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Autore: Sapphire_    03/08/2016    1 recensioni
Se una donna fissata con il rosso incontra un uomo dai capelli rossi che ha paura del sesso opposto, cosa pensate che possa succedere?
April Montgomery è quella donna, Aaron Marlowe quell'uomo, ed entrambi vivono la propria vita in quel pulsante nucleo sempre vivo di New York, che in seguito a un fortuito evento tra i due - un vero e proprio cliché - farà da sfondo anche ai loro successivi incontri.
In fondo, il modo migliore per eliminare una fobia è affrontarla, no? Forse non tutti sarebbero dello stesso avviso...
Dal testo:
«Ma sei un idiota?» furente, alzò lo sguardo verso l'idiota che le aveva appena fatto fare una figuraccia di fronte a tutti. Gli occhiali le erano scivolati sul naso e in un primo momento non vide niente, ma li tirò su e una visione la colpì.
Alto, bell'aspetto, sguardo freddo e dagli occhi scuri, piercing al labbro e un importantissimo dettaglio.
«Che bellissimi capelli rossi!»
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Buongiorno a tutti!
Ecco a voi il quinto e nuovo capitolo di It's too cliché. So che non ho aggiornato molto tempo fa, e da un lato avrei voluto attendere ancora qualche giorno prima del nuovo capitolo, ma a breve parto al mare e dato che lì la connessione è praticamente inesistente ho preferito anticipare, anche perché lo scorso capitolo era veramente breve, e mi dispiaceva avervi lasciato solo un capitolo di passaggio.
Come potete vedere, questo capitolo è abbastanza lunghetto anche se, devo anticiparvi, il fatidico incontro tra April e Aaron non avverrà nemmeno qui. Dovrete attendere al prossimo capitolo per questo, ed è ancora in fase di revisione. Spero comunque che possiate trovare questo divertente e carino come gli altri, perché mi sono anche divertita a scriverlo!
Forse, tra un paio di capitoli, dovrebbe anche apparire un banner creato appositamente per la mia storia – non da me, questo è ovvio, non ho le capacità necessarie per fare un buon lavoro purtroppo. Comunque sia, vedrete anche i presta-volto dei due protagonisti, che però chiedo di non tenere particolarmente in considerazione e di immaginarvi i vari personaggi come più vi piace, anche perché il bello delle storie è proprio questo!
Mi sono dilungata anche fin troppo, quindi concludo ringraziando tanto coloro che hanno inserito la storia tra i preferiti e le seguite, e anche chi deciderà (forse) di lasciarmi un piccolo commento che potrebbe aiutarmi a migliorare o anche solo farmi un enorme piacere.
Buona lettura e a presto!
Un abbraccio,

~Sapphire_






~It's too cliché






Capitolo cinque

«Dimmi che stai scherzando»
Aaron stava per avere una crisi isterica.
Inchiodò di scatto al semaforo che si illuminò all'improvviso di rosso, per poi continuare a concentrarsi sulla telefonata.
«Ti pare che io scherzi, tesoro?» la voce della madre, dall'altro capo del filo, suonava scandalizzata.
«Mamma, mi pare ti abbia avvisato che oggi avrei avuto l'intervista!» rispose Aaron sempre con il medesimo tono isterico, mollando per un attimo il volante e passandosi una mano tra i capelli rossi, un gesto misto di esasperazione e incredulità.
«Aaron» iniziò Elizabeth «Ti pare che possa scherzare su certe cose? Inoltre, credi che potessi in qualche modo prevedere che Vicky si rompesse un braccio proprio oggi? Andiamo, tesoro!» continuò la donna.
Aaron mugugnò disperato.
E ora come avrebbe fatto? Non poteva saltare in quel modo l'intervista, era importante e sarebbe stato favorevole per la sua carriera.
«Non puoi chiamare nessun altro?» insistette.
A quanto pare aveva una famiglia allargata solo quando faceva comodo.
«Io e Rosalie stiamo vedendo delle location per il matrimonio e oggi era l'unico giorno disponibile, ci hanno anche fatto un favore a fissarci l'appuntamento dato che è quasi sempre occupato. Tuo padre sta lavorando, Suzanne pure e Sophie non risponde al telefono; di certo non posso chiederlo a Isobel»
«Anche io sto lavorando, mamma!» protestò.
