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Autore: Cottage    15/08/2016    2 recensioni
Una banconota da 100 Pokè oscillava costantemente davanti ai miei occhi. "Ecco, questa è una cosa sospetta" avevo quindi detto, a Daisuke, il quale l'aveva già superata, non badandoci e dicendo "Sbrigati che siamo quasi arrivati"
Io, per tutta risposta, avevo sorriso, ridendo della mia distrazione "Hai ragione, scusa, si vede da lontano un miglio che questa è una trappola!" Quindi, dal nulla, erano scese altre banconote da 200 e 300 Pokè. "Oh, beh, direi che questo è un gran colpo di fortuna" Avevo ammesso, cambiando idea a facendo voltare un Daisuke stupito. Il mio lato taccagno aveva preso il sopravvento. Sembravo una bambina a cui la mamma aveva comprato un sacchetto di caramelle. Tante caramelle.

Madeleyne, Maddy, Madd-madd, chiamatela come più vi sembra comodo, è una ragazza normale (?), leggermente sarcastica e taccagna, che da un giorno all'altro decide di diventare allenatrice di Pokèmon e partire per una nuova regione.
In questo lungo -sì, si preannuncia lungo- viaggio incontrerà amici e nemici, persone divertenti e strambe e capirà che, dopotutto, stare chiusa in casa non è poi così divertente…
Genere: Avventura, Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga, Videogioco
Capitoli:
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~ Nella pancia del Gyarados ~

 

Daisuke aprì la bocca.
Io sbattei le ciglia con tanto di sorrisino nervoso.
Poi corsi via in preda al panico, balzai sul parapetto e mi scaraventai dritta verso il Gyarados.
 
 
Naturalmente non riuscii a centrare in pieno l’enorme cavità che aveva per bocca, ma questo un po’ me lo aspettavo. In compenso mi spiattellai contro uno dei suoi corni con tanto di accompagnamento musicale.
 
Reginald, colto alla sprovvista, perse la presa, lasciando libero il serpente marino. Prima che esso si rituffasse in acqua, strisciai fino al limite della sua capoccia e, dopo una veloce occhiata circospetta per controllare ciò in cui stavo per entrare (e no, no, no, non era abbastanza sicuro ed era una pessima idea e quel coso puzzava e se avessi battuto la testa o mi fossi rotta qualcosa o—) mi lasciai cadere dentro, pregando le divinità di Johto, Hoenn e Sinnoh di avere pietà e di non farmi morire nella discesa.
Mi domandai se anche i pokemon avessero delle divinità e, giusto per essere politicamente corretta, supplicai anche quelle.
 
E la cosa parve funzionare, perché durante il mio capitombolo non incontrai nessuna sporgenza metallica ad attendermi, ma solo dell’acqua. Acqua la cui temperatura siderale stava rapidamente penetrando nel mio corpo, abbracciandolo come una camicia di forza.
Riemersi sputacchiando e scalciando, nella speranza di scrollarmi di dosso quella morsa e restare in superficie: compito che si stava rivelando alquanto difficile, dato che il Gyarados, che probabilmente se n’era ritornato nelle profondità del laghetto, sembrava non avere alcuna intenzione di chiudere la sua dannatissima bocca ed interrompere così il continuo flusso d’acqua che minacciava di travolgermi.
 
Dopo un’infinità di tempo passato in quelle condizioni disastrose, il robot riemerse: l’acqua sgorgò fuori dall’androide, il posto venne irradiato da pochi fasci di luce e le mie orecchie furono pervase dai suoni distorti, ma per niente invitanti, di ciò che stava accadendo all’esterno.
Nel mio stato confusionale, cercai disperatamente un appiglio, ben conscia della pesantezza che stavano assumendo le mie gambe e di quanto in fretta stessi perdendo la percezione del mio corpo.
Trovai il mio appoggio in un tubo a forma di ‘U’ attaccato alla parete. Dopo svariati tentativi – troppo scivoloso – riuscii a sedermi su di esso, tenendomi alle estremità verticali come se si trattasse di un’altalena.
 
Quando sollevai lo sguardo, per poco non rischiai di scivolare giù dalla mia sedia improvvisata: di fronte a me, ancorato alla parete opposta del robot, vi era un vecchietto.
Era di un pallore quasi spettrale, adagiato anch’egli su una sporgenza che, nel suo caso, era più un insieme di leve, manopole, e cavi che gli si erano aggrovigliati attorno, a mo’ di gabbia. Con una mano stringeva uno di questi, con l’altra una chiave a pappagallo. Intravidi dei luccichii fare capolino fra le folte sopracciglia e la barba.
Il mostro si mosse e lo scossone che seguì mi costrinse a rafforzare la presa sul mio tubo. L’uomo, invece, rischiò di scivolare giù dalla sua piattaforma, ma venne salvato da alcuni cavi, che lo lasciarono però in una posizione alquanto precaria.
Invece di allungare una mano e tirarsi su, il vecchio non si mosse. La sua gamba destra, che ciondolava sfiorando la superficie dell’acqua, mi ricordò quella di un bambolotto rotto. Mi accorsi solo allora delle labbra blu e dei cristalli di ghiaccio che avevano intaccato sia la sua peluria facciale che la sua divisa; la stessa divisa che avevo visto essere indossata dagli addetti del Luna Park.
Per un istante rimasi immobile, vedendo ciò che mi stava davanti senza comprenderlo. Poi mi ritornò in mente la capopalestra – che non perdeva i suoi modi vanitosi e regali nemmeno in faccia al pericolo – e mi accartocciai su me stessa, portandomi una mano alla bocca per contenere un verso strozzato.
Avevo trovato il nonno di Momoka; ma troppo tardi.
 
Nella mia testa vorticavano domande spezzate e senza risposta – Cosa ci fa quaggiù? Cos’è successo? Finirò anch’io così? Come glielo dico a Momoka? – che mi fecero venire il voltastomaco. Avrei voluto urlare, ma il freddo doveva aver intaccato pure le mie corde vocali, perché esse si rifiutarono di cooperare, facendone uscire solo un flebile piagnucolio.
Il vecchietto spalancò gli occhi di scatto, e allora che riuscii a gridare.
 
Dopo aver lanciato un grido di battaglia che rimbombò per tutto il Gyarados, l’uomo si avventò contro di me brandendo la chiave. Peccato che lui fosse dalla parte opposta della – gola? Stomaco? Retto? – del mostro, perciò cadde in acqua con un tonfo.
Riemerse pochi secondi dopo e si tirò nuovamente a sedere sul suo groviglio di tubi.
Tossicchiando – non sapevo se per schiarirsi la voce, sputare un po’ d’acqua o nascondere l’imbarazzo –puntò su di me i suoi occhi, che brillavano di un desiderio quasi… famelico?
“Devo ammettere che sei astuta.” Gracchiò.
 
Eh?
 
“Ma questo non ti permetterà di salvarti. Non ha salvato me, che ho costruito questa macchina infernale, e non aiuterà nemmeno te. C’è solo un modo per sopravvivere in queste condizioni…”
Chiuse e dischiuse la sua chiave a pappagallo.
“Uno di noi mangerà l’altro.”
 
Sbattei le ciglia più volte, inclinando la testa di lato.
“Uno di noi…che?”
“Oh, non ti preoccupare. Dopotutto, sono un tipo onesto, io.” Il vecchio si stiracchiò. “Possiamo giungere ad un accordo. Stabiliremo in anticipo chi dovrà cedere una parte del suo corpo per sfamare l’altro, e in quali giorni.” Con fare pensieroso, prese ad arricciarsi la barba gocciolante con un dito. “Preferirei iniziare con la tua gamba destra, se non ti spiace. Mi sembra bella grassa.”
 
