11
An Unfortunate and Deserted Creature
Ero buono:
la miseria
ha fatto di me un demone.
Rendimi
felice, ed io
sarò di nuovo virtuoso.
[Mary
Shelley, Frankenstein]
Il
suono sordo dello sparo rimbombò nella radura come un tuono,
provocando
l’abbaiare bramoso e furioso dei cani. Ad esso
seguì il rapido e brusco
clangore metallico del fucile che veniva svuotato dalla cartuccia ormai
inutile
e ricaricato con una nuova, dopodiché l’arma venne
sollevata fino a riposare
morbidamente contro la spalla del suo proprietario.
«Ottima
mira, milord», complimentò una voce dal ruvido
accento scozzese.
Caledon
si limitò ad annuire, lo sguardo perso verso un punto
indefinito del paesaggio
laddove gli animali erano accorsi per recuperare le prede colpite. Con
un lieve
aggrottare della fronte, l’uomo realizzò che la
caccia non aveva più su di lui
l’effetto liberatorio e rilassante che aveva un tempo: non
riusciva ad
avvertire quel piacevole spossamento dovuto a una lunga giornata
trascorsa in
campagna tra amici, cani e cavalli, ma solo il fastidio derivante da
un’apatica
indolenza che non gli apparteneva.
Solo
l’anno prima la stagione di caccia aveva occupato interamente
la sua mente e le
sue forze, i pensieri completamente rivolti all’eccitazione e
alla sensazione
di potere che procurava il possedere e utilizzare un’arma
così elegante e
letale davanti alla quale nessuna preda era al sicuro; adesso, invece,
tutto
sembrava avvolto da un velo cupo di ansia e preoccupazione che non lo
lasciava
riposare in pace.
Principale
colpevole del suo attuale stato d’animo era
l’incomprensibile silenzio da parte
di Emma. Le aveva già inviato tre lettere, nessuna delle
quali aveva ricevuto
risposta – cosa che trovava oltremodo curiosa, considerando
il caloroso
benvenuto che aveva ricevuto da parte sua quando era andato a trovarla
a
Pemberley. Era forse rimasta offesa in qualche modo? Si era comportato
male, magari,
aveva oltrepassato i limiti quando era stato costretto a rimanere a
dormire al
castello?
Forse
il servizio di posta del villaggio era semplicemente poco affidabile,
ma
qualcosa gli diceva che l’assenza di notizie da parte della
sua fidanzata aveva
ben altre radici. Dopotutto, malgrado fossero trascorsi già
dieci giorni, non
era la prima volta che Emma faceva passare tutto quel tempo da una
missiva
all’altra; per quanto amasse leggere, infatti, non si poteva
dire che nutrisse
altrettanta passione per la scrittura. Certo però, che non
le sarebbe costato
nulla rispondere almeno a una di esse; a questo punto si sarebbe
accontentato
persino di poche righe, in cui lo assicurava che tutto andava
bene…
«Milord?
Stanno per liberare il secondo stormo di fagiani», lo
avvisò la medesima voce
di prima, interrompendo i suoi sciocchi sogni ad occhi aperti.
Caledon
si riscosse, voltandosi verso il cacciatore scozzese che gli faceva da
accompagnatore nei terreni sconosciuti delle Highlands.
«Credo
che tornerò in paese, signor Fraser. Oggi la mia mente non
è abbastanza concentrata
sulla caccia», ammise con un tono di scusa, levandosi il
fucile dalla spalla e
porgendolo al cacciatore dopo averlo scaricato. «Potete
avvisare voi gli altri,
quando raggiungete il luogo d’incontro?»
L’uomo
annuì, grattandosi pensieroso un lato della barba.
«Aye, milord. Ricordate la strada per
tornare a Inverness? O
preferite che vi accompagni uno dei ragazzi?» Aggiunse,
indicando i due
adolescenti del villaggio incaricati di portare scorte e provviste.
«Grazie,
ma non sarà necessario», rifiutò
Caledon raggiungendo la propria cavalcatura.
«Potrei voler fare qualche piccola deviazione. In bocca al
lupo per il resto
della caccia, signor Fraser», lo salutò, salendo
in sella e lanciando l’animale
al galoppo. Forse una lunga cavalcata in solitaria era ciò
di cui aveva bisogno
per schiarirsi la mente.
Quella
sera, una volta che gli ospiti londinesi della locanda si furono
ritirati nel
salotto dopo cena, tutti ancora piuttosto euforici per la giornata di
caccia,
Caledon venne avvicinato dal figlio cadetto del defunto conte di
Granville,
Bradley Levenson-Gower, uno dei suoi più cari amici dai
tempi di Cambridge,
rientrato in patria da pochi mesi a seguito della conclusione del suo
soggiorno
su una fregata in mezzo all’Oceano.
«Sei
tremendamente poetico seduto da solo accanto al camino, Caledon, amico
mio»,
esordì con un mezzo sorriso il giovane tenente della Marina
Britannica,
prendendo posto sulla poltrona al lato opposto del focolare. Qualcuno
iniziò a
suonare una ballata locale al pianoforte lì accanto, e
Bradley approfittò del
sottofondo per intavolare una conversazione più o meno seria
con il suo vecchio
amico. «Potrei capire se ci fossero delle fanciulle da
conquistare, ma tra
uomini… Via, qual è il tuo problema?»
Caledon
sospirò, strofinandosi le tempie con due dita.
«Non c’è nessun problema,
Bradley, ti assicuro.»
L’amico
aggrottò la fronte, per nulla convinto. «Stai
girando e rigirando quel brandy
da dieci minuti e non hai ancora bevuto un sorso, e sei rientrato alla
locanda
a metà caccia senza aspettare che finissimo tutti. E hai
quest’aria irritata da
quando siamo arrivati…»
«L’aria
di mare deve averti dato alla testa, marinaio», lo interruppe
l’altro con uno
sbuffo, mandando giù un sorso del liquore quasi per
dispetto. «E un inglese che
si rispetti non parla dei propri problemi dopo cena. Mi hai preso per
un
francese?»
La
risata brusca e ruvida di Bradley rasserenò appena
l’atmosfera. «Dio ci salvi
dai francesi», replicò con prontezza, lieto in
cuor suo di notare finalmente
una certa leggerezza nell’atteggiamento dell’amico.
In silenzio, infilò una
mano dentro la propria giacca e ne tirò fuori una scatolina
con fregi preziosi,
aprendola con uno schiocco e mostrandogliene generosamente il
contenuto. «Sigaretta?
No?» Bradley scrollò le spalle al cenno negativo
di Caledon, limitandosi a
sfilarne solo una dall’elegante contenitore argentato e
facendolo sparire nuovamente
all’interno di una tasca. «Avanti, confidati pure.
Ti puoi fidare della
discrezione di un uomo di mare.»
Caledon
sbuffò, la fronte ancor più aggrottata.
«Non c’è nulla da confidare»,
mentì
seccamente. Difatti, il tenente sapeva come ogni mattina egli
attendesse
impaziente l’arrivo della posta, per poi ritirarsi come un
cane bastonato nella
sua stanza quando il corriere non gli consegnava nulla.
«Certo
che c’è», fu la laconica risposta di
Bradley. «Ma non voglio farti pressione:
inizia pure a parlare quando te la senti.»
Un
ceppo si spaccò a metà all’interno del
camino, facendo volare scintille rosse e
gialle in varie direzioni senza fortunatamente raggiungere il tappeto.
Cal
seguì con gli occhi il percorso di una di esse, racimolando
idee e parole, e
solo quando essa cadde a morire sulla pietra grezza del focolare,
spegnendosi
delicatamente, si decise a degnare l’invito
dell’amico di una risposta.
Dopotutto, la cavalcata non gli era stata di alcun conforto: forse
chiacchierare con un suo pari lo avrebbe aiutato a portare pace e
ordine tra i
suoi pensieri.
«Sembra
di essere di nuovo a Cambridge», mormorò con un
mezzo sospiro, facendo scorrere
uno sguardo distratto sugli altri compagni che si divertivano in vari
punti del
salotto, tra giochi di carte e amichevoli scommesse. Bradley si
limitò a
inspirare una boccata dalla sigaretta, attendendo paziente che il suo
amico trovasse
la forza di sfogarsi.
«Allora,
la nostra unica preoccupazione era sfidare i ragazzi di Oxford e vedere
in
quanti guai potevamo cacciarci prima che lo venissero a scoprire i
nostri
genitori e decidessero di prendere provvedimenti. Ricordi quando
facemmo
circolare quei pamphlet anti-imperialisti? I professori minacciarono
l’espulsione… Dio», sospirò
serrando gli occhi, e premendosi una mano sulle
palpebre doloranti. «Ero così stupido, eppure
avevo già seppellito una
fidanzata ed ero stato promesso a un’altra.»
Bradley
lo osservò attentamente, le orecchie tese al minimo accenno
di tremore nella
voce altrimenti quieta del suo compagno; l’amicizia che vi
era tra loro non si
metteva in discussione, la confidenza pure – e ciò
nonostante pareva che Cal
non si volesse esprimere più di tanto su qualsiasi cosa lo
turbasse, come se
parlarne avrebbe significato riconoscere che ci fosse effettivamente
qualcosa
che non andava, e avrebbe così dato forma e peso a un
problema che in caso
contrario avrebbe potuto nascondere, ignorare, persino fingere che non
esistesse.
Tuttavia,
non era nell’interesse di nessuno nascondere la testa nella
sabbia, e certo non
si addiceva a un futuro lord con un nome rispettabile.
«Sai,
ricordo un tempo», esordì Bradley con affettata
noncuranza, le dita abbronzate
che giocherellavano con un accendino. «Un tempo in cui non
eri per nulla felice
di questo fidanzamento. Ti lamentavi della troppa differenza di
età, piangevi
la dipartita della tua precedente promessa, rifuggivi ogni tentativo
dei tuoi
genitori di farti conoscere la giovanissima lady Moore. E ora metti il
muso se
la povera donna non risponde alle tue lettere? Di cosa ti lamenti,
amico mio?
Cos’è che le rimproveri di preciso?»
Il
futuro lord Suffolk lanciò un’occhiata severa e
particolarmente infastidita in
direzione dell’amico, ben conscio di quali fossero i propri
sentimenti
all’epoca del college e per nulla desideroso di rievocarli.
«Non
le rimprovero niente», sibilò a denti stretti,
afferrando con malcelata rabbia
il bracciolo della poltrona e facendosi sbiancare le nocche.
«Tu parli delle
lamentele di un ragazzino, e quel ragazzino adesso è
cresciuto.»
Bradley
scrollò scompostamente le spalle, per nulla colpito.
«Menti pure a te stesso se
la cosa ti aggrada, mio caro Cal, ma abbi la cortesia di darmi
più credito. Io
ti conoscevo allora e ti conosco adesso, e anche se avremo poche
occasioni di
frequentarci ti conoscerò ancora fra dieci anni.»
Caledon
si arrese a sopportare il tono irrispettoso del suo amico, e si
limitò ad
assecondarlo con un sospiro mediamente costernato. «E con
questo che cosa
vorresti dire?»
«Ti
vorrei dire di smetterla di struggerti per una donna che apparentemente
non ti
desidera quanto tu pensi di desiderare lei»,
ribatté senza remore il giovane,
rilasciando un acre filo di fumo dalle narici. «Che senso ha?
Non siamo in uno
di quei romanzetti d’appendice di miss Austen, amico mio: non
conquisterai la
ragazza con danze e passeggiate nel parco. Non ne hai bisogno!
È praticamente
già tua, che differenza vuoi che faccia se lei arde
d’amore per te o no?»
Uno
scocciato rotear d’occhi espresse ciò che
l’uomo pensava davvero del parere
dell’amico. «Adesso parli come mio
padre», l’ammonì a mezza voce, non
gradendo
particolarmente la piega presa dal discorso.
