Per me,
ogni anno, il viaggio per
Policoro, iniziava in un preciso istante: una volta entrato nella
Stazione Centrale
di Milano. Non appena sentivo, per la prima volta, la voce
dell’annunciatore
elettronico della stazione, quello che annunciava i treni in arrivo e
in
partenza, ero in vacanza.
Quella
voce mi piaceva troppo.
Soprattutto per ciò che quella voce rappresentava. Partenze
e arrivi altrui,
partenze proprie, incontri, gente che va, gente che viene, io che
partivo. Per
Policoro. Ecco perché quella voce mi piaceva,
perché era l’ultima cosa che mi
separava dal treno per Policoro. Dal mio pensiero felice.
Anche
quella sera fu così.
Avevo prenotato un posto sul treno delle 23. Era tutto pronto per
passare le
successive dodici ore e mezzo di viaggio. Alle 11:39, speravo, il treno
mi
avrebbe mollato a Policoro, per continuare la sua lenta ed estenuante
corsa
fino a Crotone. Un viaggio indimenticabile.
Vi
è mai capitato di guardare
un film o un documentario che parla dell’India, in cui si
vedono quei treni
dove le persone si mettono anche sui tetti o fanno viaggi di centinaia
di
chilometri semplicemente aggrappati al treno con il corpo quasi
completamente
fuori da quest’ultimo? Ecco, se solo vi fosse successo
qualche volta di
prendere il famoso Espresso “Freccia del Levante”,
che collega ogni notte
Milano con Crotone, avreste potuto stentare a riconoscere le
differenze.
Addirittura avreste potuto riscontrare qualche similitudine nel colore
della
pelle dei viaggiatori. In quel periodo dell’anno, poi, era
semplicemente un
delirio riuscire anche solo ad attraversare una carrozza. Ecco
perché, ogni
volta che scendevo, mi dovevo preparare mentalmente ed emotivamente,
fare
esercizi di respirazione, soprattutto cercare di escludere, o almeno
attutire,
il senso dell’olfatto. O, più semplicemente, mi
procuravo un raffreddore,
almeno per avere il naso tappato e non essere costretto a respirare
quell’odore, che, forzatamente dopo otto, nove ore di
viaggio, più o meno
quando mi risvegliavo, dalle parti di Foggia, era diventato parecchio
pesante.
In parte
anche per causa mia,
devo ammetterlo, ma cosa volete farci, dopo tutto quel tempo passato in
uno
scompartimento nel quale, se tutto andava bene, c’erano 6
persone, senza aria
condizionata e, se andava male, pure con il finestrino rotto, fate il
conto che
iniziavo a sudare dopo sei minuti scarsi che ero salito sul treno e le
temperature raggiungevano i quaranta gradi tranquillamente. Insomma,
avrei
voluto vedere voi.
Così,
quella sera, sceso
dall’auto alla stazione centrale, sapevo di avere davanti a
me dodici ore e mezzo
di “carro bestiame”. Sapevo che non sarebbe stata
semplice.
Fortunatamente,
l’aria
condizionata funzionava, e i bagni non erano intasati. Almeno per le
condizioni
igieniche fu quasi una passeggiata.
Per la
compagnia, come al
solito variegata, non mi potevo neanche lamentare. Da Milano a Rimini,
c’erano
nel mio stesso scompartimento altre cinque persone: due anziane, marito
e
moglie, il primo che russava e la seconda che recitava il rosario; e
c’era una
mamma con i due figli, una ragazzina di dodici anni che più
o meno in
corrispondenza della partenza del treno si era messa ad ascoltare
musica a
palla, nelle cuffiette che potevano tranquillamente non esistere, e un
bambino
di quattro che definirlo una peste era fargli un complimento. A Rimini,
la madre
con i due figli scese e salirono due ragazze e un ragazzo, tutti sulla
ventina
che arrivavano fino a Sibari. E la situazione si
tranquillizzò un pochettino.
Verso Ancona mi accorsi che il sonno stava prendendo il sopravvento, e
mi
concessi un trecento chilometri di riposo. Alle otto precise, non
appena
partiti da Foggia, mi risvegliai.
Solo
allora mi accorsi che i
due vecchietti ci avevano lasciati. Nel senso che erano scesi a Foggia.
Eravamo
rimasti in quattro. E con una buona probabilità saremmo
rimasti così fino alla
mia meta.
Intanto il
paesaggio, fuori,
era completamente cambiato.
La
sconfinata pianura Padana,
aveva lasciato il posto ad una collina che lentamente digradava verso
il mare.
Azzurro. Come il cielo. Anzi, se possibile, nelle giornate veramente
serene e
con l’aria secca, un mare che era addirittura meno azzurro
del cielo. Poco
prima di lasciare il mare per “colpa” del
promontorio garganico, poi,
quell’ambiente cambiava nuovamente: di nuovo pianura, con
solo gli appennini in
lontananza, ma senza il mare. Però il cielo, quello,
rimaneva sempre uguale e
costituiva la differenza maggiore che caratterizzava le due pianure.
