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Autore: Sofja Ivanovna Tsugumi    14/08/2016    1 recensioni
La ventiduenne Zelda McCullough, brillante studentessa universitaria in procinto di laurearsi in Lettere Moderne, decide di prendersi una pausa e di lasciarsi alle spalle la caotica vita newyorkese per raggiungere l'isola di Ischia, dove, da alcuni anni, vive sua nonna Irène. In realtà, dietro l'immagine di un forte desiderio di seppellirsi in un paradiso di parchi termali e spiagge di roccia battute dal mare smeraldino ischitano, Zelda nasconde un segreto ben più profondo: quello di trovare una storia che l'aspetti e il suo intuito le sussurra che è proprio lì, che sarà sua nonna stessa a regalargliela, intatta e preziosa come un cimelio di famiglia, pulsante e sconvolgente. Il suo passato, ancora semi sconosciuto. Perché il passato è una linea accidentata e oscura e il destino una convergenza di forze tanto fragili quanto potenti. La vera domanda è: quanto è reale e necessario il ruolo dell'uomo in tutto questo?
Da un Giappone incantato squarciato dalle bombe americane e dalla povertà a una Francia dilaniata dal totalitarismo, a un'America che si lascia trasportare dalla speranza. Seguiteci in questo viaggio e tenetevi forte: niente è come sembra.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
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֍   Ukiyo – e
 


 

Parte I
 


 
 
 





Kyoto, 1930
 
 


