marco, non ne aveva tanto da potersene andare con lui. Eppure era stato sufficiente per portarla fino a quel punto. Si odiava per questo. Aveva sempre detestato non essere abbastanza. Per l’associazione non era mai stata abbastanza grande, intelligente, alta, forte… lei era sempre stata l’ultima. E ora aveva solo nove anni, insomma, era ancora l’ultima, la peggiore. Eppure era lei l’ultima a ricordare, l’unica che poteva far sì che niente fosse stato vano. Ora la domanda era: sarebbe stata abbastanza, solo per questa volta? Intanto l’orologio continuava a ticchettare e lei continuava a tormentarsi. “Posso farcela?” Tic. “No, probabilmente.” Tac “Ma lo farò comunque.” Tic. La porta si aprì. Tac. «È tempo di andare.» Tic. «Allora andiamo.» Tac.
Marco, non abbiamo molto tempo. Le lettere confuse sulle pagine bianche contenute nella cartelletta verde si agitavano come in preda al panico davanti agli occhi del ragazzo. Devi prestarmi attenzione, prego solo che tu riesca a leggere decentemente questa volta. So che ti sembrerà strano ma abbiamo un piano per andare via da qui, okay? Al resto, beh, ci penseremo dopo. Ora, stai qui per un po’, aspetta che io apra la porta. Appena la apro, non dire niente, corri il più veloce possibile in fondo al corridoio, c’è una porta, l’emergenza avrà già cominciato a suonare e si sarà aperta. Non voltarti mai, qualunque cosa accada. Arriva lì. C’è uno strano marchingegno, salici sopra, c’è una scala. Appena arriverai vedrai un grande bottone ed un sacco di altri comandi. Non aspettarmi. Chiudi il portellone e premi il bottone. Ti porterà via. Marco, ti prego. Devi fermare la guerra, devi fermare tutto questo. Altrimenti… altrimenti tutto sarà perso. So che ti sembrerà strano ma ti deve essere rimasta un’ombra di me. Ti prego… ricorda. Ci vedremo sulla Luna, un giorno, di nuovo.
Il piano, tutto sommato, era molto semplice da realizzare, ma allo stesso tempo era quasi impossibile trarne un esito del tutto positivo. Era un piano affidato alla fortuna, e Camilla non ne aveva mai avuta molta. Eppure, non si era mai detto che non si potessero fare modifiche al piano originale. Il piano precedente prevedeva la salvezza di tutti loro, ma salvare solo Marco sarebbe stato infinitamente più facile. Marco poteva farcela, era la cosa giusta da fare. Avevano deciso di attuarlo solamente nel momento in cui si sarebbe rivelato necessario, una soluzione disperata. Avrebbe dovuto farlo Luca, la seconda volta in cui l’avevano catturato, ma non ne aveva avuto il coraggio, evidentemente. Sapeva che avrebbero sicuramente messo a morte la madre per essersi lasciata scappare i propri figli, e Luca era sempre stato troppo legato a quella donna per poterla uccidere in questo modo. Ma per Camilla era diverso, la madre per lei, anche coi ricordi, restava una figura sbiadita persa a leggere un grosso libro di favole ad alta voce, seduta all’ombra di una grossa quercia che Camilla soleva chiamare Luna, come se facesse parte anch’essa della famiglia. “Ci vediamo sulla Luna” andava ripetendo, non conoscendo il reale significato di quelle parole. “Sì, te lo prometto” le rispondevano i fratelli, assecondandola “ci vediamo lì.” Il piano era semplice da attuare, ma non ne conosceva l’esito e questo le faceva paura. Ma non poteva averne. Doveva solo prendere la siringa alla madre e fare a lei l’iniezione, che l’avrebbe lasciata intontita, prendere la chiave della stanza dove era rinchiuso Marco e correre quanto più veloce le era possibile. Era facile, ma sapeva che le poche guardie presenti nel laboratorio sarebbero saltate loro addosso prima che potessero entrambi raggiungere la navicella che li avrebbe portati lontano. Ecco perché soltanto una persona poteva farcela. Qualcuno doveva distrarli, e comunque le possibilità di successo rimanevano minime. Ma doveva provarci. Voleva morire per salvare qualcuno. Era una cosa giusta, una cosa buona, no? Camilla entrò nella stanza. Si sedette sulla poltrona. La madre cominciò a preparare l’iniezione. Era di un azzurro brillante, spaventoso, inimitabile, unico. Lo aveva visto tante volte, eppure questa volta era diverso… più vivo, meno spaventoso… come se oramai non avesse più dovuto temerlo. La madre le si avvicinò. L’orologio era congelato in un tac. Sentì qualcosa nella propria mano sinistra, come carta. Era quella la paura, l’adrenalina? Non c’era tempo. L’orologio era fermo? Dov’era il tic? Non aveva tempo per questo. Prese la siringa. Gli occhi della madre si aprirono. L’espressione pietrificata. Un sorriso? «Mi dispiace tanto.» Camilla spinse lo stantuffo. Tic.
Alice sentì il siero bruciare nelle proprie vene sin dal primo istante. Era questo che provava Marco? Uccisa dalla propria iniezione, davvero incredibile. Quando aveva scambiato il liquido dei sieri non aveva mai pensato che sarebbe finita così. Era così orgogliosa di Camilla. L’aveva appena uccisa, ma non l’aveva fatto di proposito, e lo aveva fatto per salvare qualcuno di importante. Aveva fatto una scelta. Come lei. Passarono pochi istanti tra l’iniezione e la sua caduta sul pavimento. Furono istanti in cui Alice si sentì fiera anche di se stessa. Aveva finalmente smesso di tradire il suo re, si era tolta la vernice bianca ed era giunta alla fine della scacchiera, diventando regina, cadendo come tale. E ora, anche se non era altro che un pezzo caduto, anche se non contava più niente, era una Lunari a tutti gli effetti. Aveva il loro sangue. Non era più un pedone, una carta qualunque. Ora avrebbe potuto dirlo veramente a Bruno: “Anche io, ti amo anche io.” Perché anche se non era stata fatta per essere tale, era una regina, pur essendo nata come pedone, e ora vedeva tutto, pur avendo prima la vista offuscata. Ricordava, ricordò anche cose che non aveva mai visto. Per pochi secondi lei fu la persona più simile ad un pezzo della scacchiera vestito di tenebre che il bianco non avesse ancora inghiottito. Tac. Un sospiro. Più nulla.
   
 
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