L’altro
lo fissò di sbieco. «Mi chiedo perché
non l’abbia ereditata tu quella parte del
suo carattere, in effetti. Di sicuro ti avrebbe reso la vita
più facile.»
«Dici
così perché non la conosci, probabilmente neanche
l’hai mai vista», fu la secca
risposta di Caledon, che si sentiva in dovere di difendere la fidanzata
anche
quando quest’ultima lo stava facendo dannare.
«Non
certo per colpa mia: è mio fratello quello che viene
invitato agli eventi
pubblici, io sono soltanto lo scomodo secondogenito con la fama di
avere
un’amante in ogni porto. Ah, se solo fosse vero»,
sospirò Bradley con l’accenno
di un sorriso, per nulla intimidito dal severo cipiglio che continuava
a
rivolgergli l’amico e, anzi, da esso divertito.
«Continua a guardarmi così,
Cal, e non riuscirai più a spianare la fronte.»
Finalmente
infastidito dall’atteggiamento di Bradley, Caledon si sporse
bruscamente verso
di lui e gli strappò la sigaretta di bocca, gettandola senza
riguardi nel
caminetto acceso. «Possiamo evitare di discutere della mia
vita privata in
pubblico?» Sibilò, prima di tornare alla sua
posizione.
Bradley
si limitò a scoppiare in una risata onestamente divertita.
«In pubblico? Cal,
non ti sta ascoltando nessuno. E anche se fosse»,
continuò con une breve
scrollata di spalle. «Nessuno ha una coscienza
così pulita e abbastanza
irreprensibile da essere nella posizione ottimale per giudicare il
prossimo.
Neanche gli uomini di chiesa.»
«Non
temo certo il giudizio altrui. Non ho fatto niente di cui vergognarmi,
dopotutto», ribatté Caledon, volgendo lo sguardo
verso le fiamme e fissandole
con insistenza. «E se anche tu pensi che sia ridicolo essere
irritato nel non
ricevere una sola parola dalla propria futura moglie in una decina di
giorni,
allora questa conversazione è finita, e puoi andare a
esaminare la vita di
qualcun altro.»
«Dio,
questa donna ti sta distruggendo. E non l’hai ancora neppure
sposata», mormorò
l’amico, incapace di trattenere un sorrisetto. Poi
sospirò, scrollando le
spalle in un cenno di resa. «Andiamo, non arrabbiarti con me,
ti sto solo
offrendo l’occasione di sfogarti. Suppongo che il suo
comportamento non sia
perfettamente ortodosso, ma d’altronde la situazione non
è delle migliori. È in
lutto, Cal – la madre è morta da neanche due mesi
e suo padre l’ha spedita in
campagna con la sua istitutrice. Non credo che abbia molta voglia di
impiegare
tempo in lettere d’amore.»
«Ebbene,
è questo il problema, no?» Sibilò,
mascherando con rabbia la propria miseria.
«Lei non mi ama; dubito persino che mi voglia. E non la
biasimo, davvero –
voglio dire, neppure io ero molto entusiasta di questa unione
all’inizio, ma
sono passati anni! E quello che provo per lei non l’ho mai
provato neanche per
sua sorella. E credevo… credevo che il mio sentimento
sarebbe bastato, che mi
avrebbe reso amabile ai suoi occhi, ma tutto ciò che ottengo
da lei è venir
considerato come una transazione d’affari da cui non
può scappare.»
Bradley
lo osservò attentamente, gli occhi stretti, senza
più tanta voglia di
scherzare. «Allora perché non sciogli il
fidanzamento? Sei ancora in tempo. E
ti risparmieresti una vita infelice.»
«No»,
fece subito Caledon, scuotendo il capo. «No. Mio padre non me
lo permetterebbe,
e sarei infelice in ogni caso… Sposandola, almeno,
l’avrei al mio fianco; e
sono certo che prima o poi arriverà a tenere a me. Se
così non fosse, saremo
infelici entrambi, ma lo saremmo insieme.»
«Una
ben triste prospettiva, se vuoi il mio parere»,
mormorò pacato Bradley, i cui
occhi non mancavano di scrutare attentamente l’amico.
«Non ti facevo così
egoista, amico mio.»
«Neanche
io credevo di esserlo», ribatté l’altro,
distogliendo lo sguardo. «Ma Emma…
Dio, è come se mi avesse trasformato in un uomo che stento a
riconoscere io
stesso. Sono pazzo a desiderarla così tanto?»
«Forse»,
ammise Bradley senza mezzi termini. «È solo una
donna, Cal», aggiunse poi, con
un tono appena più conciliatorio.
Eppure
Caledon non poteva trovarsi d’accordo. Definire Emma
‘solo una donna’ sarebbe
stato come dire che l’oceano non è che una
pozzanghera d’acqua più profonda; ma
spiegare una cosa del genere a qualcuno che non la conosceva
– che non aveva
mai desiderato possederla in ogni singolo modo in cui è
possibile possedere una
donna, che non aveva provato la sua passione, la sua brama, la sua
disperazione
– era, in ogni caso, impossibile. Bradley avrebbe potuto
comprendere parte
della sua ossessione solo se l’avesse provata lui stesso,
sulla sua pelle; e,
conoscendo il suo amico, ciò non era mai accaduto.
Per
cui decise di lasciar cadere l’argomento, e con un lieve
scrollare delle spalle
e un sorriso di interna autocommiserazione, Caledon sollevò
in brindisi il
bicchiere di brandy e lo trangugiò tutto d’un
sorso. Avrebbe pensato a Emma in
un altro momento, decise.
Negli
ultimi giorni le stava capitando spesso di sognare a occhi aperti.
A
volte, quando Adam era impegnato a suonare o giocherellare con Aramis
– che,
curiosamente, pareva essersi affezionato al padrone di Pemberley
più di quanto
le circostanze non avessero lasciato presagire – e lei sedeva
con un qualche
libro in grembo, le dita tra le pagine a tenere il segno, Emma si
ritrovava a
seguire treni di pensieri con la medesima assorta attenzione di una
bambina
intenta a immaginare il suo primo ballo.
Pensava
soprattutto a suo padre, solo ad Hambleton Abbey o nella loro vuota
casa di
Londra, che forse dopo settimane di silenzio da parte sua iniziava a
realizzare
l’incoscienza dell’aver spedito la sua unica figlia
a vivere in una lontana
tenuta in mezzo al nulla; pensava, con la gola chiusa dal dolore e
dalla
nostalgia, agli ultimi mesi di sofferenza che era stata la vita di sua
madre;
pensava a Caledon, a seconda di dove vergevano i suoi pensieri, e
pensava
soprattutto ad Adam – a quell’uomo che parlava e si
comportava in maniera
distinta e che malgrado tutto la teneva rinchiusa, che discuteva con
lei di
libri e filosofi benché avesse l’aria di non
essersi mai allontanato dal
castello, che la intratteneva con il pianoforte e facendole visitare
Pemberley,
ma che raramente rispondeva alle sue domande se vertevano su
se’ stesso.
Ma,
principalmente, lady Moore pensava alla sua povera sorella maggiore, ed
esaminava come sarebbe stata la sua – la
loro – vita se quell’incidente non ci
fosse mai stato, e se invece di
morire per quella caduta la sua infanzia e la sua adolescenza non
avessero
proseguito come sarebbe stato giusto che facessero. Tanto per
cominciare,
Lizzie sarebbe stata ancora fidanzata – se non forse persino
già sposa – di
Caledon; sarebbe stata sua la spalla su cui Emma avrebbe pianto al
funerale
della loro madre, e probabilmente la sorella l’avrebbe
accolta in casa sua – sua
e di Caledon – durante il periodo di lutto. Non ci sarebbe
stato nessun maniero
nel cuore della brughiera, nessuno l’avrebbe costretta ad
andarci a vivere da
sola, e soprattutto non vi sarebbe stata tenuta prigioniera da un uomo
dalle
dubbie origini, che ancora non le aveva detto con sincerità
che cosa
desiderasse da lei. Aveva un modo di guardarla che la faceva
rabbrividire – i
suoi occhi la seguivano ovunque, famelici, se ne rendeva conto malgrado
la
maschera…
Anche
se faceva di tutto per nasconderglielo, comportandosi come se si fosse
trovata
tra persone del tutto comuni e civili, egli la terrorizzava; e questo
terrore
che non poteva fare a meno di provare la faceva sentire in colpa,
perché l’uomo
le aveva salvato la vita, e tutto sommato la trattava con un riguardo
in cui
Emma non trovava difetti.
Emma
aveva inoltre ripreso a dormire nella sua vecchia camera da letto,
nell’ala Est
del maniero. Con il passare dei giorni Adam sembrava iniziare a fidarsi
sempre
di più di lei e del fatto che non avrebbe più
tentato di fare una cosa tanto
sconsiderata come scappare nel cuore della notte, e dopo parecchie
raccomandazioni da parte sua che le avevano rammentato quelle di Mrs.
Duncan –
non uscire dalla stanza dopo mezzanotte ed evitare di gironzolare per i
corridoi nelle scure ore del primo mattino – Emma si era
finalmente
riappropriata dei suoi oggetti personali e del letto che aveva ormai
preso a
definire suo.
La
biblioteca era, inoltre, diventata il suo unico santuario
nell’intero castello.
Per qualche motivo a lei sconosciuto, Adam si rifiutava di entrarvi
senza
esservi invitato da lei, ed Emma, dal canto suo, gli faceva la cortesia
di non
trascorrervi le intere giornate privandolo di quella compagnia
ch’egli le aveva
tanto supplicato. Quando non era con lei, il padrone si teneva
impegnato
nell’ala Ovest – facendo Dio solo sapeva cosa
– zona in cui la giovane aveva
deciso e infine promesso di non mettere più piede da quando
aveva ripreso
possesso della propria camera da letto. Salvo i pranzi e le colazioni,
che
consistevano in occasioni brevi e sobrie che non richiedevano neppure
l’allestimento trionfale della sala da pranzo, Emma e Adam
mangiavano insieme –
o era forse meglio dire che lui le faceva compagnia durante la cena,
poiché per
via della sua maschera egli si rifiutava tuttora di mangiare di fronte
a lei.
Malgrado
ciò che il suo carceriere poteva pensare, e nonostante la
strana aria di pacata
tolleranza che si era creata tra loro, Emma non era del tutto certa di
potersi
fidare come egli avrebbe desiderato.
Certi
atteggiamenti e modi di fare la lasciavano perplessa, e la
costringevano a
rimanere all’erta – piccoli scatti delle mani, come
se di punto in bianco
volesse allungarle verso di lei e ghermirla, e che venivano
immediatamente
celati e repressi nel vano tentativo di nasconderglieli; i suoi occhi
chiari
che ogni tanto, quando parlava con lei o semplicemente le sedeva
accanto, in
amichevole silenzio, parevano diventare neri per pochi secondi, come se
un’ombra temibile si posasse su di essi, e che parevano
trasformarlo in una
persona del tutto differente; e quella maschera, buon Dio, quella
maledetta
maschera che era a suo avviso il più palese indizio della
malafede dell’uomo,
perché che senso aveva insistere nell’indossarla
anche dopo i giorni che avevano
trascorso civilmente, le promesse fatte, la fiducia offerta?
Non
poteva fidarsi di lui fintantoché Adam continuava a
nascondere le sue fattezze
e la sua identità: Emma avrebbe supposto il peggio da parte
sua fino a quando
egli non avesse avuto il coraggio e la delicatezza di toglierla e farsi
vedere,
poiché lei non osava allungare la mano e strappargliela
– ancora rabbrividiva
quando rammentava qual era stata la sua reazione la prima volta che
aveva
tentato.