Gli sorrisi.
Okay. Devo aver picchiato la testa mentre cadevo, ed ora sono svenuta e sto affondando all’interno del Gyarados.
Ma, non appena mi pizzicai il braccio, scoprii di essere ancora seduta su un tubo, fradicia e davanti ad un vecchio convertitosi al cannibalismo. Quella realizzazione mi portò a cercare una sporgenza abbastanza acuminata con cui infilzarmi: la situazione era divenuta troppo surreale, persino per i miei standard. Ma, non trovando nulla di simile, dovetti rassegnarmi a parlare con il matto.
 
“Senti.” Alzai un dito, tenendo d’occhio i movimenti dell’individuo belligerante. “Innanzitutto, non sono sicura che mangiare carne cruda faccia bene alla salute.”
“Bah, è questione di sopravvivenza! Beartic Grylliz lo fa sempre nel suo programma!”
Cercai di scacciare dalla mia testa le immagini del Beartic di Frost indossante uno zaino, una giacca a vento e brandente un macete.
 “Secondo: probabilmente creperemmo dissanguati prima di poterci sfamare.”
“…la speranza è l’ultima a morire.”
Sospirai. Era meglio tornare al piano ‘Uccidi il Coso dall’Interno’.
“Terzo: hai mica visto un cuore robotico?”
Il tizio si tolse il cappellino verde con visiera per grattarsi la testa.
“Non mi ricordo di averlo costruito. Cosa vai blaterando, giovine?”
 
Oh. Dannazione!
 
“E non c’è nessun pulsante di autodistruzione, qua dentro?”
A quel punto il signore aggrottò la fronte.
“Dopo tutta la fatica che ci ho messo per costruire questa meraviglia tecnologica, credi davvero che rischierei di mandare tutto a monte per costruire un tale congegno?”
Dalle labbra mi sfuggì una sottospecie singhiozzo. Il robot cigolò in modo lugubre, quasi fosse divertito.
 
Volevo fermare il Gyarados. Dovevo fermare il Gyarados. Gli altri ormai si aspettavano quello, e non volevo di certo deluderli. E invece, invece…
Seppellii le mani sotto il cappello, tirando i miei capelli scompigliati.
E invece non soltanto non posso farci nulla, ma adesso sono pure bloccata!
 
“Umh, ah…” Il vecchio spiegazzò nervosamente il berretto. “Ho capito, niente gamba. Preferisci iniziare da una bella costina? Non sembra, ma sono piuttosto sostanzioso in quella zona.”
I cigolii divennero più stridenti, andando a formare una sottospecie di risata cavernosa. Oh, potevo quasi sentirlo, interrompere il suo atto di distruzione solo per potersi prendere gioco della nostra patetica situazione.
 
Senza cervello…”
 
Lanciai un’occhiataccia al rincitrullito, pronta a fargli rimangiare le sue stesse parole. Ma lui, facendo finta di niente, giocherellava con le piccole stalattiti che pendevano dalla sua barba.
 
Stupida…”
 
Gonfiai le guance, irritata. “Hey! Dimmelo in faccia, almeno!” Gli puntai contro un dito accusatore.
Lui si grattò la nuca con fare confuso, farfugliando: “Non… non ti piacciono le costine?”
Fu il mio turno di sentirmi incerta. Ma prima che potessi ribattere, lo sentii di nuovo bofonchiare.
 
“Sciocco umano… battuto la testa più forte del previsto…
 
Mi irrigidii, sentendo un brivido attraversarmi la colonna vertebrale.
E stavolta non era dovuto al freddo.
 
Leccandomi le labbra screpolate, provai ad indagare.
“Hai… hai detto qualcosa?”
“Oltre al menù di oggi?”
Alzai gli occhi al cielo.
“Yep.”
“Non proprio.” Scosse la testa. “Stavo pensando a cosa poter bere. Non sono sicuro che quest’acqua sia potabile per noi, quindi—” Il vecchio stava per aggiungere qualcosa, ma io sollevai una mano, accennandogli di fermarsi. Fortunatamente avevo a che fare con un signore piuttosto compiacente che, seppur nel suo stato confusionale, si limitò ad accennare un ‘OK’ con le dita senza fare domande.
Gli unici suoni che ora riuscivo a percepire erano gli scricchiolii causati dai componenti delle articolazioni del Gyarados e qualche tonfo proveniente dall’esterno. Fu solo con grosse difficoltà che individuai il mormorio di sottofondo.
 
Gli mancano… traveggole.”
 
Cercando di fare meno rumore possibile, scivolai nell’acqua e mi mossi in direzione del suono.
Giunsi alla parete laterale, e, dopo aver perlustrato la superficie nella semi-oscurità, le mie mani entrarono in contatto con un rilievo dalla forma rettangolare, grande circa quanto una tela da disegno. Lo illuminai con il Pokedex – wow, era anche impermeabile! – e su di esso lessi la scritta ‘Danger’, con sotto ‘High Voltage’.
Molto rassicurante.
 
Senza volerlo, premetti il pulsante ‘Play’ di Dexi. Lo strumento lampeggiò un paio di volte, facendomi venire un infarto: poi, sulla schermata si formò l’immagine di un peluche fuligginoso. Sulla sua testa facevano capolino tre regioni più appuntite, quasi come delle piccole corna, mentre il resto della stoffa ricadeva dietro di essa, formando un codino terminante a zig-zag. Aveva anche una coda di color giallo marcio, e di quella colorazione era anche quella che aveva tutta l’aria di essere la sua bocca: una grossa cerniera chiusa, inarcata in un ghigno perenne.
Sotto la foto, in grassetto, si compose la scritta: “Banette. Pokemon Marionetta. Un peluche divenuto Pokémon per il rancore di essere stato buttato via da un bimbo, di cui è alla ricerca.
 
Rabbrividii.
Meraviglioso. Un altro fantasma assassino.
 
“Se la babbuina non si sposta al più presto, ingoierò altra acqua fino ad annegarla. Non posso lavorare con questo tanfo.”
 
Assassino e maleducato.
Bussai al pannello metallico che – se la mia intuizione non mi stava tradendo – doveva contenere il pannello di controllo del Gyarados meccanico, ed il mormorio s’interruppe all’improvviso.
Aprii l’anta: all’interno non c’era nessun peluche, solo qualche leva e bottone.
La voce riprese, con una punta di seccatura.
“Idiota. Crede che prendendo il controllo dei comandi, possa far qualcosa per fermare questo mucchio di ferraglia arrugginita.”
Mi appesi al pannello, stufa di dover muovere le gambe per stare a galla.
“Nah. Dubito che possano funzionare, non essendo alimentati da corrente elettrica.”
Il Banette non rispose. Scossi la testa, delusa.
“Inutile far finta di niente, tanto lo so che sei lì dentro.”
“No, sono qui!” Dall’altra parte del robot, il vecchio sventolò in aria la sua chiave a pappagallo.
Mi passai una mano sulla faccia. “Non lei. Il Banette.”
“Ah.” Un secondo dopo, fece un sorriso stralunato e balzò in piedi. “Perfetto, altra carne!”
 Volevo piangere.

“Ugh!” L’anta a cui mi stavo appendendo vibrò. “Smettila! Neanche uno Skuntank riuscirebbe a sprigionare tale fetore!”
Correzione: volevo prendere il Banette per il collo, affogarlo e darlo in pasto al nonnetto affamato. Tanto dubitavo sapesse cogliere la differenza fra carne e cotone.
“Lo farò non appena la smetterai di cercare di ucciderci.”
 Il robot scricchiolò.
“… e allora annegherai.”
 