Ricordo
che solo nel sud della penisola ho avuto più di
un’occasione di osservare un
cielo che potesse definirsi inequivocabilmente
“celeste”. A Milano è
impossibile. In altri posti pure, ma solo l’Italia costiera
può considerarsi a
tutti gli effetti “con un cielo privato”, come
cantava una canzone del primo
decennio del Duemila.
Lentamente
ci
avvicinammo a Bari. Poi Gioia del Colle e Taranto. E lì il
vero cambiamento.
Dopo l’estenuante attesa di quei minuti, tempo che
cambiassero la motrice,
sostituendo quella elettrica con ancora una a gasolio, il treno
ripartì. A quel
punto la puzza delle raffinerie poste tra la ferrovia ed il porto
lasciò il
posto al profumo dei pini mediterranei e degli eucalipti che
costeggiavano la
ferrovia. La carrozza dove ero, di prima classe, non permetteva di
abbassare i
finestrini. Però quegli odori me li immaginavo tutti.
A quel
punto, e definitivamente
almeno per me, il paesaggio cambiava nuovamente. Sempre pianura, ma a
poche
decine di metri dal mare. In certi punti, il terreno scendeva
improvvisamente
per lasciare il posto all’uscita di un sottopassaggio
pedonale che portava,
attraversando la ferrovia, direttamente i bagnanti in spiaggia. Ed
oramai,
trattandosi delle 11 passate, di “traffico” ce
n’era parecchio. Mi veniva quasi
voglia di tirare il freno di emergenza e buttarmici, in quella distesa
fresca e
maestosa. Sapevo comunque che sarebbe certamente accaduto il giorno
seguente, e
nel posto per me migliore. Quindi si trattava solo di avere un
po’ di pazienza.
Il treno
si allontanò per
l’ultima volta dalla costa poco prima di arrivare nella
stazione di Metaponto.
La prossima volta che avrebbe rivisto il mare, quel treno, avrebbe
già avuto un
passeggero in meno in quello scompartimento. Sarebbe accaduto solo dopo
Nova
Siri, una volta entrati nell’ultima regione delle otto
attraversate, la
Calabria. Il passeggero in meno ero io. E non potevo che esserne
estremamente
felice.
Finalmente
il treno, pochi
minuti dopo essere partito da Metaponto, incominciò
nuovamente a rallentare. Io
presi lo zaino e la valigia, salutai i tre miei ultimi compagni di
viaggio e mi
appressai alla porta della carrozza.
Finalmente
la vista di quella
costruzione che si ergeva, imponente, sulla strada statale posta ad una
ventina
di metri più in basso, il castello baronale, mi diede la
conferma del fatto che
ero arrivato. Prima il passaggio a livello della strada che portava al
Lido
“Torremozza” uno dei 3 lidi di Policoro, poi una
frenata un po’ più decisa, mi
fecero capire che ero arrivato all’ultimo chilometro.
Lentamente il treno
rallentò, per poi fermarsi.
Inspirai
profondamente
quell’aria viziata del treno, pochi secondi prima che le
porte si aprissero.
Scesi praticamente in apnea. Lentamente buttai fuori l’aria.
Ero perfettamente
cosciente che il prossimo passo, quello della nuova inspirazione,
sarebbe stato
il suggello della fine del viaggio. Attesi di non poterne
più con trepidazione,
ansia e piacere estremo. Finché non sentii i polmoni
bruciarmi. Poi gli permisi
di fare nuovamente il loro lavoro.
Aria nuova
entrava nelle mie
narici e nella gola. Un’aria che, lo sapevo, mi avrebbe fatto
rinascere. In
quel preciso istante, qualunque malattia mi avesse colpito, solo poche
ore
prima, alle vie respiratorie, con quel respiro sarebbe miracolosamente
scomparsa. L’aria di mare, l’aria salmastra, il
profumo pungente dei pini, e
quello delicato e balsamico degli eucalipti, avrebbe raggiunto
quell’obiettivo
con il minimo sforzo da parte mia. E si sarebbe risvegliato il Simone
assopito
da 10 mesi di scuola e Milano.
Almeno,
questo era quello che
riuscivo ad immaginare. Peccato che a volte la realtà
diverge malauguratamente
dall’immaginazione. E infatti mi bastarono pochi processi
logici per giungere
alla conclusione che avevo fatto due errori.
Il primo
era illudermi di
respirare l’aria di Policoro a neanche venti metri da una
motrice ferroviaria a
gasolio che da sola inquinava più o meno come tutte le
automobili di Policoro.
