Buongiorno
a tutti!
Ecco
a voi il quinto e nuovo capitolo di It's too cliché. So che
non ho
aggiornato molto tempo fa, e da un lato avrei voluto attendere ancora
qualche giorno prima del nuovo capitolo, ma a breve parto al mare e
dato che lì la connessione è praticamente
inesistente ho preferito
anticipare, anche perché lo scorso capitolo era veramente
breve, e
mi dispiaceva avervi lasciato solo un capitolo di passaggio.
Come
potete vedere, questo capitolo è abbastanza lunghetto anche
se, devo
anticiparvi, il fatidico incontro tra April e Aaron non
avverrà
nemmeno qui. Dovrete attendere al prossimo capitolo per questo, ed
è
ancora in fase di revisione. Spero comunque che possiate trovare
questo divertente e carino come gli altri, perché mi sono
anche
divertita a scriverlo!
Forse,
tra un paio di capitoli, dovrebbe anche apparire un banner creato
appositamente per la mia storia – non da me, questo
è ovvio, non
ho le capacità necessarie per fare un buon lavoro purtroppo.
Comunque sia, vedrete anche i presta-volto dei due protagonisti, che
però chiedo di non tenere particolarmente in considerazione
e di
immaginarvi i vari personaggi come più vi piace, anche
perché il
bello delle storie è proprio questo!
Mi
sono dilungata anche fin troppo, quindi concludo ringraziando tanto
coloro che hanno inserito la storia tra i preferiti e le seguite, e
anche chi deciderà (forse) di lasciarmi un piccolo commento
che
potrebbe aiutarmi a migliorare o anche solo farmi un enorme piacere.
Buona
lettura e a presto!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~It's too cliché
Capitolo
cinque
«Dimmi
che stai scherzando»
Aaron
stava per avere una crisi isterica.
Inchiodò
di scatto al semaforo che si illuminò all'improvviso di
rosso, per
poi continuare a concentrarsi sulla telefonata.
«Ti
pare che io scherzi, tesoro?»
la
voce della madre, dall'altro capo del filo, suonava scandalizzata.
«Mamma,
mi pare ti abbia avvisato che oggi avrei avuto l'intervista!»
rispose Aaron sempre con il medesimo tono isterico, mollando per un
attimo il volante e passandosi una mano tra i capelli rossi, un gesto
misto di esasperazione e incredulità.
«Aaron»
iniziò Elizabeth «Ti pare che
possa scherzare su certe cose? Inoltre, credi che potessi in qualche
modo prevedere che Vicky si rompesse un braccio proprio oggi?
Andiamo, tesoro!»
continuò
la donna.
Aaron
mugugnò disperato.
E
ora come avrebbe fatto? Non poteva saltare in quel modo l'intervista,
era importante e sarebbe stato favorevole per la sua carriera.
«Non
puoi chiamare nessun altro?» insistette.
A
quanto pare aveva una famiglia allargata solo quando faceva comodo.
«Io
e Rosalie stiamo vedendo delle location per il matrimonio e oggi era
l'unico giorno disponibile, ci hanno anche fatto un favore a fissarci
l'appuntamento dato che è quasi sempre occupato. Tuo padre
sta
lavorando, Suzanne pure e Sophie non risponde al telefono; di certo
non posso chiederlo a Isobel»
«Anche
io sto lavorando, mamma!» protestò.
«È
solo un'intervista, puoi rimandarla a un altro giorno. Tua sorella ha
bisogno di te, ti sta aspettando all'università, vai subito
da lei»
e con questo tono imperioso, Elizabeth chiuse la telefonata.
Aaron
si imbambolò a guardare il telefono, incredulo del fatto che
gli
avesse chiuso il telefono in faccia; a riscuoterlo fu il clacson
della macchina dietro di lui, richiamandolo e facendogli notare il
verde del semaforo.
Stringendo
il volante, pensò che questa gliel'avrebbero pagata.