Inoltre,
il mistero che lo avvolgeva – tutto quel non
sapere – non faceva che incrementare la sua paura;
Emma era infine giunta
alla conclusione che qualsiasi cosa egli si stesse ostinando a celare
non
poteva essere di certo peggiore di tutto quello che lei era arrivata a
immaginarsi pur di sopperire alla mancanza. Ormai non escludeva neppure
l’ipotesi di un orrendo incidente – qualcosa che lo
aveva, forse, lasciato
sfigurato, costringendolo a rifuggire il resto del mondo e trovare
rifugio in
un luogo desolato come Pemberley. E pur tuttavia ciò non
spiegava perché i
domestici gli fossero così fedeli – al punto da
tradire lei stessa, che era
sulla carta la legittima proprietaria della magione – e
c’era sempre la
faccenda di quella lapide, nel vecchio cimitero abbandonato, con il suo
nome inciso e delle date che, ad
ogni modo, non corrispondevano.
Con
l’occhio arguto ed esercitato dell’aristocratica,
Emma non aveva mancato di
notare alcuni piccoli dettagli riguardo la sua persona che le avevano
rivelato
molto più di quanto non avesse fatto lui stesso. Per
esempio, non poteva che
ammirare la foggia precisa ed elegante degli abiti che indossava,
curati al
dettaglio con una cura quasi maniacale – ma non
sfuggì alla sua attenzione che
lo stile di questi ultimi era sorpassato, fuori moda, e che gli orli e
le
cuciture erano consumate, appena lise; le sue scarpe, benché
di foggia
artigianale, erano logore. Ovviamente, il tutto era pulito e rammendato
alla
perfezione – lady Moore suppose si trattasse del lavoro
instancabile della
signora Duncan – ma nell’insieme dava
l’apparenza di qualcuno che doveva aver
trascorso gran parte, per non dire l’interezza, della sua
vita rinchiuso tra le
mura di Pemberley Manor.
Il
pensiero non poté che provocarle un’enorme pena
per quell’esistenza
terribilmente solitaria.
Non
aveva neanche più il conforto di parlare con Mrs. Duncan, o
persino Noah – era
evidente che i domestici obbedivano alle leggi di Adam, e lui doveva
aver
ordinato che nessuno le rivolgesse la parola, forse nel timore che
qualche
oscuro segreto venisse rivelato? Solamente a Lydia era permesso
avvicinarla,
poiché Emma aveva bisogno dell’aiuto di una
cameriera per vestirsi e
pettinarsi, ma la povera ragazza era muta e non si sforzava neppure di
fingere
di ascoltarla, limitandosi a fare il suo lavoro e scappare poi via,
tremante,
come un topolino spaurito.
Seduta
su una poltrona di fianco al letto della sua istitutrice, Emma
tirò
discretamente su con il naso e si asciugò le lacrime con un
lembo del vestito,
abbassando poi gli occhi sulla donna per vedere se qualcosa fosse
cambiato
nella sua condizione. Aveva letto per lei per quasi tutta la mattina,
alternando capitoli su capitoli a momenti di pianto silenzioso, e fino
a quel
momento la sua voce non aveva ottenuto nessuna reazione sulla malata;
ma Emma
era intenzionata a non arrendersi: miss Radcliffe l’aveva
praticamente
cresciuta, e lei l’aveva già trascurata troppo.
Con
un sospiro rassegnato voltò pagina e riabbassò lo
sguardo sul libro,
riprendendo la lettura di uno dei romanzi favoriti della donna.
«Che cosa strana sono mai i presentimenti, le
simpatie e anche i presagi! Tutti insieme formano un mistero di cui
l'uomo non
ha peranco trovata la chiave. Non ho mai riso dei presentimenti in vita
mia,
perché ne ho avuto certuni stranissimi...[1]»
Nel
corridoio, nascosto appena dietro lo stipite della porta, Adam la
ascoltava in
religioso silenzio. Non aveva più osato chiederle di leggere
per lui da quella
prima sera, così adesso approfittava delle volte in cui la
ragazza lo faceva
per la sua istitutrice; si domandò che cosa avrebbe pensato
di lui se avesse
scoperto che la spiava dalle ombre come un cucciolo bisognoso di
attenzioni –
forse l’avrebbe disgustata, o magari avrebbe avuto
compassione di lui e gli
avrebbe chiesto di avvicinarlesi senza timore?
Udì
dei passi avvicinarsi alla camera e sollevò lo sguardo
sull’intruso,
aggrottando la fronte nel vedere la sguattera, Lydia, giungere tremante
come un
topolino con un vassoio tra le mani. Gli occhi della ragazza si
posarono su di
lui, sgranati, e la poveretta si affrettò ad accennare un
inchino senza
rovesciare il portavivande. Fece scorrere lo sguardo da lui alla porta
della
stanza, cercando probabilmente di trovare un modo di entrare senza
passargli
troppo vicino, ma fu Adam infine a toglierla da
quell’impiccio. Posò il dito
indice sulla propria maschera in direzione della bocca, invitandola al
silenzio, e poi più rapido e silenzioso di
un’ombra le diede le spalle e sparì
dietro qualche passaggio nascosto nella parete.
Lydia
deglutì, atterrita – il padrone le faceva sempre
quell’effetto – e dopo aver
preso un profondo respiro si decise a raggiungere milady. Davvero non
invidiava
la povera donna.
I
domestici di Pemberley Manor sembravano essersi abituati senza troppa
fanfara
alla nuova routine che riguardava il padrone e la sua ospite,
benché né Mrs.
Duncan né suo marito comprendessero ancora che cosa Adam
sperava di ottenere
nell’ostinarsi al voler approfondire la conoscenza di lady
Moore. Non sarebbe
stato più cauto continuare a celare la propria presenza,
finché la ragazza e la
sua istitutrice non si fossero stancate della solitaria vita di
campagna e
fossero tornate a Londra? Malgrado tutto, la signora Duncan era
preoccupata per
il suo padrone – lo aveva protetto da che era fanciullo,
eternamente leale, con
tutto ciò che ne era derivato.
E
adesso, egli rischiava la propria incolumità per cosa
– un’infatuazione?
Il
terrore che avevano provato quando avevano avvertito Adam che la
giovane viscontessa
non si trovava nella sua stanza, che era scappata,
poi, era stato indescrivibile. Il padrone aveva capovolto sedie,
fracassato
suppellettili, soffiato e ringhiato come una bestia feroce contro di
loro e
contro la ragazza, fino a quando non erano riusciti a placarlo il tanto
sufficiente per spiegarsi. Avevano cercato di convincerlo un
po’ con le buone e
un po’ con le cattive di non essere per nulla responsabili di
quella fuga, di
non avere idea di dove lady Moore potesse essere né di come
avesse fatto a
fuggire da sola, e alla fine solo le lacrime e le suppliche della
signora
Duncan avevano sortito l’effetto sperato – placare
il padrone.
Egli
aveva lasciato la loro stanza con minacce e imprecazioni, e i poveri
Duncan
avevano trascorso le ore successive a pregare che nulla fosse accaduto
alla
ragazza e che Adam riuscisse a trovarla prima che ella fosse troppo
lontana, o
peggio.
Il
padrone era infine tornato al castello poche ore prima
dell’alba, completamente
infangato e fradicio, incurante dell’acqua sporca che
grondava su tappeti e
pavimento, e per grazia divina tra le braccia reggeva
l’esanime fanciulla.
Margareth
Duncan lo comprese non appena ebbe posato gli occhi su di lui
– Adam era
livido. La rabbia che emanava pareva quasi tangibile e lo avvolgeva a
mo’ di
mantello, rendendolo ancora più minaccioso e inavvicinabile
di quanto già non
fosse normalmente. Non aveva parlato, se non per ordinare con fare
secco e
brusco al signor Duncan di accendere il camino nel suo salotto privato
e a lei
di preparare un bagno caldo per la ragazza. Quei momenti erano passati
in un
lampo, confusi e burrascosi come un incubo, e solo alla fine, quando
lady Moore
riposava al caldo nel suo letto e Adam si fu rinchiuso nel suo studio a
placarsi, i poveri domestici poterono tirare un sospiro di sollievo.
Per
quanto potessero compatire la giovane e inconsapevole ragazza, non era
nulla
davanti al timore che provavano nei confronti del padrone: avevano
convissuto
con i suoi attacchi d’ira, gli scatti violenti, i bruschi
balzi d’umore per
troppi anni per riuscire a mettere da parte le loro paure e aiutare
lady Emma.
Quando
scese a colazione accompagnata da uno scodinzolante Aramis, Emma
trovò Adam ad
attenderla nella sala da pranzo. Per un attimo rimase interdetta, ferma
immobile sulla porta, lo sguardo che saettava da una parte
all’altra della
stanza come se si aspettasse – come se sperasse –
che Mrs. Duncan sbucasse
fuori da qualche angolo e la rassicurasse con la sua presenza. Tuttavia
ciò non
accadde, e ospite e padrone si trovavano soli; egli si alzò
non appena la
giovane ebbe varcato la soglia, avvicinandosi a scostarle la sedia dal
tavolo
alla destra rispetto a dov’era seduto lui, e cercò
poi di passare inosservato
mentre offriva della pancetta al cucciolo che pareva ormai averlo preso
in
simpatia.
«Avete
dormito bene nella vostra stanza?» Le chiese quando si fu
riaccomodato,
offrendosi di versarle una tazza di tè.
Emma
gli rivolse una breve occhiata perplessa e suo malgrado incuriosita
– per quale
motivo si ostinava a farle compagnia durante i pasti se quella maschera
gli
impediva di mangiare come un normale cristiano? – e poi
scrollò il pensiero con
un lieve cenno affermativo del capo. «Sì, grazie.
Ho dormito meglio sapendo di
avervi restituito il vostro letto», rispose gentilmente dopo
una breve
esitazione, iniziando a piluccare dei toast con burro e marmellata e
fingendo
come al solito che l’essere osservata mentre mangiava non le
desse fastidio.
Adam
parve imbarazzato a quell’accenno – come se
preferisse non indugiare sul fatto
che Emma avesse dormito per diverse notti nella sua stanza e tra le sue
coperte
– e borbottò qualcosa che suonava come una
rassicurazione e una richiesta di
non preoccuparsi inutilmente per lui.
«Vi
siete affacciata alla finestra? Ha nevicato, la notte
scorsa», la informò
quietamente, passando ad Aramis un’altra fettina di pancetta.
«Se l’idea vi
ispira, potrei accompagnarvi per una passeggiata nel parco. Mostrarvi i
terreni
della tenuta.»
La
giovane sollevò subito lo sguardo su di lui, sorprendendolo
con il luccichio
chiaramente eccitato che danzava nei suoi occhi. «Dite
davvero? Sì, se non vi è
di alcun disturbo mi piacerebbe molto», lo
rassicurò in fretta, quasi temendo
che la proposta potesse venire ritirata. Onestamente, l’idea
di mettere
finalmente il naso fuori dopo lunghi giorni passati segregata dentro il
maniero
le aveva portato una piacevole ondata di sollievo.
«Perfetto,
andremo subito dopo colazione», annuì Adam,
posando le mani intrecciate sul tavolo.
«Vi consiglio di indossare abiti pesanti, perché
fuori fa freddo e voi siete
appena guarita.»
«Posso
portare anche Aramis?» Domandò; il cucciolo,
sentendo pronunciare il proprio
nome, si voltò verso di lei con le orecchie tese e la coda
che ondeggiava
rapida sul marmo del pavimento, le fauci spalancate in una sorta di
strano
sorriso.
Adam
piegò il capo di lato in un gesto stranamente canino.
«Se siete sicura che non
scapperà via…»
«Oh,
no», si affrettò ad assicurare lei.
«Aramis è addestrato.»
«Allora
suppongo non ci sia nulla di male», acconsentì il
padrone.
Emma
annuì, riabbassando gli occhi sulla propria colazione con
una piccola ruga tra
le sopracciglia. Per quale motivo gli stava offrendo tutta quella
confidenza?
