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Autore: Nausicaa Di Stelle    16/08/2016    5 recensioni
"Non so da dove cominciare! Mi sento così in colpa... e non so se esiste un modo per rimediare al guaio che ho combinato. No, non io in verità... Tutto è iniziato a causa di Tadashi e della sua imprudenza, ma chi ci ha rimesso più di tutti è stato il capitano. Non ho ancora avuto il coraggio di andare a trovarlo in infermeria per vedere come sta! Del resto, le ultime notizie non sono confortanti."
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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SPETTRI




Dal diario di bordo del capitano


Tesius aveva un’ottima mano: l’iniezione non mi fece alcun male.
Il dolore venne dopo, insieme al freddo della criogenesi, quando il fluido prese a scorrere nel mio corpo attraverso arterie, vene e capillari, propagando appena un leggero calore. Ma poi di nuovo, come nella palude dell’Eden, quel tepore accese nel profondo del mio corpo una vampa inestinguibile. E ancora una volta mi ritrovai ad affrontare l’Inferno, da solo.
Il resto del mondo scompariva dentro quella piccola capsula sigillata, diventando un globo lontano, senza più suoni, popolato di vaghe ombre che mi scrutavano di là dal vetro. Mi sembrava già di essere calato in una bara di metallo, dentro una fossa. Un gelo sempre più penetrante si diffondeva tutt’attorno a me, ma sotto la pelle ancora una volta mi sentivo bruciare.
L’ossigeno veniva inalato da due bocchettoni, mentre alcuni cavi collegati a degli elettrodi permettevano di tenere monitorati dall’esterno battito cardiaco, impulsi elettrici del cervello e pressione. Non sarebbe stato molto scomodo se non fossi stato legato.
- E’ per la tua sicurezza, - aveva affermato Tesius allacciandomi una cinghia attorno al polso, - In questo spazio così piccolo rischieresti di farti del male sbattendo contro la capsula, o finiresti per strappare i cavi.
Il dottor Zero aveva annuito, anche se dalla sua faccia potevo capire che non era entusiasta di dover ricorrere a tale sistema. In piedi nell’angolo più estremo della piccola stanza, Yuki stringeva forte la mano sulla fondina ormai vuota, dato che le pistole avevamo dovuto consegnarle al nostro arrivo.
Per un poco dopo l’iniezione riuscii a vedere il volto concentrato del dottor Zero e quello tranquillo della mazoniana davanti al display di controllo. Nessuno dei due mostrava preoccupazione o nervosismo, segno che tutto procedeva nella norma.
Ma presto la mia mente mi portò molto lontano da lì, nel pozzo profondo e scuro di me stesso, e mi ritrovai solo, alla presenza dei miei ricordi più scomodi.
Non temevo di stare faccia a faccia con il mio passato: avevo sempre agito in piena coscienza, seguendo soltanto i miei ideali, senza scendere a compromessi con nessuno, senza farmi comprare da nulla. Eppure, annidato nel buio dentro di me, esisteva qualcosa capace di tormentarmi, qualcosa che aveva atteso a lungo questo momento per rialzarsi dal proprio nascondiglio e guardarmi in faccia con aria di sfida. I miei sentimenti.
Così, mentre l’antidoto scavava dentro di me la sua strada, impartendo nuovi ordini ad ognuna delle cellule e ridisegnando per l’ennesima volta il mio corpo, io rivedevo una a una le persone che avevano segnato la mia vita, nel bene e nel male.