Il mondo si ribaltò e l’acqua sommerse tutto. Se non mi fossi tenuta stretta alla maniglia dell’anta, la corrente mi avrebbe trascinato giù nelle profondità del Gyarados. Diedi un’occhiata alle mie spalle, ma non vidi nessuno: il vecchio non era stato così fortunato. Mi si formò un groppo in gola.
Era difficile restare a galla, con tutti i movimenti in cui il robot si destreggiava. Erano più le volte in cui ingoiavo acqua, che non quelle in cui riuscivo a prendere un piccolo respiro. Notai con orrore che il livello di questa stava salendo, e che le prossime ondate mi avrebbero completamente sommerso.
“Piantala! Perchè—”. Inghiottii dell’acqua ghiacciata. Fra i colpi di tosse riuscii a sputar fuori: “Non ti abbiamo fatto nulla!”
Il Gyarados rallentò.
Nulla?” Era quasi un sibilo, ma ero abbastanza vicina da poterlo distinguere. “Nulla!? Uno di voi mi ha abbandonato! Mi ha gettato via come spazzatura senza nemmeno un minimo ripensamento!” Mi risuonarono nella mente la parole del profilo fornito dal Pokedex.
“Non siamo stati noi! Non ti abbiamo mai visto!” Gli gridai di rimando.
“Sciocchezze! E se anche fosse così, tutti gli umani sono ottusi e crudeli! Voi non siete l’eccezione!
“Gli spettri non sono da meno!” Ribattei, alzando il tono di voce. Ormai quella si era trasformata in una battaglia a chi urlava più forte. “Tu non sei da meno! Te la stai prendendo con noi solo perché non sei ancora riuscito a trovare il tuo vecchio padrone! Sei egoista e insensato!”
Io? Insensato?
L’acqua ricominciò ad ondeggiare con vigore, infrangendosi contro le pareti.
“E’ vero, non l’ho ancora rintracciato. Ma non importa: ho molto tempo a mia disposizione. Più tempo di quanto tu possa immaginare.” Lo spettro emise un basso ringhio. “Fino ad allora, farò soffrire tutti coloro che avranno la sfortuna di incrociarmi per strada: lui sarà sicuramente uno di loro.” Il Gyarados scricchiolò, a metà fra il gemito e la risata. “Siamo destinati a rincontrarci!”
“Tu! Sei! Malato!” Sbottai, stringendo i pugni fino a sbiancarli. Erano intorpiditi dal freddo, ma quasi non ci feci caso.
 
Quante persone erano già state ferite per colpa dell’odio male indirizzato di quel pupazzo?
 
“Ci sono altri modi per affrontare la questione, ma forse il tuo cervello è talmente appesantito dall’ovatta da non riuscire a vederli.” Un’onda per poco non mi fece mollare la presa. “Vattene via! Smettila di far del male a me ed ai miei amici!” E Frost. Certo. Pure lui.
Ma il Banette non voleva sentire ragioni.
“Non ti preoccupare, il tuo dolore durerà poco. Il loro?” La voce si incrinò, quasi non riuscisse più a contenersi. “Fidati: nessuno sarà in grado di riconoscere che i loro resti, una volta, erano appartenuti a degli esseri umani!”
Il chiasso proveniente dall’esterno venne soffocato dal suo sghignazzare, rimbombante fra le pareti metalliche. Dapprima grave, in breve tempo divenne più uno stridio cristallino, per poi andare completamente fuori controllo. La risata finì con lo sdoppiarsi, acquisendo un tono che di umano non aveva proprio nulla.
Mi morsi il labbro. Poi tirai un pugno ai comandi.
 
Chiusi gli occhi, sapendo che come minimo mi sarei ritrovata con qualcosa di dislocato, o, almeno, indolenzito. Ma, con mia sorpresa, invece di trovare resistenza, colpii qualcosa di morbido; l’istante dopo l’avevo già agguantato e trascinato vicino al mio volto.
Socchiusi le palpebre, osservando ciò che mi stava di fronte: un’ombra nera, la cui unica parte del corpo chiaramente visibile erano gli occhi, lievemente luminescenti. Occhi spalancati che non osavano distogliersi dal mio sguardo inferocito.
Dal Banette caddero delle gocce, ma non sapevo dire se si trattasse dell’acqua con cui l’avevo bagnato quando l’avevo colpito, o di sudore. Sperai vivamente per lui che fosse quest’ultimo.
“Ho detto…” Strinsi la presa attorno al suo collo. Il pokémon cercò di deglutire, con scarsi risultati. “Smettila di far del male a me ed ai miei amici.”
 
Le gocce di quel che avevo ormai appurato essere sudore scivolarono per tutta la lunghezza del mio braccio. Il Banette, che per l’ultima manciata di secondi era stato troppo sbigottito per agire, abbassò lo sguardo sulla mano che gli stringeva il collo. A quel punto, come se il suo cuore avesse finalmente ripreso a battere, la stoffa iniziò a pulsare. Il suo corpo, con ogni palpito, diventava sempre più scottante.
Non avvenne nient’altro. Nessun tentativo di liberarsi, nessun attacco improvviso. Eppure mi ritrovai a trattenere il respiro, quasi fossi io quella ad essere tenuta per il gola.
La creatura alzò il volto con una lentezza quasi sacrale, e mi accorsi che i suoi occhi, dal tenue alone rosato iniziale, si erano ridotti a fessure rosse, brucianti di talmente tanto rancore che mi parve quasi impossibile che potesse essere contenuto in un corpo così piccolo.
Mi sentivo di nuovo una bambina di dieci anni.
 
“D’accordo.” Decretò. Ma per quanto la sua voce potesse essere piatta e attenuata dalla cerniera, fu impossibile evitare di essere colpiti dal suo tono di comando, quando sibilò, “Toglimi le mani di dosso.”
Lo mollai. Il Banette si appese alle mie dita e, con uno slancio, atterrò in piedi sul mio braccio. Incrociò le zampe in modo assai poco compiaciuto, alzando il capo quanto bastava per mettere in risalto la sua superiorità.
Dopo avermi studiato per una decina di secondi – durante i quali il vecchietto era con tutta probabilità annegato – pronunciò proprio le parole che mai più avrei voluto sentire.
 
“Ti propongo un accordo.”
 
Feci un verso a metà fra il lamentevole e l’annoiato. La cosa si stava facendo piuttosto ripetitiva.
“La passione per i patti è una prerogativa dei pokemon deceduti o…?”
“Solo di quelli che decidono di risparmiare gli insulsi umani che hanno la geniale idea di mettersi contro di loro.” Prese un grosso respiro, poi mi puntò un dito addosso. “Tu vuoi che io smetta di attaccare gli umani.”
“Beh, in realtà mi riferivo solo a Daikke, alla marmocchia e—“
Io, invece, ho bisogno di qualcuno che mi aiuti nelle mie ricerche. Possiamo assisterci a vicenda.”
Aggrottai la fronte. “Cosa dovrei fare, andare in giro con una maglietta riportante ‘Chiunque abbia mai buttato via un peluche mi segua, sarà una morte rapida e indolore’?”
Il Banette assottigliò lo sguardo, forse a causa della parola ‘peluche’, forse per l’idea in generale. Dalla sua zampa si liberarono una dozzina di nastri color inchiostro, che andarono a mescolarsi in una sfera levitante sopra al suo palmo.
“Se le condizioni non ti aggradano, posso sempre riprendere il controllo di quest’ammasso di ferraglia e schiacciarvi come formiche. Ma non sarà né ‘veloce’ né ‘indolore’, su questo ci puoi contare.”
Mi mordicchiai il labbro, domandandomi come mai gli unici pokemon con i quali potessi comunicare fossero anche gli unici affetti da impulsi omicidi e dal pessimo caratteraccio.
 