Perché accettava la sua presenza con tanta
serenità? Non poteva dimenticare che
l’uomo era ancora un estraneo, uno sconosciuto che le celava
la propria
identità e che, malgrado l’apparenza da gentiluomo
e i modi men che affabili,
la teneva comunque prigioniera.
Si
domandò fino a quando sarebbe riuscita ad assecondarlo
– e, insieme a quella
riflessione, ne giunse subito un’altra: chissà se
sarebbe riuscita a far
arrivare a suo padre la notizia di ciò che le era successo?
Non aveva più
scritto una lettera dalla visita di Caledon, né a lui
né a lord Graham, ma
d’altronde non ne aveva neppure ricevuto da parte loro.
Dunque, poiché dubitava
che i due uomini si fossero dimenticati di lei, Emma poteva solo
pensare che le
loro lettere fossero state intercettate da Adam o dai domestici, e per
qualche
ragione le fosse stato impedito di entrarne in possesso.
Se
la sua relazione con il padrone, sempre se di tale si potesse parlare,
si fosse
mantenuta su dei toni civili e cordiali, Emma suppose che avrebbe
potuto
domandare spiegazioni. Alzandosi dal tavolo e scusandosi per andare a
cambiarsi, la giovane decise che avrebbe sollevato
l’argomento più tardi,
durante la passeggiata.
Le
suole dei loro stivali scricchiolavano sulla neve fresca, lasciando
lievi
impronte lungo il sentiero. Mentre Aramis li precedeva, annusando e
marcando
con invidiabile entusiasmo ogni albero e cespuglio e chiazza di terreno
priva
di neve, Emma aveva dovuto accettare il braccio di Adam per evitare di
scivolare sul terreno ghiacciato, ma stranamente quel tocco non le
dispiaceva
più di tanto; il suo anfitrione era solido sotto la sua
mano, ed emanava un
piacevole calore che rendeva meno sgradita l’aria fredda del
mattino che li
circondava.
Ascoltava
con attenzione ciò che lui le raccontava – in
quell’angolo vi era l’accesso a
una sorta di labirinto che era stato costruito con pietre e siepi
più di un
secolo prima dagli allora conti di Rochester, e che sarebbe stato
meglio
accessibile con il sopraggiungere della primavera; dall’altra
parte, malgrado
la vegetazione selvaggia e incolta le nascondesse alla vista,
c’erano le
fontane; più giù, nella piccola vallata oltre
quel pendio, c’era un piccolo
fiume artificiale che andava poi a tuffarsi tramite delle gallerie
sotterranee
al lago che lei stessa aveva già avuto modo di vedere; e,
seguendo la stradina
che si diramava dai giardini intorno al castello fino a quel fiume, si
poteva
godere di una visione pressoché completa della tenuta, con i
suoi boschetti, le
pagode, i piccoli tempietti in marmo e pietra che dovevano un tempo
essere
stati protagonisti di splendide giornate estive di caccia o che magari
avevano
ospitato i picnic della contessa e le sue ospiti, circondate da fiori e
musiche
e risate.
Tutto
ciò che Emma vedeva adesso era una distesa infinita e
desolata di neve, alberi
con rami nudi e nodosi, erba incolta che spuntava saltuariamente dal
sottile
manto bianco che ricopriva la terra, e ovunque il segno inconfondibile
dell’abbandono che aveva inselvatichito ogni cosa; eppure, se
si lasciava
incantare dai racconti di Adam – come faceva a sapere tutte
quelle cose, ad
ogni modo? Le aveva forse vissute? Quanti anni aveva, e chi
era, per essere così informato? – se
stringeva gli occhi e
lasciava che la fantasia e l’immaginazione prendessero il
sopravvento, non le
veniva difficile figurarsi come doveva essere stata, in un tempo
distante e più
sereno, la vita a Pemberley.
L’intera
proprietà era così grande, aveva poi continuato a
spiegarle Adam, che conteneva
persino tre piccoli palazzi, la cui funzione era stata quella di
ospitare i
visitatori più illustri che gradivano giungere con il
proprio seguito di
domestici; ciò accadeva tuttavia di rado, così
essi venivano utilizzati come
punti di ristoro durante le battute di caccia, giacché il
castello risultava
troppo distante e per rientrarvi occorreva del tempo.
«Mi
piacerebbe visitarli», ammise Emma sinceramente, mentre
attraversavano uno dei
ponticelli in pietra del fiume. «Ad Hambleton non ne abbiamo,
suppongo che il
motivo risieda nell’epoca di costruzione della
tenuta.»
«È
probabile», convenne Adam, dirigendo la passeggiata lungo la
riva del fiume.
«Credo che i palazzi risalgano alla metà del
diciassettesimo secolo, ma potrei
sbagliarmi: in biblioteca devono esserci di sicuro i registri con le
date.
Quanto al visitarli, forse prima è meglio mandare i
domestici a sistemarli;
dubito che siano in condizioni ottimali per essere esaminati.»
Egli
non lo diceva tanto per dire: conosceva perfettamente le condizioni in
cui
versavano i vari padiglioni. Talvolta, quando Faust era in pieno
controllo e
lasciava il castello, vagava per giorni a piedi nella tenuta o a
cavallo nella
brughiera, sfogando le sue frustrazioni uccidendo armato o a mani nude
la
selvaggina che ancora si trovava nei dintorni. E in quelle occasioni
prendeva a
rifugiarsi in uno dei palazzi – grandi all’incirca
quanto un dignitoso
appartamento londinese, con due piani e ogni confort che si poteva
desiderare
malgrado lo stato di abbandono in cui versavano; ma stare fermo non gli
si
addiceva, lo faceva impazzire, così capitava che vi portasse
qualcuna delle
ragazze che vendevano sé stesse giù a
Heatherfield – bendate, affinché non
comprendessero dove si trovavano e fosse per loro impossibile ritrovare
la
strada – e vi trascorreva una o più notti. Poi,
quando si stancava anche di
loro, le riportava al villaggio senza che esse avessero mai conosciuto
il suo
aspetto, e si apprestava a distruggere tutto ciò che gli
capitava tra le mani;
ormai quegli edifici avevano una notevole carenza di suppellettili
integre, e
Adam non desiderava particolarmente mostrarli a Emma.
Avrebbe
soltanto innescato una serie di domande scomode a cui non avrebbe
saputo cosa
rispondere.
«Laggiù»,
proseguì quindi il padrone, prendendo particolarmente sul
serio il suo ruolo di
anfitrione, «c’è un roseto. Ora
è secco, ma in primavera sboccia
meravigliosamente; apparteneva alla figlia dei conti, lady Eleanore, e
la
signora Duncan se ne occupa in sua memoria…»
«Siete
molto ben informato sulla famiglia che possedeva il
castello», lo interruppe
Emma senza pensare, lasciando scorrere lo sguardo sul parco deserto.
Adam
esitò un momento, l’incertezza pungente quanto il
gelo della brezza. «Ho
vissuto a lungo a Pemberley, milady», fu la sua esitante
risposta, mormorata
senza che i loro occhi si incrociassero. «E i Rochester erano
una famiglia
molto conosciuta. Credo di conoscere ogni loro segreto,
oramai.»
Lady
Moore aggrottò le sopracciglia, desiderosa di saperne di
più – sembrava che
ogni parola fuggita dalla bocca di Adam non facesse che scatenare la
fantasia
della ragazza e provocare la sua sete insaziabile di conoscenza.
Ciò a cui i
libri della biblioteca non erano riusciti a sopperire, ella sperava lo
avrebbe
fatto lui; una vana illusione, a quanto pareva, giacché Adam
sembrava
conservare i propri segreti con la stessa cura e gelosa attenzione con
cui si
preservano fiori delicati tra le pagine di un libro. E, anche se di
tanto in
tanto egli si lasciava scappare qualche dettaglio – minuscole
briciole di pane
su un sentiero che non portava da nessuna parte, visto che sparivano
ancor
prima di toccare il suolo – poi immediatamente tornava sui
suoi passi, pentito
del lapsus involontario, e riportava il discorso su terreni meno
scabrosi.
Anche
adesso, Emma avrebbe voluto approfondire quell’argomento
– che cosa voleva dire
con la sua ammissione di conoscere i vecchi padroni del castello, e
cosa
intendeva con il fatto di averci vissuto a lungo? Era, forse, qualche
figlio
bastardo del conte, tenuto a Pemberley per celare la sua esistenza ed
evitare
che si venisse a sapere delle scappatelle di Lord Rochester?
– ma stavolta non
fu Adam a distogliere la sua attenzione dalle numerose domande che
giacevano in
bilico sulla punta della sua lingua.
Fu
qualcos’altro – una strana sensazione, un
impercettibile cambio del vento, un
vago senso di vertigine come se la terra stessa si fosse
improvvisamente
spostata dal suo asse; e così si arrestò quasi
bruscamente in mezzo al sentiero,
lo sguardo rivolto verso la sommità della collina. Dovette
aggrottare la fronte
e stringere gli occhi per mettere a fuoco la figura: era scura, e
pareva
femminile – non poteva dirlo con certezza, ma il vento stava
facendo svolazzare
quello che sembrava un lungo abito, e nell’insieme la figura
era troppo minuta
e delicata per poter essere maschile – e, anche se da quella
lontananza era
impossibile decretarlo con precisione, avrebbe giurato che la stesse
fissando.
Rabbrividì sotto quello sguardo, e non fu per il freddo.
La
figura sollevò poi un braccio, lentamente, come se il peso
delle proprie membra
fosse troppo da sopportare – se in un gesto di saluto o
invito a raggiungerla Emma
non avrebbe saputo dirlo – dopodiché in un
turbinio di gonne e mantello parve
ruotare su se’ stessa per poi scomparire come se la neve
l’avesse inghiottita,
oltre il declivio celato alla sua vista.
Si
riscosse dalla visione solo quando sentì una mano prenderle
gentilmente il
gomito, e si voltò appena il tanto sufficiente da vedere il
luccichio della
maschera bianca di Adam nella grigia luce del mattino.
«Lady
Emma?» La chiamò lui, con quella voce bassa e
pacata che di tanto in tanto
mancava di terrorizzarla come avrebbe invece fatto giorni prima. Quel
fatto in
realtà la inquietava non poco – non voleva
abituarsi così tanto a lui da fare
la sciocchezza di non temerlo – ma per il momento decise di
non farci caso.
Sbatté
le palpebre e aggrottò le sopracciglia, tornando a fissare
il punto ove la
figura era sparita. «Mmh?»
L’uomo
riprese a parlare, il tono ammantato di preoccupazione.
«Tutto bene?»
«Sì,
solo… Mi è sembrato di vedere
qualcuno», rispose lei, sforzandosi inutilmente
di aguzzare la vista e sentendosi incredibilmente sciocca subito dopo.
«Lassù,
vedete? Sulla collina.»
Adam
non si curò di volgere lo sguardo verso il punto che lei
aveva indicato,
limitandosi a scrollare le spalle. «Forse un
animale», offrì brevemente.
«Vogliamo proseguire?»
Numerose
proteste erano già pronte a prendere fiato sulla punta della
sua lingua, ma
Emma si sforzò di metterle a tacere quando notò
l’irrigidirsi del suo compagno
e l’inquietante ombra cupa che per un istante parve tramutare
i suoi occhi da
azzurro a pece.
«Sì»,
mormorò, d’un tratto più circospetta.
«Fate strada.»
Stavolta
gli camminò accanto senza accettare l’offerta del
suo braccio, e se anche egli
ne rimase offeso, non lo diede a vedere. Benché la
conversazione si fosse
raffreddata – la giovane lady non era più tanto in
vena di ascoltare
chiacchiere vuote, non dopo aver visto quella strana figura che non
aveva fatto
a meno di ricordarle l’orribile notte di due settimane prima,
notte di cui
ancora non sapeva nulla poiché l’unico che poteva
illuminarla sulla faccenda si
rifiutava di farlo – i due passeggiarono ancora per una buona
mezz’ora.
