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Autore: GirlWithChakram    12/08/2016    5 recensioni
Janice Covington e Melinda Pappas, dopo aver recuperato le mitiche pergamene di Xena, trovano, tra i numerosi appunti di Harry Covington, un indizio che rivela la presenza di altri scritti perduti. Le due amiche dovranno dunque attraversare la Grecia, dilaniata dal conflitto mondiale, nella speranza di sopravvivere anche a questa avventura, tra incontri, scontri ed imprevisti, per portare alla luce l'antico tesoro e forse qualcosa di più.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altro Personaggio, Gabrielle, Xena
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The incredibly true story of two friends on a quest

 
Quella notte fu un vero incubo. Dopo aver raccattato la tenda e gli averi della mia amica abbandonati nella radura, mi misi a seguire per diverse ore la colonna in marcia, cercando di tenermi abbastanza vicina per osservare Jan. Ogni tanto avevo l’impressione che si voltasse nella mia direzione e per qualche istante i nostri sguardi si incrociassero, ma più passava il tempo, più mi convincevo che fosse una mia suggestione.
Ad ogni modo, i soldati non si accorsero di nulla. Erano piuttosto stanchi a propria volta, concentrati solamente sull’arrivare in città per potersi riposare. Tre di loro venivano mandati in avanscoperta ad intervalli regolari, ma nessuno si occupava di verificare se fossero seguiti, quindi potei procedere indisturbata con il mio pedinamento.
Concludemmo la discesa dal monte che l’alba era ancora lontana, ma visto che il tratto di strada da percorrere fino a Vasilika si districava in mezzo alle aperte campagne, a malincuore, mi arrestai.
La giacca di pelle della Covington, in contrasto con le casacche verdi dei suoi sorveglianti, si fece sempre più confusa nel mio campo visivo, allontanandosi nell’oscurità.
Fui tentata di ripartire di corsa, ma il mio buonsenso ebbe il sopravvento: senza un piano e senza armi avrei finito solo col farmi catturare a mia volta.
Mi accasciai contro uno degli ultimi tronchi che si ergevano coraggiosi prima del trionfo del pianoro. Faticavo a tenere gli occhi aperti, ma l’urgenza di fare qualcosa per aiutare Janice non mi permetteva di riposare.
Decisi di sfruttare le mie energie residue per organizzare un piano, il che mi avrebbe, forse, calmata almeno in parte.
Frugando nel mio zaino, trovai la mappa di Harry Covington e osservai le strade da Vasilika a Nea Poteidaia. Il notare che non c’erano percorsi stradali che collegassero direttamente le due città mi fece sorridere, poiché significava che Cedric e i suoi infidi compari, nel caso avessero davvero optato per un’automobile, si sarebbero dovuti spingere fino al mare per seguire la strada costiera fino alla meta, allungando forse di un’intera giornata il viaggio. E ciò era per me un grande vantaggio.
Delineai con il polpastrello la vallata che si assottigliava tra il complesso del Chortiatis e la catena montuosa su cui sorgeva il villaggio di Vavdos, oltre le cui cime mi attendeva l’istmo dell’antica Potidaea. Avrei dovuto proseguire ad est per almeno mezza giornata, prima di poter iniziare la nuova scalata, svoltando in direzione sud.
Convinta del tragitto che avevo scelto, mi imposi di dormire qualche ora. Avevo bisogno di recuperare energie se volevo salvare la mia compagna.
Chiusi gli occhi e mi addormentai quasi subito.
Feci un sogno molto agitato, forse generato dagli eventi recenti. Mi ritrovai a cavalcare in mezzo ad una specie di steppa, vestita con una puzzolente pelle di cervo, mentre il vento fischiava, gelandomi fino alle ossa. Stavo cercando qualcuno di importante, ma non si trattava di Jan.
Quando mi destai seppi che avevo fatto l’esperienza dell’ennesimo ricordo di Xena. Mi convinsi che anche lei avesse dovuto affrontare un duro viaggio per salvare una persona cara e la sua esperienza e le sue risorse, probabilmente, avrebbero potuto aiutarmi.