La puzza era tremenda, i polmoni ormai intasati e dovetti aspettare
almeno una
decina di minuti buoni per levarmi dalla bocca l’aroma
pesante del fumo di
scarico del motore diesel della locomotiva.
Il secondo
era che avevo
chiesto ai miei nonni di non venire a prendermi e non mandare nessuno.
Volevo,
gli dissi, guadagnarmelo da solo l’arrivo a Policoro, giusto
quell’anno che per
primo mi aveva visto arrivarci da solo, senza i miei nonni, partiti la
settimana prima per la stessa meta. Capii immediatamente che si era
trattato di
un tragico errore.
Perché
è vero che a Milano, con
l’afa e tutto quell’inquinamento, trenta gradi
giornalieri vengono avvertiti
dal nostro corpo quasi come quaranta. Però quando arrivi a
Policoro, e tra capo
e collo, scendi da una carrozza condizionata a 23 gradi fissi, e ti
ritrovi, di
botto, a 42°C, qualcosa succede…
…E
quando, come accadde in quel
preciso istante, ti accorgi che l’unico pullman che ti
può portare in un minuto
a casa tua è appena ripartito dalla fermata vicina alla
stazione, e quindi
capisci che te la devi fare veramente a piedi fino a casa…
…Tanto
più che l’ultima traccia
di vita, il cellulare l’ha data circa due ore prima, quando
hai deciso,
altruisticamente e amorevolmente, di dare il buongiorno alla persona
che ami
più di tutte per poi darle l’impressione di averle
chiuso il telefono in faccia
quando si è spento, lui e la batteria, proprio nel bel mezzo
di un complimento
romantico. E quindi non puoi neanche avvisare i nonni di mandare
qualcuno a
prenderti…
…Se
poi consideri che il treno
aveva già fatto una buona mezz’ora di ritardo, e,
seppur famelico sedicenne,
non hai mangiato dalle otto della sera prima, perché in un
treno del genere
mangiare sarebbe stato passibile di una condanna sicura a morte per
infezione…
Volendo
usare un eufemismo
simpatico, iniziai a parlare da solo, e per fortuna, perché
non so quanto altri
avrebbero apprezzato le mie parole simpaticamente rivolte al
macchinista, alla
locomotiva, al pullman, alla batteria, al cellulare ed al Sole.
Decisi di
darmi da fare e capii
che l’arrivo a Policoro, quell’anno, avrei dovuto
sudarmelo nel vero e proprio
senso della parola. Dopo circa dieci minuti, uscii dal sottopassaggio
che
passava sotto la strada statale che costeggia Policoro, ed entrai in
città. La
maglietta sarebbe stata più bagnata solo uscita dalla
lavatrice e, per quanto
stavo sudando in quel momento, sembrava proprio che la sua sorte fosse
stata
decisa inequivocabilmente. Per fortuna, una volta entrato in paese,
l’ombra
delle prime case mi rinfrancò un attimo.
Passai
vicino al caseificio dove
venivamo mandati giornalmente da mia nonna, io o mio nonno, a comprare
le
mozzarelle, poche ma sempre fresche.
Passai
vicino ai giardinetti
che dividevano la parte più vecchia della città,
dalla parte meno vecchia della
città. Ma d’altra parte sarebbe stato storicamente
e politicamente scorretto
parlare di una parte “nuova”.
Vidi
l’insegna del panificio
dove avrei sicuramente fatto incetta di focacce, calzoni e panzerotti.
E poi
finalmente le quattro strade senza uscita per le auto, via Bari, via
Duni, dove
pensai a Francesco ed Emanuele, che abitavano lì. E via
Lomonaco. Dove abitava
Giuseppe. Alzando un po’ il collo potevo addirittura scorgere
un po’ delle
inferriate marroni delle finestre del bagno e della camera da letto di
casa
mia, che davano su quella stessa via.
Pochi
metri ancora e poi sarei
arrivato alle scale che conducevano alla quarta via, la via dove
abitavo io,
via Berlingieri, dal nome della famiglia di baroni che aveva avuto in
possesso
quelle terre sin dal tardo Medioevo e fino al Risorgimento.
Feci
appena in tempo ad
accorgermi di un movimento sospetto dietro di me, che una mano si
appoggiò
sulla mia spalla.
“Solo
una persona
sapeva che stavo arrivando!” dissi, voltandomi.
“Bravo!
Hai
capito subito che ero io, vero?” disse.
“Ciao
Giuseppe!”
risposi sorridendo, preoccupato però del suo stato
d’animo.
“Non
ti
abbraccio, visto come sei conciato!” disse ridendo, indicando
le chiazze
bagnate sulla mia maglietta.
“Grazie
dell’accoglienza! Comunque lo so anche io che ho bisogno di
una doccia! Ma tu
sei arrivato prima che io arrivassi a casa!” risposi.