«È solo un'intervista, puoi rimandarla a un altro giorno. Tua sorella ha bisogno di te, ti sta aspettando all'università, vai subito da lei» e con questo tono imperioso, Elizabeth chiuse la telefonata.
Aaron si imbambolò a guardare il telefono, incredulo del fatto che gli avesse chiuso il telefono in faccia; a riscuoterlo fu il clacson della macchina dietro di lui, richiamandolo e facendogli notare il verde del semaforo.
Stringendo il volante, pensò che questa gliel'avrebbero pagata.

«Buongiorno, stiamo cercando Aaron Marlowe, siamo qui per intervistarlo»
April sorrise cortese all'uomo dietro il banco informazioni all'entrata, un signore sulla quarantina che ricambiò il suo sorriso. Dietro di lei, Damian trafficava con il telefono.
«Un attimo solo, signorina» rispose altrettanto cortese il signore.
Sollevò poi la cornetta del telefono posto affianco a lui e digitò alcuni numeri; nel frattempo, April si girò verso il suo accompagnatore.
«Non dovresti spegnerlo? Siamo qui per lavorare» puntualizzò.
Damian sollevò lo sguardo e le lanciò un sorriso strafottente.
«Quando sarà il mio momento, lo metterò via, tesoro» rispose.
April sollevò gli occhi al cielo ma fece un mezzo sorriso, voltandosi per impedirgli di vederlo; nonostante ciò, notò con la coda dell'occhio il sorriso soddisfatto dell'uomo.
«Mi dispiace, ma il signor Marlowe non è ancora arrivato»
April guardò sorpresa l'uomo.
«Avremmo un appuntamento» precisò, con un lieve tono di fastidio.
«Lo so, ma a quanto pare è in ritardo, stanno provando a contattarlo ma non risponde, appena sappiamo qualcosa vi informeremo. Nel frattempo, potete aspettarlo al piano in cui lavora, è il ventunesimo» spiegò, indicando l'ascensore lì vicino.
April si voltò a guardarlo, poi si girò verso Damian.
«Che facciamo?» domandò, insicura su come comportarsi in un frangente del genere.
«Aspettiamo, magari è bloccato nel traffico» rispose lui, scrollando le spalle.
April annuì poco convinta, poi si girò verso l'uomo per ringraziarlo e infine si diresse verso l'ascensore, sempre seguita dal fotografo che, abbandonato il cellulare, trasportava la propria strumentazione.
In poco tempo arrivarono al ventunesimo piano, come era stato loro detto, e si sedettero nella sala d'attesa dove vi erano varie poltroncine e dei tavolini.
E ora aspettiamo.

Mentre si dirigeva a passo spedito verso l'entrata dell'università, Aaron a malapena guardava dove mettesse i piedi preso com'era dal tentativo di rianimare il proprio cellulare: la batteria totalmente scarica aveva deciso di lasciarlo isolato dal mondo e incapace di avvisare che non avrebbe potuto essere presente per l'intervista.
Masticò una pesante imprecazione e fece a due a due gli scalini che lo condussero all'interno dell'università, per poi guardarsi intorno e cercare la sorella. La vide subito in una sedia vicino a delle macchinette per gli snack, vicino a lei una signora che le controllava il braccio e le parlava.
«Vicky!» esclamò, correndole incontro.
La ragazza sollevò di scatto la testa, facendo ondeggiare la coda rossa.
«Aaron» mugolò la giovane, mentre si teneva il braccio. Affianco a lei, la donna si alzò.
«Buongiorno, io sono Rebecca Wilson, tu dovresti essere il fratello di Victoria, giusto?» fece la signora in questione, allungando una mano. Aaron gliela strinse frettoloso.
«Sì, sì, sono Aaron Marlowe» borbottò. Si voltò poi verso la sorella «Si può sapere che cazzo è successo?» sbottò, irritato dalla situazione.
Del canto suo, la sorella alzò gli occhi al cielo infastidita.
«A te cosa sembra sia successo? Mi sono rotta il braccio, idiota» rispose secca; mosse per sbaglio il braccio e gemette per il dolore.
«Ma davvero? Non me n'ero accorto» rispose sarcastico il rosso.
«È scivolata sul pavimento bagnato nella toilette ed è caduta sul proprio braccio» spiegò rapida Rebecca, un poco stupita dalla reazione aggressiva di Aaron. Aaron che, a dirla tutta, sembrò arrabbiarsi ancora di più.
«Sei caduta sul pavimento bagnato? Ma cosa sei, stupida?» continuò aggressivo.