«Buongiorno,
stiamo cercando Aaron Marlowe, siamo qui per intervistarlo»
April
sorrise cortese all'uomo dietro il banco informazioni all'entrata, un
signore sulla quarantina che ricambiò il suo sorriso. Dietro
di lei,
Damian trafficava con il telefono.
«Un
attimo solo, signorina» rispose altrettanto cortese il
signore.
Sollevò
poi la cornetta del telefono posto affianco a lui e digitò
alcuni
numeri; nel frattempo, April si girò verso il suo
accompagnatore.
«Non
dovresti spegnerlo? Siamo qui per lavorare»
puntualizzò.
Damian
sollevò lo sguardo e le lanciò un sorriso
strafottente.
«Quando
sarà il mio momento, lo metterò via,
tesoro» rispose.
April
sollevò gli occhi al cielo ma fece un mezzo sorriso,
voltandosi per
impedirgli di vederlo; nonostante ciò, notò con
la coda dell'occhio
il sorriso soddisfatto dell'uomo.
«Mi
dispiace, ma il signor Marlowe non è ancora
arrivato»
April
guardò sorpresa l'uomo.
«Avremmo
un appuntamento» precisò, con un lieve tono di
fastidio.
«Lo
so, ma a quanto pare è in ritardo, stanno provando a
contattarlo ma
non risponde, appena sappiamo qualcosa vi informeremo. Nel frattempo,
potete aspettarlo al piano in cui lavora, è il
ventunesimo» spiegò,
indicando l'ascensore lì vicino.
April
si voltò a guardarlo, poi si girò verso Damian.
«Che
facciamo?» domandò, insicura su come comportarsi
in un frangente
del genere.
«Aspettiamo,
magari è bloccato nel traffico» rispose lui,
scrollando le spalle.
April
annuì poco convinta, poi si girò verso l'uomo per
ringraziarlo e
infine si diresse verso l'ascensore, sempre seguita dal fotografo
che, abbandonato il cellulare, trasportava la propria strumentazione.
In
poco tempo arrivarono al ventunesimo piano, come era stato loro
detto, e si sedettero nella sala d'attesa dove vi erano varie
poltroncine e dei tavolini.
E
ora aspettiamo.
Mentre
si dirigeva a passo spedito verso l'entrata dell'università,
Aaron a
malapena guardava dove mettesse i piedi preso com'era dal tentativo
di rianimare il proprio cellulare: la batteria totalmente scarica
aveva deciso di lasciarlo isolato dal mondo e incapace di avvisare
che non avrebbe potuto essere presente per l'intervista.
Masticò
una pesante imprecazione e fece a due a due gli scalini che lo
condussero all'interno dell'università, per poi guardarsi
intorno e
cercare la sorella. La vide subito in una sedia vicino a delle
macchinette per gli snack, vicino a lei una signora che le
controllava il braccio e le parlava.
«Vicky!»
esclamò, correndole incontro.
La
ragazza sollevò di scatto la testa, facendo ondeggiare la
coda
rossa.
«Aaron»
mugolò la giovane, mentre si teneva il braccio. Affianco a
lei, la
donna si alzò.
«Buongiorno,
io sono Rebecca Wilson, tu dovresti essere il fratello di Victoria,
giusto?» fece la signora in questione, allungando una mano.
Aaron
gliela strinse frettoloso.
«Sì,
sì, sono Aaron Marlowe» borbottò. Si
voltò poi verso la sorella
«Si può sapere che cazzo è
successo?» sbottò, irritato dalla
situazione.
Del
canto suo, la sorella alzò gli occhi al cielo infastidita.
«A
te cosa sembra sia successo? Mi sono rotta il braccio,
idiota»
rispose secca; mosse per sbaglio il braccio e gemette per il dolore.
«Ma
davvero? Non me n'ero accorto» rispose sarcastico il rosso.