Prima di rimettermi in cammino, presi un momento per mantenere una ormai consolidata abitudine. Utilizzai il retro della mappa, dato che non avevo altro, e scrissi un breve appunto.
 
Diario di Melinda P. Pappas
14 Maggio 1942, piedi del monte Chortiatis
Dopo essere stata separata dalla Dr.ssa Covington, procedo da sola verso Nea Poteidaia, sempre con l’intenzione di recuperare le pergamene. La strada che mi appresto ad intraprendere prevede il passaggio verso est fino a Vavdos, poi verso meridione.
L’obiettivo primario della mia missione ora non è mettere le mani sugli scritti, ma soccorrere la mia compagna.
 
Rilessi con orgoglio quell’ultima frase. Ero stata indecisa sull’aggiungerla, ma alla fine avevo ceduto al mio istinto e avevo calcato con decisione ogni singola lettera. Janice sarebbe venuta prima di qualsiasi altra cosa, persino del motivo che ci aveva spinte ad intraprendere insieme quel viaggio.
«Adesso basta perdere tempo» dissi a me stessa, riponendo nello zaino il mio diario provvisorio e la matita «È ora di partire.»
Non ero in grado di procedere come avevo fatto il giorno precedente, sia perché ero comunque affaticata e turbata, sia perché il peso che portavo era praticamente il doppio di quello a cui ero abituata. Non riuscivo a spiegarmi come fossi riuscita a tenere il passo della colonna in marcia la notte precedente, ma la forza della disperazione doveva aver giocato un ruolo fondamentale.
Seguivo il profilo del bosco, rimanendo per quanto possibile all’ombra, nascondendomi non appena vedevo comparire una figura all’orizzonte. Dovevo ricordare che non avevo più la mia fida interprete al fianco, pronta a tirarmi fuori dai guai, per cui sarebbe stato meglio tenermi alla larga da conversazioni che non avrei potuto gestire.
Verso mezzogiorno, dopo aver percorso il maggior numero di chilometri per me possibili, mi fermai a massaggiarmi i piedi e rinfrescarli in un torrente che si andava poi a snodare tra i vari appezzamenti coltivati.
Mi stavo rinfilando le scarpe, quando un rumore alle spalle mi fece sobbalzare.
La mano corse in automatico alla frusta che avevo assicurato alla cintura, regalatami da Jason, che reggeva i miei pantaloni. Non ebbi, però, la prontezza di farla schioccare, risultando impacciata dal mio stesso tentativo di reazione.
Un coro di urla spaventate risuonò, portandomi automaticamente a sorridere. Avevo davanti un gruppo di bambini.
Erano cinque marmocchi, quattro maschi ed una femmina, sporchi di fango ed erba fino alla punta dei capelli. Dovevo essere capitata nel bel mezzo della loro area di gioco. Ognuno di loro aveva in mano un bastone, tenuto a mo’ di spada, non ci voleva molto intuito per comprendere che stessero inscenando una battaglia.
Notando la loro espressione di puro terrore, mi affrettai ad alzare le mani, per cercare di far capire loro che non avessi cattive intenzioni.
I piccoli rimasero paralizzati, continuando ad osservarmi con gli occhi sgranati.
A quel punto, con movimenti lenti, senza smettere di fissarli a mia volta, sganciai la mia arma, lasciandola cadere a terra. La scostai dandole un lieve colpo col piede, per allontanarla un po’.
«Non voglio farvi del male» mormorai, pur sapendo che non mi avrebbero capita.
I due che stavano più indietro lasciarono cadere i bastoni e fecero qualche passo per allontanarsi, ma vennero subito agguantati dai compari.
Iniziarono a scambiarsi frasi concitate, scoccandosi occhiate l’un l’altro, ma restando sempre all’erta, voltati nella mia direzione. Stavano decidendo sul da farsi. Potevo intuire il senso del discorso, volevano correre a casa, che però era piuttosto distante, non potevano far scoprire ai genitori che si erano allontanati tanto per giocare e non volevano rischiare di attirare un nemico là dove si trovavano le loro case.