Non era sua intenzione comportarsi in quella maniera verso la sorella; sapeva perfettamente che non era colpa sua l'incidente, ma nonostante quello non riusciva a non arrabbiarsi: un'occasione perfetta per il suo lavoro sfumata così velocemente per una cosa del genere. Era così arrabbiato che non veniva scalfito nemmeno dalla presenza della donna, anche se le aveva addirittura stretto la mano.
«Ti sembra che io mi diverta?» sputò velenosa la sorella.
A quel punto, Aaron si sgonfiò come un palloncino appena bucato, rendendosi conto del suo comportamento e acquisendo di nuovo la sua aria da cucciolo bastonato.
«Lo so, scusa... Comunque sia, ti porto subito in ospedale, andiamo» disse con tono mesto.
Victoria annuì in silenzio, alzandosi e tentando di prendere la borsa prontamente afferrata dal fratello.
«Non è nulla di grave di sicuro, non preoccuparti» fece poi Rebecca, in direzione del ragazzo, sporgendosi per toccargli la spalla.
Solo in quel momento Aaron si rese conto della situazione e, terrorizzato, si allontanò impedendo alla donna di toccarlo; vicino a lui, Vicky rise tra sé.
«Lo so» rispose secco Aaron, mascherando la paura con la solita patina di indifferenza e gelo.
Senza aggiungere altro trascinò poi la sorella verso l'uscita, cercando di fare più in fretta possibile e mettere il maggior numero di metri tra lui e una donna.
«Avrà avuto cinquant'anni, di cosa hai paura?» rise la sorella, una volta che entrambi si trovarono in macchina e Aaron partì. Quest'ultimo rabbrividì.
«Non importa l'età, le donne sono sempre spaventose» fece funereo. La sorella rise ancora di più, tenendosi il braccio che al muoversi dell'auto le doleva.
«Sei fantastico, davvero!» riuscì a dire tra le risa «Eppure non hai paura di noi» continuò, sottintendendo lei e le sorelle. Aaron fece spallucce.
«Non che voi non mi spaventiate, ma vi conosco, siete le mie sorelle» spiegò; poi le lanciò un veloce sguardo divertito «Le mie adorate sorelle, anche se ogni tanto vorrei strozzarvi» precisò.
Victoria gli sorrise dolce, in una di quelle espressioni prive di malizia o superficialità che era solita assumere.
«Anche noi vorremmo strozzarti a volte, che credi?» disse poi, ironica. Aaron rise.
«In ogni caso... Mi dispiace averti fatto perdere l'intervista, so che è importante per te. Non c'è un modo per farla un altro giorno?» fece poi, dispiaciuta.
«Non lo so» mormorò lui depresso «Prima di tutto, dovrei avvisare che non potrò andarci, ma il mio telefono ha deciso di abbandonarmi per cui non ho potuto farlo. Mi puoi prestare il tuo?»
«L'ho dimenticato a casa» rispose la ragazza.
«Come hai fatto a chiamare allora?»
«Telefono dell'università» rispose Vicky telegrafica. Aaron gemette.
Possibile che tutta la sfortuna ce l'avesse lui? C'era qualcosa che poteva andargli per il verso giusto, ogni tanto?
Ci teneva tantissimo a quell'intervista, gli avrebbe garantito una buona pubblicità anche con le altre aziende e ciò avrebbe incrementato la richiesta di suoi lavori. Eppure, ecco qui che tutto andava in fumo; inoltre non sapeva se con un pacco del genere la rivista avrebbe accettato a fare una nuova intervista. Non aveva neanche avvisato in tempo e ora come ora non sapeva come informarli, dato che in due non avevano nemmeno mezzo telefono.
Sospirò desolato mentre finalmente vedeva l'ospedale ed entrava nel parcheggio predisposto.
Pochi minuti dopo, entrambi si trovavano nel banco dell'accettazione del pronto soccorso e degli infermieri – Aaron sospirò sollevato vedendo degli uomini – si presero subito cura della sorella, portandola in una stanza per controllare il braccio.
Non gli restò quindi che sedersi nella sala d'attesa e aspettare.

«Sono passate quasi due ore!» sbottò April, esausta. Affianco a lei, Damian giocherellava con la carta del cioccolato preso dalle macchinette.
«Lo so, l'hai detto anche dieci minuti fa» puntualizzò l'uomo.