“Vai
pure! È
meglio, per tutti e due!” rispose, continuando a prendermi in
giro, Giuseppe.
Se non
altro,
quella conversazione mi fece capire che Giuseppe era ritornato
amichevole e
scherzoso come sempre. E comunque di buon’umore. Era la cosa
che mi interessava
di più.
Feci per
voltarmi,
quando Giuseppe richiamò ancora la mia attenzione.
“Prima
che vada
devo chiederti una cosa!” disse ancora Giuseppe.
“Dimmi
tutto!”
“No!
Meglio che
te lo dica dopo, volevo solo chiederti se mi vieni a trovare dopo
esserti
riposato. Non preoccuparti dell’orario” E questa
volta era serio. Io non potevo
fare altro che rispondere come potevo, dovevo e volevo fare. Come
volevo fare
da almeno 40 ore.
“Va
bene! Ma è
qualcosa che ha a che fare con la mia chiamata e il tuo sms
dell’altra sera?”
“Si!”
mi rispose.
Si voltò e se ne andò.
Soddisfatto
il
bisogno di una conferma, mi ricordai immediatamente degli altri bisogni
primari
che dovevo soddisfare: lavarmi, mangiare e dormire, almeno per iniziare
correttamente quella vacanza. In meno di dieci secondi arrivai a casa,
dove i
miei nonni mi attendevano ansiosamente. Prima ancora di entrare in
doccia ci
pensarono loro a farmi lo shampoo per non aver caricato abbastanza il
cellulare
prima della partenza.
È
vero che il
cellulare l’avevo lasciato sotto carica dalla sera prima e
per tutto il giorno
seguente, ma parlare con Maria era comunque stato sufficiente per
scaricarlo.
Certo era, però, che non avrei mai, per nessun motivo al
mondo, rivelato il
vero motivo per cui avevo il cellulare scarico. Come non
l’avrebbe mai fatto
ogni normalissimo quindicenne o sedicenne nella mia stessa situazione.
Mi gustai
per
qualche minuto il fresco di quella casa, poi, nell’ordine, mi
concessi la
necessaria doccia, le attese mozzarelle di contorno del pranzo, ed il
meritato
riposo.
Verso le
due, finito di
mangiare, mi sdraiai sul letto. Quei due minuti che mi parve di
aspettare
insonne, si rivelarono gli unici due minuti insonni delle tre ore
seguenti, nei
quali ero rimasto effettivamente sveglio. A conferma di ciò,
la volta
successiva che guardai l’orologio posizionato sul
comò, vidi che erano da pochi
minuti passate le diciassette.
Passati
quei due o tre secondi
necessari al completo ripristino dell’attività
cerebrale, capii che potevo fare
solo una cosa. Immediatamente feci lo squillo a Giuseppe, per fargli
capire che
ero sveglio e pronto per parlare. Mi rispose con un sms, nel quale mi
diceva
che era a casa, quindi che potevo andare, e mi chiedeva di passare da
sotto,
cioè non dalla strada, ma dallo scivolo pedonale. Compresi
immediatamente che
quell’incontro doveva rimanere segreto, e non dovevano venire
a conoscenza di
quell’incontro persino Francesco e Emanuele, che infatti
avrebbero potuto
vedermi se fossi arrivato da Giuseppe seguendo la strada e quindi
essendo
costretto a passare sotto il balcone di casa loro.
Avvisai i
miei nonni e uscii.
Fuori il sole era caldo, forse un pochino meno della tarda mattinata,
quando
ero arrivato a casa. Solo che si era alzato un vento, proveniente
dall’entroterra, secco e bollente. In giro, a
quell’ora, solo qualche macchina
incominciava a circolare. Forse qualche turista intraprendente che
voleva andare
al mare, a rischio della propria vita, o quantomeno della salute.
Neanche
quindici secondi dopo
essere uscito, mi presentai a casa di Giuseppe. Era solo in casa, il
padre era
già tornato in officina dopo la pausa per il pranzo e la
madre con la sorella
erano andate a trovare una parente dall’altra parte di
Policoro.
“Ciao!
Come va?” mi
disse quasi indifferente Giuseppe.
“Bene!
Sicuramente meglio di come stavo quando ci siamo visti
l’ultima volta!” risposi
sorridendo.
Anche
Giuseppe mi
rispose con un sorriso. Solo che, a differenza di quella stessa
mattina, quel sorriso
non mi convinceva per niente. Si vedeva che era nervoso. Ci sedemmo in
cucina.
Giuseppe mi offrì un tè freddo, che accettai
più che volentieri. Poi, cosciente
del fatto che era decisamente arrivato il momento per scoprire qualcosa
di più
su quello che stava accadendo, decisi di rompere gli indugi.
“Allora
che cosa
è successo? Intendo con Michele e gli altri?!”
dissi.