«È
scivolata sul pavimento bagnato nella toilette ed è caduta
sul
proprio braccio» spiegò rapida Rebecca, un poco
stupita dalla
reazione aggressiva di Aaron. Aaron che, a dirla tutta,
sembrò arrabbiarsi ancora di più.
«Sei
caduta sul pavimento bagnato? Ma cosa sei, stupida?»
continuò
aggressivo.
Non
era sua intenzione comportarsi in quella maniera verso la sorella;
sapeva perfettamente che non era colpa sua l'incidente, ma nonostante
quello non riusciva a non arrabbiarsi: un'occasione perfetta per il
suo lavoro sfumata così velocemente per una cosa del genere.
Era
così arrabbiato che non veniva scalfito nemmeno dalla
presenza della
donna, anche se le aveva addirittura stretto la mano.
«Ti
sembra che io mi diverta?» sputò velenosa la
sorella.
A
quel punto, Aaron si sgonfiò come un palloncino appena
bucato,
rendendosi conto del suo comportamento e acquisendo di nuovo la sua
aria da cucciolo bastonato.
«Lo
so, scusa... Comunque sia, ti porto subito in ospedale,
andiamo»
disse con tono mesto.
Victoria
annuì in silenzio, alzandosi e tentando di prendere la borsa
prontamente afferrata dal fratello.
«Non
è nulla di grave di sicuro, non preoccuparti» fece
poi Rebecca, in
direzione del ragazzo, sporgendosi per toccargli la spalla.
Solo
in quel momento Aaron si rese conto della situazione e, terrorizzato,
si allontanò impedendo alla donna di toccarlo; vicino a lui,
Vicky
rise tra sé.
«Lo
so» rispose secco Aaron, mascherando la paura con la solita
patina
di indifferenza e gelo.
Senza
aggiungere altro trascinò poi la sorella verso l'uscita,
cercando di
fare più in fretta possibile e mettere il maggior numero di
metri
tra lui e una donna.
«Avrà
avuto cinquant'anni, di cosa hai paura?» rise la sorella, una
volta
che entrambi si trovarono in macchina e Aaron partì.
Quest'ultimo
rabbrividì.
«Non
importa l'età, le donne sono sempre spaventose»
fece funereo. La
sorella rise ancora di più, tenendosi il braccio che al
muoversi
dell'auto le doleva.
«Sei
fantastico, davvero!» riuscì a dire tra le risa
«Eppure non hai
paura di noi» continuò, sottintendendo lei e le
sorelle. Aaron fece
spallucce.
«Non
che voi non mi spaventiate, ma vi conosco, siete le mie
sorelle»
spiegò; poi le lanciò un veloce sguardo divertito
«Le mie adorate
sorelle, anche se ogni tanto vorrei strozzarvi»
precisò.
Victoria
gli sorrise dolce, in una di quelle espressioni prive di malizia o
superficialità che era solita assumere.
«Anche
noi vorremmo strozzarti a volte, che credi?» disse poi,
ironica.
Aaron rise.
«In
ogni caso... Mi dispiace averti fatto perdere l'intervista, so che
è
importante per te. Non c'è un modo per farla un altro
giorno?» fece
poi, dispiaciuta.
«Non
lo so» mormorò lui depresso «Prima di
tutto, dovrei avvisare che
non potrò andarci, ma il mio telefono ha deciso di
abbandonarmi per
cui non ho potuto farlo. Mi puoi prestare il tuo?»
«L'ho
dimenticato a casa» rispose la ragazza.
«Come
hai fatto a chiamare allora?»
«Telefono
dell'università» rispose Vicky telegrafica. Aaron
gemette.
Possibile
che tutta la sfortuna ce l'avesse lui? C'era qualcosa che poteva
andargli per il verso giusto, ogni tanto?
Ci
teneva tantissimo a quell'intervista, gli avrebbe garantito una buona
pubblicità anche con le altre aziende e ciò
avrebbe incrementato la
richiesta di suoi lavori. Eppure, ecco qui che tutto andava in fumo;
inoltre non sapeva se con un pacco del genere la rivista avrebbe
accettato a fare una nuova intervista. Non aveva neanche avvisato in
tempo e ora come ora non sapeva come informarli, dato che in due non
avevano nemmeno mezzo telefono.