Facendo estrema attenzione, sfilai la mappa del dottor Covington dalla tasca.
La bambina, che sembrava la più coraggiosa di loro, balzò in avanti, minacciandomi con il suo ramoscello.
Spiegai la cartina e le indicai il villaggio di Vavdos, poi con l’indice e il medio mimai il movimento di camminare.
Lei annuì, poco convinta.
Nel tentativo di guadagnarmi la sua fiducia, le indicai il manico della frusta e poi indicai la sua mano. Volevo che la raccogliesse per farle comprendere che non aveva motivo di temere che la usassi contro di loro.
La piccola, dopo aver spostato gli occhietti vispi da me all’arma per terra e viceversa, si chinò e strinse le esili dita attorno all’impugnatura.
I suoi amichetti emisero un verso di sorpresa, mentre lei faceva guizzare la punta a destra e a sinistra, producendo qualche schiocco.
Ridacchiai, notando che era molto più brava di me. Sarebbe una discendente di Xena più adatta della sottoscritta riflettei, immaginando che, probabilmente la Principessa Guerriera non doveva essere stata molto differente da quella piccolina.
All’improvviso, dopo che ebbe dato un po’ di spettacolo, la bimba mi tese l’arma, per riconsegnarmela.
«Lalia» disse, portandosi la mano al petto.
«Mel» replicai.
«Petros» proseguì, indicando il suo amico più alto, uno di quelli che aveva pensato di darsela a gambe.
Io gli sorrisi, mentre lui arrossiva di colpo.
A quel punto il fanciullo accanto a Petros, quello che gli aveva impedito di scappare, fece un passo avanti, presentandosi: «Coridan.» Era più basso dell’altro, ma più muscoloso, probabilmente aveva già iniziato a fare qualche lavoro pesante nonostante non potesse avere più di dodici anni.
Gli altri due non aspettarono molto per rivelarmi i nomi a loro volta.
Galyn era piuttosto basso, con una foltissima chioma nera impiastrata di fango che gli copriva quasi interamente il viso, non riuscivo a capire come facesse a vedere dietro quella cortina di capelli e sporco. A chiudere il gruppo era Milo, il più gracile tra tutti, caratterizzato dalla carnagione più scura.
Ero contenta del fatto che avessero deciso di fidarsi di me, ma non avevo tempo da perdere con quei nuovi, inaspettati, amici, così feci capire loro che dovevo sbrigarmi per arrivare alla mia meta.
Mentre mi rimettevo lo zaino in spalla, sentii afferrarmi il polso.
Fissai Lalia che indicava insistentemente il cappello di Janice che portavo in testa.
Me lo levai e lo appoggiai in corrispondenza del cuore, per farle capire il valore che avesse per me.
«Vavdos» affermò lei e poi aggiunse qualche altro termine che, però, non compresi.
Dato che sembrava piuttosto convinta, le domandai cosa intendesse.
La bambina mi ripetè le stesse parole e mi tirò, indicando con il capo le cime basse a cui mi ero avvicinata durante il corso della mattinata.
Pensai che i bambini potessero essere originari della città che stavo cercando, sarebbe stato un clamoroso colpo di fortuna.
Incapace di rifiutare, lasciai che la bimba mi conducesse lungo il sentiero, seguita dagli altri quattro monelli.
Origliai il gruppetto chiacchierare, saltellando tra le pietre e i tronchi caduti. Mi stavano guidando lungo strade secondarie, note probabilmente solo a loro che le percorrevano da sempre.
Arrivati ad una pozza d’acqua, i miei piccoli compari si spogliarono quasi del tutto e si lavarono, pulendosi grossolanamente a vicenda. Non appena mi parve che si fossero tranquillizzati, dopo aver cercato di annegarsi a vicenda, iniziarono di colpo a schizzarsi, costringendomi a fare diversi passi indietro per evitare che mi infradiciassero.