«Tu non sei arrabbiato?» continuò lei, girandosi nella sua direzione.
«Tanto non posso farci molto, non ha senso prendermi male» fece placido lui.
April scattò in piedi nervosa, iniziando a ignorarlo: non la vedevano nello stesso modo, quello era ovvio. Ciò che la preoccupava, inoltre, era che alla rivista potessero in qualche modo prendersela con lei.
Cioè, sapeva perfettamente che non era colpa sua – insomma, non poteva prevedere che quel coglione, chiunque esso fosse, avrebbe saltato così platealmente l'appuntamento senza prendersi nemmeno la briga di avvisare.
Era veramente arrabbiata e inoltre il suo stomaco iniziava a lamentare la fame – era comunque quasi l'una!
Si avvicinò per l'ennesima volta alla segretaria che, dietro la propria scrivania, digitava qualcosa al computer.
«Mi scusi, ma non si sa ancora nulla?» chiese per l'ennesima volta.
La donna – una giovane ragazza di circa venticinque anni, dai ricci capelli neri trattenuti da una vistosa forcina a farfalla – sollevò lo sguardo annoiata: era la ventesima volta che si avvicinava e April lo sapeva, ma era più forte di lei insistere in quel modo.
«Mi dispiace, ma ancora non si sa nulla. Appena avremo notizie vi faremo sapere»
La bionda conosceva ormai a memoria quella frase, perciò sentirsela ripetere per l'ennesima volta la fece incazzare ancora di più. Girò i tacchi e tornò a sedersi, iniziando a battere ritmicamente il piede per scaricare il nervosismo.
Dopo altri dieci minuti di snervante attesa, in cui April aveva fatto l'ennesimo giro per la stanza, quest'ultima si piazzò di fronte a Damian.
«Basta. Andiamocene» fece secca.
L'uomo alzò lo sguardo verso di lei.
«Sei sicura?» chiese.
«Sì. Insomma, siamo qui da quasi due ore e questo tizio non solo non si è presentato, ma non ha avuto nemmeno la decenza di avvisarci in qualsiasi modo. Non mi interessa, non intendo essere trattata in questa maniera» rispose fredda.
Il fotografo rise divertito, ma si alzò comunque e prese tutte le sue cose.
«Come vuoi, tesoro» disse solo.
Lanciarono un rapido saluto alla donna dietro la scrivania e ripresero l'ascensore; al suo interno, April stava con le braccia incrociate, sempre nervosa.
«Chiamerò il signor Garret e lo informerò della situazione. Di certo non mi può dire nulla, no? In fondo ciò che mi ha chiesto l'ho fatto: mi sono presentata al posto di Joel. Se quell'Aaron qualcosa ha deciso di darci buca non è affar mio» spiegò risoluta, quasi giustificando le sue azioni.
Aveva paura che l'uomo si sarebbe arrabbiato vedendola tornare senza l'intervista, anche se effettivamente lei non aveva fatto nulla di male; esprimendo i suoi pensieri ad alta voce in quel modo, cercava solo di trovare manforte nel fotografo che le lanciò un'occhiata.
«Garret capirà di sicuro, non preoccuparti. Non è uno che se la prende per casi del genere, non siamo noi ad aver mancato all'appuntamento» rifletté l'uomo.
Sentendo quelle parole April si sciolse un poco e infine sorrise all'altro, che la guardò fissa negli occhi.
A rompere il bel momento ci pensò però lo stomaco della ragazza che brontolò rumoroso proprio mentre le porte dell'ascensore si aprivano, facendo scoppiare a ridere l'altro; arrossì imbarazzata.
«Beh, direi che allora possiamo andare a mangiare qualcosa, che ne dici?» chiese allora l'uomo, continuando a ridere tra sé. April arrossì ancora, diventando un tutt'uno con i suoi adorati occhiali.
«Mi sembra una buona idea» rispose, cercando di riacquistare un po' di contegno.
E con questa decisione, alle tredici e un minuto, uscirono dall'edificio.

Erano esattamente le tredici e due minuti quando Aaron varcò la soglia dell'edificio in cui lavorava, catapultandosi all'interno con il cuore che minacciava di scoppiare dentro il proprio petto.
Si fermò un attimo, cercando di prendere fiato, ma attese giusto un paio di secondi e poi si precipitò verso l'ascensore, iniziando a pigiare con insistenza il tasto di chiamata e a battere freneticamente il piede.
