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Autore: _Blanca_    13/08/2016    0 recensioni
«Mi segue» disse Anna.
«Di che cosa parlate, miss Hawkins? Chi vi sta seguendo?»
«La morte.»

Ottobre 1875. Dalle coste della Nova Scotia, Anna Hawkins si imbarca per l’Inghilterra, dove vivrà con gli zii Woodhams, ricchi borghesi del Kent. Anna sa che vivere nel cuore dell'Impero, tra i bianchi sudditi della regina Vittoria, non sarà semplice. Lei è una Metis. È figlia di un inglese, che ha fatto fortuna come cacciatore di taglie, e di una donna della Prima Nazione. Ma Anna sa anche di non poter tornare indietro. Il suo viaggio è una fuga. Una fuga dalla solitudine, dalle responsabilità, da un destino che la terrorizza. La nuova esistenza nel Kent, tuttavia, si rivelerà diversa da qualsiasi speranza o timore. Anna dovrà affrontare i segreti di una vecchia casa e di una stanza che non deve mai essere aperta; dovrà tenere testa a una zia decisa a odiarla e a uno scrittore di racconti del terrore, capace di dare un’impronta fin troppo realistica agli incubi di carta e inchiostro. E, sullo sfondo del tutto, toccherà a lei risolvere l’enigma di un misterioso suicidio.
Genere: Horror, Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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XII. Alice Mallory





La vedova Woodhams trascorse tre giorni reclusa nella propria stanza. Accudita dalla signora Blackwell, e visitata soltanto dal dottor Easton, languiva in poltrona accanto al caminetto, in veste da camera e con le trecce sciolte sul debole petto. Nessuno, tuttavia, la vide versare lacrime. Il dottore, anzi, assicurò che i nervi della signora non avevano perduto completamente vigore: lo dimostrava il fatto che, di tanto in tanto, la dolente vedova levasse la voce per informarsi sui preparativi del funerale. Era altrettanto incoraggiante lo sforzo della donna di scrivere di proprio pugno l’elenco degli invitati alla cerimonia privata. L’animo era provato ma il volere ferreo e le idee chiare: non avrebbe ammesso nessuno, all'infuori dei nomi sul foglio. 
Questo fu quanto Anna venne a sapere, riguardo alla zia, giacché lei ebbe la forza di abbandonare la camera da letto una volta soltanto: nel pomeriggio del secondo giorno.
Il defunto doveva essere vegliato.
Walter Woodhams dormiva il suo ultimo sonno nel gelido parlour, dove lampade e camino restarono spenti, mentre l’aria si impregnava dello stucchevole aroma dei gigli che circondavano il catafalco. Lo zio avrebbe abbandonato il mondo dei vivi come aveva vissuto: elegante, ma sobrio, in giacca blu e camicia bianca, guanti e panciotto di seta. Il fazzoletto, legato sotto alla mascella, nascondeva lo scempio della pistola e teneva chiuse le lebbra grigie. Ma, per Anna, la veglia si rivelò un compito insostenibile. Non resistette che un quarto d’ora. Al che, come voleva l’uso, altri adempirono al lugubre dovere, giorno e notte: Ada e Augusta, i fratelli Hall, il segretario Crofton, la moglie e le figlie del signor Arden. 
Fu proprio l’instancabile Arden a occuparsi dell’organizzazione del funerale, assicurandosi che tutto si svolgesse in modo opportuno. Bon Fleur Place venne vestita a lutto: una corona d'alloro e di nastri neri fu appesa alla porta d’ingresso, gli specchi vennero coperti, le tende tirate, le fotografie rivolte all’ingiù. Gli inviti furono spediti, puntualmente. E accordi dettagliati vennero presi con il pastore e con il becchino. Non vennero trascurati neppure gli ordini alla pasticceria, che avrebbe spedito i dolci per il rinfresco. E affinché Anna avesse il guardaroba appropriato, furono ordinati per lei un ragionevole numero di accessori e abiti già confezionati.   
La morte aveva portato un insolito andirivieni di vivi a Bon Fleur eppure, dentro e fuori, il silenzio regnava sovrano. Tutti si spostavano da una stanza all'altra senza far rumore. Se parlavano, parlavano a bassa voce. Non si udì mai il trillo di un campanello, lo scalpiccio di un cavallo o l’acuto cigolio di una porta.