Senza staccare gli occhi dalla palla fluttuante, cercai di valutare i pro e i contro dell’offerta, come una qualsiasi persona razionale e non-affatto-intimorita-dalla-bambola-assassina-che-in-quel-momento-sembrava-intenzionata-a-trasforarmi-in-cheddar.
Poi il vecchietto infranse con un urlo la superficie dell’acqua, lamentando a destra e a manca di avere non uno, ma ben due crampi per ogni gamba (“AH! Ne è arrivato un altro! Stupida rotul— blubble blub bluubl”) e presi ad annuire convulsamente.
Il Banette dissolse la sfera con un unico schiocco di dita sofficiose e sogghignò. O forse no. Difficile dirlo, dato che la sua bocca era una cerniera arrugginita le cui estremità erano perennemente sollevate. La zip dondolò per qualche secondo, prima di trascinarsi per tutta la lampo, dischiudendola per pochi attimi.
“Ti terrò d’occhio.” Con un ultimo sguardo di avvertimento, mi saltò addosso, costringendomi a serrare le palpebre. Quando non avvertii alcun impatto, le socchiusi, osservandomi attorno guardinga: ma del Banette non c’era più traccia.
E a giudicare dagli scricchiolii ben poco rassicuranti, anche il Gyarados sembrava averlo percepito. Allungai un braccio davanti a me, in modo da raggiungere i comandi del robot. Non poteva essere più difficile che giocare alla Wii.
Rinunciai a quel piano non appena le pareti metalliche presero a squarciarsi in dozzine di lamine seghettate e deformi. Getti d’acqua si riversarono all’interno di ciò che restava, e, impallidendo, mi accorsi che stavamo affondando. Si aprì un’altra falla, e un geyser orizzontale mi colpì al petto, facendomi mollare la presa sul mio unico sostegno.
 
Non avevo mai preso in considerazione la possibilità di morire annegata nel lago artificiale di un Luna Park governato da un ingegnere cannibale, perciò mi ritrovai in un primo momento a boccheggiare nella semi oscurità. Mi ripresi non appena sentii un lieve torpore provenire dalla tasca: poco dopo, con un fascio di luce rossa, mi si piazzò davanti Wooper, sorridente come al solito. Lo afferrai per la coda, indicandogli a pochi metri da me il vecchio che si stava ancora dimenando per aver salva la vita; il pokemon allargò la bocca in un sorriso sdentato, e si lanciò in direzione delle profondità lagose con un ‘Wooooop!’
… senza combinare un bel niente.
 
Bloccati. Eravamo bloccati.
Perché il mio unico cavolo di pokemon acquatico era grosso all’incirca quanto la mia testa.
Gli strizzai la coda, pronta a passare al suo collo, quando il dannato si mise a sputare fuori qualche bolla, divertito. Con uno scatto che avrebbe fatto mangiare plancton ai cetrioli marini, gliela strizzai di nuovo, scatenando la stessa reazione.
Il mio petto sembrava essere sul punto di esplodere, e mi lasciai scappare un bel po’ del mio prezioso ossigeno. Ma non demorsi: riversai tutta la mia irritazione sulla coda di Wooper, immaginandola una specie di viscido anti-stress, e presi a spremerla con un ritmo sempre più incalzante. In una manciata di secondi venimmo circondati da un turbine di bolle così fitto da non riuscire a vedere nient’altro, e il Wooper scattò all’indietro, trascinandomi con sé a tale velocità da farmi sospettare di essermi dislocata una spalla nel processo.
Da lì in poi non ho la più pallida idea di ciò che avvenne. Sapevo soltanto che i miei occhi avevano iniziato a bruciare con l’intensità di dieci fiamme ossidriche, per cui mi assicurai di tenerli ben chiusi per tutto il tragitto. Non li aprii nemmeno quando Wooper mi portò a sbattere contro il vecchiaccio, che, nella fretta, agguantai alla bell’e meglio usando la mano libera.
 
Non so per quale miracolo, ma riuscimmo a raggiungere la superficie completamente illesi.
Schizzammo fuori dall’acqua, lasciandoci addietro un arco di bolle tralucenti che, riflettendo la luce artificiale della sala, assunsero sfumature caleidoscopiche.
Nonostante il freddo, la stanchezza e gli arti doloranti, il mio volto trovò la forza per formare un sorriso a quarantadue watt.
Sto cavalcando un arcobaleno di bolle!
Mi sentivo leggera, aggraziata e la persona più potente del mondo.
 
E poi cademmo parallelamente al bagnasciuga, ruzzolando fino a risalire l’intera spiaggia. Nel tragitto avevo perso la presa sui miei colleghi arcobalenauti, ma c’erano ben altre cose di cui preoccuparsi— come il fatto che i miei capelli stessero andando incontro ad un processo di alghificazione, che la sabbia fosse riuscita ad infilarsi dappertutto – nei vestiti, nelle narici e pure nelle orecchie – e che il mio corpo avesse preso a tremare come se percorso da una scarica elettrica. Ma ciò non mi fermò dall’esclamare a pieni polmoni.
“SONO VIVA!”
Come richiamato dall’epicità del momento, Wooper atterrò ad un metro da me e cominciò a saltellare come un pesce fuor d’acqua.
“Sono viva e vegeta e la nuova signora degli arcobalen—” Non riuscii a finire la frase, che venni colpita da un attacco di tosse. Wooper si spiattellò sulla mia faccia, facendo piccoli versetti di approvazione. Nonostante avessi intuito – o meglio, mi costrinsi a credere – che le sue azioni derivassero dal suo desiderio di incoraggiarmi, non fece altro che peggiorare la situazione, e oltre all’acqua mi ritrovai a sputare pure muco.
Cercai di vedere il lato positivo. Perlomeno adesso sapevo con certezza che le cosce di rana non sarebbero mai state uno dei miei piatti preferiti…?
Ero così presa a rimuginarci sopra che non mi accorsi che Wooper si era improvvisamente dileguato.
 
“Serve una mano?”
Tirai su col naso, notando solo allora la figura che si stagliava sopra di me, in controluce. Aveva i capelli rossi ed un piccolo neo al di sotto della palpebra inferiore dell’occhio destro. Un cagnolino rosso faceva capolino da dietro le sue gambe. Wooper ciondolava a testa in giù, tenuto in aria per la coda.
“Allora, ‘signora degli arcobaleni’?”
Il mio cervello – che era stato troppo impegnato a domandarsi come avesse fatto quella coda a non staccarsi, dopo tutti gli abusi che si era dovuta sorbire – ricominciò a computare. Gli puntai contro l’indice, esclamando: “J-Jackpot!”
“Il solo e unico!” Mi offrì un sorrisetto divertito, per poi tirarmi su. Appena le nostre mani entrarono in contatto, tutte le domande che mi frullavano in testa – Dov’è Désirée? Da piccolo giocavi mica con dei brutti peluches? Sei stato licenziato un’altra volta? Hai mai provato le cosce di rana? Come sei arrivato qui? Per caso sai quanto è resistente la coda di un anfibio? – svanirono in un puff, e al loro posto affiorò nella mia mente un’unica parola, ripetuta più e più volte.
 
Caldo.
 
“Cavoli, sei fradicia!”, lo sentii fischiare, “Ti conviene tornare al Centro Medico, se non ci tieni a prenderti un malanno…”
 
Caldo.
 
“Daisuke mi ha raccontato tutt— beh, non proprio tutto. Infatti, emh, si è solo soffermato su quanto fosse stato incredibilmente stupido da parte tua lanciarti nelle fauci di un Gyarados imbizzarrito, ma…” I suoi occhi tradirono un certo diletto. “Ah, ancora non ci posso credere! Non so se ritenerti coraggiosa o semplicemente pazza!”
 
 È così caldo.
 
