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Autore: Elphie94    13/08/2016    3 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IL RACCONTO DI MEG

[Atto II.]

 

xxiv.

il dolore perfetto

 

 

 

Il sole tesseva viticci dorati sui riccioli castani di Juliette, riempendole gli occhi verdi di schegge di luce, simili a pozzi in cui annegare. In quel momento era estatica: il suo sorriso bianchissimo splendeva come avesse rubato un raggio da quello stesso sole che, all'orizzonte, si agganciava alle dita fuligginose delle nuvole.

La mia amica mi parlava con frenesia, come sempre da qualche giorno a quella parte, da quando avevano annunciato che il prossimo balletto ad essere rappresentato sarebbe stato Coppelia.

«Verrai alla mia audizione, non è vero? O hai intenzione di prepararne una tua?»

«Si vedrà» risposi enigmaticamente, i miei occhi ancora concentrati sui riflessi che il sole filtrante dall'ampia finestra creava sulla sua frangetta ordinata.

«Meg è un po' sulle nuvole in questi giorni» ci interruppe Louise. Anche il suo sorriso era bianco. Mostrai il mio, di sorriso, meno perlaceo di quello delle mie amiche, e certamente più falso. «Non sarai mica innamorata, Meg cara?» continuò Louise, con fare malizioso. Fabienne sospirò e alzò gli occhi al soffitto. Lo stessi feci io, ma con maggior rudezza.

«Certo che no» risposi in tono sferzante.

«Ehi, perché sei scattata come un gatto a cui hanno pestato la coda? Punta sul vivo, per caso?» fece Louise, incrociando le braccia al petto. Lasciai che il mio sguardo abbracciasse l'aula della danza, i suoi specchi lucidi alle pareti, il pavimento di legno rosato e i suoi rumori familiari – un deux trois, i rintocchi delle scarpe da ballo sulle assi di ciliegio, i sospiri nei petti delle ballerine, forzati nei corsetti di raso bianco.

«Niente affatto. Mi sento solo un po' stanca in questo periodo, tutto qui» risposi, cercando di modulare la grettezza nel mio tono di voce.

«Non centra Luc, vero?» fece Fabienne, alla quale il gamin cresciuto per diventare un macchinista dell'Opera non era mai andato a genio.

«É troppo impegnato a correre dietro alle sottane di altre ragazze per pensare alle mie. E di questo sono grata» risposi con un pizzico di durezza. Non sapevo quante volte avevo spiegato alle mie amiche, nonché alle altre mie compagne di corso, che tra me e Luc non c'era più nulla da un pezzo. Il mio cuore e la mia mente non erano mai stati catturati nel viluppo dell'amore, ringraziando il cielo, e ora ero troppo presa da ciò che accadeva sotto i miei piedi – metri e metri più in basso, dove la luce del sole non arrivava – per dare importanza a quelle sciocchezze.

«Signorine, alla sbarra. Su, forza, muovetevi. Giry! Concentrati, ragazza.»

La freddura di mia madre mi distolse dai miei pensieri. Sottostai al suo sguardo severo mentre seguivo le altre cupamente. Mi accinsi a danzare di malavoglia, e questo si notava dai miei passi scevri di passione.

Erano trascorse due settimane dalla partenza di Raoul e Christine, e la mancanza di quest'ultima mi pulsava dentro come un secondo cuore. Sapevo che fuggire lontano, tornare nel suo Paese era il finale più lieto che ci fosse per lei, ma non dubitavo che, come me, sentisse la mancanza di ciò che aveva lasciato indietro. Io ero una di queste cose? E lui?

Sospirai. Le mancava il suo Angelo, anche se adesso aveva imparato a vivere senza, non l'uomo sotto la maschera. Io invece non potevo distogliere il pensiero da quest'ultimo, quasi fossi vittima di una maledizione. Era nelle mie vene come fiele – vi si diffondeva come un liquido viscoso; era un'infezione, ma non potevo farne a meno.

Erik. Il suo nome come una bestemmia nella mia mente. Indicibile, involuto, eppure presente e vivo. Più dell'uomo che quel nome lo portava, comunque.

Presto non ritornerà che ad essere polvere, mi dissi con convinzione. Il suo scheletro, ormai simile a quello di chiunque altro, giacerà nei sotterranei per sempre.

Era un pensiero insopportabile.

«Giry, ho detto concentrati.» Lo sguardo d'acciaio di mia madre mi trafisse. Picchiò il bastone a terra una sola volta, ma bastò perché gli occhi di tutte le mie compagne mi fossero addosso come avvoltoi. Deglutii.

«Certo. Non accadrà più, Madame.»

Lei annuì, ma non abbandonò il mio sguardo. «Bene, ricominciamo. Un, deux, trois!»