«Sbrigati, cazzo!» masticò tra sé, rischiando quasi di rompere il pulsante.
Finalmente le porte dell'ascensore si aprirono e il rosso si buttò al suo interno, premendo il tasto 21.
Ma è sempre stato così lento questo coso?, pensò infastidito.
Un paio di minuti ed arrivò al proprio piano, uscendo di corsa.
Alla vista di Daphne, dietro la scrivania, impallidì e rallentò drasticamente. Si avvicinò un poco, rimanendo a due metri di distanza.
«Ehi» disse solo, richiamando l'attenzione della ragazza. Quest'ultima sollevò lo sguardo su di lui e, riconoscendolo, gli sorrise. Aaron ebbe un brivido.
«Aaron, finalmente!» disse la ragazza alzandosi. Il ragazzo fece un passo indietro.
«Senti, sono ancora qui i tizi della rivista?» chiese distaccato.
Dentro di sé tremava come una foglia, ma fuori il suo atteggiamento parve solo freddo e disinteressato per tutto ciò che lo circondava, Daphne compresa. Proprio quest'ultima, in parte abituata agli strani atteggiamenti dell'uomo, lo guardò un poco offesa notando il passo indietro.
«Se ne sono andati proprio adesso. Non li hai incrociati venendo qui?» domandò a sua volta, ritornando a sedere dopo aver visto l'allontanamento dell'altro.
Dentro di sé, Aaron si sentì morire.
Merda. Non ci posso credere.
Vide chiaramente la propria splendida occasione andare in cenere come se qualcuno l'avesse cosparsa di benzina e datole fuoco.
«Mh» mugugnò solo.
Poi, senza lanciare nemmeno un altro sguardo a Daphne – l'aveva guardata perfino per troppo tempo, considerando i suoi standard! - tirò dritto verso il proprio ufficio con l'umore in caduta libera.
Quando entrò dentro il proprio ufficio – una stanza di discrete dimensioni, con una grande scrivania tappezzata di computer, fogli e altri strumenti professionali – alzò gli occhi al cielo riconoscendo Tom che, con un cubo di rubik in mano, si dondolava sulla sedia girevole.
«Ti prego, non infierire» piagnucolò avvicinandosi alla propria scrivania e sedendosi su un'altra sedia.
Tom alzò lo sguardo e sogghignò.
«Bastardo» disse solo il rosso, vedendolo.
«Oh, ti prego, finalmente è giunta una giusta punizione per i tuoi infiniti ritardi. Dovevi aspettartela un giorno o l'altro» disse Tom, poggiando il cubo sul tavolo e abbandonandosi sullo schienale.
«Non. Dirlo» scandì l'amico.
«Che ti aspettavi? Almeno una telefonata potevi farla. E poi, che è successo questa volta?»
«Vicky si è rotta il braccio cadendo e a quanto pare io ero l'unico disponibile per andare a recuperarla. Il mio telefono si è scaricato e mia sorella se l'era dimenticato a casa» spiegò depresso.
«Ok, questa volta è stata sfiga, lo ammetto» fece il moro, alzandosi finalmente dalla sedia.
Passandogli affianco, gli diede una pacca sulla schiena.
«Non preoccuparti, vedrai che se chiami e spieghi ciò che è successo non se la prenderanno. Può capitare a tutti una cosa del genere» disse con un vago tono consolatorio, avvicinandosi alla porta.
«Davvero?» chiese con tono lamentoso l'altro.
Tom ci pensò un po' su.
«No, effettivamente poteva capitare solo a te. Ci si vede!»
E con questa ultima uscita, che fece venire ad Aaron una gran voglia di buttarsi dalla finestra, uscì dalla stanza, lasciando l'amico a deprimersi.
L'ho sempre detto, le donne sono una rovina.

Poco lontano dall'azienda, la iElettronic Company, in cui April aveva sprecato due ore della propria vita, la bionda e Damian avevano trovato un adorabile ristorante retrò in cui avevano deciso di fermarsi.
Proprio lì i due stavano pranzando e chiacchierando.
Anzi, non è del tutto esatto. Riproviamo.
Proprio lì i due stavano pranzando e flirtando in maniera abbastanza spudorata, tra sorrisini e battutine lanciate qua e là.
«...quindi alla fine dello stage prenderanno solo una di voi tre?»
April venne richiamata all'attenzione – era troppo presa a fantasticare su quella barba ben curata per prestare la dovuta concentrazione alla conversazione.