“Chi
ti ha detto
che c’entravano loro?!” chiese.
“Nessuno,
a parte
te. Chi vuoi che abbia sentito in questi ultimi due giorni?! E poi ti
sei
comportato con me nello stesso modo solo un’altra volta. E
c’entrava Amaraldo.
Per quale motivo non dovrebbe centrare anche questa volta?”
risposi, prendendo
questa volta seriamente in mano la situazione.
Giuseppe,
dapprima senza parole, rimase qualche secondo a guardarmi.
“Va
bene! Hai
ragione. È che quando sento anche solo parlare di loro
quattro mi viene il nervoso”
disse. Aveva abbassato lo sguardo. Mi sembrò quasi che si
stesse vergognando
per quello che gli stava succedendo. “È’
successa una cosa che ci ha fatto un
po’ preoccupare a tutti e tre, io, Francesco ed
Emanuele”.
Allora era
vero.
Il problema erano ancora Michele e gli altri tre. E questo poteva
significare
solo una cosa. Guai. Come tutte le volte che di mezzo c’erano
quei quattro. Giuseppe
mi porse un foglio aggiungendo che “ne è arrivata
una copia anche a Emanuele e
Francesco. Subito dopo ci siamo visti e abbiamo deciso di
andarci”. Il foglio
conteneva un invito a recarsi ad un particolare indirizzo il giorno
seguente.
Era firmato da tutti e quattro i nostri “nemici”.
La data dell’appuntamento
erano 3 giorni prima della famosa telefonata.
“Ci
siamo andati”
continuò Giuseppe “e poco dopo arrivarono anche
loro quattro. Ci dissero che da
quel momento noi tre abitavamo nel loro territorio ed avremmo dovuto
ubbidire a
qualunque cosa ci avessero chiesto di fare. Senza discutere. E la prima
cosa
che ci chiedevano era di non avere più alcun rapporto con
te”.
“E
per questo che
mi hai risposto in quel modo l’altra sera?” gli
chiesi, quasi mettendomi a
ridere.
“No!
È che ero
così nervoso che ho reagito così. Infatti vedi
che appena è stato possibile, te
ne ho parlato?” disse.
“Ma
voi non gli
avete fatto niente?” chiesi ancora.
“No!
Eravamo in
inferiorità numerica e sinceramente ci hanno proprio preso
alla sprovvista!”
“Ma
non avete
neanche detto niente?” incalzai.
“Neanche!
Che gli
dovevamo dire?” rispose Giuseppe “a parte che loro
hanno finito e se ne sono
andati senza neanche lasciarci ribattere”.
“Che
cosa avete
deciso di fare?”
“Ancora
niente.
Adesso che ci sei tu siamo sicuri che non ci succederà nulla
di male. Ma quando
tu te ne andrai? A settembre rimarremo di nuovo soli!” disse
Giuseppe. E a quel
punto compresi il perché di tutta la preoccupazione del mio
amico.
Finché
rimanevamo
in parità
numerica, eravamo sicuri di
poter combattere, almeno, ad armi pari. Ma a settembre, quando
sarebbero
ritornati in tre, che cosa avrebbero fatto? Di certo Michele e gli
altri
gliel’avrebbero fatta pagare anche per quello che avrei
potuto fare io nel
corso dell’estate. Era, evidentemente, una situazione
delicata.
“Allora…
visto
che non ci siamo ufficialmente ancora visti” dissi
“stasera, quando voi starete
fuori come al solito a chiacchierare, Michele e company arriveranno
sicuramente
a darvi fastidio. A quel punto interverrò anche io cercando
di risolvere
immediatamente la situazione con le buone, ma al tempo stesso
ripristinando la
parità numerica, casomai le cose dovessero precipitare. Sono
sicuro che non
hanno le spalle coperte. E non sono abbastanza duri da continuare
questa storia
se vedono che noi ci opponiamo con il giusto carattere. Ecco
perché avrei
preferito che aveste detto qualcosa”.
“Speriamo
che tu
abbia ragione. Allora ci vediamo stasera?” chiese Giuseppe.
Bevvi le
ultime
due gocce di tè e me ne andai. Effettivamente mi accorsi di
come e quanto Giuseppe
fosse preoccupato per quello che stava accadendo. Si vedeva come mal
sopportava
quella situazione che erano stati costretti a subire, ma aveva
abbastanza paura
per agire con le maniere forti. Almeno adesso che c’ero anche
io forse poteva
esserci qualche speranza in più di risolvere le cose,
pacificamente o meno. La
cosa che, comunque, mi preoccupava più di tutte era che
Giuseppe era ancora
piccolo, troppo piccolo, per capire quando era il caso di fermarsi e
non andare
avanti e quando era necessario procedere oltre con le parole e con le
azioni.