La danza ricominciò, così come quel cerchio di vite di cui ormai il mio amico non faceva più parte. Niente da fare, dovevo parlare col Persiano al più presto. Io non sarei tornata nelle viscere del teatro, ma egli doveva sapere cosa stava combinando lui lì sotto. Doveva sapere cosa mi sarebbe toccato fare – se dovevo seppellire i miei segreti con la sua bara. Ben due settimane, e nulla di concreto era giunto alle mie orecchie: quanto avrei dovuto attendere prima di porre una volta per tutte la parola fine a quella storia?

Avevo controllato i necrologi sull'Epoque tutti i giorni da quando lo avevo incontrato faccia a faccia per l'ultima volta, tanto da preoccupare mia madre per questa mia ossessione. In realtà, quando fosse stato prossimo alla fine, Erik avrebbe consegnato al Persiano e a me le reliquie che conservava di Christine, e che lei stessa gli aveva affidato. Il suo diario – che avrei serbato gelosamente, senza leggerlo – toccava a me custodirlo.

E sarei stata ben lieta di farlo, se qualcuno si fosse sbrigato a morire.

Il pensiero di Erik morente mi era intollerabile: non riuscivo neanche a concepirlo in quello stato, pertanto non scesi più nella dimora sul lago. Non volevo andare lì e scoprirlo a giacere in una bara. Se fosse morto più in fretta, forse sarei uscita da questa impasse e avrei accettato la realtà… Ma non in quell'occasione. Il pensiero delle sue ultime parole rivolte a me (perché mi importa) era un'ossessione dolce, ma inguaribile e malsana non meno delle altre.

Fingere, scherzare, ridere come mio solito era un'impresa ardua, pertanto rimasi cupa per tutti quei giorni. Gli altri la consideravano una naturale conseguenza alla separazione tra me e la mia migliore amica, e non potevo dare loro torto: Christine mi mancava come il respiro nei polmoni, e speravo di rivederla, prima della fine dell'ultimo atto. Non credevo che Raoul sarebbe stato tanto lieto di tornare alle catacombe dell'Opera Garnier – l'uomo folle aveva annegato suo fratello, distruggendogli la reputazione e costringendolo a fuggire dalla Francia come un criminale. In più, non si poteva dimenticare ciò che aveva fatto passare al Persiano e a lui nella camera dei supplizi, di cui ora capivo il curioso e letale meccanismo (un tormento più psicologico che fisico, direi). La piccola sultana doveva essere proprio crudele per aver ordinato a Erik di ideare una simile tortura. E se c'era una cosa che Erik aveva, era l'immaginazione. Figurarsi, una stanza piena di specchi senza che egli potesse riflettervi il suo volto! Diabolicamente geniale, com'era lui.

 

 

Mi distrassi da quelle ponderazioni quando, tornata in camera mia con il desiderio di staccarmi dai piedi le scarpette da ballo – per il dolore, sembravano grovigli di rovi che mi salivano fin sopra le caviglie – trovai un biglietto sul comodino. Era vergato con inchiostro rosso, e la calligrafia era impossibile. Riconoscere il mandante mi fermò in petto il cuore.

 

Meg,

stasera fatti trovare nel mio appartamento sul lago, come se stessi per venire ad una delle nostre lezioni. Scegli tu l'ora. Anche il daroga sarà lì. Devo consegnarvi alcuni oggetti prima che sia troppo tardi.

 

Non vi era imposta alcuna firma, ma non importava. Sapevo chi mi aveva lasciato quel biglietto.

Dice che sta per morire, però ha ancora tempo di sgattaiolare nei cunicoli segreti del suo regno d'ombra e fumo.

Riflettei che doveva essere passato attraverso lo specchio nel mio camerino. E doveva essere uscito di notte per infilare la busta per il Persiano nell'apposita cassetta delle lettere in place de l'Opéra. Celato dalle tenebre, il suo aspetto non era poi dissimile da quello di chiunque altro.

Se voleva consegnarci le reliquie di Christine, allora significava che era davvero prossimo alla morte. Mi si strinse qualcosa nel petto al solo pensiero.

 

 

Con indosso la mia cappa per tenermi al caldo – le mie membra erano scosse a intervalli regolari da brividi di gelo, sebbene fosse una tiepida notte di Aprile – scivolai nel passaggio segreto di Figaro con il lumicino in mano a gettare fasci dorati sui muri di salnitro e polvere. Avvertii un forte senso di deja-vu quando mi ritrovai ad affrontare di nuovo le acque del lago: la scorsa volta avevo giurato che sarebbe stata l'ultima. A quanto pare mi sbagliavo.

Era forse una mia impressione, ma l'aria sembrava più nebulosa del solito, e più gelida. Mi strinsi nella cappa e, con un lieve tremito, vogai fino alla sponda opposta. La Sirena doveva aver già avvertito Erik della mia presenza. Quando feci il mio ingresso nel soggiorno dell'appartamento sul lago, trovai Monsieur Nadir accomodato su una poltrona, mentre Erik – che appariva stremato, anche se impeccabilmente vestito – frugava in un cassetto contenente chissà cosa.