Era divertente osservarli, vedere i loro sorrisi spensierati ed ascoltare le loro risa cristalline, sinonimo di un’età ancora innocente nonostante l’epoca terribile in cui stavano crescendo.
Presto Lalia si rese conto che io ero in attesa di ripartire, così costrinse il resto della combriccola a muoversi.
Doveva essere metà pomeriggio quando giungemmo in vista di un complesso di case, difficile da considerare una vera e propria città. Il piccolo nucleo si disperse mano a mano che avanzavamo verso il centro.
Quando ci arrestammo sulla soglia di una bassa casa dipinta di un bianco sporco, realizzai che ormai eravamo rimaste solo io e la mia giovanissima guida.
Mi fece cenno di aspettare ed ubbidii.
Lei bussò decisa, poi socchiuse la porta, lasciando che una lama di luce penetrasse l’oscurità dell’interno. Provai a sbirciare cosa ci fosse dentro la stanza, ma riuscivo a vedere solo a pochi passi di distanza.
Una voce profonda rimbombò, pronunciando una frase il cui senso mi sfuggì completamente. A quelle parole, però, Lalia scattò in avanti, scomparendo inghiottita dal buio.
Ci fu un breve dialogo a cui non presi parte, poi la bambina tornò verso di me e mi afferrò la mano, invitandomi ad entrare.
«Harry?»
Mi pietrificai.
«Harry Covington?» continuò un’imponente figura, emergendo dalle tenebre.
«No, signore» trovai la forza di rispondere.
«Janice? Sei tu?»
A sentir pronunciare il nome della mia amica mi venne la pelle d’oca, stavo perdendo troppo tempo e ogni secondo che passavo là ferma era un secondo che lei trascorreva tra le mani di McLane e i suoi barbari compari.
Finalmente il mio interlocutore entrò nel mio campo visivo. Era un uomo, piuttosto in là con gli anni, come potevo intuire dalle rughe profonde e dalla barba e i capelli canuti. Non avevo idea di chi fosse e di come potesse conoscere i Covington.
«Chi sei, signorina?» domandò, squadrandomi dall’alto in basso.
Ero piuttosto in soggezione, non mi capitava spesso di trovare persone più alte di me e lui aveva almeno mezza spanna di vantaggio sulla cima della mia testa. Ad incutere ancora più timore erano i suoi occhi chiari, così dissonanti con l’aura tetra che ci circondava. La mia attenzione venne improvvisamente calamitata da un altro dettaglio: il misterioso individuo indossava un cappello, molto simile al mio. Non poteva essere una coincidenza.
«Melinda Pappas» mormorai.
«E cosa ci fai con il cappello di Covington?» ringhiò. La nota di asprezza nella sua voce era inquietante, sembrava quasi il ruggito di un pericoloso predatore. «Lo hai rubato?» proseguì, senza darmi il tempo di rispondere «Come lo hai avuto?»
«Me lo ha affidato Janice» replicai, pregando che mi credesse.
Mi scrutò a lungo, fissandomi direttamente negli occhi. Era vicinissimo, potevo sentire il suo respiro su di me.
Senza preavviso, si rivolse alla bambina, ordinandole qualcosa. Pochi secondi dopo, lei gli consegnò uno spesso paio di occhiali, che lui inforcò deciso, tornando a concentrarsi su di me.
«I tuoi occhi sono sinceri» disse semplicemente, continuando, però, a studiarmi con il suo sguardo inquietante.
Aveva le iridi di un grigio chiaro, freddo come l’acciaio.
«Lo sono anche io» sussurrai, nella speranza di convincerlo sul serio.
«Mia nipote ha detto che dovevi venire qui a Vavdos. Perché?»
Realizzai che ero stata una stupida a non capire prima il legame di parentela tra quel tizio e la bambina, avevano il viso molto simile, ma quello della piccina era naturalmente più delicato. La tonalità delle iridi era praticamente la stessa, avrei dovuto notarlo prima.