*

Alle otto del mattino del ventiquattro novembre, una luce bluastra carezzava le ceramiche dello Staffordshire. Il vassoio era abbandonato sul vanity; il tè, nella tazzina, era freddo. Anna non lo aveva toccato. Se ne stava a letto, rannicchiata su un fianco; una mano otto al collo, l’altra intenta a torturare le labbra spellate a forza di pizzichi. Era ingabbiata in un abito severissimo, nero come la pece, dal colletto di lino inamidato. I capelli erano tirati in una crocchia e mettevano crudelmente in mostra la cinerea opacità della pelle bruna. Occhiaie violacee adornavano gli occhi lucidi, dall’espressione esausta e intorpidita.
Anna aveva pianto, quella mattina.
Aveva pianto a lungo, in silenzio, senza vergognarsene. Aveva pianto di dolore, di rabbia, di esasperazione.
Anna era cresciuta imparando a non rifuggire la vista dei cadaveri, fossero vittime o carnefici. Omicidi, fucilazioni, accoltellamenti, impiccagioni: la vita era fragile, violenta e spaventosa; e la morte una costante. Per tacere dell’eredità che gravava sulle spalle di sua madre. E, di conseguenza, sulle sue.
Sua madre.
Anna avevo visto prima lei, poi suo padre, esalare l’ultimo respiro e trasformarsi in un corpo vuoto e rigido. Li aveva visti rinchiusi in una bara, calati in una fossa; li aveva visti sparire sotto la terra, lasciandola sola, con il ricordo dei volti e delle voci che diventava ogni giorno più sfocato, più difficile tenersi stretto.
Ma non aveva mai visto nessuno strapparsi via la vita.
‘Perché quest’orrore? Perché?’ 
Se solo, quella sera, lei fosse andata da suo zio, invece di discorrere con William. Se solo lo avesse fermato. Se solo... 
«Anna» chiamò Lily, con estrema dolcezza, seduta sulla sponda del letto. Indossava un vestito color tabacco, fuori moda di almeno un decennio; uno scialle di lana grezza pendeva dagli avambracci. «Anna, ti prego, prendi almeno un po’ di tè. Sono quasi tre giorni che sei a digiuno. Non vorrai sentirti male, in chiesa?» Lily aveva le palpebre arrossate per le lacrime trattenute. Sul volto teso si leggeva tutto: i nervi provati, lo spirito abbattuto e la stanchezza fisica. E nonostante tutto, non era mai venuta meno ai suoi doveri di domestica. 
Anna non rispose alla supplica. 
Lily le accarezzò il braccio. 
S’udiva un cristallino ticchettio. Giungeva dallo scrittoio. Era l’orologio da taschino: il regalo dello zio Woodhams. 
«Non è giusto...» sussurrò Anna. «Lui era felice.» E la voce si incrinò, come un ramoscello che si spezza. Tacque. Nuove lacrime si affacciarono agli occhi. Infine, le parole salirono alle labbra di getto, accorate, pur pronunciate con un fil di voce. «E io ero felice. Sono venuta fin qui... perché non ne posso più. Non la posso più sopportare... la morte. E l'orrore! L’orrore continuo. Volevo soltanto qualcuno che mi volesse con sé. E lui mi ha lasciata sola. Perché mi ha lasciata sola?»