«Interrompo qualcosa?» dissi, infrangendo il silenzio come una lastra di ghiaccio.

I due uomini si voltarono nella mia direzione. Nadir si alzò in piedi per stringermi la mano e salutarmi, ed Erik mi rivolse appena un cenno del capo. Bene, ora li riconoscevo.

«Mi sono vestita di nero, pensavo dovessi presiedere a un funerale» dissi pungente. Erik fece una smorfia, ma anche quella appariva stanca, tirata, quasi il suo corpo fosse fatto di carta umida e facile a sbriciolarsi.

«Siediti, Meg.»

Incrociando le braccia e sfilandomi di dosso la cappa nera, mi accinsi a sedermi di fianco al Persiano, che tuttavia appariva concentrato su Erik, quasi a studiarlo. Era ovvio: voleva vedere se stava morendo sul serio. Il suo male lo divorava dall'interno – un'arpia dagli artigli affilati e potenti. Niente che si potesse scorgere a occhio nudo, ma credevo che Monsieur Nadir fosse un ottimo osservatore.

«Hai ancora intenzione di morire o no? Ci stai tenendo tutti sulle spine» dissi, acida.

Erik mi lanciò un'occhiata di sbieco. «Questo è il motivo per cui sei qui, Meg.» Con un gesto lento, cadenzato, mi tese qualcosa che aveva prelevato dallo scrigno – quello che aveva tutta l'apparenza di essere un diario. Lo aprii e ne tastai la copertina ruvida, di un blu sfocato, le pagine bianche disseminate di una grafia piccola e sottile, che riconobbi come quella di Christine. Infatti sul frontespizio della prima pagina si poteva benissimo leggere il suo nome, vergato a lettere maiuscole. Lanciai ad Erik un'occhiata sospettosa.

«Non l'ho mai letto, neanche di sfuggita. Lei me l'ha affidato prima che andasse via… perché potessi darlo a te.» In egual maniera, consegnò un plico di lettere al Persiano.

«Queste sono le sue missive inviate a quel giovanotto, nel mese in cui giocavano a fare i fidanzati» spiegò Erik in tono amaro. «Non ho letto neanche queste.»

Un rapitore rispettoso, pensai, ma questa volta vidi bene di frenare la lingua.

«Cosa vuoi che ce ne facciamo?» chiese Monsieur Nadir, perplesso.

Erik scrollò le spalle. «Non è più affar mio, ormai. Puoi farci quello che vuoi… Conservarle, bruciarle. Io non ho più diritto di dire nulla in materia.»

Silenzio – una pausa ustionante. Tamburellai il piede sul pavimento in un ritmo stonato.

«Che cosa dovrei farci io col diario di Christine?»

«Quello che vuoi.»

«Non voglio leggerlo. Sarebbe come invadere lo spazio personale della mia amica. Non sono te, Erik.»

«No che non lo sei» sibilò lui tra i denti. «Ma ora non importa più nulla… Tutto è volato via – l'angelo è volato via…»

Colpii il tavolino più vicino con il diario, e un tonfo secco e sordo ci pulsò nei timpani, tanto che il Persiano, al mio fianco, sobbalzò.

«Basta con queste lamentele da cagna in calore.» Proruppi in una sequela di imprecazioni tale che fece arrossire il povero Nadir, che mi pose una mano sul braccio nel vano tentativo di acquietarmi. Erik mi guardava con occhi di ghiaccio. Più si ostinava con quella sua espressione vuota e muta, più io mi infuriavo.

«Non capisci? Come potrei vivere in questo teatro ora che…» scossi il capo, senza ben sapere cosa stavo dicendo. «Non voglio abitare in una gigantesca tomba.»

«Abituati all'idea.»

«E tu non puoi pensare di reagire? La tua vita non è ancora finita, Erik!»

«Sì che lo è – sei tu a non capire. Non è mai neanche iniziata.»

Ci fissammo in cagnesco per qualche attimo, finché il Persiano non venne ad interrompere la tensione elettrica tra noi.

«Erik, è una tua scelta. Morire… Se scegli questo destino, non potrai più tornare indietro.»

«Daroga» rispose Erik con un sorriso distorto, orribile, una piaga, «non ho più nulla per cui vivere. Il mio sogno si è infranto, e ho compreso i miei errori. Non avrò mai una vita normale… e non solo per la mia faccia. Dio mi ha fatto mostro: ebbene, io decido di non morire come tale. Per questo ho lasciato che lei…» era evidente che pronunciare il suo nome gli era ancora arduo, «… che lei se ne andasse con il suo giovanotto. Ha pianto con me, daroga. Mi ha baciato sulla fronte, questa mia fronte di morto! E non è morta! Dio non poteva farmi un dono più grande. Mi sono sentito vivo per la prima volta nella mia esistenza, e non voglio perdere questa sensazione. Morire per me non sarà altro che l'ennesimo viaggio – l'ultimo. Non ho più nulla per cui restare. Non lei, non la mia opera, niente di niente.»