Staccò la mano.
Prima non mi ero resa conto di quanto stessi congelando. Ora ogni briciolo del mio corpo pretendeva di riacquistare i gradi che gli erano stati sottratti.
"A proposito, credi di poterti riprendere questo marmocchio?" Sventolò Wooper avanti e indietro, facendolo gocciolare dappertutto. Da un lato della bocca del pokemon pendeva un rivolo di bava, che Jack adocchiava preoccupato. "Non che non mi piaccia, certo. Ormai io e lui siamo amici di vecchia data, compagni di esplorazione fognaria, ma…"
Già mi risultava difficile seguire un discorso in condizioni normali senza distrarmi, figuriamoci ora che avevo i vestiti completamente zuppi e la temperatura corporea di un elfo di Babbo Natale.
"Emh, Madeleyne… stai bene?"
Avrei voluto parlare, dirgli “Ehi Jack, non so se te ne sei accorto ma fra poco avrò tutte le qualifiche necessarie per poter competere nella Gara delle Sculture di Ghiaccio e vincere!”, ma con la rapidità con la quale avevano preso a battermi i denti, temevo di tranciarmi la lingua di netto. Mi pervenne la mezza idea di ributtarmi in acqua. Forse mi avrebbe risparmiato dal supplizio che stavo provando.

"Ah, ho capito. Aspetta un secondo!"
Un attimo dopo sentii qualcosa cingermi le spalle. Strabuzzai gli occhi, accorgendomi che Jack mi aveva appena circondato il busto con il suo giubbetto smanicato. Annuii e, abbassando lo sguardo per l’imbarazzo, feci passare le braccia attraverso gli appositi fori.
Jack sorrise.
"Adesso?"
"V-va un po' meglio. Anche se così non potrò più coronare il mio sogno di diventare un pupazzo di neve." Cercai di guardarlo negli occhi, ma non ci riuscii. Così mascherai il tentativo facendo ritornare Wooper nella sua pokéball.
"Mmh." Il rosso socchiuse gli occhi e si grattò il mento con fare emblematico. "Eppure manca qualcosa."
Si guardò attorno, fin quando non si accorse di Growlithe, che fino ad allora era rimasto al suo fianco senza dare nell'occhio. Sia io che lui ci accorgemmo dell'espressione malandrina che aveva assunto il volto di Jack, ma il cane di fuoco non riuscì a fare nemmeno un passo che l'altro lo aveva già preso e sollevato fino a portarlo davanti a me.
"Uuh… "
Io e il Growlithe ci guardammo interdetti. Jack me lo spinse più vicino.
"Il pelo di Roy è caldissimo, meglio di una stufa." Mi strizzò l'occhio, come se fossimo in combutta. "È un tenerone, non ti morderà."
Con un po' di titubanza presi il cagnetto per i fianchi. I miei dubbi si volatilizzarono l’istante successivo: era come tenere una soffice, morbidosa borsa dell'acqua calda. Lo portai fino al mio petto, intrappolandolo in un abbraccio coccoloso e spaccaossa. Ma se la cosa era piacevole per me, per il povero Growlithe doveva essere un vero inferno – ogni tanto digrignava i denti verso Jack, che si limitava a sorridere nervosamente. Perciò allentai  la presa e sussurrai al cagnolino un po' di scuse miste a complimenti per il suo magnifico pelo salvavita. Il pokémon parve apprezzare, e ben presto potemmo appropinquarci verso l'uscita.
 
Uscita che non soltanto era ora sgombra da qualsiasi blocco di ghiaccio che prima l'aveva sigillata, ma che ospitava gli altri tre superstiti di quest'avventura.
Momoka era corsa incontro a suo nonno ed ora erano entrambi a terra: lui sorridente – e dall'aria decisamente meno psicopatica –, lei che cercava di apparire arrabbiata; ma dal modo con cui le luccicavano gli occhi, si vedeva che era solo una farsa. In un angolo, distante dalla scena, vi era un Daisuke piuttosto provato che cercava di aggiustarsi i vestiti alla buona - cosa pressoché impossibile, dato che in molte parti la stoffa presentava graffi e scuciture a cui dubitavo si potesse porre rimedio.
Feci qualche passo verso di lui, leggermente insicura sul da farsi. Perché un Banette arrabbiato faceva paura, certo, ma trattare con un Daisuke stressato richiedeva una preparazione psicologica assai maggiore.
Il Growlithe uggiolò con tono di rimprovero. Mi affrettai ad allentare la stretta, scrollare la testa (un esercito di goccioline schizzò nei dintorni, colpendo Jack in un occhio e costringendolo a cadere in ginocchio con fare drammatico) e piantarmi un sorrisetto sulla faccia.
 
A metà strada, però, venni travolta da un mostriciattolo biondo dalle gote arrossate e gli occhi iniettati di sangue, che mi prese la mano fra le sue.
“Ti prego, ti prego, ti prego di perdonarlo.”
“Uuh. Chi?” Lanciai un paio di occhiate furtive al mio compagno di viaggio, ma quello era troppo preoccupato per la sua immagine per rendersi conto che fossi ancora viva.
“Mio nonno!” La capopalestra indicò il vecchio signore, intento a punzecchiare Jack con la chiave a pappagallo. “Di solito non è così. Affamato di carne umana, intendo. Solo che è molto impressionabile.” Si massaggiò il setto nasale con stizza. “Ieri notte abbiamo visto un film, ‘L’ultimo Allenatore’, dove il protagonista si ritrova a vivere in un mondo di primitivi villanzoni che…”
 Il vecchio, vedendo che Jack era momentaneamente disorientato, strappò un lembo della sua uniforme fradicia e se lo legò al collo, con un rivolo di bavetta che gli percorreva il mento.
Oh cavolo.
 
Provai a correre nella loro direzione, ma le mie gambe erano piuttosto intorpidite. Inoltre, trascinare una bambina avvinghiata al mio braccio non rendeva certo le cose più facili; specie quando questa non faceva altro che blaterare a proposito del film cliché che aveva visto la sera prima.
“Uuh, qual era l’ultima scena di cui mi hai parlato?”
Lei mi rivolse uno sguardo ingenuamente perplesso.
“Quale? Quella dove lui viene assalito dal pover’uomo che aveva appena salvato?”
“Ecco, credo che tuo nonno stia cercando di ricrearla…”
Lo psicopatico si leccò le labbra, avvicinandosi all’ignaro giovane mugugnante (“Sono cieco. Cieco! Dovrò andare in giro con un’orribile benda, mi toglieranno l’occhio, spaventerò i bambini e… e...! – tirò su col naso – Non potrò più vedere lo schermo del mio 3DS in 3D!”) con la chiave a pappagallo sollevata a mo’ di mazza.
“…e anche molto bene.”
 
Momoka, finalmente resasi conto della situazione, cacciò un urletto così acuto che per un attimo ebbi paura potesse frantumare tutte le pokéball. In compenso ottenne l’attenzione di tutti i presenti, che si voltarono a fissarla con inquietudine. La bambina, senza battere ciglio, gonfiò il petto e dichiarò:
“Nonno, se non la pianti, stasera non guarderemo Phanpy.”
Il vecchio, paralizzato, lasciò cadere la chiave, che risuonò con un secco ‘clang!’ per tutto il corridoio.
La mocciosa appoggiò il dorso della mano sulla propria fronte. “Proprio così. Non scopriremo mai cosa sia successo a sua madre, né se riuscirà a volare completando il suo numero e diventando un famoso circense.”
La mascella dell’uomo sembrava in procinto di staccarsi. Poi, davanti ai miei occhi, l’uomo perse il bagliore assatanato che aveva negli occhi,  raddrizzò la schiena, raccolse la chiave e, dopo averla fatta girare come il bastone di una majorette, la ripose nella sua cintura degli attrezzi. Aiutò Jack ad alzarsi, fissando la nipote con fare solenne.
“No. Ho sudato sette camicie per procurarmi quella videocassetta. Non posso aspettare oltre. Ma prima…”
Giunto davanti a me – una me che lo fissava con l’intelligenza di un Magikarp sott’olio – afferrò la nuca della nipote, costringendola ad abbassarsi assieme a lui in un inchino. “Chiediamo infinitamente perdono a te ed ai tuoi amici: io per aver cercato di aggredirti…” Borbottò qualcosa che interpretai come ‘Anche se al tempo era la scelta più logica da effettuare per sopravvivere’. “E Momoka per essere venuta meno ai suoi doveri, per quanto temporanei che siano, di capopalestra, ed aver rifiutato di cedervi le medaglie.”
 