Lily, nello sforzo di non farsi contagiare dal pianto, si piegò su di lei. «Io non lo so! Non lo so... però, Anna—Anna? Ascoltami...» D’impulso, tremando per il dolore, le baciò la tempia e la guancia. «Ti prometto che io resterò con te. Avrai sempre me. Sempre.»
Anna le strinse le dita e le portò sotto al mento.
Lily appoggiò il capo sulla spalla di Anna, che guardava fissamente il pavimento. Restarono così, immobili, mano nella mano.
Quando Anna parlò di nuovo, un rigurgito di bruta onestà aveva asciugato la voce. «La odio» disse, a denti stretti. 
«Chi?»
«Mia zia.»
«Non dire così...»
«È colpa sua, se lo zio s’è ammazzato. E poi... io l'ho sentita ridere.»
«Cos—quando?» soffiò Lily, sollevandosi.
«Ieri notte. Erano le tre. L'ho sentita, in corridoio, che rideva. E non era una risata isterica, no! Era... era compiaciuta.»
«Ma ne sei sicura?»
«Sì.»
«Non potresti aver sognato?» suggerì Lily. «La signora è una donna stoica, è vero, ma... no, non lo credo possibile. Forse è stato qualcun altro. C’erano le signorine Arden e il signor Crofton, ieri notte, nel parlour.»
«Nessuno di loro sale mai al primo piano.»
«Perché la signora Woodhams avrebbe dovuto trovarsi nel corridoio, a quell'ora tarda?»
«Magari ha finito di impazzire» ribatté Anna, mettendosi seduta. «Comunque, non sarebbe la prima volta.» E raccontò dell'incontro in cucina, la notte del suo arrivo.
Lily, visibilmente perplessa e angustiata, era a corto di parole. Sembrava intenta a ragionare. Tuttavia, Anna intuì che non le credeva — non fin in fondo. Non poteva rimproverarglielo. Anche se non avevano più parlato della fontana, o di presunte spie invisibili che infestavano la villa, quell’unico episodio doveva rappresentare per Lily un motivo valido per considerare Anna una persona facilmente impressionabile. 
Eppure, Anna era sicura: lei aveva davvero udito una risata. Non era stato un sogno, né l’inganno di una mente in bilico tra sonno e veglia. La notte passata, giaceva a letto, troppo affranta per dormire. La voce della villa, fatta di scricchiolii, la circondava. Venivano dai mobili, dalle assi del soffitto, dal cuore delle pareti. E il vento respirava attraverso la bocca del caminetto spento.
Poi, d’un tratto, la risata: un verso basso, gutturale, quasi demoniaco.
Anna era scattata a sedere, con il cuore agitato e l’orecchio teso. Aveva guardato d’istinto la porta chiusa. Ma la risata già non si udiva più. E quando si era alzata, muovendosi nel buio, per socchiudere la porta e spiare in corridoio, non aveva visto nessuno.   