Con
enorme sgomento e un accenno di disperazione, Emma realizzò
che avrebbe potuto
galoppare a vuoto per giorni interi senza riuscire a trovare i confini
di
Pemberley – e, con questi, una via d’uscita. Il
pensiero fu talmente
sconfortante che dimenticò persino di affrontare Adam
riguardo la faccenda
delle lettere; alla fine, adducendo il freddo e la stanchezza come
scuse, si
fece riaccompagnare al maniero senza aver visto neppure la
metà della tenuta.
1882
Le ruote
di una
carrozza che si allontanava rapidamente cigolarono sulle pietre del
vialetto.
La figura
scura che
vi era appena discesa, lungo mantello nero e cappello ben calato sul
viso per
proteggersi dal freddo pungente, si guardò intorno con
composta curiosità, facendo
scorrere lo sguardo sulla facciata di Pemberley Manor alla ricerca di
qualche
dettaglio che lo rassicurasse del fatto che gli anni fossero trascorsi
anche
lì. Non ne trovò: come sempre, l’antica
magione pareva sospesa nel tempo,
maestosa e imponente, e lo fece suo malgrado rabbrividire: solo la sua
ferrea
volontà gli impedì di segnarsi per scaramanzia.
Si domandò cosa mai potesse
aver spinto il conte a chiamarlo dopo dieci anni passati a ignorare le
sue
suppliche e le sue richieste di ottenere un colloquio; suppose che per
saperlo
avrebbe dovuto racimolare il coraggio di avanzare verso il portone e
sollevare
la mano per bussare.
Gli
aprì quasi subito
il maggiordomo, Mr. Weber, ed egli fu sorpreso nel notare il volto
stanco e
provato dell’uomo. Non aveva mai udito lamentele da parte dei
domestici che
lavoravano al castello, e vedere in prima persona che invece essi
parevano
andare avanti a fatica lo lasciò per un attimo perplesso.
L’uomo si fece da
parte con un breve cenno del capo, invitandolo ad entrare, e sempre
silenziosamente
gli fece cenno di seguirlo.
Parlò
solo una volta
che ebbero imboccato il corridoio che conduceva dabbasso, verso i piani
riservati al personale. «Suppongo siate qui sotto richiesta
di Mrs. Duncan»,
fece, con un tono basso e greve.
L’ospite
aggrottò la
fronte, interdetto. «Veramente, ero convinto di essere stato
convocato dal
conte.»
«Milord
non ne è al
corrente», venne interrotto subito. «E gradirei
poter contare sulla vostra
discrezione riguardo ciò che apprenderete nelle ore
successive, padre Randall:
è nell’interesse di tutti evitare uno
scandalo.»
Il
reverendo annuì
piano, sempre più confuso.
«Naturalmente», mormorò soltanto. Che
cosa stava
accadendo tra le mura di Pemberley?
Quando
giunsero nell’enorme
cucina, tutti i domestici là presenti – la cuoca,
le sue aiutanti, alcuni
camerieri e persino il valletto personale di lord Rochester –
interruppero ciò
che stavano facendo in favore di salutare rispettosamente
l’uomo di chiesa.
Egli ricambiò il benvenuto e mormorò una breve
benedizione, che tuttavia non
servì ad alleggerire le espressioni tetre e stanche della
servitù. Sempre più
perplesso, il reverendo volse nuovamente lo sguardo al maggiordomo, ma
già egli
gli stava facendo cenno di seguirlo attraverso un altro corridoio, e
senza più
parlare si fermò davanti a una porta per poi bussarvi
gentilmente.
Fu proprio
Mrs.
Duncan ad apparire sulla soglia, e quando i suoi occhi si posarono sul
prete il
suo volto parve illuminarsi di sollievo. «Grazie, signor
Weber», disse rivolta
al maggiordomo, che sapeva riconoscere un congedo quando ne udiva uno.
La donna
tornò a dedicare la sua attenzione al reverendo una volta
che il suo collega li
ebbe lasciati soli. «Prego, padre, entrate.»
«Devo
ammettere di
aver trovato sospetto l’invito del conte, ma adesso si
chiariscono molte cose»,
esordì l’uomo quando la porta
dell’ufficio della governante si chiuse dietro di
loro. Osservò placidamente la piccola ma elegante stanza
prendendo nota della
cura con cui ogni oggetto aveva trovato il suo incastro, e attese con
pazienza
che la donna gli indicasse una sedia su cui prendere posto.
«Prego,
padre»,
ripeté quest’ultima, facendo un cenno verso una
delle poltroncine. «Gradite
qualcosa da bere? Un tè, brandy magari?»
Il
reverendo
acconsentì con un breve cenno del capo, accettando per il
momento il rinvio
della discussione. «Un tè andrà
benissimo, grazie Mrs. Duncan», rispose,
cortese. Aveva come la vaga impressione che sarebbe servito porre la
donna a
suo agio se avesse voluto scoprire qualcosa di utile riguardo
ciò che accadeva
in quel castello.
Attese in
silenzio
durante l’intera preparazione del tè,
approfittandone per riflettere su ciò che
sapeva per sentito dire e su ciò che aveva avuto modo di
osservare fino a quel
momento – non molto, doveva ammettere – in modo da
prepararsi a qualsiasi
evenienza. La famiglia dei Rochester non era neppure cattolica,
poiché
seguivano il credo protestante come i loro antenati; dunque che cosa
potevano
mai volere da lui?
Quando
entrambe le
tazze di fine porcellana furono riempite con il tè fumante,
e latte e limone
vennero aggiunti secondo le loro personali preferenze, padre Randall
decise di
spezzare il silenzio.
«Dunque»,
fece,
roteando il cucchiaino per sciogliere lo zucchero. «Che cosa
posso fare per
voi?»
«Ah,
padre», sospirò
la donna. «È un’enorme richiesta quella
che vi sto per fare, e richiede un
notevole impiego di misericordia e discrezione, e voi siete
l’unico che mi sia
venuto in mente cui rivolgermi. Il conte mi ha imposto di non farne
parola ad
anima viva, ma non posso più tacere
sull’argomento… Sento che se mantenessi il
segreto per soltanto un altro giorno impazzirei dalla disperazione e
dal
rimorso.»
«Mia
cara, mi state
preoccupando. Che cosa vi angustia?»
La
governante si
guardò rapidamente intorno come se temesse che qualcuno la
spiasse attraverso
le pareti, e poi emise un altro sospiro. «Dovete promettere,
padre», mormorò,
guardandolo con aria quasi disperata. «Promettetemi che non
direte ad anima
viva ciò che udirete o vedrete qui oggi.»
«Sapete
bene che ciò
che mi viene detto in confessione non verrà
divulgato», ribatté il prete leggermente
offeso. «Conoscete i miei voti e ciò che la mia
carica comporta.»
Mrs.
Duncan annuì e
prese un sorso del suo tè, e padre Randall notò
il lieve tremore delle sue
dita. «Bene», disse lei, sforzandosi di recuperare
il controllo sui propri
nervi. «Bene.»
Notando
che la
governante non sembrava riuscire ad aggiungere altro, il prete riprese,
stavolta con fare più gentile e comprensivo.
«Forse questo non è l’ambiente
più
adatto per una confessione, mia cara: è chiaro come il
giorno che non siete a
vostro agio. Perché non siete venuta in chiesa per parlare
con me?»
«No,
no! Ho bisogno
che vediate, padre, oltre che udire… Non ho bisogno soltanto
di liberare la mia
anima da un peso, ma anche e soprattutto del vostro aiuto. Siete un
uomo
istruito, paziente, caritatevole, e vi conosco sin da quando siete
giunto a
Heatherfield per la prima volta. Posso fidarmi solo di voi in questo
frangente.»
A questo
punto il
reverendo dovette ammettere di peccare di curiosità.
«Tutti questi misteri non
vi si addicono, Mrs. Duncan», l’ammonì
il prete. «Parlate chiaramente e
liberatevi di questo fardello.»
La donna
prese un
breve sorso di tè come a volersi dare coraggio; i suoi
occhi, larghi e castani,
fissavano un punto imprecisato sul tavolo, e le sue dita tamburellavano
nervose
su di esso. Padre Randall recitò a mente due Pater Noster e
un Ave Maria nel
tempo che occorse alla governante per raccogliere i pensieri e decidere
di
parlare.
Infine la
tazzina
venne posata, e Mrs. Duncan prese un profondo sospiro. «Voi
sapete che lady
Rochester è morta di parto», esordì
bruscamente, sollevando gli occhi per
incontrare quelli del reverendo. «Dopo tre figli e nessuna
complicazione, l’ha
portata via una comune febbre puerperale… Non voglio
scendere in dettagli
inutili, ma sappiate che quell’ultima gravidanza non fu come
le altre.»
Racimolando
ogni
briciolo di pazienza rimastogli, padre Randall tacque e la
invitò a continuare
il suo racconto con un comprensivo silenzio e un breve cenno del capo.
«Vedete,
malgrado ciò
che è stato detto al riguardo, il bambino non nacque morto.
Anzi, non morì
neppure in seguito… Egli vive, ed è anzi in
salute, nonostante tutto, e abita
qui, al castello.» Vedendo l’espressione sgomenta
dell’uomo che le sedeva di
fronte, la signora Duncan sollevò una mano per invitare
ulteriore indulgenza. «Per
via di certe… circostanze… il conte non
l’ha riconosciuto», spiegò.
«Forse il
dolore per la scomparsa della moglie l’ha svuotato da ogni
sentimento, chi
siamo noi per giudicare e pretendere di sapere che cosa passa nel cuore
e nella
mente di un uomo posto di fronte al lutto? Ad ogni modo, egli ha
permesso che
il bambino vivesse nella casa della sua famiglia, e me ne sono presa
cura io fino
a questo momento.»
«Un
momento solo,
Mrs. Duncan», la interruppe il reverendo a quel punto,
incapace di trattenersi
e tacere oltre. «Mi state dicendo che questo bambino, che
dovrebbe avere ora
una decina d’anni, ha vissuto nascosto tra queste mura? Come
avete fatto a mantenere
un simile segreto per così tanto tempo? E perché
io ne vengo a conoscenza solo
ora? Sono il confessore di questa famiglia!»
«Voi
non capite»,
sibilò la donna, allarmata dal tono di voce di padre Randall
e desiderosa di
maggior riserbo. «L’abbiamo fatto per
proteggerlo!»
Padre
Randall era
indignato. «È per proteggerlo che
l’avete tenuto prigioniero, lontano dal
mondo? È questo crimine il motivo di tanta
segretezza?»
«Non
capite», ripeté
la donna, notevolmente pallida. «Dovrete vedere, per poter
comprendere… per non
giudicare con tanta durezza! Ma qualsiasi cosa vediate, qualsiasi cosa
pensiate,
vi supplico, padre: non una sola parola dovrà lasciare le
mura di Pemberley, o
l’ira del conte non conoscerà eguali.»
«Temete
più la rabbia
di un uomo che il giudizio di Nostro Signore?»
Ribatté il prete, sbattendo il
palmo della mano contro la superficie del tavolo. «Come
osate! Non posso farvi
una simile promessa, signora, checché ne diciate. A costo di
portar via il
bambino da questo castello…!»
«Portarlo
via! Cosa
dite! E abbassate la voce, per l’amor di
Dio…»
«Non
invocate il Suo
nome in questa circostanza, Mrs. Duncan, vi avverto!»
«E
voi non dite
simili sciocchezze!» Replicò lei prontamente,
bianca come un cencio. «Ascoltatemi,
padre, vi scongiuro: aspettate di vederlo prima di prendere una
decisione. È
facile condannare senza sapere, e io non vi ho chiesto di venire fin
qui per
litigare con voi: ho bisogno che siate mio amico e alleato, non vi
voglio come
nemico.»
«Allora,
cosa state
aspettando? Portatemi da lui», decretò
l’uomo con fare definitivo, alzandosi in
piedi e torreggiando sulla povera governante.