«Sto cercando di raggiungere Nea Poteidaia e questa era la via più sicura» spiegai. Mi sentivo sotto inchiesta e avrei dato qualsiasi cosa affinchè si allontanasse di almeno un passo, smettendola di svettare su di me in modo tanto minaccioso.
Parve soppesare le mie parole per un momento, poi cambiò totalmente argomento: «Cosa ne è stato di Harry?»
«Il dottor Covington è venuto a mancare un paio di anni fa» risposi «Mi dispiace» aggiunsi, indovinando che i due dovessero essere stati amici in passato.
«Povero Harry» commentò, afferrandosi la base del naso tra il pollice e l’indice, facendo scivolare gli occhiali fino alla punta.
Notai come le sue labbra si incurvarono verso il basso e come gli occhi gli divennero improvvisamente umidi, segno che la notizia lo aveva scosso.
«E che ne è stato della mia Pulce?»
Aggrottai la fronte, confusa.
«Intendo dire: che è capitato a Janice?»
Era il momento di decidere se fidarmi di lui e feci la mia scelta. «Stavamo viaggiando insieme, ma la scorsa sera è stata catturata da una pattuglia tedesca.»
«Impossibile» tuonò il vecchio «È una ragazza in gamba, piena di risorse, non si sarebbe mai lasciata prendere, piuttosto avrebbe lottato fino alla fine.»
«Non ne ha avuto modo» dissi «Ed inoltre voleva proteggermi, lasciandomi la possibilità di proseguire con la nostra missione.»
«Quale missione?»
Titubai un momento.
«Ancora quelle maledette pergamene, vero?» borbottò «Speravo che si fossero rassegnati, ma no! I Covington sono così maledettamente cocciuti! Ho provato a spiegare loro che quei testi non fossero niente più che un leggenda…»
«Non lo sono» lo interruppi «Jan ed io le abbiamo trovate.»
L’uomo spalancò occhi e bocca, incredulo.
«Le abbiamo rinvenute in un sito in Macedonia» proseguii «Non ho con me le prove, dovete fidarvi della mia parola.»
«Raccontami di questa vostra impresa» ordinò.
«Prima vorrei almeno sapere con chi sto avendo l’onore di conversare» affermai con fermezza.
L’uomo sorrise. «Sei una donna furba» ammise, allontanandosi un po’ per tendermi la mano «Aniketos Stavros.»
Gli strinsi la mano con decisione, volevo mostrargli che da quel momento in avanti saremmo stati sullo stesso piano.
«Prima di rivelarle dettagli piuttosto riservati, signor Stavros» ruppi il breve silenzio «Come posso davvero sapere che lei conoscesse la dottoressa Covington e suo padre? La mia amica non ha mai nominato nessun Aniketos.»
«Ed io, mia cara, sono altrettanto sospettoso nei tuoi confronti» replicò, accarezzandosi la barba «Se sei tanto in confidenza con Janice da farti affidare il suo cappello, dimmi, chi lo ha regalato ad Harry in principio?»
Era una domanda ben pensata, solo qualcuno davvero vicino agli archeologi avrebbe saputo la verità.
«Era stato un regalo di sua madre. L’ultimo» risposi.
«Molto bene» considerò, soddisfatto.
«Ora è il mio turno» affermai «Che cosa indossa sempre Janice che si intona molto ai suoi occhi marroni?»
Il vecchio ridacchiò. «Pulce ha gli occhi verdi. Davvero una bella pensata tentare di farmi cascare in un simile trabocchetto.»
All’improvviso mi parve più aperto e gioviale, mi fece accomodare su una sedia accanto alla poltrona su cui prese posto e mi fece servire un bicchiere d’acqua dalla nipotina.
Gli narrai in breve di come avessi conosciuto Jan e di quanto avessimo scoperto insieme. Quando arrivai a raccontare gli eventi della sera precedente lo vidi farsi più teso, preoccupato come lo ero io.
Senza preavviso, Aniketos si alzò in piedi e iniziò a sbraitare in greco, rivolto a Lalia.