*

Alle undici in punto, il cielo del Kent era terso e l’aria freddissima. Due morelli agghindati di pennacchiera nera trainavano la carrozza funebre; avanzarono lenti, per le strade lastricate, sotto gli archi e oltre il Len Bridge, fino alla chiesa di Tutti i Santi, che con la sua mole austera, le grigie bifore e il campanile merlato, sembrava voler ricordare l’obbligo di una coscienza limpida a chiunque si accostasse all’ombra delle sue mura.
Sotto le navate, odorose di fumo e incenso, faceva talmente freddo che ogni parola del pastore mutava in un spettro di fiato bianco.
Anna tremò per tutta la cerimonia. Era stata relegata al rango della servitù di Bon Fleur Place e di Ellsworth House. Davanti a lei, venivano gli amici e i conoscenti di una vita; mentre l’onore della prima panca era andata agli Arden, agli Hall e, ovviamente, alla vedova. La zia Woodhams appariva come un’immobile figura in gramaglie, celata agli sguardi altri da un pesante velo nero, lungo fin quasi a sfiorare il pavimento. Da sotto il doloroso schermo, non giunsero mai gemiti o singhiozzi; e il fazzoletto di seta nera, portato spesso alla bocca, rimase perfettamente asciutto.
Non ci furono pianti d’addio neppure durante la sepoltura. Il cimitero della chiesa era un lago verde smeraldo, circondato da mura di pietra che separavano i morti dalla strada e dall’argine del Medway; lo abitavano querce e cespugli di biancospino, lapidi e croci, statue di urne coperte da drappi, di angeli e di figure incappucciate.
La lucida cassa, dalle maniglie d’argento, venne calata in una fossa accanto a un’altra tomba: su di una lastra di marmo, posta in orizzontale sul terreno, un agnellino se ne stava accoccolato in un nido di bioccoli di rosa. Sotto, l’incisione:

Our Darling
Violet Jacqueline Woodhams
March 2, 1857
Dic. 30, 1867

Adesso entrambi, padre e figlia, avrebbero riposato lì, in quel fazzoletto di terra, vegliati dallo stesso angelo ― una mano giunta al petto e l’altra levata a indicare il cielo ― comprato dalla ricchezza della famiglia Woodhams.
E tutto si concluse in silenzio, quasi con tranquillità. Nessun pianto rumoroso, nessun teatrale svenimento; soltanto qualche bisbiglio, qualche muta lacrima femminile e molti sguardi bassi.
A mezzogiorno, le carrozze fecero ritorno a Bon Fleur Place. La vedova si ritirò e gli invitati si riunirono in sala da pranzo, dove sul lungo tavolo, coperto da una tovaglia nera, attendeva il rinfresco. Lily e la signora Blackwell servirono bicchierini colmi di vino speziato caldo, per rinvigorire le membra e gli animi. Ad Anna toccò il compito di distribuire i tondi e morbidi biscotti, avvolti nella carta bianca. Con spirito da automa, li lasciava nelle mani degli invitati e ringraziava per la vicinanza in quella «tristissima ora.» Ma fu allora che comprese cosa sigillasse davvero tutte quelle bocche borghesi, cosa imponesse loro di non sostenere troppo a lungo il suo sguardo. Sotto le compite condoglianze e i modi impeccabili serpeggiava il disagio. Si vergognavano di esser lì. Il ricco e rispettabile Walter Woodhams, che per anni aveva fatto affari con loro e aveva partecipato ai loro tè e alle loro cene, era morto suicida. Un peccato agli occhi del cielo. Un’infamia agli occhi della società.
Anna appoggiò il vassoio vuoto sul tavolino: avrebbe voluto ringhiare a quel manipolo di pupazzi incravattati e smidollate bambolette di andarsene via.
«Anna, non vi sentite bene?»
Era Ada: una delle poche persone di cui Anna non poteva mettere in dubbio la sincerità del cordoglio.
«Ho solo bisogno di restare qualche momento da sola.»
«Certamente. Ritiratevi, se ne avete bisogno. Degli ospiti mi occuperò io.»
«Grazie...»
Anna si diresse alla porta. William era proprio lì accanto; ad ascoltare il fitto parlottio di un uomo dai grossi baffi arricciati all’insù. Lo sguardo malinconico dello scrittore incrociò quello lucido e rabbioso di Anna. Durò un istante. Poi, Anna uscì dalla sala e William tornò al suo interlocutore.
Dalla notte del suicidio del signor Woodhams, non erano più rimasti soli nella stessa stanza; né avevano avuto modo, o desiderio, di rivolgersi la parola.
Anna scivolò nel parlour: le sembrò essersi ingrandito, ora che parte della mobilia era stata rimossa per far spazio al catafalco. Attraversò la stanza e cercò il sostegno della mensola del caminetto: un braccio teso e l’altra mano pigiata contro il ventre. Chiuse gli occhi. Ispirò ed espirò: i gigli non c’erano più, ma il loro profumo infestava ancora la stanza.
Lentamente, Anna si lasciò scivolare in ginocchio sul pavimento; con lo sguardo incollato al cumulo di cenere, vecchia di tre giorni, la sua mente sprofondò così a fondo nell’avvilimento più totale che furono necessari lunghi, lunghissimi secondo prima che Anna riuscisse a vedere ciò che stava realmente fissando.
Dalla cenere spuntava qualcosa: era bianco e  sottile.
Per un attimo, credette fosse un pezzo di carta. Ma quando allungò una mano e lo trasse via dalla cenere capì che si trattava di una pezzetto di stoffa. E sulla stoffa era ricamata una lettera: una M.
Era il fazzoletto finito per sbaglio tra la sua biancheria.
‘Chi l’ha bruciato?’
Anna sparse la cenere con la punta dell’attizzatoio. Non trovò altri resti del fazzoletto, solo carboni, legnetti bruciacchiati e... un altro pezzetto di stoffa. Era tinto di nero ― o forse di blu, di o marrone: difficile capirlo, sporco e bruciacchiato com’era ― però era ben visibile un pollice di ricamo, realizzato con del filo rossastro. Quale fosse il soggetto del ricamo, però, non era possibile capirlo.