Il mio amico era il primo dei fantasmi che mi stavano aspettando.
In tutti questi anni, il pensiero di lui non mi aveva abbandonato un solo istante. Non si trattava soltanto di ciò che avevo perso, della sua presenza fisica o dell’allegria che riusciva a infondere anche dentro di me e che a volte mi mancava fino a togliermi il respiro. Non era questo che mi tormentava, ma piuttosto la dedizione incondizionata a quel sogno che ancora adesso mi permetteva di vivere nell’unico modo in cui ero capace, libero e senza costrizioni. Era la sua totale abnegazione alla costruzione della nostra Arcadia.
Arcadia. Il solo nome di questa nave bastava ad evocare in me un sottile senso di colpa. Sapendo forse che non gli sarebbe mai appartenuta, Tochiro me l’aveva dedicata e ne aveva fatto la sua eredità. Era diventata la nave di Capitan Harlock, terrore degli stolti e miraggio degli ignavi, unica salvezza di chi voleva fuggire dalla Terra. Ma soltanto io sapevo che anch’essa nascondeva un volto oscuro.
Era la tomba di un uomo grande che aveva sacrificato tutto se stesso perché fosse possibile quel sogno che avevamo condiviso. E ora io vivevo di quel sogno a prezzo della sua vita, della consunzione del suo corpo. Tochiro era prigioniero di un involucro d’acciaio che non gli permetteva più di muoversi come un essere vivente, di mangiare scodelle stracolme di quel pessimo riso che sapeva cucinarsi da sé, nella fretta di un lavoro febbrile, o di assaporare insieme a me un calice di buon vino. E così lui era sigillato dentro il nostro sogno come un prigioniero, mentre io ero diventato il simbolo stesso della libertà.
Non ne avevo mai fatto parola con nessuno, nemmeno con lui, ma quest’idea mi tormentava da sempre, forse anche perché nessuno me l’aveva mai fatto pesare, come se fosse una cosa naturale. Tochiro era debole, fragile nel fisico quanto incrollabile nella volontà, e non era morto per causa mia. Questo era ciò che tutti avevano cercato di farmi intendere. Ma nessuno aveva capito che era morto per me. Io ne avevo la certezza.
Il mio amico aveva fatto in modo che il suo spirito rimanesse a vivificare lo straordinario computer da lui progettato, e questa era una prova sufficiente. La sua generosità, la sua dedizione, erano stati senza misura. E forse proprio perché un’anima così grande non poteva essere contenuta da un uomo tanto piccolo, il corpo di Tochiro si era sgretolato, donandole una casa più grande. Una casa che gli permetteva di non lasciarmi solo.


Il freddo nell’angusto abitacolo era cresciuto e ora riuscivo a sentirlo fin dentro le ossa, segno forse che la cura era efficace, o almeno che gli strumenti messi in campo per mitigare gli effetti della trasformazione facevano il loro dovere. Avrei desiderato potermi scaldare stringendomi le braccia attorno al busto e forse questo mi avrebbe anche permesso di capire se c’era qualche cambiamento in me, perché la sensazione di formicolio che avvertivo dalla testa ai piedi m’impediva di comprendere cosa mi stava succedendo. Peccato che ci fossero sempre quelle cinghie... Immaginai che dovesse dare una certa soddisfazione al sadismo mazoniano sapermi in quelle condizioni. Chissà come se la rideva Raflesia! Mi aveva promesso, anzi, garantito, una cura, e non avevo dimenticato quanto era stata strana quel giorno, persino triste. Però era impossibile non pensarla ora seduta sul trono, con un sorriso di beffarda soddisfazione disegnato sulle labbra, Raflesia che si gode la sua vittoria su di me nell’unico modo che in quel momento le è concesso...
Ansimai, riaprendo gli occhi. Una fitta di dolore acuto mi attraversava il petto, come se il cuore si stesse spaccando. Strattonai le cinghie con i polsi e le caviglie, invano. Oltre il vetro riuscivo ad intravvedere il dottor Zero che mi faceva segno di calmarmi con una specie di carezza sull’oblò della capsula, e Yuki che si precipitava accanto a lui, urlando qualcosa che non potevo sentire in direzione di Tesius. Come doveva essere spaventata! Avrei voluto tranquillizzarla io stesso. Dopotutto ero stato molto più male la prima volta, tanto che al confronto questa era quasi una passeggiata. Quasi. Poi di nuovo non vidi più nessuno davanti al vetro e il mio orizzonte tornò ad essere quello dei pensieri.