Con un
sospiro
rassegnato, la donna si alzò a sua volta. «Molto
bene. Seguitemi», fu tutto ciò
che disse.
Il
reverendo non
aveva mai avuto modo di visitare a fondo un maniero dalla simile
struttura:
seguì la signora Duncan su per strette rampe di scale,
attraverso angusti
corridoi, lungo passaggi debolmente illuminati da candele tremolanti o
da
piccole finestrelle strette che parevano feritoie, e che lasciando
entrare
sottili fili di luce a rischiarare un’oscurità
altrimenti perenne. Brevemente e
quasi sussurrando, la governante gli spiegò che i domestici
utilizzavano quei
passaggi per raggiungere ogni stanza del castello, a partire dalle
camere da
letto – e così dicendo gli indicava sagome di
porte che si affacciavano sui
corridoi ogni venti o trenta metri – per proseguire con il
foyer, la sala da
pranzo, i salottini privati, la biblioteca, lo studio. In questo modo,
la
servitù poteva svolgere i propri compiti indisturbata,
facendo avanti e
indietro da mattina a sera e senza intralciare la vita quotidiana dei
conti e
dei loro ospiti, qualora si fossero degnati ad aprire la casa ad amici
e
conoscenti.
Padre
Randall avrebbe
mentito se avesse detto di non essere malgrado tutto affascinato
nell’apprendere la routine di un castello di quelle
dimensioni.
D’un
tratto, Mrs.
Duncan si fermò. La sua mano si sollevò ad
afferrare il mazzo di grosse chiavi
che le pendeva da un cinturino che portava intorno alla vita, e
iniziò a
scorrerle con un improvviso tremore. «Solo io ho le chiavi di
questa stanza»,
spiegò a mezza voce, mentre le sue dita passavano il mazzo
in rassegna. Infine
trovò ciò che cercava: isolò il
piccolo oggetto di ferro dal resto delle chiavi
e lo sollevò alla luce per far sì che
l’uomo lo vedesse, in un cenno dall’aria
solenne che lo mise onestamente a disagio.
Osservò
poi la chiave
che veniva abbassata e infilata lentamente nella toppa, e
udì il rumore secco
delle tre mandate che fecero scattare la serratura; il reverendo, non
senza una
certa apprensione, si ritrovò a domandarsi che genere di
creatura si trovasse
oltre quella soglia per necessitare simili misure di sicurezza e
circospezione.
La governante gli aveva parlato di un bambino: ma chi meritava un
simile
trattamento a un’età così giovane e
innocente?
Finalmente
la porta
si aprì, ruotando sui propri cardini e lanciando un sottile
filo di luce nel
loro corridoio segreto. Mrs. Duncan prese un profondo respiro,
lanciò una breve
occhiata al prete al suo fianco per intimargli silenziosamente di
seguirla, e
avanzò rapida all’interno della stanza.
Il bambino
era seduto
per terra, presso il caminetto, la testa china mentre si dilettava con
dei
giocattoli di strana fattura – come se fossero stati messi
insieme da pezzi di
balocchi vecchi e per creare qualcosa di nuovo. Il delicato mormorio
che
accompagnava i suoi giochi era una qualche nenia che il piccolo stava
canticchiando a mezza voce, e che per qualche strano motivo
provocò uno spasmo
di compassione nel cuore del prete.
La signora
Duncan
chiuse delicatamente la porta dietro di sé e si
schiarì la voce. «Padroncino
Adam?» Lo chiamò gentilmente, mettendo in quel
titolo la stessa deferenza che
avrebbe riservato a qualsiasi altro erede del conte, e senza il minimo
accenno
di derisione.
Nell’udire
il proprio
nome venir chiamato all’improvviso, il bambino
rizzò la schiena e posò i giochi
sul tappeto, smettendo di canticchiare. Padre Randall lo
osservò attentamente
mentre, con strane movenze lente e deliberate, si voltava per
fronteggiare i
suoi ospiti…
Il suo
cuore saltò un
battito, e per un attimo fu incapace persino di respirare. La mano si
strinse
intorno al crocifisso d’argento che portava intorno al collo,
finché i lati
taglienti del Cristo non gli ferirono i palmi, e solo il dolore
riuscì a fargli
riprendere fiato. D’un tratto, le suppliche di Mrs. Duncan
acquistavano un
senso.
«Il
Signore abbia
pietà», sussurrò debolmente.
Dopo
cena, come di consueto, Adam accompagnò Emma a controllare
le condizioni di
Miss Radcliffe prima di scortarla nei suoi appartamenti. Non si erano
detti
molto altro al rientro dalla loro passeggiata mattutina; i due si erano
separati nel foyer, il padrone intuendo probabilmente lo stato
d’animo poco
propenso alla compagnia della sua ospite. La signora Duncan, che era
lì presente
ad accoglierli, aveva di certo notato la strana atmosfera che aleggiava
tra
loro, ma saggiamente non ne fece parola – Emma non avrebbe
saputo dire se ciò
fosse dovuto a una certa delicatezza o al timore dell’ira di
Adam in caso ella
avesse superato qualche limite.
Avendo
trovato la sua istitutrice in condizioni né migliori
né peggiori rispetto al
pomeriggio – benché il suo sonno sembrasse
più riposato, e Mrs. Duncan le
avesse assicurato di essere riuscita a farle ingerire del brodo caldo
insieme
alle medicine prescritte dal dottor Carew – Emma
lasciò che Adam la condusse
nella sua stanza. I corridoi erano bui, poiché prima di
coricarsi i domestici
si accertavano di spegnere il gas che alimentava le luci,
così era Adam a
illuminare il tragitto con un antico candelabro a tre braccia.
Avevano
appena raggiunto il pianerottolo del secondo piano, dove si trovava la
stanza
di Emma, quando Aramis si bloccò all’improvviso e
voltò il muso verso
l’oscurità alle loro spalle, emettendo un ringhio
basso e minaccioso. La
giovane rischiò di inciampare su di lui, e fece per
riprenderlo quando
un’improvvisa ondata di gelo proveniente dalla tromba delle
scale le ghiacciò
il sangue nelle vene. Adam, poco più avanti, non sembrava
essersi accorto di
nulla.
Ma
lei avvertì un fruscio – qualcosa che raschiava
sui gradini, a fatica, dei
tonfi sordi come di passi attutiti dal tappeto – poi un
debole sospiro, e la
sensazione di essere fissata con insistenza che aveva provato nel parco
il
giorno prima tornò più acuta che mai,
terrorizzandola. Subito si fermò,
voltandosi di scatto con il respiro bloccato in gola, per scrutare
inutilmente
l’oscurità alla ricerca di qualsiasi cosa
– adesso ne era sicura! – la stesse
seguendo.
Adam
dovette essersi accorto che lei era rimasta indietro, perché
tornò subito sui
suoi passi, portando misericordiosamente con sé la quieta
luce del candelabro.
«Avete
visto?» Mormorò lei senza voltarsi, gli occhi
sgranati e indirizzati verso un
punto in ombra del corridoio. D’istinto, allungò
una mano davanti a sé – tanto
il buio pareva solido, tangibile – ma fu il suo compagno a
prendergliela tra le
sue in una stretta gentile: persino il tiepido cuoio dei suoi guanti le
fu di
conforto, se paragonato all’alito gelido che aveva avvertito
alle sue spalle, che
le aveva fatto accapponare la pelle e rizzare i capelli sulla nuca.
Come
se dita gelide l’avessero accarezzata.
«Che
cosa dite, Emma? Non c’è niente qui, eccetto
noi», fu la pacata risposta di
Adam, che echeggiò con sconcertante risolutezza nel silenzio
dell’andito.
Lei
scosse appena il capo e fece un passo in avanti, prima che la presa
dell’uomo
la trattenesse al suo fianco. «No, no, ho visto
qualcosa… Come un’ombra,
proprio dietro di me», insisté.
«L’aria si è fatta gelida!
Com’è possibile che
non abbiate sentito nulla?»
«Perché
non c’è nulla da sentire», fu
la
secca risposta dell’uomo, sibilata con tanta
severità da fargli guadagnare
un’occhiata stupita e intimidita. «Siete stanca,
milady, e questo maniero è
antico. E come ogni vecchio edificio, esso geme, scricchiola e sospira
a ogni
alito di vento – non vi è nulla da
temere.»
La
menzogna era così palese da poterla quasi assaporare sulla
punta della lingua,
e il timore di Emma iniziò a tramutarsi in gelido disdegno
–
«Forse
risentite ancora della febbre di pochi giorni fa?»
–
che, a quelle parole, infiammò a un tratto l’ira
che aveva severamente represso
per tutto il giorno.
«Non
osate!» Sbottò dunque, strappando bruscamente il
proprio polso dalla stretta
del padrone e facendo due prudenti passi indietro. «Come
potete sperare che io
vi creda? Voi, che non mi avete mai rivelato neanche
cos’è accaduto davvero la
notte che mi avete trovata!»
Adam
si irrigidì – la sua postura assunse una certa
severità che sfuggì tuttavia
all’occhio distratto di Emma – e per un attimo le
due entità dentro di lui
lottarono per la supremazia. Rispondere
alla sfida, alimentare quella furia e tramutarla in sacro terrore o
placare la
donna? Fu di nuovo Adam, per fortuna, ad avere la meglio.
«Vi ho detto
tutto ciò che vi serve sapere», la
ammonì a mezza voce, un tremito appena
soppresso l’unico indizio di quel travaglio interiore.
Emma
gli rivolse uno sguardo duro, colmo di risentimento e irritazione
– poiché
durante i giorni trascorsi ella aveva creduto che un certo grado di
prudente
fiducia si fosse instaurata tra loro, e solitamente Adam rispondeva con
garbo e
sincerità alle domande che lei gli poneva – e
strinse le mani con furia sulla
stoffa del proprio abito, le dita artigliate come se avesse voluto
invece
stringergliele intorno al collo. «Non mi avete detto niente,
invece», lo
contraddisse subito, sollevando il mento. «Mi tenete occupata
e distratta
giorno dopo giorno con la speranza che io dimentichi ciò che
ho visto, che
dimentichi la situazione in cui mi trovo, ma mi credete davvero tanto
sciocca?
Pensate che non mi sia accorta che i domestici si rifiutano di
parlarmi, che le
lettere di mio padre e del mio fidanzato hanno smesso di arrivare, che
la mia
istitutrice continua a giacere a letto senza alcuna speranza di
ripresa? Non vorrei
insinuare cose non vere, signore, ma anche voi dovrete convenire con me
sul
fatto che si tratti di circostanze oltremodo sospette.»
Malgrado
la luce delle fiamme danzasse sul profilo della sua maschera, la
penombra del
corridoio aveva celato alla sua vista l’istintiva reazione
del padrone – un
istantaneo irrigidirsi, le mani serrate in pugni nervosi, gli occhi
d’un tratto
scuri, quasi neri – ma non aveva
fatto nulla per attenuare la freddezza della sua risposta.
«Credevo che aveste
imparato a trovare piacevole la mia compagnia.»
Emma
sbuffò assai inelegantemente, dimentica per un attimo del
proprio status. «Credetemi,
troverei spiacevole persino la compagnia del re in simili circostanze.
E vi
prego di non deviare la discussione dall’argomento
principale», disse, in un
tono che non ammetteva repliche. «Desidero sapere che cosa
sta accadendo a
Pemberley, signore, e desidero saperlo adesso.»
«Non
capisco che cosa intendete», fu la rapida risposta
dell’uomo, pronunciata a
denti stretti.