*

Anna accolse l’alba spalancando le tende.
In giardino, gli spogli rami degli alberi erano immobili e la nebbia, che ammantava la campagna, preannunciava l’avanzare di un’altra giornata fredda e serena.
Ma non un’altra giornata da trascorrere chiusa in quella camera.
Anna, per natura incostante negli stati d’animo come nelle idee, sentiva il bisogno di ribellarsi alla passività, giacché l’immobilità, fisica e mentale, poteva solo acuire il dolore.
Dunque, si preparò, svelta, ma con una discreta cura: indossò un altro di quei casti e accollati abiti neri, ai quali l’etichetta la condannava per i successivi sei mesi; appuntò l’orologio al petto, aprì il cofanetto e infilò l’anello alla mano destra. Ma non sprecò tempo ad acconciare i capelli, badando solo a spostare le ciocche ai lati del viso.
Quando scese al pian terreno, la servitù doveva appena aver messo un piede giù dal letto. Si diresse allo studio; e lo trovò immerso nel buio. Nell’aria, fredda, percepiva ancora un tenue profumo di tabacco: l’odore della pipa dello zio Woodhams, un ultimo riverbero della sua esistenza.
Anna aprì le tende e socchiuse la finestra, lasciando entrare luce e aria pulita. Si guardò attorno: nessuno aveva toccato nulla, dalla maledetta sera in cui il padrone della villa aveva messo per l’ultima volta piede nello studio per trafugare il revolver.
La poltrona era tristemente vuota, e tale sarebbe rimasta. Le ante della vetrinetta erano chiuse, la cenere era ancora nel camino e un’ombra di polvere iniziava a formarsi sulla mensola. Sullo scrittoio, ben ordinato, giacevano una matita spuntata, un penna con la punta incrostata di inchiostro e la piccola lente d’ingrandimento con cui lo zio amava bearsi delle illustrazioni, sui cari libri di scienza. La foto di Violet era ancora rivolta a faccia in giù.
Anna, costringendosi a ricacciare indietro le lacrime, sollevò la cornice.
E si mise al lavoro.
Mentre fuori il mattino avanzava, e nell’atrio la pendola scandiva il susseguirsi dei quarti d’ora,  Anna rovesciò il contenuto di ogni cassetto, tastandoli fin sul fondo. Sfogliò ogni taccuino, ogni registro e ogni almanacco. Spiegò e lesse ogni lettera, ogni assegno e ogni telegramma.
«Che cosa stai facendo?»
Anna, seduta a gambe incrociate sul tappeto, alzò lo sguardo un sussulto trattenuto.
La zia Woodhams era sulla soglia: abbigliata di nero da capo a piedi; le mani raccolte al ventre e la fronte pallida e dura intorbidita da una ruga severa.
«Credevo vi foste dimenticata che vivo ancora sotto al vostro tetto» disse Anna. Riprese a voltare la pagine dell’agenda che teneva tra le mani, lasciando intendere quanto poco fosse interessata ai cipigli della vedova. In quanto all’agenda, era un contenitore di annotazioni giornaliere: appuntamenti di lavoro, acquisti, cene, pranzi... Giorni, settimane, mesi: tutti datati 1873.
«Dimmi che cosa stai facendo» ripeté la zia.
«Cerco.»
«Che cosa?»
«Lo saprò quando l’avrò trovato.»
Il pavimento scricchiolò: la signora Woodhams era entrata nello studio.
«Credi di poter scoprire perché il signor Woodhams si è ucciso, non è vero?» Una pausa. E poi: «Pensi tacesse su qualcosa. Problemi di denaro. Di salute. Un vecchio peccato tornato a tormentarlo.»
«Un uomo sereno, in buona salute che fa progetti per il futuro... non si toglie la vita. Quindi: sì. Deve esserci qualcosa che non sappiamo.»
«Perché ti affanni?» Non c’era né rimprovero né compatimento nella voce della zia. Solo una serietà altera. «Tutta Maidstone ha già risolto l’enigma. Se di enigma si può parlare. Il mio caro sposo ha avuto la cortesia di invocare il mio nome, prima di spararsi. Ha trascinato la mia reputazione nella tomba, insieme a lui.» Si spostò verso la finestra. «Non credi anche tu, come gli altri, che sia stata io a portarlo al suicidio? Che non avesse più la forza di sopportare la sua orribile consorte?»
Anna si levò bruscamente in piedi.
Zia e nipote si fronteggiavano, ai due lati opposti dello scrittoio.
«Che il vostro fosse un matrimonio infelice solo un imbecille avrebbe potuto pensare il contrario. Ma lo zio non vi odiava. Non vi rimproverava nulla. Nemmeno il vostro animo freddo. Al contrario: vi giustificava. Vi comprendeva. Aveva compassione. Forse... forse, in qualche modo, vi amava, persino.»
«Dunque, perché imputarmi la colpa del suo gesto?»