Sospirò
desolato mentre finalmente vedeva l'ospedale ed entrava nel
parcheggio predisposto.
Pochi
minuti dopo, entrambi si trovavano nel banco dell'accettazione del
pronto soccorso e degli infermieri – Aaron sospirò
sollevato
vedendo degli uomini – si presero subito cura della sorella,
portandola in una stanza per controllare il braccio.
Non
gli restò quindi che sedersi nella sala d'attesa e aspettare.
«Sono
passate quasi due ore!» sbottò April, esausta.
Affianco a lei,
Damian giocherellava con la carta del cioccolato preso dalle
macchinette.
«Lo
so, l'hai detto anche dieci minuti fa» puntualizzò
l'uomo.
«Tu
non sei arrabbiato?» continuò lei, girandosi nella
sua direzione.
«Tanto
non posso farci molto, non ha senso prendermi male» fece
placido
lui.
April
scattò in piedi nervosa, iniziando a ignorarlo: non la
vedevano
nello stesso modo, quello era ovvio. Ciò che la preoccupava,
inoltre, era che alla rivista potessero in qualche modo prendersela
con lei.
Cioè,
sapeva perfettamente che non era colpa sua – insomma, non
poteva
prevedere che quel coglione, chiunque
esso fosse,
avrebbe saltato
così platealmente l'appuntamento senza prendersi nemmeno la
briga di
avvisare.
Era
veramente arrabbiata e inoltre il suo stomaco iniziava a lamentare la
fame – era comunque quasi l'una!
Si
avvicinò per l'ennesima volta alla segretaria che, dietro la
propria
scrivania, digitava qualcosa al computer.
«Mi
scusi, ma non si sa ancora nulla?» chiese per l'ennesima
volta.
La
donna – una giovane ragazza di circa venticinque anni, dai
ricci
capelli neri trattenuti da una vistosa forcina a farfalla –
sollevò
lo sguardo annoiata: era la ventesima volta che si avvicinava e April
lo sapeva, ma era più forte di lei insistere in quel modo.
«Mi
dispiace, ma ancora non si sa nulla. Appena avremo notizie vi faremo
sapere»
La
bionda conosceva ormai a memoria quella frase, perciò
sentirsela
ripetere per l'ennesima volta la fece incazzare ancora di
più. Girò
i tacchi e tornò a sedersi, iniziando a battere ritmicamente
il piede per scaricare il nervosismo.
Dopo
altri dieci minuti di snervante attesa, in cui April aveva fatto
l'ennesimo giro per la stanza, quest'ultima si piazzò di
fronte a
Damian.
«Basta.
Andiamocene»
fece secca.
L'uomo
alzò lo sguardo verso di lei.
«Sei
sicura?»
chiese.
«Sì.
Insomma, siamo qui da quasi due ore e questo tizio non solo non si
è
presentato, ma non ha avuto nemmeno la decenza di avvisarci in
qualsiasi modo. Non mi interessa, non intendo essere trattata in
questa maniera»
rispose fredda.
Il
fotografo rise divertito, ma si alzò comunque e prese tutte
le sue
cose.
«Come
vuoi, tesoro»
disse solo.
Lanciarono
un rapido saluto alla donna dietro la scrivania e ripresero
l'ascensore; al suo interno, April stava con le braccia incrociate,
sempre nervosa.
«Chiamerò
il signor Garret e lo informerò della situazione. Di certo
non mi
può dire nulla, no? In fondo ciò che mi ha
chiesto l'ho fatto: mi
sono presentata al posto di Joel. Se quell'Aaron
qualcosa
ha deciso di darci
buca non è affar mio» spiegò risoluta,
quasi giustificando le sue
azioni.