Boccheggiai: la mia testa voleva comporre un discorso dello stesso livello di forbitezza del vecchio – che durante la trasformazione sembrava essere ringiovanito di vent’anni –, ma i miei neuroni reclamavano pietà. Per mia fortuna intervenne Daisuke, sollevando un sopracciglio.
“Come fa a sapere che ci sono state sottratte le medaglie?”
L’uomo fece spallucce, rialzandosi. “Siete i dodicesimi che costringe a rincorrerla per il luna park.” Si sporse verso di noi, abbassando la voce. Momoka cercò di avvicinarsi, ma lui la tenne a distanza con un mano. “Credo che sia il suo modo per farsi degli amici. Ha un caratterino difficile, e la cosa non ha fatto che peggiorare da quando sua madre si è ammalata, costringendola a prendere il suo posto in palestra.”
Riprese a parlare con un tono normale.
“Beh, di solito le restituisce dopo alcune ore spese a rincorrerla… e normalmente non ci sono robot impazziti!”
 
Jack, che fino a quel momento non aveva fatto altro che controllare in modo ossessivo il suo occhio, batté le mani per richiamare l’attenzione.
“Non so voi, ragazzi, ma non appena i miei pokèmon avranno finito di sciogliere il ghiaccio rimasto nell’altra sala, andrò dritto dritto verso il Centro Pokemon e—“
“E Désirée?” Domandai, confusa. A quanto pare dovevo aver colpito un tasto dolente, perché subito il ragazzo impallidì, dondolando da un piede all’altro per non cadere.
“…m-mi sono dimenticato…”
“…eh?”
“Mi sono dimenticato di lei!” Sbottò, sembrando sul punto di svenire. “L’ho lasciata in balia del padrone del ristorante! Chissà cosa le avrà fatto quel pazzo dal mattarello imbrattato di—“
“Oh, stai parlando di Mike?” S’intromise il vecchio, riflettendo. “Probabilmente le avrà fatto una bella torta…” Jack assunse un colorito verdognolo. “…di fragole. Sono le migliori della città, fidatevi.”
Dopo qualche secondo di silenzio tombale, il rosso si sbatté una mano in faccia, avendo improvvisamente raggiunto una qualche rivelazione. Prese a mugugnare cose come ‘Sono un idiota’, ‘Devo andare a chiedere scusa’ e ‘Sono sicuramente stato licenziato’, per poi fare un paio di passi in direzione dell’uscita. Voltò la testa verso di noi, poi di nuovo verso la galleria, come se fosse indeciso sul da farsi.
“Ragazzo, il tuo compito qui è finito.” Lo congedò il meccanico, strizzando il suo cappellino fino a che non smise di gocciolare. “Torna da Mike e digli che stavi facendo un lavoretto per Ren, e vedrai che non farà troppe domande.”
Sia io che il rosso strabuzzammo gli occhi, domandando: “Chi è Ren?”
Il vecchio si puntò un dito sul petto, e, indispettito, arricciò il naso. “Io sono Ren! Il vice-sindaco della città, nonché proprietario di questo Luna Park!”
Aaah” Annuii io, mentre Jack si limitò a battere un pugno sul palmo della mano, convinto. Poi si rivolse a me, squadrandomi da capo a piedi. Sembrava dispiaciuto.
“Mi spiace Maddy, ma ho bisogno della tua stufetta personale.”
Il Growlithe abbaiò, esaltato alla prospettiva di tornare ad essere un pokémon temibile ed indipendente. A malincuore lo posai a terra, ma Roy, invece di tornare subito dal suo allenatore, spese qualche secondo per strusciarsi sulla mia gamba, come per darmi un piccolo incoraggiamento. Il mio cuore si disciolse in una pozzanghera di caramello.
“Invece”, continuò il ragazzo, “Il giubbotto puoi tenerlo.”

Sia ringraziato Arceus. Pensò il mio cuore colante.
Però è suo. Dichiarò la mia mente, poco disposta ad indebitarsi. Deglutii, cercando il coraggio per rinunciare alla mio unico capo di vestiario semi-asciutto.
“No, non—“
Jack fece finta di tapparsi le orecchie con gli indici, sorridendo con aria furbetta.
La la la, non ti sento~” Cantilenò in falsetto.
“Ma—“
“Ahimè, che peccato, la vecchiaia colpisce così all’improvviso~”
Incrociai le braccia, sbuffando. “Te la lascio al Centro Pokémon.”
“Oh, ottima idea!” Fece un piccolo fischio. “Potremmo vederci per colazione, cosa ne dici?”
Mi si illuminarono gli occhi. Lanciai una veloce occhiata a Daisuke, che stava battendo ritmicamente il terreno con un piede. Sembrava impaziente e di pessimo umore: decisamente di cattiva compagnia.  Ed io ero un po’ stufa delle cattive compagnie, perciò…
“Non vedo l’ora!” Mi si stampò in faccia un sorriso a trentadue denti. “Offri tu, vero?”
Il rosso spalancò gli occhi, iniziando a sudare freddo. “B-beh, vorrei, m-ma…!”
Scossi la testa, magnanima. “Scherzavo. Per stavolta la scampi, ma solo perché ti sei sbarazzato di tutto il ghiaccio che bloccava l’uscita.”
 
Jack si grattò la nuca, corrugando le sopracciglia in un’espressione addolorata. “A dire il vero, quando sono arrivato qui il passaggio era già stato aperto…”
A quel punto intervenne Momoka, che sbattè un paio di volte i suoi occhioni da bambola. “Ah, mi sono dimenticata che tu non c’eri!” E si lanciò in una descrizione piuttosto approfondita su ciò che era avvenuto durante la mia permanenza nella pancia del robot. A quanto pareva, «il mascalzone azzurro» era riemerso dalle profondità gelide proprio qualche secondo dopo la mia scomparsa. Dapprima il Gyarados aveva ripreso ad attaccarli come se nulla fosse, distruggendo nel processo metà della torre e costringendo la capopalestra a fuggire dall'edificio pericolante. A quel punto il ghiaccio era troppo rovinato per poter sperare di usare Reginald senza che questi precipitasse nell'acqua, perciò il gigante metallico era stato richiamato nella sua pokéball, come d'altronde aveva fatto «il quattrocchi noioso» con la sua squadra. Avevano bisogno di un altro po' di tempo, aveva detto lui, o di una distrazione: perciò Momoka aveva «coraggiosamente urlato» ‘Smettila, infame creatura!’; fortunatamente il drago marino aveva deciso «di fare il bravo» e dopo uno stridio «dispiaciuto» si era tuffato nel lago. Poi aveva iniziato «a dare un po' di matto», girando attorno all'isolotto senza uno scopo preciso (Oh, lo scopo ce l'aveva, Momoka, ed era precisamente quello di farmi fuori nel modo più divertente che riuscisse ad immaginare) e sbattendo ripetutamente contro i muri. A quel punto il «puffo cresciuto» aveva chiesto di riavere indietro la sua giacca.
La interruppi. "Ha finalmente usato il misterioso pokèmon contenuto nella sfera che ti aveva prestato?"
"No. Ha detto…” Scosse lentamente la testa, facendo ondeggiare i capelli dorati raccolti in codini ormai disfatti. Sembrava incerta.
“Ha detto che se lo avesse fatto uscire dalla pokéball, non sarebbe stato in grado di assicurarsi la nostra sopravvivenza.” Ripetè Daisuke con una certa freddezza. I peli delle mie braccia si rizzarono, e non per il freddo; esistevano davvero pokémon così potenti da non poter essere controllati? Come faceva Frost ad esserne entrato in possesso? E, soprattutto, come gli era saltato in mente di affidare ad una bambina una tale bomba ad orologeria?
Ah, ma poi è stato fantastico!” Continuò Momoka, strattonandomi una manica. I suoi occhi brillavano di qualcosa di simile all’adulazione. “Ha preso un’altra pokéball dalla sua tasca e da essa è uscito un pokémon bellissimo! Era bianco, aveva tante code, ed era molto, molto forte. Ha sciolto il ghiaccio in un attimo!”
 