Hai me, disse una vocina da chissà quale luogo nel profondo del mio animo, ma la zittii all'istante. Erik era il Diverso per eccellenza: con la sua voce dalla bellezza senza sesso, con l'aspetto cadaverico, il suo fascino esoterico… La società non lo avrebbe mai accettato. Il suo sogno non era mai stato vivo.

Il Persiano sospirò e infilò il plico di lettere dentro la fodera della giacca, sistemandosi il berretto di astrakhan sul capo.

«Bene, anche questa è fatta» disse con rassegnazione e malinconia insieme. Neanche lui sembrava lieto della morte prossima di Erik, malgrado il male che quest'ultimo gli aveva arrecato. Mi guardò con i suoi splendenti occhi verdi.

«Vi accompagno di sopra, Meg.»

«Non ce n'è bisogno. Io rimarrò qui» dissi con convinzione. Sia il Persiano che Erik mi lanciarono un'occhiata sbigottita. «Solo per qualche altro minuto» soggiunsi, come per discolparmi.

Monsieur Nadir fissò entrambi con sguardo scrutatore, forse meditando se rimanere o no in caso ci fossimo scannati a vicenda. Lo tranquillizzai con il mio sorrisetto migliore.

«Potete andare, Monsieur. Conosco bene la strada del ritorno. Non c'è alcun problema.»

«Ne siete sicura?»

«Assolutamente.»

Un'ultima occhiata perplessa, poi si dileguò dal soggiorno, salutando Erik con uno sguardo gonfio di dolore e me con un mezzo inchino.

«Che strada prende?» chiesi, curiosa.

«Quella che passa per Rue Scribe.» Erik depose via lo scrigno che aveva contenuto le reliquie di Christine Daaé e tornò a guardarmi con i suoi impossibili occhi d'oro. Sembravano pepite scavate in una miniera buia e fredda e umida. Li avevo visti furiosi, quegli occhi: tristi, sghignazzanti, ridenti, addirittura pieni di lacrime. Ma mai mi erano apparsi tanto vuoti, e fu una visione di orribile catarsi – riversare il proprio dolore nella voragine di un altro.

«Perché sei rimasta, Meg? Qualcosa di quanto ti ho detto non ti è chiaro, forse?»

Scossi il capo e indicai il pianoforte, che si ergeva, maestoso e intoccato, nel centro del soggiorno. Sotto la maschera, potevo quasi vederlo mentre alzava un sopracciglio.

«Posso suonarlo? Un'ultima volta?»

Erik esitò, squadrandomi come se fossi un alieno. Non comprendeva il motivo della mia richiesta. Ma a quel pianoforte ero legata da qualcosa di più di un semplice rapporto tra allieva e strumento musicale: quel pianoforte era il canto di mio padre, della ragazzina spensierata che non ero più, di giorni migliori. Era le lezioni che avevo condiviso con Erik e che mi avevano aiutata a tenere cara la memoria del mio sfortunato genitore suicida.

Qualcosa brillò nei suoi occhi – un luccichio insondabile, tanto breve da parere sfuggente – un segno di comprensione. Mi fece cenno di accomodarmi.

«Suona quel che desideri.»

Mi avvicinai al pianoforte a passi piccoli e contati. Sfiorai i tasti bianchi e neri con la delicatezza di un'amante, e mi schioccai le dita con un rumore secco che mi fece sobbalzare, nel silenzio tetro della casa sul lago. Erik si sedette su una poltrona, o meglio, si trascinò su di essa, arrancando come se le gambe dovessero cedere sotto il suo peso da un momento all'altro. Io mi accomodai sullo sgabello dinanzi al pianoforte.

«Cosa vuoi sentire?»

«Qualunque cosa andrà bene, Meg.»

Sfiorai i tasti con la dovuta riverenza. Quanto mi erano mancati! Potevo dare un nome ad ognuno di loro. Nel plico degli spartiti cercai una musica adatta, e la trovai in un semplice valzer di Mozart su cui mi ero esercitata più volte in passato. Mi accinsi a suonare con dita tremanti. Pensai fosse l'ultima volta che toccavo quello strumento: non suonai bene, le imperfezioni nella mia tecnica erano ancora evidenti, ma suonai con l'anima. Dedicai quel motivetto andante alla tristezza di Erik, alla mia, a quella di Christine e Raoul e del Persiano.

Quando finii, mi voltai verso di lui. Era sempre seduto sulla poltrona, una mano sugli occhi come se avesse mal di capo. Probabilmente i miei errori da dilettante dovevano aver offeso la sua delicata sensibilità artistica, ma me ne fregavo. Speravo invece che avesse recepito il messaggio dietro quelle note un po' sbilenche.