«Esatto» rispose, riuscendo a ricollegarsi al discorso «Lo stage dura sei mesi, è iniziato ad aprile e finirà a settembre, e fino ad allora dubito che si saprà qualcosa su chi prenderanno» spiegò con un sorriso affascinante.
«Quindi c'è il rischio che non ti prendano» insinuò Damian, con un sorrisetto.
April arricciò il naso infastidita.
«Sì, ma dubito succeda. Sono la migliore» disse con fervore, passandosi poi una mano tra i capelli in un chiaro gesto di vanità. Il fotografo rise, subito seguito a ruota da lei.
«Non ne dubito» rispose poi, con un vago tono malizioso.
April aprì la bocca per parlare, ma venne interrotta dal cameriere che portò ai due i rispettivi dessert: una cheese cake ai frutti di bosco per lei, una torta al cioccolato per lui.
«E se non dovessi essere presa?»
«Beh, in quel caso...» April si interruppe, indecisa. Non che avesse granché pensato a quella eventualità, a dire il vero; le altre riviste in cui avrebbe voluto lavorare l'avevano rifiutata, quella era in parte la sua ultima spiaggia.
Ma non voleva di certo dirlo all'uomo, rischiando di fare la figura dell'incompetente, perciò fece un luminoso sorriso e rispose.
«Ho altre riviste in cui potrei lavorare, devo solo scegliere»
Appena lo disse, April si pentì di quella bugia sentendo il senso di colpa che iniziava a pungolarla; decise di ignorarlo platealmente.
«E tu? Come sei approdato qui?» continuò la ragazza, iniziando ad assaggiare il proprio dolce.
«Mio padre era un fotografo, mi ha sempre affascinato il mestiere» disse, scrollando le spalle «Ho fatto un accademia d'arte, specializzandomi in fotografia, e ho subito trovato lavoro alla The Wor(l)d. Non è esattamente il lavoro dei miei sogni, ma mi permette di vivere secondo i miei ritmi, quindi va più che bene» spiegò rapido.
April annuì.
«E vivi da solo? O con la tua ragazza?» buttò lì April, con un candido sorriso.
Damian sogghignò.
«Mi stai chiedendo se ho una fidanzata?»
«No» rispose angelica «Ti sto chiedendo se vivi da solo o con la tua ragazza» ripeté con candore.
Damian scosse un poco la testa, sorridendo tra sé.
«Comunque no, vivo da solo. Non ho una ragazza» spiegò «E tu? Vivi da sola o con il tuo ragazzo?» chiese a sua volta, scimmiottandola.
April rise.
«Sola soletta. Preferisco l'indipendenza»
Altra bugia, altro lieve senso di colpa. April ricordò la chiamata della mattina, per poi relegare il ricordo a un angolo della sua mente, un angolo in cui non avrebbe più messo piede.
«Giovane, bella, indipendente... Quante qualità» disse Damian, finendo il proprio dolce.
«E non le conosci ancora tutte» insinuò maliziosa April, terminando in concomitanza con lui il dessert.
Si guardarono un attimo negli occhi, poi il fotografo si alzò veloce dalla sedia.
«Bene, direi che è l'ora di tornare a lavoro. Non credo neanche avessimo il permesso di prenderci una pausa pranzo così lunga»
April si alzò un secondo dopo, prendendo la borsa.
«Hai ragione, ma dopo che abbiamo aspettato inutilmente per due ore credo che questo sia il minimo» disse.
Damian la precedette alla cassa, pagando anche per lei.
«Non dovevi» disse April, appena uscirono.
E invece sì che dovevi, se non l'avessi fatto sarebbe stato alquanto imbarazzante, pensò, ma se lo tenne per sé stampandosi in volto un'espressione innocente.
«È stato un piacere» rispose l'altro galante.
Ovvio che è stato un piacere, ci mancherebbe.
«Bene, tesoro, vogliamo andare?»

«Lo ucciderei!» sbottò April, sbattendo con violenza il bicchiere sul tavolo.
Alzò poi lo sguardo verde su May.
«Scusa» bofonchiò, dando uno sguardo al tavolo e assicurandosi che non ci fossero danni su di esso. L'amica fece un vago gesto con la mano, ridacchiando.
«Non preoccuparti» disse, alzandosi per mettere a posto la tavola piena dei resti del cibo d'asporto.
«Ma, aspetta, uccideresti Daniel o il tizio dell'intervista?» chiese poi, ridendo.