«Intendo
dire che al di là del fatto che mi stiate tenendo
prigioniera tra queste mura,
cosa che vi ho finora permesso perché tengo alla mia
istitutrice e al momento
lei è impossibilitata a muoversi, voi mi state nascondendo
qualcosa, e non ho
intenzione di aggiungere la sprovvedutezza alla lista dei mie
difetti!» Si
fermò un attimo per riprendere fiato – a sua volta
scioccata dal fervore
dimostrato e dallo scoprire quanta rabbia avesse in effetti accumulato
–
dopodiché raddrizzò la schiena e fissò
severamente l’uomo negli occhi,
ignorando come al solito la strana angoscia che evocava la presenza
della sua
maschera. «Per cui ve lo chiederò un ultima volta,
signore – che cosa mi state
nascondendo? Sono in un qualche pericolo?»
Nei
lunghi secondi che seguirono le sue parole, Emma ritornò con
la mente agli
ultimi giorni; alla fatica che faceva ogni notte ad addormentarsi, e a
come la
sua mente veniva invasa da vorticanti immagini di spettri non appena
scivolava
in un sonno senza riposo, maledetto da fiamme che le lambivano le
carni, acque
nere profonde come l’inferno che l’attiravano nel
loro mortale abbraccio, e poi
sangue, sangue che colava dalle pareti, che macchiava il pavimento, che
sgorgava
dalle pagine dei libri della biblioteca e che gocciolava da ferite
aperte e
bocche spalancate, e urla, pianti, singhiozzi – e quelle
visioni erano così
macabre, oscene, da svegliarla di soprassalto, costringendola a
rigettare quel
poco che aveva nello stomaco nella tazza da notte che ormai teneva
accanto al
letto per quelle evenienze. Non aveva detto a nessuno dei suoi sonni
turbati –
forse solo Lydia ne era al corrente, dato che era lei che la svegliava
ogni
mattina e si occupava di mettere in ordine e ripulire la stanza. Ma
ella era
muta, ed Emma le aveva domandato di non raccontarlo a nessuno
– solo perché non
poteva parlare non significava che non avesse altri modi di comunicare,
per
quanto si ostinasse a non farlo con lei – e poteva solo
sperare di aver riposto
la sua fiducia nelle mani giuste.
Ma
le notti insonni la rendevano nervosa, andando ad aggiungersi al
malessere
causato dalle sue attuali circostanze; e anche se durante il giorno
fingeva che
nulla fosse fuori posto – a partire dal suo aspetto, che
curava celando il
pallore e le ombre sotto agli occhi con del maquillage recuperato
chissà come
da Lydia – ciò non significava che dentro non
stesse tremando, e che non
temesse la notte come si teme il diavolo.
«Non
avete nulla di cui avere paura, milady», disse Adam, portando
la mano libera
dietro la schiena per evitare di cedere all’impulso di
allungarsi e afferrarla.
«Fintanto che rimarrete mia ospite, vi garantisco
che–»
«Mi
garantite?» Lo interruppe, troppo
scioccata per considerare la propria maleducazione. «Buon
Dio! Continuate a
evadere le mie domande anche ora che vi accuso!»
«Cosa
volete che vi dica? Che avete ragione?» Sbottò
l’uomo, avanzando
minacciosamente d’un passo. «Che risposta
gradireste sentire per poter dormire
serenamente la notte, milady?»
«La
verità!» Esclamò lei inviperita,
sforzandosi di non indietreggiare. «Voglio che
siate onesto con me, e che mi diciate che cosa sta accadendo nella mia
casa!
Non fraintendete la mia disponibilità e la mia educazione
per ignoranza o
ingenuità, signore – posso assecondarvi,
sì, ma ciò non influisce sulla mia
capacità di raziocinio e libero pensiero, e i misteri che
celate non mi aiutano
a essere a mio agio in vostra presenza!»
Sconvolto
dal brusco sfogo, Adam si immobilizzò in mezzo al corridoio,
e agli occhi
furiosi di Emma parve che diventasse appena più piccolo,
appena più fragile,
come se le sue parole – bastava davvero così poco?
– lo avessero colpito, o
avessero perlomeno toccato un nervo scoperto.
Come
poteva aver
paura di lui? Si
ritrovò a pensare, scioccata. Sembra un
cucciolo bastonato. Che fine aveva fatto l’uomo che
aveva reagito con
quella furia terribile quando lei aveva provato ad attaccarlo, appena
conosciuti? Quando le sue dita gelide le si erano strette intorno al
collo, e
nei suoi occhi non aveva visto che promesse di orrori?
Si
rese conto che era da tanto – da quando le aveva salvato la
vita, quella notte,
sul lago – che non pensava a lui sotto quella luce, come un
mostro da cui non
avrebbe potuto aspettarsi che violenza e minacce. E adesso che le stava
di
fronte, incurvato, gli occhi supplicanti, Emma realizzò non
senza una buona
dose di sgomento che no, non era di lui che aveva paura.
Cosa
potete saperne,
voi, di solitudine,
era stata una delle prime cose che le aveva detto. Non vi
chiedo molto – desidero soltanto la vostra
compagnia…
Per
quanto provasse una fastidiosa fitta al petto quando ci ripensava,
quando
rifletteva sul genere di vita che Adam aveva condotto prima del suo
arrivo, e
per quanto potesse provare pena per lui, ciò non le toglieva
il diritto di
domandare spiegazioni e pretendere delle risposte, non rendeva meno
legittimi i
suoi desideri.
E,
a giudicare dal silenzio di Adam, Emma comprese che non avrebbe
ottenuto niente
di tutto ciò per quella sera; per cui socchiuse gli occhi,
prese un profondo
respiro e rilassò le spalle.
«Vedete
bene che non posso obbligarvi a parlare, ed è nel vostro
diritto mantenere
quali che siano i vostri segreti», disse, con un tono di voce
improvvisamente
calmo, gelido ma non meno gentile. «Ma sappiate che tutto
questo mistero non mi
fa sentire a mio agio, e che pertanto gradirei trascorrere da sola le
mie
giornate fin quando non mi riterrete degna di fiducia.»
Vide
la mano di Adam che reggeva il candelabro tremare davanti alla fermezza
di
quella dichiarazione, e il modo in cui sollevò appena il
mento le fece intuire
che volesse ribattere qualche cosa; ma lo interruppe con un cenno di
diniego
del capo, al quale lui obbedì prontamente. «Per
favore, sono stanca.
Accompagnatemi nella mia stanza se volete, dopodiché
desidero stare da sola»,
rettificò, distogliendo lo sguardo.
Reso
muto dall’improvvisa svolta degli eventi, Adam si
limitò ad annuire, dandole le
spalle e riprendendo il tragitto lungo il corridoio. Persino Faust
rimase in uno
stordito silenzio, rannicchiato in un angolo scuro della sua mente.
Doveva
domandare il
suo perdono.
Era
questo il pensiero fisso che aveva accompagnato Adam per tutto il
giorno. Non
erano trascorse neppure ventiquattr’ore da quando aveva
discusso con la sua
ospite – ore passate in solitudine, suo malgrado,
poiché la giovane donna lo
aveva evitato sin da quando si era svegliata, trovando rifugio nella
camera da
letto della sua istitutrice o, peggio, nelle stalle, dove egli
preferiva non
mettere piede per evitare di incontrare il figlio dalla mente delicata
dei
signori Duncan – eppure, già sentiva la sua
mancanza. Si era abituato alle loro
conversazioni, benché non fosse tanto sciocco da non
accorgersi della
circospezione e talvolta del disagio con cui Emma si rapportava a lui,
e
tornare al silenzio dopo giorni – settimane
– di compagnia era stato terribile.
E
la colpa era da far ricadere esclusivamente su di lui. Su di lui, e su
quel
morbo osceno che appestava ogni suo pensiero sia da sveglio che da
addormentato, e che lo minacciava costantemente con la sua presenza e
la
promessa di saltare fuori da un momento all’altro, senza
neppure dargli il
tempo di accorgersene: Faust. L’essere che possedeva la sua
mente e talvolta il
suo corpo non aveva smesso un solo istante di sibilargli
all’orecchio ciò che
pensava della situazione – dipingendo e offrendogli immagini
tanto turpi e
lascive da lasciarlo scosso e tremante, ad annegare nella vergogna
causata dal
fatto che sì, sì, malgrado
tutto le
trovava persino invitanti, sensuali.
Ma
no, non avrebbe mai permesso a Faust di fare ciò che voleva
di Emma – a costo
di strapparsi gli occhi con le proprie unghie e mordersi dita e labbra
per non
mugolare dall’eccitazione a stento repressa, pur di non
vedere in lei, nel suo
viso diafano, innocente, nei suoi occhi caldi e morbidi, il terrore o
il
disgusto.
Faust
poteva ringhiare e soffiare quanto voleva nella prigione che era la
mente di
Adam – lui non l’avrebbe liberato, non in presenza
di Emma, non con il rischio
di farle del male; non sarebbe più stato schiavo di
quell’essere, non avrebbe
più perso il controllo… e, se tutto
ciò che avrebbe dovuto fare sarebbe stato
parlare con lei, spiegare la situazione, dissipare misteri e
segreti… Ebbene,
che fosse! Sarebbe stato sincero. E, fin tanto che lei si fosse tenuta
lontana
dalla sua maschera, fin tanto che non avesse fatto altre domande
scomode, fin
tanto che si fosse fidata, almeno un poco, di lui – cosa
poteva mai accadere di
male?
Fu
per questo motivo che la raggiunse dopo cena, certo di trovarla
rinchiusa nella
biblioteca – solo perché non aveva condiviso
fisicamente la giornata insieme a
lei, difatti, non voleva dire che l’avesse lasciata al di
fuori del proprio
campo visivo. Non l’aveva spiata – il termine era
troppo maligno – no;
semplicemente, l’aveva tenuta sotto controllo, al sicuro, per
evitare che loro…
gli altri… le si avvicinassero
troppo.
Adam
entrò dunque quietamente nella biblioteca silenziosa,
richiudendo piano la
porta alle sue spalle avendo cura di non farla sbattere. Le luci erano
state
diminuite dalla solerte signora Duncan prima che quest’ultima
si congedasse, di
modo che la giovane non trovasse difficoltà nello spegnerle
tutte una volta che
si fosse ritirata per la notte. Era dunque il camino che forniva la
maggior
parte dell’illuminazione, insieme alla lampada accanto al
divano dove di certo
Emma giaceva immersa, come suo solito, in qualche libro.
Con
un mezzo sorriso su labbra che nessuno poteva vedere, Adam
attraversò la stanza
– il rumore dei suoi passi attutito dai tappeti –
per poi fermarsi bruscamente
a pochi metri dal divano, gli occhi sgranati sotto la maschera e le
mani
contorte in rigidi pugni, dinnanzi all’inaspettata visione
che lo accolse.
Emma
doveva essersi appisolata, il libro che le giaceva dimenticato in
grembo e il
capo volto verso il calore del fuoco, ignara di ciò che le
accadeva intorno.
Poggiato a braccia conserte sopra la spalliera del divano sul quale la
giovane riposava,
un pallido gentiluomo ne osservava il profilo con espressione
incuriosita e
scaltra; folti capelli biondi riflettevano la luce delle fiamme e
circondavano
un volto mascolino e vagamente emaciato, labbra rosee erano piegate in
una
smorfia divertita e occhi scuri come la notte si sollevarono pigramente
su di
lui, per nulla scomposti dal suo arrivo.
«È
molto bella», fu il suo pacato e in certo senso sarcastico
commento, blandamente
offerto prima di tornare ad osservare la giovane.
Adam
s’irrigidì, furioso, ma disposto alla cautela. Non
voleva pensare a che
reazione avrebbe avuto Emma se si fosse svegliata e avesse visto lui
che la fissava. «Che cosa stai
facendo, Evan? Non ti sei già divertito abbastanza con
lei?»
Il
gentiluomo – Evan – sbatté con aria
perplessa le palpebre, prima di assumere
un’espressione consapevole e scrollare le spalle con aria
disinteressata. «Ah,
parli della notte degli orrori», sorrise appena.
«Non è stata una mia idea –
non ho nulla contro la tua ospite. Anzi, la trovo affascinante: che
motivo
potrei avere per scacciarla via?»