«Sarà meglio mettersi subito in marcia» mi disse «Prima che sia notte fonda riusciremo ad arrivare a Simantra.»
Sbattei le palpebre, pensando di avere un’altra delle mie allucinazioni.
«Da là dovrei poter riscuotere un favore e domattina ci faremo portare fino a Nea Poteidaia in automobile.»
Annuii, perché era l’unica cosa che mi avrebbe permesso di fare.
«Dammi il tempo di preparare un bagaglio leggero, spiegare a mia figlia che starò via qualche giorno, poi potremo partire» concluse, scomparendo in un’altra stanza.
Dopo qualche minuto, mentre io ero rimasta imbambolata sulla sedia, comparve una giovane donna, sulle cui spalle dondolava serafico un bambino di tre o quattro anni, chiaramente fratello della ragazzina che mi aveva condotto là.
«Mio padre parla di cose insensate» commentò, nella mia direzione «È saggio partire adesso?»
«Io mi sarei incamminata in ogni caso» risposi «Ma è stato lui, di propria iniziativa, a decidere di venire con me… Anzi, a questo punto credo quasi di essere io ad andare con lui.»
«Vecchio pazzo» mormorò, poggiando il figlioletto sulla poltrona e lasciando che Lalia arrivasse ad abbracciarle la vita «Non dovrebbe prendere queste decisioni, ma badare alla famiglia.»
«Non dirmi quello che devo fare, Teah» ribattè l’uomo, uscendo dalla camera vestito di tutto punto per un’escursione e con una sacca che gli pendeva pigramente nella mano sinistra, mentre nella destra stringeva un nodoso bastone da passeggio «Sono in grado di prendere le mie decisioni da solo.»
«Dovresti badare ai tuoi nipoti mentre io sono al lavoro, non andare a gironzolare per i boschi» replicò irata la figlia «E non credere che te la farò passare liscia per aver permesso a Lalia di andare fino a valle a giocare con quegli irrequieti dei suoi amici!»
«Potrai farlo quando tornerò. Pulce ha bisogno di me» sentenziò lapidario il signor Stavros, afferrandomi il braccio e trascinandomi fino alla soglia.
«Non sei più un avventuriero! Torna indietro!» tentò di fermarlo la donna.
Lui si fermò, si voltò, lasciò a lei e alla piccola un bacio sulla fronte, poi, dandomi una pacca sulla spalla, mi spinse verso i vicoli immersi nella luce abbagliante del sole.
Era accaduto tutto talmente in fretta da non avermi dato la possibilità di realizzare quanto stava succedendo, avrei dovuto fermarmi, ragionare, riflettere sul fatto che quell’individuo lo conoscevo appena. Eppure qualcosa in me, come il residuo di un ricordo, mi suggeriva di fidarmi di lui.
Purtroppo, nonostante il nostro procedere piuttosto spediti, per via di un tratto di sentiero franato fummo costretti ad allungare la strada, dunque ci arrestammo accanto ad uno slargo del tracciato, prima di giungere a Simantra.
Ormai abituata a montare il campo, avviai il fuoco e mi proposi di procurare qualcosa da mangiare. Aniketos si limitò a farmi un segno d'intesa con la testa.
Facendo attenzione alle tracce e a non fare rumore, dopo appena un quarto d’ora, con l’aiuto della frusta di Jan e il risveglio delle abilità sopite di Xena, riuscii a catturare un leprotto. Lo preparai come la mia amica mi aveva spiegato e lo cucinai sul falò.
«È stata Janice ad insegnartelo?» mi domandò il mio compagno di viaggio.
«Sì» replicai semplicemente.
«Lo sospettavo, faceva questo genere di cose fin da quando era piccola.»
A quel punto mi aspettavo che mi raccontasse un po’ di sé e di come avesse conosciuto i Covington, visto che ancora non ne sapevo niente, ma il vecchio si levò il cappello, si passò una mano tra i capelli e tacque.
Mi alzai per recuperare un altro ciocco di legno da buttare in pasto alle fiamme.