«Ti accompagno alla riva del lago» mi disse, alzandosi stancamente dalla poltrona. E così fece. Insistetti per remare da sola, giacché non ero una bambina che dovesse essere trasportata di qua e di là come una bambola. Gli rivolsi un'ultima occhiata sulla distanza: ero al centro del lago, ma la voce della Sirena non mi avrebbe raggiunto. Lui era là, sulla sponda opposta, immobile come una cariatide maledetta dal crisma di una pelle inguaribile. Diverso da chiunque altro.

Sospirai, pensando che quella era davvero l'ultima volta che lo vedevo.

Mi sbagliavo ancora.

 

 

Mia madre si era trasferita da breve tempo nell'appartamento numero 24 di Rue de Rivoli, che il Persiano tanto gentilmente ci aveva concesso. Sapevo che Antoinette se n'era innamorata, ed era ora che avessimo una casa tutta nostra. Anch'io stavo provando gusto nell'avere una stanza vera e propria tutta per me, ammobiliata con eleganza semplice, e poi dormire lontano dall'Opera mi faceva dimenticare, almeno per un po', chi voleva seppellirsi nelle sue profondità. Era un'ustione sulla mia anima, un'ossessione impronunciabile.

Quella sera mi lasciai accogliere dai profumi di Parigi in fiore: il viavai delle fiacre, il mormorio dei passanti, intrappolati com'erano nelle loro conversazioni, le vetrine dei negozi splendenti di vitalità, un piccolo gamin che offriva mazzetti di papaveri ad un sou. Quando si avvicinò a me, esclamando a gran voce: «Volete un fiore, Madamoiselle?», sorrisi e declinai l'offerta.

La mia meta era prossima, quindi non persi tempo. Era una serata deliziosa, che contrastava col mio umore torbido. Avevo preso l'abitudine di dormire nell'appartamento numero 24 insieme a mia madre, giacché i miei incubi erano tornati, come una malia incontrollabile, della quale ero fatalmente al giogo. Non avevo ancora trasferito tutti i miei oggetti personali nella nuova casa, perché malgrado tutto non sapevo se sarei riuscita a staccarmi completamente dall'Opera. In fondo, era stata la mia casa per tanti anni. Lì avevo conosciuto persone straordinarie; a quell'edificio sia mia madre che io avevamo dedicato l'anima. Ma magari un cambiamento ci avrebbe fatto bene, permettendomi di dimenticare ciò che accadeva – e moriva – nei sotterranei dell'Opera.

Salutai l'usciere con un cenno secco del capo – dormicchiava nella sua solita nicchia, già ubriaco – e salii le scale a chiocciola che portavano al mio nuovo appartamento. Subito mi avvidi che qualcosa non andava per il verso giusto. C'era troppo silenzio, un silenzio tanto pesante da ammorbare l'aria che respiravo. Aprii la porta con gesti lenti, cauti.

«Maman?» chiamai con un filo di voce. Era sciocco: perché permettevo all'ansia di pervadermi fino ad ogni più infimo nervo del mio corpo? Ma l'istinto al quale così spesso mi affidavo mi sussurrava all'orecchio di restare cauta. Mia madre continuava a non rispondere. Tutte le luci erano spente, benché fosse sera e maman dovesse essere già di ritorno dopo l'ennesima lezione di danza.

Entrai in soggiorno in punta di piedi. E fu lì che lo trovai.

Il cadavere di mia madre che giaceva sul tappeto orientale, il sangue che insudiciava le sue vesti nere e il pavimento attorno a lei. Rimasi paralizzata dall'orrore. Per un attimo mi giunse alla memoria il ricordo di un altro rosso…

Mi precipitai sul corpo senza vita di mia madre. Alla luce tremolante della luna che filtrava dall'imposta, si vedeva la profonda ferita che esibiva all'addome. Inflitta da non una, bensì più pugnalate, le viscere visibili come un turbinio di serpenti morti e aggrovigliati nello stomaco di mia madre. Mi salì la bile in gola e per poco non diedi di stomaco. Doveva essere un incubo. Sì, uno dei miei orrendi sogni. Solo che non avevo mai sognato niente del genere: di solito era il cadavere di mio padre ad ossessionarmi, e la cella buia in cui lo avevano imprigionato al manicomio dove un giorno temevo di essere rinchiusa anch'io.

Credetti di impazzire.

Cacciai un grido strozzato e afferrai il corpo ormai gelido di mia madre, scuotendola come se avessi potuto svegliarla e ridarle la vita con la rudezza dei miei gesti ansiosi. Il sangue mi inzuppò gli abiti, le viscere scoperte mi si attaccarono alla gonna come artigli molesti, ma non m'importava.

Perché? Cosa abbiamo fatto per meritarci questo?