April iniziò a piagnucolare.
«Smettila di ridere delle mie disgrazie!»
«Scusa» riuscì a dire May tra le risate «Però, davvero, la tua sfortuna è esilarante»
April mise il broncio.
«Ah, felice che le mie disavventure ti provochino una reazione del genere» borbottò.
«Dai, mi dispiace» soffiò May, avvicinandosi e posandole un bacio tra i capelli.
«Comunque, davvero, per Daniel fregatene. È stato solo un coglione, non ha capito proprio nulla di te se ti ha mollata in questa maniera» disse, prendendo i piatti sporchi e mettendoli nella lavastoviglie; April si alzò per darle una mano e sospirò.
«Lo so, ma possibile che non me ne capiti uno decente? Succede sempre la stessa cosa: mi cercano, mi invitano ad uscire, facciamo sesso e poi mi scaricano. Manco fossi uno straccio! Ho dei sentimenti, cavolo!» si sfogò.
«Sei solo stata sfortunata, vedrai che arriverà il momento anche per te» la tranquillizzò May «Questo Damian come ti sembra, a proposito?» chiese, curiosa.
April si appoggiò al mobile della cucina, asciugandosi le mani su uno straccio.
«Sembra carino. Cioè, non è una bellezza, ma è molto affascinante. E poi credo di interessargli» spiegò.
«Com'è stato il pranzo con lui?»
«Tranquillo. Non è noioso come altri che mi sono capitati, e poi è divertente flirtare con lui» disse con un sorriso.
May annuì e ricambiò il sorriso.
«Allora magari potrebbe essere lui quello per te. Vi siete scambiati il numero?»
«Sì»
«Bene, allora vedremo quando ti chiamerà!»
«Se mi chiamerà» borbottò April, nuovamente imbronciata. May le diede un colpetto affettuoso alla spalla.
«Vedrai che lo farà, sarebbe un'idiota a non farlo» rispose.
April le sorrise riconoscente.
«Almeno questa “disavventura” con quel tizio, Aaron Marlowe, è servita a qualcosa» considerò.
«A proposito, sai qualcosa sul perché non si sia presentato? Almeno l'hai visto?» domandò May curiosa.
April negò con la testa.
«Non l'ho né visto né ho saputo qualcosa. Appena sono arrivata alla rivista sono andata da quel Garret e gli ho spiegato la situazione, per fortuna non sembrava arrabbiato. Mi ha fatto capire che avrebbe chiamato lui, però non so altro; di certo non mi richiameranno per la nuova intervista, la prossima volta ci andrà qualche giornalista di quella sezione» ritenne April.
May annuì.
«Comunque sia, è stato uno stronzo! Poteva essere un'opportunità per me – non so bene in che modo, ma a qualcosa sarebbe servito, immagino – e invece quell'idiota non si è presentato!» iniziò di nuovo a lamentarsi.
«Se si è assentato in quel modo sarà stato per un motivo importante, non arrabbiarti» cercò di tranquillizzarla May.
«Immagino che motivo importante sarà stato! Di sicuro avrà dormito troppo e basta» borbottò la bionda.
«Non lo conosci nemmeno!» considerò l'amica.
«Non mi serve conoscerlo, già da una cosa del genere si capisce che è una testa di cazzo» fece indifferente April.
May alzò gli occhi al cielo.
«Insomma, tra il tizio che ti ha preso per sbaglio la tua lingerie-»
«-rubato, specifica»
«
...ti ha preso per sbaglio la tua lingerie, e questo tizio che non si è presentato... Sembra proprio che il destino si prenda gioco di te»
April la guardò, gli occhi che si spalancavano di orrore.
«Oddio, e se qualcuno mi avesse lanciato una maledizione?» chiese tremante.
May la guardò scandalizzata, poi le lanciò uno straccio preso dal piano della cucina, sul quale erano ancora ferme a parlare.
«Non sparare certe idiozie!» esclamò.
La afferrò poi per il gomito, trascinandola sul divano sul quale April si raggomitolò stringendo un cuscino.
«In questi momenti di depressione – o pseudo tale, ma non importa – c'è solo una soluzione» fece con tono solenne May.
April la guardò mentre si allontanava di nuovo in cucina.
«Cosa?» pigolò.
May tornò subito nel salotto, un sorriso a trentadue denti stampato in faccia, due bicchieri e una bottiglia.
«Alcol!»
Ed April rise.

  
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