Sbirciai la figura seduta di fronte a me, dall’altro lato del fuoco. Il calore fece tremolare quell’immagine, sovrapponendole un’altra.
Un guerriero, anziano, con un’armatura di fattezze vagamente orientali, stava parlando di qualcosa. Non riuscivo a sentirlo, ma aveva poca importanza. Lo conoscevo. Era importante per Jan.
No, non per lei… mi dissi. Per Gabrielle.
Si chiamava Meleager, era un valoroso combattente che l’aveva aiutata a salvare la sua città natale e con cui anche io avevo poi avuto a che fare.
«Melinda? Tutto a posto?»
Mi ripresi da quella visione e mi avvicinai, sedendomi accanto a Stavros.
«Non è niente, solo strani scherzi della memoria» spiegai.
Ancora una volta lui fece un cenno col capo e lasciò che ripiombasse il silenzio.
A quel punto non riuscii a trattenermi, la curiosità ebbe la meglio. «Come ha conosciuto Jan e suo padre?»
Aniketos alzò lo sguardo dal cappello che si era poggiato in grembo, incurvò le sopracciglia in una strana espressione, mentre arricciava gli angoli della bocca. «Sei una ragazza curiosa» borbottò «Ma comprendo il tuo desiderio di sapere.»
Mi strinsi nella giacca e attesi che iniziasse a raccontare.
«Doveva essere il 1927, se non vado errando» cominciò «All’epoca facevo i lavori pesanti per un gruppo di archeologi inglesi nella zona di Atene ed è stato agli scavi che ho conosciuto i Covington. Harry e Janice giravano in Europa già da un paio d’anni, erano stati in Germania e in Normandia, alla ricerca di qualche strana traccia di non sapevo cosa, poi in un sito a Roma avevano rinvenuto uno stralcio di pergamena che era stato attribuito alla mitica Principessa Guerriera. Inutile dire che, non appena Harry mi confidò di essere venuto fino in Grecia per inseguire quella leggenda, gli scoppiai a ridere in faccia.»
Mi immaginai il dottor Covington che assumeva la stessa espressione scocciata di sua figlia quando la prendevo in giro.
«Ma nonostante ritenessi che la sua ricerca fosse del tutto folle, riconobbi in lui un brav’uomo e in breve tempo diventammo amici. Mentre lui era impegnato a catalogare, spolverare e fare tutte quelle altre cose da studioso che non prevedevano l’uso della mia forza, mi sedevo sotto un albero e insegnavo a Janice il greco, il macedone e le poche nozioni di storia in mio possesso, mentre lei ricambiava insegnandomi l’inglese e qualche parola di tedesco, francese ed italiano.»
Rimasi piacevolmente colpita da quella rivelazione. Non avevo idea che la biondina fosse una simile poliglotta, ma, dato il suo lavoro e i vari viaggi che aveva dovuto compiere, una conoscenza base delle lingue straniere era giustificabile.
«Dopo un anno le cose cambiarono drasticamente» proseguì Aniketos «I fondi per le ricerche di quelle pergamene si prosciugarono e dunque Harry dovette trovare un altro modo per sovvenzionarle. Io già da tempo gestivo un mio piccolo mercato privato, rivendendo artefatti che recuperavo dagli scavi, ma mai nulla di troppo vistoso o di cui si potesse notare la mancanza, agivo con discrezione per non attirare l’attenzione. Ma il caro vecchio Covington aveva bisogno di molto denaro, così iniziò a trafugare oggetti votivi placcati con metalli preziosi o monili incastonati di pietre, che poi mi occupavo di far finire nelle tasche giuste a prezzi piuttosto ragionevoli. Mettemmo da parte una somma favolosa, che io utilizzai per sistemare la mia famiglia e mandare i miei figli a studiare, ma Harry investì quasi ogni cosa per continuare a scavare in cerca di quei testi. Gli rimasi accanto per alcuni anni ancora, vedendolo scomparire a poco a poco, consumato da quella ossessione e dalle maldicenze, non del tutto infondate, sul suo conto. Mi sono occupato di Pulce in quel periodo, lei era arrivata a chiamarmi “zio Nik” perché trovava che il mio nome completo fosse troppo difficile da pronunciare. Era una ragazzina vispa, un vero terremoto.»