Uno.
Buio totale e migliaia di esserini vorticanti in quel nugolo di bollicine.
Due.
Avvertì la piccola sagoma del cagnolino a pochi metri da lei, ma non riuscì a individuarla. Agitò le braccia a caso, nuotando a tentoni, e finalmente spalancò gli occhi.
Tre.
«Dove sei, piccolino?»
L’acqua bruciava i polmoni e gli occhi, e la sensazione di non farcela assumeva un colore sempre più tetro e reale. «Chissà starà pensando Vincent … e quella bambina di cui non ho nemmeno capito il nome.»
Finalmente lo scorse: era lui, piccolo e fluttuante, in procinto di perdere aria per sempre.
Quattro.
Afferrò la minuscola bestiolina con una mano.
«Resisti, piccolino. Resisti!»
I suoi polmoni supplicavano ossigeno.
Cinque.
Si schiantò contro la superficie torbida dello stagno.
Aria.
«Saguru-chan!»
La bambina non doveva essere molto più piccola di lei. Eppure, ad ogni suo urlo disperato, le si stringeva un po’ di più il cuore.
Guardò la piccola palla di pelo tra le sue braccia: tossicchiava e piangeva debolmente; se non fosse stato portato subito in un luogo adeguatamente riscaldato, avrebbe rischiato un’infreddatura non di poco conto.
«Saguru-chan!»
La bambina quasi glielo strappò dalle braccia; le lacrime le rigavano il volto delicato e gli occhi rossi sprizzavano gratitudine.
«Arigatou! Grazie, grazie …»
Irène si rese conto solo in quel momento che intorno allo stagno si era riunita una piccola folla; era sicura che le guance stessero assumendo un colore scarlatto, simile a quello delle ciliegie estive appena raccolte. Avrebbe solo voluto prendere  i suoi fratelli e scappare via di lì, lontano da tutti.
Li vide lì, insieme agli altri bambini: la fissavano stupiti, senza sapere cosa fare. Erano imbarazzati anche loro, questo lo sapeva.
«Midori, non la aiuti nemmeno ad uscire dallo stagno? Ha freddo anche lei!»
D’istinto, afferrò la mano allungata verso di lei. Era calda e sicura, le ricordava quella di suo padre quando le accarezzava il viso. Lentamente lasciò che le pupille roteassero nella sua direzione ed fu allora che notò che il suo salvatore era un bambino, l’unico peraltro che si fosse offerto di aiutarla. Non poté fare a meno di arrossire davanti al suo sorriso radioso: riscaldava perfino il ghiaccio stratificato da millenni. Non ho mai visto nulla di più bello, pensava.
«Stai bene?»
«Io? S-sì, credo … Io …»
«Sei stata un fenomeno! Se non ci fossi stata tu, a quest’ora Saguru sarebbe già crepato, e mia sorella con lui!»
«Non ho fatto niente di che.»
Rivolse il viso verso il terreno. E’ tutto troppo imbarazzante per lei.
«Sì, invece! Ripeto, grazie, grazie, grazie!» esclamò il piccolo, profondendosi in una serie di inchini che la fecero sorridere per la prima volta in quella giornata. Lo osservava di sottecchi e non riusciva a smettere di sorridere. E così, inglobò molta aria nei suoi polmoni per darsi coraggio e glielo domandò. La fatidica domanda.
«Come ti chiami?»
«Akira. Maeda Akira.»
Nel tono con cui pronunciò il suo nome, Irène percepì chiare note di orgoglio. Non sapeva ancora bene cosa fosse, né a cosa potesse portare, ma poteva sentirlo e vederlo. In quell’attimo, l’orgoglio le si presentò come una pennellata su un vaso rifinito. Non poteva prevedere, tuttavia, che quella pennellata si sarebbe sbiadita con il passare degli anni.
«E tu, come ti chiami?»
«Ehm, Irène. Irène Kauffmann.»
Akira aggrottò le sopracciglia.
«E-Eirené?»
«Irène,» sillabò ancora la piccola, ma dato che un simile nome sfuggiva completamente alla logica di quel bambino dell’altro capo del mondo, gli disse che sì, si chiamava Eirené, che in fondo andava bene lo stesso perché sua madre la chiamava così. Ma, nonostante provenissero dagli antipodi del pianeta, nonostante non conoscessero ancora un codice linguistico con cui comprendersi appieno, accadde un evento straordinario: si strinsero la mano e l’indomani, in quello stesso posto, giocarono a rubarsi il pallone a vicenda. Spesso, le parole sono prolisse e superflue. Irène sentiva di avere qualcosa in più da spartire con quel bambino di qualche anno più grande di lei, che tracciava i kanji con un pennello zuppo d’inchiostro nero sulle carte, risolveva mentalmente più calcoli del normale e l’aiutava a leggere, lasciando scorrere il dito sotto le parole. A volte, sussurravano alcuni segreti importanti l’uno alle orecchie dell’altra, poi ci ridevano sopra con quella leggerezza propria della loro età. Quando Akira compì dieci anni, Irène gli regalò un orologio. «Ti servirà per tenere sotto controllo lo scorrere del tempo» gli spiegò con fare importante.
«Forte!» esclamò Akira lasciandolo scorrere tra le dita, estasiato. «Ma come hai fatto a trovarne uno così? Non ho mai visto una cromatura con le costellazioni sopra! Aspetta, c’è anche l’acquario!” Gli occhi color onice brillavano, colmi di meraviglia ed entusiasmo.
«E’ un segreto!»
 Ci sono momenti in cui il corso del tempo è segnato dalle parole come da un marchio infuocato appena estratto dalla carbonella della brace. Entrambi non compresero subito quanto valore avesse il loro peso, ma Akira conservò quell’orologio tra i suoi averi più cari e poco tempo dopo iniziò ad indossarlo.
Quando invece li compì lei, i dieci anni, il suo migliore amico si presentò a casa con un pacchetto piuttosto grande avvolto in carta color cremisi. Tralasciando un cavallino di legno che suo nonno materno aveva intagliato nel legno d’ulivo apposta per lei alcuni anni prima, la bambina non aveva mai ricevuto un regalo così grande e difficile da tenere nel palmo di una mano.
Non ebbe il coraggio di scartarlo subito: percepiva una strana energia provenire dal suo interno.
«Aspetta Riri-san, ti aiuto io.»
Timorosa, la bambina lasciò che Akira l’aiutasse e, quando l’involucro fu accuratamente smosso, una stampa di dimensioni notevoli, i cui bordi erano attraversati da sottili infissi in bambù, apparve davanti ai loro occhi.
«Noi li chiamiamo ukiyo-e. Non è stupendo?» disse il ragazzino, un sorriso compiaciuto stampato in volto e gli occhi che brillavano.
Effettivamente, Irène ammise di non aver mai visto una stampa così meravigliosamente dipinta, i cui colori brillanti e delicati di acquerello si stagliavano nella luce come forme viventi generate dall’unione di miliardi di idee.
Ukiyo-e.
Mondo fluttuante, dal ritmo avverso a tutto ciò che stagnava fuori dai suoi ritmi interni.
Un mondo i cui sentieri furono percorsi da Irène con lo stesso ardore e passione di una farfalla appena liberatasi dello scomodo bozzolo del bruco e impaziente di inghiottire il mondo dentro di sé. Per pochi attimi, la bambina si abbandonò al ritmo ondeggiante dell’ukiyo-e e divenne anche lei prima bruco, poi farfalla, mimentizzandosi tra i cardellini color bronzo che cinguettavano appollaiati sui rami tinti di nero dei ciliegi in fiore e tra le vesti della bambina, della ragazza e della donna che vivevano in quell’universo apparentemente privo di profondità visiva.
«Ho visto quella bambina e ho pensato subito a te,» dichiarò Akira, osservando da lontano lo strano viaggio mentale della sua compagna di giochi e avventure, desideroso di prendervi parte e allo stesso tempo consapevole di violare l’accesso al suo mondo interiore.
«Grazie, Akira-san. Lo appenderò nella mia cameretta, così lo sognerò tutte le notti! Ma … dove lo hai trovato?»
«Be’, è un segreto!» replicò Akira con un sorriso furbo, strizzandole l’occhio.
Istintivamente, sentì l’impulso di abbracciarlo, ma sua madre era nei paraggi e il pensiero che potesse vederli la fece arrossire. Ma poi avvertì le braccia di Akira che le si stringevano attorno e allora gli circondò la vita con le sue e posò la testa sulla sua spalla, senza pensarci due volte.
«Buon compleanno, Riri-san,» sussurrò il ragazzino.
«Vorresti venire con me lì dentro?»
«Ma solo tu puoi farlo.»
«Ti prego!»
«E va bene, verrò con te.»
Un sorriso spontaneo nacque sulle labbra di Irène.
 
 
 
   
 
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