Un Ninetales?!” Pure Jack era esaltato. “Quanto mi sarebbe piaciuto vederlo!”
Per qualche motivo, Roy parve non gradire quell’atteggiamento, perché rilasciò una serie di ringhi non molto promettenti.
Il rosso alzò gli occhi al cielo. “Che c’è? Preferisco te, e lo sai bene. Ma quei pokémon sono rari! E poi, mi ricordano…” Non terminò la frase; invece, i lati della sua bocca si incurvarono in un sorriso, come se stesse ripensando a qualcosa di buffo. Un attimo dopo le sue labbra si irrigidirono, ed il suo sguardo si fece spento e distaccato.
Stavo per chiedergli cosa non andasse, quando il vecchio, che per tutto il tempo se n’era stato un po’ distante, ascoltando incuriosito la narrazione della nipote, mi precedette, prendendogli il mento con la mano e costringendolo a voltarsi verso di lui.
“A proposito di ‘ricordi’… io ti ho già visto da qualche parte.”
Jack trasalì, come risvegliatosi da un lungo sogno ad occhi aperti. “C-cosa? Ne è proprio sicuro? Non è che—”
“Stai parlando con Ren Watanabe, uno dei migliori ingegneri della Regione Rainbow. Sono sempre ‘sicuro’.”
“Credo che si stia sbagliando. È la prima volta che la incontro, insomma, sicuramente mi sta confondendo con qualcun altro…”
“Ragazzo, io non dimentico mai una faccia.” Per sottolinearlo, Ren portò la faccia del ragazzo – che sembrava perdere colore ogni secondo che passava – più vicina alla sua, occhieggiandola per bene. “Adesso, devo solo capire dove—”
La sua riflessione venne interrotta da un improvviso scoppio di note musicali, che fece sobbalzare sia me che Momoka. Era una musichetta 8bit allegra ed un po’ pop, che faceva venire voglia di mangiare funghi dotati di occhi, entrare nel primo condotto fognario verticale nelle vicinanze e lanciare gusci di tartaruga contro la gente che ti stava antipatica. Sollevai le sopracciglia, divertita, riconoscendo quella suoneria come la Ground Theme di Super Mario Bros. Jack si approfittò dello sbigottimento generale per sgusciare fuori dalla presa del vecchio, sillabarmi “Stanza 24, non dimenticarlo!” e partire a correre come un razzo verso l’uscita, seguito dal Growlithe. Le ultime cose che vidi prima che sparisse furono un cenno nervoso di saluto, lui che estraeva il cellulare dal marsupio ed un “C-ciao Dés!” balbettato, seguito da una piccola pausa ed un “Cosa? No! Non sono scappato via per incolpare te dei piatti rotti!”. Poi la porta si richiuse con un tonfo, separandoci.
 
Sbadigliai, sorridendo leggermente.
Era strano, ma senza Jack sembrava che la temperatura dell’intera stanza fosse scesa di qualche grado. Vederlo andarsene era stato come osservare le ultime fiamme di un vecchio focolare estinguersi. E senza il suo pokémon a riscaldarmi, ero ritornata lentamente alla condizione di essere tremolante che faticava a tenere gli occhi aperti.
All’ennesima scrollata di testa – tecnica che si stava rivelando piuttosto inutile in caso di sonnolenza – mi ritrovai Daisuke davanti, blaterante qualcosa a proposito di… qualcosa. Yup. Buio, ritardo, Aron (chi è Aron?) e zaino. O forse di spaghetti allo scoglio. Non potevo esserne sicura.
Daikke fece un piccolo sospiro, e pochi secondi dopo mi ritrovai in mano una piccola spilla di metallo: aveva una forma ovale, con una linea in rilievo che divideva verticalmente la superficie ; sei fori neri interrompevano la semplice superficie d’acciaio, e, da due di essi, facevano capolino delle iridi azzurrine che mi fissavano con impassibilità.  Assomigliava vagamente il pokémon gigante di Momoka, solo un po’ più carino.
 
Cercai di ricordare se avessi un contenitore apposito in cui mettere le medaglie, ma alla fine me ne fregai e, aperta la cerniera del mio zaino, ce la lasciai cadere dentro. Daikke, che di solito aveva sempre qualcosa da ridire a proposito di come bisognasse tenere ed osannare quei piccoli pezzi di ferro laccato, si limitò a massaggiarsi il setto nasale, tradendo una certa spossatezza.
“Suppongo possa andare bene, per il momento.” Assumendo una posa un po’ più rigida, si rivolse di nuovo al meccanico. “Adesso toglieremo il disturbo.”
Ma appena fece un passo verso l’uscita, il vecchio gli slittò dietro, lo prese per le spalle – Daikke rabbrividì – e lo condusse verso un piccolo stand a qualche metro di distanza. Era immerso nell’ombra, ma non appena i due si avvicinarono, si accesero delle lucine così colorate da farmi pensare al Natale. Ed ai regali. E alla cioccolata calda. E ad un caldo letto pronto ad accogliere il mio cadavere.
“Subito, sì, certo, dopotutto è tardi! Ma prima, fatemi la cortesia di scegliere uno di questi gingilli da portare a casa. Non sarà molto, ma al momento è tutto ciò che vi posso offrire in cambio dell’aiuto che ci avete dato.” E, con una mossa degna di un venditore ambulante, si inginocchiò davanti alla bancarella e protrasse un braccio verso di essa, cercando di canalizzare il nostro interesse sulla mercanzia. Daisuke tossicchiò.
“Veramente, non c’è bisogno di—“
Gingilli?” Oh, ed io che qualche secondo prima mi stavo preoccupando per la funzionalità del mio cervello. Socchiusi gli occhi, sospettosa. “Sei il vice-sindaco di Mochapoli, un ingegnere rinomato ed il proprietario di questo parco divertimenti, e tutto ciò che hai da offrirci dopo ciò che abbiamo fatto per te sono dei gingilli?” Il mio compagno di viaggio fece un verso fra l’affranto e l’arrendevole, per poi appoggiarsi allo stipite dello stand, lasciandomi fare.
“B-beh…” L’uomo era rimasto un po’ spiazzato da quel mio scatto di rabbia, ma, da bravo venditore qual era, si riprese in fretta. “Lo sai quanto costa mantenere questo posto funzionale? Lo sai quanto costano le medicine per mia figlia? Per non parlare dei vestiti di Momoka: ne vuole uno nuovo ogni settimana. Cosa dovrebbe fare un povero vecchio quando la sua nipotina preferita gli chiede un favore?”
La capopalestra, improvvisamente a disagio, diede un calcetto ad un sassolino vicino ai suoi piedi.
“Scusate, ma adesso non ho nulla di valore con me. Per il momento accontentatevi di questi piccoli doni.”
 
Lentamente, mi ritrovai ad annuire, badando bene di tenere lo sguardo abbassato. Forse ero stata un po’ troppo irruente. Forse ero stata un po’ troppo insensibile. Forse…
Sbadigliai ancora, decidendo che per quel giorno ne avevo abbastanza di discussioni.
 