Non mi accorsi che singhiozzavo disperata se non quando mi mancò il respiro. A quel punto non mi trattenni più e rigettai ogni residuo di bile sul parquet perfettamente tirato a lucido. Placata, tornai a fissare il cadavere di mia madre raffreddarsi sul duro pavimento. Ero seduta con le ginocchia strette al petto, come una bambina, incapace di ragionare, di dire anche solo una parola. Il sangue che continuava a scorrere mi stordiva, mi bagnava, mi lacerava le corde del cuore.

Chi aveva compiuto un simile delitto? Chiunque fosse, poteva essere ancora in casa. Mi rizzai in piedi, improvvisamente guardinga. Scavalcai il corpo sviscerato di mia madre senza osare più guardarlo – qualcosa si era spezzato definitivamente in me quando vi avevo posato sopra gli occhi.

Sentivo scricchiolare le ossa della mia anima in putrefazione, i battiti del mio cuore che mi martellavano i timpani e che si trasformavano in un fastidioso formicolio alle dita.

Dovevo fare qualcosa, e dovevo farlo subito. Mi vorticarono nella mente le possibili opzioni: andare alla polizia, all'ospedale, perlustrare prima la casa assicurandomi che nessuno mi stesse spiando in quel momento – era troppo, sentivo che questa volta non sarei riuscita a sopravvivere. Con le mani ancora inzaccherate di sangue e materiale organico, mi accostai alle tenebre.

L'assassino mi colse di sorpresa. Mi afferrò alle spalle, impedendomi di muovermi, e mi puntò una lama alla gola. La pelle tenera si increspò al tocco dell'affilato e gelido metallo. Urlai e mi dibattei (morirò morirò morirò), le mani e gli abiti ancora impasticciati di sangue, che gocciolava vermiglio sulle mie scarpe.

«E tu chi saresti? Ah, certo, la puttanella di Azrael. Avrei dovuto immaginarlo.»

Non capendo una sola parola di ciò che quell'uomo con la voce rude mi aveva bisbigliato all'orecchio, anche per via del suo pesante accento straniero, sfoderai un poderoso calcio che lo colpì agli stinchi, facendogli stridere i denti dal dolore. Mi gettai in avanti, pronta a scappare (lontano lontano sempre più lontano sempre pioggia tra le feritoie della notte), ma egli mi afferrò per la collottola come se fossi stata una bambina e fece per puntarmi di nuovo la lama del suo coltellaccio alla gola.

D'un tratto si udì un rumore felpato di passi che si avvicinavano. Vicino a me, sentivo l'assassino irrigidirsi.

«Abbiamo preso la tua baldracca. Se la rivuoi indietro ancora intatta, consegnati a me.»

«Non mi abbasso a certe infime minacce.» Una scura e alta figura sostava sull'uscio del soggiorno, con in mano quel che pareva – era difficile dirlo nella penombra – un lungo elastico.

Il laccio del Punjab, pensai. Erik.

Mi divincolai dalla presa dell'assassino, che notando i miei sforzi mi scagliò lontano da sé come fossi un insetto fastidioso. Egli aveva in mano una daga, Erik un cappio. Chi dei due avrebbe avuto la meglio?

Rimasi paralizzata ad osservare la conversazione tra i due uomini.

«Non mi aspettavo di trovarti qui, Azrael» disse l'assassino.

«Avete fatto fuori anche il daroga?»

«Oh, no, lui è ancora in vita. Da qualche parte, chissà dove e in quale meandro oscuro, ma lo scopriremo. Come avvertimento abbiamo sventrato questa vecchia arpia e il servitore leccaculo di Khan.»

Quindi anche Darius era morto. Questo mi fece male, ma non quanto l'aver visto il corpo senza vita di mia madre.

«Lasciate stare la ragazza. Non centra nulla con tutto questo.»

«Sì, ma se la uccido…»

«Ti darò la caccia fino ai confini del mondo.»

L'uomo sconosciuto, i cui lineamenti affilati erano appena visibili nella penombra della mezza luna, rise in modo rude a sguaiato.

«E noi che credevamo fossi ancora l'Angelo della Morte. Venticinque anni in Francia e ti sei rammollito.»

«Sono cambiato, ma non tanto da non poterti spezzare il collo con queste mie mani per ciò che hai fatto.»

E così il combattimento iniziò. Erik pareva danzare: schivava i colpi dell'avversario con grazia, mentre quest'ultimo cominciava a boccheggiare.

«Codardo! Smettila di scappare!»

«Oh, non sto scappando. Proprio per niente.»

In un movimento tanto fulmineo che, se avessi sbattuto le palpebre nel momento sbagliato, non avrei neanche notato, Erik agitò il laccio del Punjab e lo strinse attorno al collo dell'avversario che, viola in viso, lottava disperatamente per liberarsi. Ma era vano: la presa di Erik era troppo forte, e alla fine anch'egli morì. Nonostante i molti anni trascorsi dai giochi nell'arena di Persia, Erik rimaneva un guerriero singolare ma incredibile. Strappò il cappio dalla testa dell'assassino (anche lui è morto. Siamo tutti morti, qua dentro) e si voltò cautamente verso di me. Avanzava ad una cadenza lenta e calmante, come dinanzi a una bestiolina spaventata e rabbiosa insieme. Certo, lo avevo appena visto uccidere un uomo con la rapidità e il sangue freddo di un serpente.