Aveva
paura che l'uomo si sarebbe arrabbiato vedendola tornare senza
l'intervista, anche se effettivamente lei non aveva fatto nulla di
male; esprimendo i suoi pensieri ad alta voce in quel modo, cercava
solo di trovare manforte nel fotografo che le lanciò
un'occhiata.
«Garret
capirà di sicuro, non preoccuparti. Non è uno che
se la prende per
casi del genere, non siamo noi ad aver mancato
all'appuntamento»
rifletté l'uomo.
Sentendo
quelle parole April si sciolse un poco e infine sorrise all'altro,
che la guardò fissa negli occhi.
A
rompere il bel momento ci pensò però lo stomaco
della ragazza che
brontolò rumoroso proprio mentre le porte dell'ascensore si
aprivano, facendo scoppiare a ridere l'altro; arrossì
imbarazzata.
«Beh,
direi che allora possiamo andare a mangiare qualcosa, che ne
dici?»
chiese allora l'uomo, continuando a ridere tra sé. April
arrossì
ancora, diventando un tutt'uno con i suoi adorati occhiali.
«Mi
sembra una buona idea» rispose, cercando di riacquistare un
po' di
contegno.
E
con questa decisione, alle tredici e un minuto, uscirono
dall'edificio.
Erano
esattamente le tredici e due minuti quando Aaron varcò la
soglia
dell'edificio in cui lavorava, catapultandosi all'interno con il
cuore che minacciava di scoppiare dentro il proprio petto.
Si
fermò un attimo, cercando di prendere fiato, ma attese
giusto un
paio di secondi e poi si precipitò verso l'ascensore,
iniziando a
pigiare con insistenza il tasto di chiamata e a battere
freneticamente il piede.
«Sbrigati,
cazzo!» masticò tra sé, rischiando
quasi di rompere il pulsante.
Finalmente
le porte dell'ascensore si aprirono e il rosso si buttò al
suo
interno, premendo il tasto 21.
Ma
è sempre stato così lento questo coso?,
pensò infastidito.
Un
paio di minuti ed arrivò al proprio piano, uscendo di corsa.
Alla
vista di Daphne, dietro la scrivania, impallidì e
rallentò
drasticamente. Si avvicinò un poco, rimanendo a due metri di
distanza.
«Ehi»
disse solo, richiamando l'attenzione della ragazza. Quest'ultima
sollevò lo sguardo su di lui e, riconoscendolo, gli sorrise.
Aaron
ebbe un brivido.
«Aaron,
finalmente!» disse la ragazza alzandosi. Il ragazzo fece un
passo
indietro.
«Senti,
sono ancora qui i tizi della rivista?» chiese distaccato.
Dentro
di sé tremava come una foglia, ma fuori il suo atteggiamento
parve
solo freddo e disinteressato per tutto ciò che lo
circondava, Daphne
compresa. Proprio quest'ultima, in parte abituata agli strani
atteggiamenti dell'uomo, lo guardò un poco offesa notando il
passo
indietro.
«Se
ne sono andati proprio adesso. Non li hai incrociati venendo
qui?»
domandò a sua volta, ritornando a sedere dopo aver visto
l'allontanamento dell'altro.
Dentro
di sé, Aaron si sentì morire.
Merda.
Non ci posso credere.
Vide
chiaramente la propria splendida occasione andare in cenere come se
qualcuno l'avesse cosparsa di benzina e datole fuoco.
«Mh»
mugugnò solo.
Poi,
senza lanciare nemmeno un altro sguardo a Daphne – l'aveva
guardata
perfino per troppo tempo, considerando i suoi standard! -
tirò
dritto verso il proprio ufficio con l'umore in caduta libera.
Quando
entrò dentro il proprio ufficio – una stanza di
discrete
dimensioni, con una grande scrivania tappezzata di computer, fogli e
altri strumenti professionali – alzò gli occhi al
cielo
riconoscendo Tom che, con un cubo di rubik in mano, si dondolava
sulla sedia girevole.