Capii che, nel momento in cui sarei dovuto intervenire, quella sera
stessa, la
scelta dei tempi sarebbe stata fondamentale. Perché il
rischio era che Giuseppe
avrebbe potuto tirare troppo la corda, e le cose si sarebbero
complicate velocemente.
Mentre, perché il mio piano potesse riuscire, avrebbero
dovuto correre quasi il
rischio di prenderle prima che potessi intervenire in loro aiuto.
Rientrai a
casa e rimasi con i miei nonni a chiacchierare per quelle successive
due ore.
Poi, verso le sette e mezza di sera, come al solito, sentii la voce di
Francesco che chiamava Giuseppe. Andai in bagno e da lì,
dietro l’inferriata
ben chiusa della finestra, al di fuori della consapevolezza della mia
presenza
da parte dei miei amici, mi misi ad ascoltare quello che accadde.
Francesco,
Emanuele e Giuseppe si salutarono. Incominciarono a parlare del
più e del meno.
Poi, da dietro l’angolo della via, sbucarono Michele,
Amaraldo, Dorian e
Salvatore.
Quelli
lì non
avevano avuto neanche il coraggio di muoversi in parità
numerica. E questo non
era buono. Significava che avevano già sospettato qualcosa,
o così volevano
farci credere, e che quella sera sarebbe finita alle mani. Dalle scuri
della
finestra vidi chiaramente Giuseppe che si voltava verso lo scivolo
pedonale.
Ancora non era il momento, però, per giungere in loro aiuto.
Volevo, dovevo
vedere dove avevano intenzione di arrivare i nostri nemici.
“Abbiamo
saputo”
esordì Amaraldo, “che il vostro amichetto
è qui!”
Giuseppe
si voltò
di nuovo, questa volta verso la finestra del mio bagno. Per un attimo
mi
spaventai. Sembrava quasi che Giuseppe sapesse che mi trovavo
lì, proprio
dietro quella finestra. Cosa impossibile, pensai. Nessuno sapeva del
mio
segreto. Nessuno mi poteva vedere da quella posizione. Nessuno sapeva
che
l’avevo fatto altre volte.
Non
perché
volessi spiare i miei amici.
A quindici
anni
la timidezza mi spingeva ancora a non avere neanche la faccia tosta di
presentarmi qualche volta a casa loro per chiamarli giù a
giocare. Il risultato
era che mi posizionavo vicino alla finestra del bagno o della camera da
letto e
quando vedevo o sentivo che erano usciti mi fiondavo anch’io
a raggiungerli.
Così qualche volta si erano stupiti del mio tempismo ma non
erano mai arrivati
a conoscere la verità. Almeno, così pensavo che
stessero le cose.
“Spero
per voi
che non siate stati così idioti da parlargli!”
continuò Salvatore, sbattendo il
pugno destro con il suo palmo sinistro, con tono di sfida.
Giuseppe
si
rivolse nuovamente verso lo scivolo.
Mi
dispiaceva
vedere Giuseppe e i miei amici in difficoltà.
Ma capivo
che
ancora non era il momento. E speravo che anche Giuseppe stesse
condividendo la
mia idea.
Fu la
volta di
Dorian. “Dovremmo farvi molto male se fosse accaduta una cosa
simile”.
E poi non
accadde
più nulla. Solo un prolungato e persistente silenzio. Ecco,
fu durante quel
silenzio che capii che stava succedendo qualcosa di brutto, molto
brutto.
Soprattutto per un motivo. Adesso Giuseppe non guardava più
da nessuna parte,
all’infuori degli occhi di Michele. E questo non andava per
niente bene. Stava
per fare la scemata, ne ero sicuro. Stava per aprire quella bocca nel
modo
peggiore possibile. Nel preciso istante in cui mi accorsi che aveva lo
sguardo
fisso su Michele, compresi che aveva staccato il cervello dalla bocca.
Stava
partendo in quarta. Avrei voluto urlargli di guardare da qualche altra
parte,
di distogliere lo sguardo, di non cascarci. Ma non potevo. E capii che
comunque
non mi avrebbe neanche ascoltato.
“E
se anche
fosse?” se ne uscì Giuseppe. Silenzio.
“Allora”
rispose
Michele “credo che stasera ci divertiremo!”, fece,
avvicinandosi lentamente a
Giuseppe, fissandolo negli occhi. Distrasse solo lo sguardo quando
nella
penombra della casa che si trovava al loro fianco udì una
porta che sbatteva.
La porta
che
sbatteva ero io. Ero uscito come un pazzo da casa, lasciando intontiti
anche i
miei nonni.
Michele
era a
poco più di un metro da Giuseppe. Francesco e Emanuele,
inconsapevoli di ciò
che stava veramente accadendo si erano posizionati davanti a Giuseppe.