Seguendo
un impulso e approfittandone di certo per infastidire Adam, Evan
allungò un
braccio verso la ragazza addormentata, sistemandole con due dita alcune
ciocche
di capelli sfuggiti alla modesta acconciatura. Ignorando la precedente
proposizione di fare silenzio per non svegliarla, Adam emise un verso
che
somigliava discretamente a un ringhio.
«Non
toccarla», sibilò, avanzando di un
passo.
L’altro
lo fissò per una lunga manciata di secondi, prima di
sbuffare e ritrarre
lentamente la mano. «Come sei fastidioso, fratello
mio», lo apostrofò
sbeffeggiante, mantenendo un tono di voce quieto.
«Potrò averla almeno quando
avrai finito con lei? Certo il tuo doppio si stancherà
presto e non saprai più
che fartene.»
Raggelato,
Adam sentì quella presenza dentro di lui sollevare il capo e
rizzare le
orecchie, d’un tratto attenta, non più sorniona,
come se quel disinvolto
accenno ne avesse attirato l’interesse.
La
voce gli tremò solo appena quando replicò.
«Se sei venuto con lo scopo di
irritarmi, ti avverto: ci stai riuscendo.»
«Oh?
Beh, è un cambiamento. Di solito è difficile
penetrare le tue difese», commentò
Evan con affettato disinteresse, osservandolo con la coda
dell’occhio. «Dì un
po’, da fratello a fratello. Sei davvero affezionato a lei o
progetti di
lasciarla alle amorevoli cure del tuo doppio, come le altre prima di
lei? Ho
visto come la guardi, la libertà di movimento che le
permetti, il desiderio che
hai di toccarla. Sono curioso; per favore, assecondami un momento.
È una tale
noia, questo castello…»
«Se
devi parlare, spirito, fallo subito e poi sparisci. Sono stufo di
sentire la
tua voce.»
Gli
occhi cupi del fantasma si riempirono di un’emozione feroce,
e la sua fronte
aggrottata perse in un attimo l’atteggiamento sarcastico e
rilassato. «Dovresti
davvero mostrare più rispetto nei miei confronti, fratello»,
lo ammonì, utilizzando quel flebile legame che li univa
a mo’ di insulto. «Non vuoi che ti renda la vita
più difficile di quanto già
non sia.»
Adam
si limitò a fissarlo in silenzio, invitandolo a continuare
senza pronunciare
una sola parola.
Evan
roteò gli occhi, per poi tornare a posarli sulla ragazza
addormentata. «Dunque,
dicevo: sono curioso. Il tuo comportamento sospettosamente galante
è forse segno
del fatto che desideri che lei ricambi qualsiasi sia il sentimento che
provi
per lei? Pensi che sia così sciocca, o disperata, da caderti
tra le braccia
come in un qualche ridicolo romanzetto da donnette? Forse dovresti
ricordarti
chi sei, cosa sei, prima di indugiare
troppo nelle tue utopie. Ah, ma è per questo che sei qui,
non è vero? Per
riparare a chissà quale torto – ho visto che oggi
non vi siete rivolti la
parola, evitandovi come la peste. Sta iniziando a sfoderare gli artigli
la
nostra piccola ospite, e questo non va bene. Fa domande, è
curiosa, la sua
testolina si riempie di strane idee… Come mai non
l’hai ancora messa a tacere,
mi chiedo? È indubbiamente bella, sì, ma vale
davvero tanti sforzi?»
«La
cosa non ti riguarda», scattò l’altro,
tremante. Sentiva di essere prossimo a
perdere il controllo, e non voleva, non a pochi passi da Emma, non
quando ogni
muscolo del suo corpo era teso come la corda di un violino e non
aspettava che
la più piccola occasione per scattare…
Deglutì, il respiro improvvisamente
affannato, e continuò: «Ciò che faccio
o non faccio con lei è affar mio, Evan,
e mio soltanto. E tu non ti devi avvicinare, né tu
né gli altri, sono stato
chiaro?»
Un
lampo di comprensione attraversò lo sguardo del fantasma, ed
esso si aprì in un
ghigno. «Oh, ma sembri dimenticare che non sono io
ciò che lei dovrebbe temere,
mio caro. Che male possono mai fare i morti? Ma i vivi… I
vivi bisogna temerli,
e tu, fratello, sei sfortunatamente ancora in vita.»
Fu
sufficiente: non servì altro per far scattare in modo
definitivo la bestia
dentro di lui, e con un grugnito sofferente il padrone del castello si
piegò su
se’ stesso, premendosi i palmi delle mani contro il cranio
– come se volesse
impedire a qualsiasi male vi fosse rinchiuso di venire fuori.
Inutilmente.
Evan
si ritrovò a osservare affascinato il processo. Il nero
inondò gli occhi
azzurri di Adam, come se la pupilla si fosse allargata inghiottendo
l’iride in
un mare di oscurità; parve cambiare la sua stessa
conformazione fisica, ma ciò
doveva essere una semplice illusione, poiché
bastò che egli raddrizzasse la
schiena da una postura inconsciamente curva per renderlo d’un
tratto più alto e
imponente, minaccioso; qualcosa si modificò anche nel suo
atteggiamento, nel
modo in cui si portava, trasformandolo in una persona completamente
diversa.
E
il povero e patetico Adam lasciò infine spazio allo scaltro
e feroce Faust.
«Mi
chiedevo quando avresti rifatto la tua comparsa», fu il
saluto sornione del
fantasma.
Faust
tuttavia non rispose alla provocazione. «Sai bene che i tuoi
giochetti non
funzionano con me», ribatté pacato, un tono
mellifluo che fu capace di far
rabbrividire persino lo spirito.
Evan
roteò gli occhi, senza però staccarli dalla nuova
presenza; sapeva che, con
Emma lì, Faust non avrebbe osato alzare né la
voce né le mani, ma era sempre
meglio usare prudenza quando ci si approcciava a lui.
«Noioso, noioso… E dire
che un tempo ti preferivo all’altro.»
Accennò poi un sorriso, piegando il capo
di lato e notando con la coda dell’occhio le mani del mostro
che si flettevano
con movimenti calcolati, facendo scricchiolare il cuoio dei guanti.
«Perché
sei ancora qui, spirito?» Riuscì a domandare Faust
senza mostrarsi troppo
infastidito, facendo scivolare lo sguardo sulla giovane donna
addormentata a
pochi passi da lui. Una ruga gli incrinò la fronte: era la
prima volta che le
si trovava vicino di persona, dopo quasi due settimane, e tale incontro
era
rovinato da quel maledetto essere… Forse era per questo che
Adam aveva
allentato le redini al suo controllo, rifletté amaramente:
sapeva che non
avrebbe potuto alzare un dito su di lei davanti
all’apparizione.
In
ogni caso, ella era addormentata: e lui voleva che fosse ben sveglia e
lucida
la prossima volta che si fosse trovata in sua presenza. E sarebbe
accaduto
molto presto, se fosse riuscito a convincere Adam a tenere la bocca
chiusa su
faccende che non sarebbero dovute essere divulgate.
«Come
già stavo dicendo», riprese Evan, che non si era
perso la lenta valutazione
ch’egli aveva fatto di lady Moore, «voglio sapere
quali sono le tue intenzioni
nei confronti della ragazza. Gli altri sono giustamente preoccupati, e
mi hanno
mandato in avanscoperta, per così dire… Questa
casa è nostra tanto quanto tua,
malgrado quello che tu possa pensare, ed è nel nostro pieno
diritto pretendere
di sapere che cosa vuoi fare con un’estranea.»
«Cosa
mi stai chiedendo, Evan?» Fu il sibilo di Faust, tutto a un
tratto minaccioso.
«Se ho intenzione di ucciderla come uccisi
voialtri?»
Fu
con estrema soddisfazione che vide il volto già diafano del
fantasma
impallidire ulteriormente, e le sue mani stritolare lo schienale del
divano. Peccato
che la maschera celava quello che sarebbe stato un terrificante sorriso.
«Parole
tue, non mie», mormorò Evan con eccessiva cautela.
Faust
emise una bassa e secca risata che somigliò di
più a un ringhio. «Sei sempre
stato un codardo, fin da bambino… quando sgattaiolavi
nell’ala Ovest per
prenderti gioco del mostro. Sciocco
da parte mia credere che la morte ti avrebbe fatto dono di una spina
dorsale.»
Avanzò
di un passo e il fantasma tremò dallo sforzo di non
indietreggiare. «Non ti
conviene minacciarmi, fratello»,
continuò, imitando il tono derisorio con cui Evan si era
rivolto ad Adam pochi
minuti prima. «Lo sai che la vostra esistenza risiede nelle
mie mani, così come
sai che avermi come nemico non sarebbe una scelta saggia. Ma oggi mi
sento
particolarmente benevolo, per cui ti dirò questo: milady non
ha nulla da temere
da me per il momento, la sua sicurezza e benessere rientrano anzi tra
le mie
priorità – sentiti libero di riferirlo anche agli
altri.»
Distolse
infine lo sguardo da lui in un chiaro cenno di congedo, posandolo sulla
più
interessante e preziosa figura di Emma, aggiungendo solo un ultimo
monito. «Oh,
ed Evan… Non osare avvicinarti mai più a lei,
sono stato chiaro?»
Per
un lungo istante l’unico rumore che si poté udire
nella biblioteca fu il
crepitio delle fiamme nel camino, e quello del vento che ululava contro
le
vetrate. Faust credette di essere rimasto solo, quando lo spirito
parlò nuovamente
– un sussurro che sovrastò appena il rumore del
vento.
«Non
riuscirai mai ad averla, mostro.»
Quando
riportò gli occhi sul punto oltre il divano, un ringhio
feroce tra i denti, Evan
era già sparito.
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An
unfortunate and deserted creature. Il titolo
del capitolo deriva da una citazione di Frankenstein
di Mary Shelley: “I am an unfortunate and
deserted creature, I look around and I have no relation or friend upon
earth.”
(Cap. 15)
“La
notte degli orrori” di cui parla Evan alla fine si trova nel
capitolo 7, Stranger than you dreamt it.
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Angolo Autrice.
Cosa
vedono le vostre fosche pupille? Un aggiornamento? Sul serio? Dopo
più di un
anno? Siamo morti e non ce ne siamo accorti?!
No,
no, siamo tutti piuttosto vivi, e non state sognando – questo
è un
aggiornamento vero e proprio, giuro. Siccome non so da che parte
iniziare per
chiedervi scusa per questo hiatus imprevisto – anche se chi
mi conosce sa che
c’è da aspettarselo tra un capitolo e
l’altro, altro che le stagioni di
Sherlock – farò finta di niente e
scriverò queste brevi note stando
inginocchiata sui ceci. Spero comunque di essermi fatta perdonare,
almeno in
parte, consegnandovi un capitolo discretamente panciuto, con personaggi
e
dinamiche nuove e forse qualche risposta a vecchi misteri e nuove
domande a cui
rispondere.
L’unica
cosa che vi posso dire è questa: se, anche malgrado sia
trascorso un anno,
siete di nuovo qui a leggere le vicende di Emma e Adam, a dare una
chance a
questa storia – e alla sua terribile autrice – e
non vi siete arrese, beh,
grazie. Grazie mille, grazie di tutto cuore, grazie per aver continuato
a
leggere! Significa davvero tanto per me, e come al solito voglio
ribadire che
questa storia, in un modo o nell’altro, non
rimarrà incompiuta e avrà la sua
fine. Il tempo per arrivarci, purtroppo, potrebbe essere semplicemente
più
lungo del previsto!
Come
al solito, per domande o altro, mi trovate su facebook o in qualsiasi
altro
social network praticamente – i link li trovate nel mio
profilo. Di nuovo un
immenso grazie di essere qui, sono tanto felice di essere tornata!
Un
bacio e un abbraccio dalla vostra
Niglia.