«Ti
prego, non infierire» piagnucolò avvicinandosi
alla propria
scrivania e sedendosi su un'altra sedia.
Tom
alzò lo sguardo e sogghignò.
«Bastardo»
disse solo il rosso, vedendolo.
«Oh,
ti prego, finalmente è giunta una giusta punizione per i
tuoi
infiniti ritardi. Dovevi aspettartela un giorno o l'altro»
disse
Tom, poggiando il cubo sul tavolo e abbandonandosi sullo schienale.
«Non.
Dirlo» scandì l'amico.
«Che
ti aspettavi? Almeno una telefonata potevi farla. E poi, che
è
successo questa volta?»
«Vicky
si è rotta il braccio cadendo e a quanto pare io ero l'unico
disponibile per andare a recuperarla. Il mio telefono si è
scaricato
e mia sorella se l'era dimenticato a casa» spiegò
depresso.
«Ok,
questa volta è stata sfiga, lo ammetto» fece il
moro, alzandosi
finalmente dalla sedia.
Passandogli
affianco, gli diede una pacca sulla schiena.
«Non
preoccuparti, vedrai che se chiami e spieghi ciò che
è successo non
se la prenderanno. Può capitare a tutti una cosa del
genere» disse
con un vago tono consolatorio, avvicinandosi alla porta.
«Davvero?»
chiese con tono lamentoso l'altro.
Tom
ci pensò un po' su.
«No,
effettivamente poteva capitare solo a te. Ci si vede!»
E
con questa ultima uscita, che fece venire ad Aaron una gran voglia di
buttarsi dalla finestra, uscì dalla stanza, lasciando
l'amico a
deprimersi.
L'ho
sempre detto, le donne sono una rovina.
Poco
lontano dall'azienda, la iElettronic Company, in
cui April
aveva sprecato due ore della propria vita, la bionda e Damian avevano
trovato un adorabile ristorante retrò in cui avevano deciso
di
fermarsi.
Proprio
lì i due stavano pranzando e chiacchierando.
Anzi,
non è del tutto esatto. Riproviamo.
Proprio
lì i due stavano pranzando e flirtando in maniera abbastanza
spudorata, tra sorrisini e battutine lanciate qua e là.
«...quindi
alla fine dello stage prenderanno solo una di voi tre?»
April
venne richiamata all'attenzione – era troppo presa a
fantasticare
su quella barba ben curata per prestare la dovuta concentrazione alla
conversazione.
«Esatto»
rispose, riuscendo a ricollegarsi al discorso «Lo stage dura
sei
mesi, è iniziato ad aprile e finirà a settembre,
e fino ad allora
dubito che si saprà qualcosa su chi prenderanno»
spiegò con un
sorriso affascinante.
«Quindi
c'è il rischio che non ti prendano»
insinuò Damian, con un
sorrisetto.
April
arricciò il naso infastidita.
«Sì,
ma dubito succeda. Sono la migliore» disse con fervore,
passandosi
poi una mano tra i capelli in un chiaro gesto di vanità. Il
fotografo rise, subito seguito a ruota da lei.
«Non
ne dubito» rispose poi, con un vago tono malizioso.
April
aprì la bocca per parlare, ma venne interrotta dal cameriere
che
portò ai due i rispettivi dessert: una cheese cake ai frutti
di
bosco per lei, una torta al cioccolato per lui.
«E
se non dovessi essere presa?»
«Beh,
in quel caso...» April si interruppe, indecisa. Non che
avesse
granché pensato a quella eventualità, a dire il
vero; le altre
riviste in cui avrebbe voluto lavorare l'avevano rifiutata, quella
era in parte la sua ultima spiaggia.
Ma
non voleva di certo dirlo all'uomo, rischiando di fare la figura
dell'incompetente, perciò fece un luminoso sorriso e rispose.
«Ho
altre riviste in cui potrei lavorare, devo solo scegliere»
Appena
lo disse, April si pentì di quella bugia sentendo il senso
di colpa
che iniziava a pungolarla; decise di ignorarlo platealmente.