Si erano
poi spostati lasciando la strada a Michele, quando imperterrito
continuava ad
avanzare.
Ora
Michele era a
poco meno di un metro da Giuseppe. “Forse dovrei romperti il
naso” disse,
continuando a fissarlo. Una goccia di sudore spuntò dalla
tempia di Giuseppe.
E, finalmente, la mia testa spuntò dallo scivolo pedonale.
“Forse
dovresti
prendertela con uno della tua stessa età” gli
dissi sopraggiungendo. Michele si
fermò. Giuseppe ricominciò a respirare, Francesco
e Emanuele sentirono le gambe
cedere ma fecero il possibile per non farlo vedere. Sapevano che la
crisi era
passata. Loro.
Sebbene ci
fosse
così poco spazio tra Giuseppe e Michele, mi inserii tra i
due.
Non appena
arrivai in quella posizione, cercai di esibirmi nel peggiore e
più arrabbiato
sguardo che avessi mai lanciato a Michele, che incominciò a
indietreggiare. Quello
sguardo non poteva e non doveva lascare adito a dubbi. Michele doveva
capire
che avevo deciso che quello era il momento per risolvere una volta per
tutte la
questione. Che sarei arrivato, per quella volta, fino in fondo. E
Michele
sapeva di non avere scampo.
Tutte le
volte
che, anche se da amici, avevamo fatto finta di fare a botte, anche le
volte in
cui poi ci facevamo prendere un po’ di più la
mano, Michele non aveva mai
vinto. Ero più forte di lui. E la stessa cosa poteva dirsi
per le altre tre
coppie di coetanei, schierati su fronti opposti. Abbassò lo
sguardo, arrossì,
in parte per l’umiliazione di quel rovesciamento di fronte,
in parte per la rabbia
che aveva dentro e sapeva di non dover e poter esternare.
“Andiamo!”
furono
le uniche sue parole dette, a denti stretti. Si voltò e
neanche trenta secondi
dopo che ero comparso sulla scena i nostri quattro nemici se ne erano
andati
con la coda fra le gambe.
Appena
girarono
l’angolo, Francesco e Emanuele si gettarono amichevolmente
addosso a me
ringraziandomi e salutandomi. Io ci misi tre secondi a farlo. Poi con
la stessa
faccia tesa e incupita che avevo sfoderato con Michele, mi avvicinai a
Giuseppe.
S:
“Ma sei
cretino a rispondergli così?”
G:
“Eh! Tu non
arrivavi, non sapevo che fare!”
F:
“Scusa ma come
facevi a sapere cosa stava succedendo e che doveva arrivare?”
G:
“Ci spiava
dalla finestra del bagno come fa sempre. Non eravamo
d’accordo che dovevi arrivare
appena arrivavano Francesco e Emanuele?”
S:
“Non ho fatto
in tempo perché sono subito arrivati gli altri quattro. E a
te cosa costava
fare buon viso a cattivo gioco?”
F:
“Scusate ma,
Simone, tu ci spii?”
G:
“Non è il
momento! Dovevi arrivare in tempo! Mi sono preso un colpo quando ho
visto che
non arrivavi!”
S:
“Dovevo vedere
come andava a finire. Se avessi pensato per un attimo solo che eravate
in
inferiorità numerica forse avresti, giustamente, concluso
che era meglio non
farla quell’uscita esasperata ed eroica!”
F:
“Si ma tu ci
spii dalla finestra del bagno!?”
S:
“Sentito
Giuseppe? Non è il momento! Giuseppe: non fare mai
più un errore del genere!”
“Mii!
Oh! Grazie
per l’aiuto! Sapere che finiva così avrei
preferito farmi picchiare da Michele
che da te!” Disse Emanuele, serio; ma la sua frase ottenne il
risultato
opposto. Perché dopo qualche altro secondo di silenzio,
tutti, con una
sincronia eccezionale, scoppiammo in una grossa e sonora risata.
La serata
passò più
o meno tranquillamente. Finalmente potemmo parlare senza nasconderci,
senza
temere nulla. E questo ci spinse a chiacchierare sempre più
amabilmente. Visto
che ero stato smascherato da Giuseppe, confidai ai miei amici
l’abitudine che
avevo di “spiarli” dalle finestre di casa mia.
Però spiegai loro anche il
motivo e nessuno ebbe ragioni di lamentarsene.
Quella
serata si
concluse. Salutai i miei amici e ritornai verso casa, questa volta
dalla strada
che facevo normalmente. Risalii la strada della casa di Giuseppe, presi
la
prima traversa e poi ridiscesi verso casa mia. Appena girato
l’ultimo angolo
ebbi quasi un giramento di testa. Mi appoggiai al muro. Era quasi
mezzanotte.
Nonostante avessi a pochi metri sia i miei nonni che i nostri vicini,
riuscii a
non farmi accorgere di nulla. Appena arrivato a casa mi misi sul letto.