«Questo dovreste essere voi a spiegarlo a me.» Anna avanzò di un passo e, a muso duro, disse: «Che cosa nascondete?»
«Io non ho segreti» asserì la zia.
Anna ne osservava il profilo, stagliato contro il grigio vetro della finestra: le pareva che la zia avesse perso anche quel poco di emozioni di cui si era dimostrata capace in passato. A stento si trattenne dal gridarle contro. ‘Bugiarda! Io lo so che nascondete qualcosa. E non è qualcosa... qualcosa di umano.’
«Ma voi lo avete mai amato, vostro marito? Gli avete almeno voluto un po’ di bene?»
«E tu, piccola sciocca? Pensi che lui volesse bene a te?»
«Perché non dovrei pensarlo? Voleva prendersi cura di me, come—»
«Come una figlia. Come fossi nostra figlia. Ma tu non sei nostra figlia.»
«Non ho mai preteso di prendere il posto di Violet...»
«Lui credeva che potessi farlo» disse la zia Woodhams: adesso un riconoscibile disprezzo strisciava sotto il tono immobile. «Pensava che prendersi cura di te avrebbe fatto ammenda per la sua colpa. La sua. Non quelle che andava riversando su di me, nei confronti di tuo padre. Voleva assicurare a te il futuro che Violet non ha mai potuto vivere.» Rivolse di nuovo lo sguardo alla finestra. «È stata colpa di Walter se Violet è morta. E lui lo sapeva.»
Anna era confusa. «Ma mi hanno raccontato che Violet si ammalò. Che era di salute debole. Come può essere stata colpa dello zio?»
La zia strinse le mani sui gomiti; adesso Anna ne poteva vedere solo la complicata acconciatura e il collo bianco e sottile.
«Era stato un inverno freddo, quello — e un dicembre nevoso. La campagna era completamente imbiancata. Tutti i sentieri e tutti i rigagnoli gelati. Il mattino di Santo Stefano, Violet faceva i capricci. Voleva andare in giardino. Adorava la neve. Ma io non lo permisi, perché lei era ancora convalescente. Aveva avuto la febbre molto alta fino alla vigilia di Natale. Ma arrivò il pomeriggio e io dovetti recarmi a Maidstone. Un evento di beneficenza per i poveri. Noi avevamo lasciato che la bambinaia tornasse dai suoi parenti, per il Natale. Perciò fu Walter a restare con la piccola. Walter. Walter... sempre ingenuo, e permissivo, e irresponsabile. Lui accontentò Violet. La lasciò giocare tra la neve. Tutto il pomeriggio — tra la neve. E quando calò la sera, Violet scottava e tremava. La febbre era tornata.» Tacque. Si mosse un poco, e Anna tornò a scorgerne il profilo. La zia strofinò le dita sulla bocca. «Il primo giorno del nuovo anno, io seppellii la mia unica bambina.»
Anna non seppe cosa dire.
«Riordina e poi esci di qui» riprese la zia, voltandosi piano verso di lei. «Non hai il permesso di frequentare questa stanza.»
«Ma il vostro è un vizio...»
«Fa’ come ti ho detto.»
«Uscirò quando avrò finito. E rientrerò, se ne avrò il bisogno. O voglia.»
«Se non ti è ancora chiara la tua nuova condizione, nipote, lasciami parlare francamente: da oggi in avanti, dovrai obbedirmi. E voglio che tu sappia che io non tollererò più una sola parola sgarbata da parte tua.»
«Altrimenti? Mi caccerete via?»
«Non approfittare della mia pazienza, Anna.»
Anna si morse il labbro. Inspirò. Sviando lo sguardo truce verso la poltrona, mosse il capo in un riluttante segno di assenso. «Va bene...» mormorò.
«Inizia col fare ciò che ti ho appena detto» concluse la zia.
E ad Anna non rimase che fissare in cagnesco la schiena della donna, mentre questa usciva dallo studio. Udì i passi, leggerissimi, echeggiare in biblioteca. E poi, lontani, nell’atrio.
Certa d’essere sola, Anna dovette far appello a tutta la propria forza di volontà per sopprimere la voglia di colpire qualcosa. E non si trattenne per amore della mobilia, ma per evitare di richiamare l’attenzione della zia.
Questa volta, non avrebbe cambiato idea. Avrebbe continuano a indagare. Avrebbe scoperto cosa nascondeva la zia e avrebbe scoperto perché lo zio aveva premuto quel dannato grilletto. L’avrebbe fatto ad ogni costo. E poco le importava di doverlo fare di nascosto dalla vecchia.
Diede le spalle alla porta e riaprì l’agenda, là dove si era interrotta. Una dozzina di pagine più tardi si bloccò alla vista di un foglio piegato in due, infilato tra le pagine datate 12 luglio 1873 e 13 luglio 1873.
Anna spiegò il foglio. Era stampato: una breve colonna di caratteri, piccoli e nerissimi.