«E
tu? Come sei approdato qui?» continuò la ragazza,
iniziando ad
assaggiare il proprio dolce.
«Mio
padre era un fotografo, mi ha sempre affascinato il mestiere»
disse,
scrollando le spalle «Ho fatto un accademia d'arte,
specializzandomi
in fotografia, e ho subito trovato lavoro alla The Wor(l)d.
Non è esattamente il lavoro dei miei sogni, ma mi permette
di vivere
secondo i miei ritmi, quindi va più che bene»
spiegò rapido.
April
annuì.
«E
vivi da solo? O con la tua ragazza?» buttò
lì April, con un
candido sorriso.
Damian
sogghignò.
«Mi
stai chiedendo se ho una fidanzata?»
«No»
rispose angelica «Ti sto chiedendo se vivi da solo o con la
tua
ragazza» ripeté con candore.
Damian
scosse un poco la testa, sorridendo tra sé.
«Comunque
no, vivo da solo. Non ho una ragazza» spiegò
«E tu? Vivi da sola o
con il tuo ragazzo?» chiese a sua volta, scimmiottandola.
April
rise.
«Sola
soletta. Preferisco l'indipendenza»
Altra
bugia, altro lieve senso di colpa. April ricordò la chiamata
della
mattina, per poi relegare il ricordo a un angolo della sua mente, un
angolo in cui non avrebbe più messo piede.
«Giovane,
bella, indipendente... Quante qualità» disse
Damian, finendo il
proprio dolce.
«E
non le conosci ancora tutte» insinuò maliziosa
April, terminando in
concomitanza con lui il dessert.
Si
guardarono un attimo negli occhi, poi il fotografo si alzò
veloce
dalla sedia.
«Bene,
direi che è l'ora di tornare a lavoro. Non credo neanche
avessimo il
permesso di prenderci una pausa pranzo così lunga»
April
si alzò un secondo dopo, prendendo la borsa.
«Hai
ragione, ma dopo che abbiamo aspettato inutilmente per due ore credo
che questo sia il minimo» disse.
Damian
la precedette alla cassa, pagando anche per lei.
«Non
dovevi» disse April, appena uscirono.
E
invece sì che dovevi, se non l'avessi fatto sarebbe stato
alquanto
imbarazzante,
pensò, ma se lo
tenne per sé stampandosi in volto un'espressione innocente.
«È
stato un piacere» rispose l'altro galante.
Ovvio
che è stato un piacere, ci mancherebbe.
«Bene,
tesoro, vogliamo andare?»
«Lo
ucciderei!» sbottò April, sbattendo con violenza
il bicchiere sul
tavolo.
Alzò
poi lo sguardo verde su May.
«Scusa»
bofonchiò, dando uno sguardo al tavolo e assicurandosi che
non ci
fossero danni su di esso. L'amica fece un vago gesto con la mano,
ridacchiando.
«Non
preoccuparti» disse, alzandosi per mettere a posto la tavola
piena
dei resti del cibo d'asporto.
«Ma,
aspetta, uccideresti Daniel o il tizio dell'intervista?»
chiese poi,
ridendo.
April
iniziò a piagnucolare.
«Smettila
di ridere delle mie disgrazie!»
«Scusa»
riuscì a dire May tra le risate «Però,
davvero, la tua sfortuna è
esilarante»
April
mise il broncio.
«Ah,
felice che le mie disavventure ti provochino una reazione del
genere»
borbottò.
«Dai,
mi dispiace» soffiò May, avvicinandosi e posandole
un bacio tra i
capelli.
«Comunque,
davvero, per Daniel fregatene. È stato solo un coglione, non
ha
capito proprio nulla di te se ti ha mollata in questa
maniera»
disse, prendendo i piatti sporchi e mettendoli nella lavastoviglie;
April si alzò per darle una mano e sospirò.