Squadrai la mercanzia un po’ svogliatamente: vi erano peluches a forma di animaletti acquatici fra cui spiccava una coppia di Shellos, penne a forma di cavalluccio marino blu (Horsea, mi ricordai), una pila di giochi in scatola – la copertina di quello in cima riportava l’immagine di un Octillery, delle barchette colorate e la scritta ‘Octo-Attack!’ –  ed una dozzina di accessori diversi.
Fu lì che li vidi. Strabuzzai gli occhi e, senza pensarci due volte, li puntai con un dito, esclamando “Ah, i Ludovic!”
Ci fu un attimo di silenzio. Il negoziante si grattò la testa con fare sconcertato, mentre Daisuke dovette aggrapparsi al palo di legno come se fosse l’unica cosa capace di non farlo sprofondare nel terreno. Corrugai la fronte, improvvisamente assalita dai dubbi. Ludovichi? Lovenrichi?
Momoka alla fine ebbe pietà di me, e, passandomi di fronte, prese la coppia di orecchini metallici che stavo ancora indicando. Ognuno dei due pezzi era costituito da catenelle argentee ciascuna terminante in un ciondolino a forma di pesce cuoricinoso.
“Intendi i Ludvisk, giusto?” Me li mostrò per bene.
“Sì. I Ludvisk. Certo, eheh.” Mi grattai la guancia. “Li abbiamo visti mentre eravamo sul Lapras, e…”
“Li avete visti?!” Il vecchio Ren, stranamente rinvigorito, saltò in piedi. “Vuoi dire che tu e lui-” Senza guardare buttò un pollice dietro alla sua schiena, indicando Daisuke che, nel frattempo, stava stringendo la sua valigetta, sbiancando a vista d’occhio. “—avete visto i Ludvisk?”
Titubante, mi limitai ad annuire. Il volto dell’uomo acquisì un carattere più losco – forse dovuto alle lucine della bancarella, che assunsero in quel momento un colore verdognolo – come se fosse a conoscenza di qualche segreto di vitale importanza. Guardandomi con occhi scaltri, iniziò a raccontare.
“Vedi, i Ludvisk sono il soggetto principale di molti libri, poesie e spettacoli. Questo perché, secondo molte leggende tramandate in svariate regioni, se una coppia di persone riesce a vederli, significa che—“ Non seppi mai come sarebbe dovuta finire la frase, perché Daisuke, dall’aria più trafelata del solito, aveva richiamato la sua attenzione, alzando il tono di voce: “Quello, lei prende quello!”
Il meccanico-ora-negoziante, dimenticandosi di ciò che avrebbe dovuto dirmi ed assumendo un’espressione spaventosamente simile a quella che avevo io quando sentivo l’odore di un mucchio di verdoni, fece una veloce giravolta e gli arrivò accanto, mollandomi lì come uno stoccafisso. Lanciai a Momoka uno sguardo convogliante tutta la mia confusione, ma la capopalestra fece spallucce e scosse la testa, perplessa quanto me.
Il damerino avanzò fino al mio cospetto e, ostentando noncuranza, mi passò quello che aveva l’aria essere un braccialetto. L’adocchiai con sguardo critico, esaminando ogni particolare, dalla semplice e sottile catenina al pendaglio circolare. Questo era tenuto ancorato al bracciale da un gancio a forma di pinna, una decorazione che proseguiva lungo tre quarti del bordo del ciondolo sotto la forma di un essere serpentesco dotato di quattro pinne dorsali appuntite. Il tutto terminava in un muso baffuto rivolto verso l’alto, come se stesse cercando di continuare la salita per ricoprire il segmento mancante. Sarebbe stato un accessorio carino, se non mi fossi accorta di cosa quella decorazione stava a rappresentare.
 
“Un… Gyarados?” Inclinai la testa di lato. “Devi proprio odiarmi se, dopo tutto ciò che è successo, fra tutti i gadget sparpagliati davanti a noi, decidi di regalarmi proprio un Gyarados.”
“In realtà—“
Sollevai un sopracciglio. “A meno che il braccialetto non sia per te e tu non stia facendo altro che chiedere il mio parere riguardo ai tuoi – piuttosto biasimabili – gusti in fatto di moda.” Momoka ridacchiò. Daisuke, invece, acquisì un interessante colorito rossastro e, nel tentativo di ribattere in fretta e furia, per poco non si strozzò.
“No!” Attese qualche secondo, il tempo sufficiente perché potesse riprendere il controllo di sé e tornare ad essere bianco come un cencio. Quindi, con decisione, mi porse di nuovo l’accessorio.“È tuo.”
“Ma è un Gyarados!” La mia intonazione lamentevole fece accennare un sorriso divertito anche al venditore.
“Esattamente.” Si schiarì la voce, preparando il suo tono speciale alla ‘devo spiegare a Madeleyne quanto la sua logica sia fallace in modo da innalzare il suo quoziente intellettivo e fare un’opera buona per il mondo’. “L’ho scelto perché così, la prossima volta che ti verrà in mente un’altra delle tue idee strampalate, ti ricorderai di avere già compiuto la tua dannata impresa eroica e…”
Il resto mi giunse alle orecchie come mormorio indecifrabile. La sua voce era andata via via affievolendosi fino a perdersi nell’aria – un po’ come i suoi occhi, che erano passati a studiare un punto indefinito alla sua destra, rifiutandosi di incontrare i miei.
Gli presi il braccialetto e me lo misi, ignorando la vocina artistica che sussurrava al mio orecchio ‘C’è di meglio’.
 
I saluti furono brevi; eravamo tutti doloranti, stanchi, e più o meno bisognosi di cure mediche.
Ren ci congedò con un’espressione grata ed una dolce promessa: finché fossimo rimasti nella sua città saremmo stati suoi ospiti, e quindi avremmo potuto adoperare senza spendere un solo Poké vari servizi, fra cui il Luna Park.
Momoka, invece, fu più riservata, e si limitò ad una piccola riverenza. Prima di poter fare un solo passo, però, mi prese le mani fra le sue, depositando sui miei palmi il paio di orecchini che avevo visto qualche minuto fa. Al mio sguardo perplesso, la bambina mi sussurrò all’orecchio un semplice “Secondo me sono più belli!”, prima di sorridermi – il primo, grande sorriso non trattenuto che le avevo visto fare.

Quando arrivammo al Centro Pokémon non mi presi nemmeno la briga di cambiarmi, e scivolai sotto le coperte con ancora addosso il giubbotto di Jack. Sapeva di pioggia ed erba cipollina.
Sospirai, contenta nel mio piccolo bozzolo di calore.

Avevo conquistato un’altra medaglia.
Avevo fermato una macchina assassina.
Ero sopravvissuta ad un incontro ravvicinato con un Frost. Ah, e con un peluche dalle brame omicide.

Mi addormentai sentendomi stranamente leggera, immaginando il banchetto che avrei avuto l’indomani per colazione in compagnia di una certa testa rossa che, in quel momento, probabilmente stava ancora cercando di scusarsi con Désirée.


 


~Author's Corner~
Salve salvino, poveri cristi che si sono presi la briga di leggere fino a qui. Era da anni che non aggiornavo in un periodo che non fosse compreso fra le vacanze di Natale e quelle di Pasqua, perciò sono piuttosto proud of myself *spara coriandoli di gioia e colorosità*
Vi auguro Buon Ferragosto, e soprattutto Buon Resto delle Vostre Vacanze. Godetevele al meglio, finchè durano. Magari andando a catturare Pokémon in giro all'una di notte, come mi sono ritrovata a fare io mentre cercavo disperatamente un cappero di Kadabra selvatico.
Until the next chapter, bye bye~
   
 
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