Me
l’ero vista
proprio brutta. Era vero che ero riuscito a reggere il gioco con gli
altri tre
fino ad allora, per quasi tre ore. Ma adesso, nella solitudine del
letto, e
prima ancora in quella del breve viaggio di ritorno a casa, avevo
risentito
tutto il peso di quell’esperienza sulle mie spalle, ancora
troppo piccole per
potermi permettere di portarla tutto solo. Quella sera per la prima
volta avevo
avuto veramente paura. Ne avrei avuta ancora, e molto più
forte, di paura. Ma
io ero una persona tranquilla. Con l’intelligenza e
l’astuzia ero sempre
riuscito ad evitare di fare a botte. E quella era una cosa della quale
potevo
ben vantarmi in una scuola come la mia, nella quale la rissa era la
maggior
causa di sospensione per gli studenti, compresi alcuni miei compagni di
classe.
Certo era
che,
quando sentii Giuseppe pronunciare quella frase, quel “E se
anche fosse?”,
istintivamente mi ero gettato in aiuto dei miei amici. Ero sicuro che, se non lo
avessi fatto,
Michele avrebbe potuto facilmente e tranquillamente fare del male agli
altri
tre. Soprattutto a Giuseppe, che l’aveva sfidato
così apertamente. Michele
sarebbe arrivato al punto di rompergli il naso, a Giuseppe. E, per
quanto fossi
arrivato dai tre assolutamente pronto a passare alle mani se la
situazione lo
avesse richiesto, non ero assolutamente certo di potermi guadagnare la
vittoria. D’altra parte con Michele non avevamo avuto
più nessuno scontro. E
sarebbe bastato un po’ di esercizio in più e
qualche mese di vantaggio sulla
naturale crescita fisica per avere velocemente la meglio su di me. Mi
parve
allora strana la reazione di Michele. Però era stata la meno
attesa, ma di
certo migliore di qualunque altra avessi potuto immaginare: la fuga.
Perché era
scappato? Forse neanche lui era così sicuro della sua forza.
Indipendentemente
da questo, però, mentre procedevo lungo lo scivolo pedonale,
me lo ero chiesto
tante, tantissime volte: -ma chi me lo fa fare?-
La
risposta
migliore era “l’amicizia”. Certamente i
miei amici avrebbero fatto la stessa
cosa se fosse accaduto il contrario. Ma solo l’adrenalina che
avevo nel sangue
poteva avermi spinto a terminare lo scivolo e fare tutto quello che
avevo fatto
dopo. E non era stata l’amicizia l’unica cosa che
aveva scatenato la scarica di
adrenalina. Ero anche profondamente arrabbiato con Michele. Era ormai
troppo
tempo che non lo capivo più. Ero assolutamente sicuro del
fatto che non avevo
mai provato quelle sensazioni e una paura simile.
Mi
ricordai di
quando una volta, mio padre, parlandomi di quando avrei potuto trovarmi
in
situazioni simili, mi disse chiaramente come dovevo comportarmi. Mai
incominciare a fare a botte, mai provocare. Ma, nella malaugurata
ipotesi di
subire un attacco, difendersi picchiando, forte e bene. E quello ero
stato
disposto a fare in quel momento. Se Michele m’avesse
attaccato, io non solo mi
sarei difeso, ma sarei stato disposto a farlo fino al punto di far
passare una
volte per tutte a quei ragazzini la voglia di darci fastidio.
Altrimenti non
sarebbe servito a nulla, esattamente come prenderle come un bambino. La
cosa
che mi spaventò di più fu che provavo quella
sensazione per la prima volta in
vita mia. E, se da una parte mi vergognavo molto di quei sentimenti,
d’altra
parte avevo compreso che, tanto, prima o poi, sarebbe dovuto arrivare
il
momento di farlo. Meglio a Policoro con un mio coetaneo e altri tre
mocciosi,
che a Milano con qualche bullo maggiorenne della mia scuola, come,
per’altro,
era successo proprio a Vito e Nicola.
Forte di
questa
opinione, riuscii finalmente a trovare la calma emotiva e mentale
necessaria
per addormentarmi. E ci riuscii.
----O----
“Perché
non ha
picchiato subito quell’idiota?”
“Non
lo so, Capo!
Forse ha iniziato a capire che non è poi tanto un
idiota”
“Va
bene! Allora,
quando inizi ad avere la certezza che non si tratta solo di rispetto ma
inizia
ad avere paura di lui, passa pure alla fase due”
“Ok Capo!”
---
--- NdA : Buoangiorno! Ecco il punto di non ritorno (anche se ce ne saranno parecchi nella storia). i giochi sono fatti. Mi raccomando: fatemi sapere cosa ne pensate... ciao!