Notai che gli occhi gli divennero lucidi, mentre iniziava ad accarezzare il cappello, nella stessa maniera in cui l’avevo visto fare a Jan.
«Mi ero affezionato molto a lei, l’avevo vista crescere, diventare una giovane donna… Mi dispiacque molto quando i Covington decisero di continuare a girovagare per tutti i Balcani inseguendo quella vecchia chimera… I miei figli erano adulti ed io iniziavo ad essere stanco, volevo solo potermi riposare a casa con mia moglie… Così li abbandonai.»
Un’unica lacrima gli scese lungo la guancia, mentre il suo sguardo si perdeva fisso tra le fiamme.
«Ma prima di congedarci, Harry mi donò questo cappello. Lui e Pulce l’avevano fatto fare apposta per me da un sarto molto rinomato di Salonicco.» Sorrise perso in quel ricordo. «Credo sia stata l’unica volta in cui quei due abbiano speso del denaro per qualcosa che non riguardasse Xena.»
Ridacchiai, ma solo per un secondo, per paura che poi non riprendesse a narrare.
«Da quel momento abbiamo preso strade diverse. Mi sono sempre chiesto cosa avessero combinato in questi ultimi anni, all’inizio Harry ed io ci siamo scambiati qualche lettera, ma abbiamo smesso presto.»
C’era rammarico nella sua voce, probabilmente stava immaginando tutto ciò che sarebbe potuto cambiare se fosse rimasto loro accanto.
«Dobbiamo salvare Pulce, lo devo a suo padre e alla piccola casinista bionda che ho visto crescere. Dopo questa impresa andrò definitivamente in pensione.»
Il racconto terminò lì. Restammo a scaldarci davanti al falò fino a che non decidemmo di comune, silente accordo di stendere le coperte per dormire.
Osservai la luna che si intravedeva tra le fronde degli alberi, domandandomi se anche Janice la stesse guardando. Per quanto fossimo distanti, saremmo comunque state sotto lo stesso cielo.
Questo è un pensiero degno di quella poetessa di Gab.
Sorrisi e mi lasciai trascinare nel mondo dei sogni, tranquillizzata dal pensiero che Xena vegliava su di me e mi avrebbe aiutata a salvare la mia amica.

 

NdA: ebbene, rieccomi, anche se ad un'ora lievemente più tarda del solito, fatto dovuto alla mia stupidità nel non aver mandato prima il capitolo alla mia adorata beta che appena rientrata dalla vacanza si è dovuta scapicollare per rimediare alla mia poca lungimiranza. Ma ciancio alle bande, se siete arrivati fin qui vi ringrazio, per aver avuto pazienza e per continuare a seguire questa mia avventura, passando ora ai ringraziamenti mirati: un grazie a wislava per la correzione lampo e per tutto il resto, lei sa a cosa mi riferisco; un grazie ai miei cari recensori Stranger in Paradise, xena97 e whiterose87, grazie di cuore gente, apprezzo sempre moltissimo le vostre opinioni. Ed eccoci alla fine delle note, in cui vi informo di una cosa: non sono certa di riuscire a caricare il prossimo capitolo tra due venerdì. Si aprono dunque tre scenari: 1. va tutto bene e tra due settimane avrete il capitolo; 2. magari lo carico sabato o domenica, ma la cosa a livello psicologico destabilizza la mia parte di OCD; 3. vi faccio aspettare altre quattro intere settimane e voi mi odierete a morte e non ve ne farò una colpa. Chissà cosa accadrà, solo il tempo che lo dirà. Fino ad allora, a prescindere da quando sarà, rinnovo i miei auguri di buone vacanze e buone cose a tutti voi, spero di ritrovarvi prossimamente.
   
 
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