Delitto di Gabriel’s Hill.
Alice Mallory condannata all’internamento.

Si è concluso nella mattina di ieri, 14 luglio, il processo contro Alice Mallory. Al principio del passato mese, la sventurata donna, dinanzi a testimoni increduli, in preda ad una crisi isteria confessò di aver ucciso i suoi tre figliuoli, nella sera del 17 maggio di codesto anno. Individuati nella sua persona i nefandi segni di manifesta e violenta pazzia, i giudici hanno infine condannato la donna all’isolamento, nella forma di internamento a vita, all’interno della struttura del Kent County Lunatic Asylum. Cala, dunque, un tetro sipario sull’ultimo atto della raccapricciante vicenda che tanto commosse e inorridì la nostra comunità. 

«Mallory...» sussurrò Anna. Non era lo stesso cognome del medico per il quale aveva lavorato sua zia? Ricordò le parole dello zio Woodhams. ‘Morirono delle persone. In un modo tanto terribile che non oso ripeterlo a voce alta. La storia che ne seguì fu ancora più raccapricciante. Siamo stati fortunati che, all’epoca dell'accaduto, i rapporti tra la nostra famiglia e quella del dottor Mallory fossero diventati praticamente inesistenti.’
Anna si voltò di scatto verso la porta: c’era trambusto; e proveniva dall’atrio. Udì la voce di Lily, due tonfi, una porta sbattuta.
Anna abbandonò l’agenda sullo scrittoio, ma tenne il ritaglio di giornale, nascondendolo nella manica della blusa, e corse fuori.
I Blackwell, Lily e la zia Woodhams erano nel vestibolo.
Anna li raggiunse.
La cuoca, in soprabito e guanti di  lana, annodava i nastri della cuffietta sotto al mento. Bert, col vecchio pastrano, la sciarpa penzoloni e il cappello schiacciato sul capo, teneva sotto braccio una grossa e informe borsa, con manici tenuti assieme da uno spelacchiato pezzo di spago.
La zia Woodhams assisteva senza batter ciglio.
Ma Lily si mordicchiava un pollice, ansiosa.
«Ma signora Blackwell...» pigolò. «Davvero volete lasciarci così?»
«Ci rincresce» disse la cuoca, dura. «Ma siamo rimasti fino al funerale solo per rispetto del padrone.»
«Sono liberi di andare» assicurò la zia Woodhams. «Ne abbiamo già discusso. Ma, signora Blackwell, vi rinnovo l’invito a non contagiare Maidstone, e il villaggio, con le vostre fantasie.»
«Fantasie, madam?» esclamò la signora Blackwell; un lampo di indignazione nei piccoli occhi verdi. «È stata forse una fantasia il funerale del signor Woodhams? Questa casa, signora, è maledetta. Fa impazzire le persone. Prima la povera piccola Mary. Adesso il padrone. C’è il Diavolo annidato tra queste mura, ecco cosa. E la Mietitrice acquattata alla porta.» Fece il segno della croce. «Lily, figlia mia, dammi retta: trova un'altra casa dove andartene a servizio. E voi, signorina Hawkins... oh! Se non aveste fatto meglio a restarvene laggiù, nelle Americhe. Addio, signora Woodhams. Addio. A tutte voi. Che Dio vi protegga. Bert, andiamo.»
Bert, come un mulo silenzioso, seguì la sua istrionica moglie; e insieme se ne andarono da Bon Fleur Place.
Per sempre.
La signora Woodhams riaccompagnò la porta: sembrava assolutamente tranquilla. «Molto bene. Avremo bisogno di nuovi domestici. Ma fino ad allora...» Guardò la nipote. «Anna, mio marito era dell’idea che potessi oziare impunemente a sue spese. Io penso che sia il momento che tu contribuisca al mantenimento della casa. Aiuterai Lillian con i lavori domestici. Non possiamo pretendere che si faccia carico dell’interno lavoro.»
«Purché non mi mettiate a dormire con i piedi nella cenere, signora Woodhams.»
Anna cacciò un sorriso a labbra strette, mentre la zia saliva il primo gradino della scala a chiocciola.
«Sono certa che non sarà necessario. Lillian, preparami del tè. Lo prenderò nella mia camera. Anna, il parlour ha bisogno di essere riordinato e di prendere aria. Il signor Delaney verrà nel pomeriggio, per la lettura del testamento. Voglio che la stanza sia presentabile.»
Quando la signora Woodhams sparì in cima alle scale, il sorriso di Anna si dissolse in una linea diritta. Aggrottò la fronte. Si voltò verso Lily. «Chi diavolo è Mary?»
E Lily, ancora stordita dalla inaspettata partenza dei Blackwell, le rispose con uno sguardo di affranto spaesamento.








   
 
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