Il bastardo però aveva ucciso mia madre. Il debito così era risanato. Ed Erik ripagava sempre i propri debiti.

«Dobbiamo andarcene di qui, Meg. Ne verranno altri. Questo era solo un avvertimento.»

Balzai in piedi, furiosa con me stessa e con lui. «Si… Si può sapere che cosa sta succedendo? È la seconda volta che vedo un mio genitore morire… e pretendo una spiegazione!» balbettai.

«L'avrai, ma più tardi. Adesso seguimi e fai attenzione.»

Non mi ero avveduta che il mio corpo veniva scosso da singhiozzi irregolari e che tremavo verga a verga. Ma era dentro che faceva più male: dove dapprima c'era il posto riservato a mia madre, ora sgorgava una fontana di sangue e viscere putrescenti. Chiusi gli occhi: l'immagine del cadavere di mio padre si sommava a quello di mia madre. Rabbrividii e credetti di svenire, ma Erik fu pronto a stringermi tra le sue braccia fredde, sorreggendomi senza alcuna fatica.

«Dobbiamo andare. Il daroga ci aspetta. Se restiamo qui più a lungo, ci prenderanno. Ti fidi di me?» fece lui con un tono di voce che avrebbe potuto spezzare il cuore a un angelo.

Gli presi la mano. «Per questa volta… sì.»

Non avevo altri a cui appellarmi. Scoprimmo che per il trauma non ero in grado di reggermi in piedi, ma lui mi sollevò come fossi stata una bambola di creta e mi spiegò che avremmo dovuto dileguarci prima dell'arrivo delle autorità.

«L'assassino aveva in tasca dell'argenteria rubata da questa casa, forse per inscenare una rapina. Ma sapeva che io avrei capito.» Mi mostrò una fascia con sopra cucito lo strano emblema di una rosa rossa. «Era un uomo della regina.»

Non ebbi la forza di chiedergli di cosa diavolo stesse farneticando. Mi sentivo morire dentro. Un ferino roditore mi divorava dall'interno, fino al midollo. Mi faceva male l'anima.

«E… mia madre…?»

Gli occhi di Erik si riempirono di mestizia. «Mi dispiace, Meg. Presto arriveranno le forze dell'ordine e non possiamo farci vedere qui. Si penserà a una rapina finita male.»

Il lezzo di morte, che conoscevo così bene, mi riempiva le narici e mi lasciava in preda alle vertigini.

«Non… non mi sento…» Gli vomitai sulle scarpe. Lui si aprì appena in una smorfia di disgusto.

«Meg, adesso ti porto in un posto sicuro. Poi ti spiegheremo tutto.»

Annuii. Non feci in tempo a lanciare un'ultima occhiata al cadavere di mia madre che fui sopraffatta dall'orrore, e svenni, ritrovandomi in un corridoio da cui non proveniva alcuna luce.




Note dell'autrice: * Il titolo di questo capitolo è preso dal romanzo omonimo di Ugo Riccarelli, che io non ho mai letto, per inciso, ma mi piaceva come suonava. Sì, lo so, è strano.

Volete uccidermi. Ammettetelo. Immagino mentre leggete e mi scagliate contro imprecazioni delle più colorite, come: “Bastarda, come hai potuto far soffrire Meg in questo modo un'altra volta? Il suo trauma passato non bastava?” Ebbene sì, lo ammetto, sono sadica. So anche che non capirete molto di quanto sta succedendo, ma nel prossimo capitolo tutto verrà svelato, promesso.

A proposito, vorrei scusarmi per il ritardo nel postare questo inizio del secondo atto della fic, ma ho avuto dei problemi col pc (che rompipalle che è) e spero mi perdoniate. Da qui in poi inizia una nuova fase della storia, che coinciderà con la discesa di Meg nel dolore più profondo (non ci sarà molto da festeggiare, sorry) e la redenzione di Erik in seguito all'amore e alla compassione mostratagli da Christine. Sappiamo che non diventa esattamente un santo dopo gli eventi dell'Opera, ma che perlomeno capisce i suoi errori, e questo è già un ottimo inizio. Il legame tra Erik e Meg diverrà sempre più forte, perché affronteranno molte dure vicissitudini insieme, ma non mancheranno i soliti battibecchi. Sono fatti così, quei due, cosa ci posso fare. XD

E ora, le risposte alle fantastiche recensioni:

Malinconica: Cara, certo che la visita di Meg ha fatto molto piacere ad Erik, e lo ha anche sorpreso. Entrambi per la prima volta hanno ammesso di tenere l'uno all'altra, è stato molto dolce da parte di tutti e due. Un momento di tenerezza inaspettato nel mezzo del dramma. Avverto che da qui in avanti la tragedia diventa pure più preponderante, come ti sarai accorta da questo capitolo: i nostri “eroi” (pfff XD) dovranno superarne tante… Poveretti, li faccio soffrire troppo. Hai una qualche idea su cosa sia successo alla povera Madame Giry? (Credimi, sopprimere una grande donna come quella è stato un colpo al cuore, ma… dovevo farlo per mandare avanti la trama. Arg.) Chi ci sarà dietro l'assassinio di lei e Darius? Erik centra sicuramente, ma come? Eh eh, mi sa che dovrete aspettare tutti il prossimo capitolo. Un bacio, e spero che non mi vorrai troppo male, adesso. <3

bibliofila_mascherata: Ti ho fatta piangere? Addirittura? Povera piccola! <3 D'ora in poi le cose non faranno altro che peggiorare, MUHAHAHA! (Okay, la smetto.) Comunque no, io non avrei scelto Erik. Cioè, tipo, mai. Neanche a pagarmi. Ma se lo ami!, diranno tutti. E sì che lo amo, ma come personaggio fittizio. C'è una differenza. Penso che sia super complesso e interessante e uno dei mostri tragici più affascinanti della letteratura, ma è anche uno stalker maniaco omicida con qualche rotella fuori posto. (Te l'ho detto che ero oggettiva.) Ti do un consiglio da amica: se un uomo si comporta con te come Erik si comporta con Christine, tu SCAPPA. Subito. Senza voltarti indietro. Certo, qui c'è un altro fattore da considerare: il suo vissuto assolutamente tragico. Non credo esista essere umano al mondo più infelice di lui. Ma questo spiega le sue azioni, non le giustifica. Non è la stessa cosa. Persino Meg, che ne è attratta e prova nei suoi confronti vero affetto, non resterebbe mai con lui pur se le venisse data questa possibilità. A meno che… Erik non cambi davvero. Cosa che nel libro fa a metà: vediamo che comprende i suoi errori, e la sua morte equivale a una redenzione. Nella mia storia affronterà un percorso di redenzione vero e proprio: non diventerà un santo, assolutamente, ma almeno una persona decente. Altrimenti come farà Meg ad innamorarsi sul serio di lui, eh eh? Poi, anche Meg affronterà un percorso particolare – vedrai quale – e questo la porterà ad avvicinarsi inevitabilmente ad Erik. Insomma, è necessario che ci siano delle condizioni perché si possa costruire una relazione sana con uno come Erik. Ricordiamo che ha degli scrupoli con Meg, ma non con altri innocenti – quelli, se si mettono sulla sua strada, sono fregati (o impiccati). Beh, perlomeno prima. Adesso Erik ha capito che è stato proprio il suo comportamento ad allontanare Christine da lui. Perché no, Christine non lo lascia perché è brutto come la morte, ma perché è crudele. O meglio, lui capisce di esserlo, di aver sbagliato tutto, proprio quando Christine gli mostra cos'è l'amore vero: sacrificarsi per un'altra persona. E, ovviamente, la compassione: Christine lo bacia malgrado la sua faccia sia orrenda e dimostra che comprende la sua tristezza e la sua umanità, e piange con lui (“povero sventurato Erik!” lo chiama; e questo dopo tutto il male che ha fatto a lei, a Raoul e che minaccia di fare a molti “membri della razza umana”!). Erik è differente dagli altri mostri, o dagli assassini che uccidono le proprie fidanzate/mogli/amanti ecc. di cui sentiamo tanto parlare in televisione (purtroppo, è un argomento molto triste, che fa arrabbiare, e molto attuale) perché lui la lascia andare. È questa la tragedia di Phantom: una storia a La Bella e la Bestia… tutta al contrario. Però alla fine Erik diviene davvero umano, come il mostro della favola. Solo che, se le Bestia è sempre stata gentile con Belle, Erik si è comportato in maniera assai… discutibile. Non trovi anche tu?
Scusa il rant. XD Comunque grazie, grazie, grazie per i complimenti (non sento di meritarli), e ti voglio un mondo di bene anch'io! Che bello trovare lettrici così dolci e leali. <3 Spero che questo capitolo non ti abbia sconvolto troppo e che apprezzerai l'inizio di questo maledetto “secondo (e ultimo) atto”. Un bacio! <3

debbythebest: Una nuova lettrice! Che bello! Davvero hai letto questa mia sciocchezzuola in una notte? Eh, sarà pure una cretinata, ma è piuttosto lunga, quindi complimenti! ^^ Mi fa TANTISSIMO piacere che ti sia piaciuta, spero di non deluderti (ho un po' d'ansia a proposito…). Un abbraccio <3
   
 
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