«Lo
so, ma possibile che non me ne capiti uno decente? Succede sempre la
stessa cosa: mi cercano, mi invitano ad uscire, facciamo sesso e poi
mi scaricano. Manco fossi uno straccio! Ho dei sentimenti,
cavolo!»
si sfogò.
«Sei
solo stata sfortunata, vedrai che arriverà il momento anche
per te»
la tranquillizzò May «Questo Damian come ti
sembra, a proposito?»
chiese, curiosa.
April
si appoggiò al mobile della cucina, asciugandosi le mani su
uno
straccio.
«Sembra
carino. Cioè, non è una bellezza, ma è
molto affascinante. E poi
credo di interessargli» spiegò.
«Com'è
stato il pranzo con lui?»
«Tranquillo.
Non è noioso come altri che mi sono capitati, e poi
è divertente
flirtare con lui» disse con un sorriso.
May
annuì e ricambiò il sorriso.
«Allora
magari potrebbe essere lui quello per te. Vi siete scambiati il
numero?»
«Sì»
«Bene,
allora vedremo quando ti chiamerà!»
«Se
mi chiamerà» borbottò April, nuovamente
imbronciata. May le diede
un colpetto affettuoso alla spalla.
«Vedrai
che lo farà, sarebbe un'idiota a non farlo»
rispose.
April
le sorrise riconoscente.
«Almeno
questa “disavventura” con quel tizio, Aaron
Marlowe, è servita a
qualcosa» considerò.
«A
proposito, sai qualcosa sul perché non si sia presentato?
Almeno
l'hai visto?» domandò May curiosa.
April
negò con la testa.
«Non
l'ho né visto né ho saputo qualcosa. Appena sono
arrivata alla
rivista sono andata da quel Garret e gli ho spiegato la situazione,
per fortuna non sembrava arrabbiato. Mi ha fatto capire che avrebbe
chiamato lui, però non so altro; di certo non mi
richiameranno per
la nuova intervista, la prossima volta ci andrà qualche
giornalista
di quella sezione» ritenne April.
May
annuì.
«Comunque
sia, è stato uno stronzo! Poteva essere
un'opportunità per me –
non so bene in che modo, ma a qualcosa sarebbe servito, immagino
–
e invece quell'idiota non si è presentato!»
iniziò di nuovo a
lamentarsi.
«Se
si è assentato in quel modo sarà stato per un
motivo importante,
non arrabbiarti» cercò di tranquillizzarla May.
«Immagino
che motivo importante sarà stato! Di sicuro avrà
dormito troppo e
basta» borbottò la bionda.
«Non
lo conosci nemmeno!» considerò l'amica.
«Non
mi serve conoscerlo, già da una cosa del genere si capisce
che è
una testa di cazzo» fece indifferente April.
May
alzò gli occhi al cielo.
«Insomma,
tra il tizio che ti ha preso per sbaglio la tua lingerie-»
«-rubato,
specifica»
«...ti
ha preso per sbaglio la tua lingerie,
e questo tizio che non si è presentato... Sembra proprio che
il
destino si prenda gioco di te»
April
la guardò, gli occhi che si spalancavano di orrore.
«Oddio,
e se qualcuno mi avesse lanciato una maledizione?» chiese
tremante.
May
la guardò scandalizzata, poi le lanciò uno
straccio preso dal piano
della cucina, sul quale erano ancora ferme a parlare.
«Non
sparare certe idiozie!» esclamò.
La
afferrò poi per il gomito, trascinandola sul divano sul
quale April
si raggomitolò stringendo un cuscino.
«In
questi momenti di depressione – o pseudo tale, ma non importa
–
c'è solo una soluzione» fece con tono solenne May.
April
la guardò mentre si allontanava di nuovo in cucina.
«Cosa?»
pigolò.
May
tornò subito nel salotto, un sorriso a trentadue denti
stampato in
faccia, due bicchieri e una bottiglia.
«Alcol!»
Ed
April rise.