Doveva essermi salita la febbre, perché ora proprio lei mi veniva incontro, ma non come una regina. Non indossava il vestito nero e sulla testa non portava alcun diadema. Sedeva fra le radici di una quercia che parevano volerla proteggere e lei pure era bella come un albero antico, tra le cui fronde trovano riparo una moltitudine di nidi. Sembrava emanare il calore di una casa, o di una sposa. Pareva felice e una voce dentro di me mi diceva che era perché finalmente aveva trovato un piccolo mondo dove vivere in pace. Un mondo che si offriva di condividere con me.
Non c’era più motivo di battersi l’uno contro l’altra, né odio o rancore per i passati conflitti. Potevo sedere con lei su quelle radici e assaporare la brezza del vento, godere della luce del sole senza dover sempre fuggire come un fuorilegge.
Il suo viso a un palmo dal mio era dolce e sereno e il corpo bianco che mi offriva emanava un profumo invitante, come caprifoglio sul far della sera.
Ma bruciava come il fuoco.
Le sue braccia avevano piccole spine che non si staccavano dalla pelle che a prezzo di dolorose abrasioni e quella bocca cercava in me molto più che un bacio, come se avesse voluto togliermi con il fiato anche le forze.
Volevo liberarmi, ma le cinghie mi tenevano inchiodato sul fondo della capsula e per quanto cercassi aria inarcandomi su me stesso, non riuscivo a saziarmi dell’ossigeno inalato dai bocchettoni. Il mio respiro era rapido e irregolare mentre di nuovo vedevo sopra di me Raflesia, con la spada sollevata per colpirmi, nuda, furiosa e immensamente triste.
Le avevo strappato ogni cosa, avevo sterminato le figlie di Mazone senza riguardo, senza pietà. E del suo cuore, che ne avevo fatto?
C’era uno squarcio al centro del petto che prima non avevo visto e dietro lo sterno e le piccole costole stava solo il vuoto. Raflesia voleva il mio cuore per riempire quel vuoto. Perché è così che si amano i nemici... Si amano l’un l’altro solo per nutrirsi.
Era così anche per me?
Mi ero nutrito delle sconfitte che le avevo inferto, della linfa vitale delle sue selvagge driadi, di ognuna delle sofferenze che le avevo causato. Avevo calpestato il mio nemico solo per trarne godimento? Qual era stato l’alto ideale che mi aveva guidato, in quel momento in cui la febbre mi frustava scuotendomi le tempie, io non riuscivo più a ricordarlo.
Ricordavo solo di averla desiderata e odiata come nessun’altra mai. E di aver pensato migliaia di volte che avrei voluto avere almeno un’occasione per tenerla fra le braccia.
All’improvviso dentro la capsula si era fatto ancora più freddo. Il dottor Zero cercava di abbassarmi la temperatura e mi sorrideva goffamente da oltre il vetro un po’ appannato, sollevando il pollice per dirmi che andava tutto bene. Avrei voluto rispondergli almeno con un cenno della testa, ma non c’era una parte del mio corpo che ubbidisse ai comandi. Anzi, non c’era una parte di me che sembrasse ancora appartenermi.


Per un po’ quel refrigerio riuscì a darmi sollievo e potei pensare in modo più razionale, ma non c’era verso di placare la sadica creatura che si era ridestata dentro al mio petto. Altri pensieri, altri rimpianti, venivano sospinti verso di me e si gonfiavano, ingigantendosi come vele nella tempesta.
Yuki era l’ultimo della fila. Vederla mi provocò un dolore più forte di quelli provati fino a quel momento, un dolore che andava ben al di là di quello fisico. Lei era il più grande dei miei rimpianti. E forse perché potevo farci ancora qualcosa, perché dipendeva da me perderla o meno, provai una sorda disperazione, un sentimento che mai prima di allora avevo conosciuto.
Lei mi guardava ed era quasi luminosa, fasciata in un vestito candido, troppo corto e stretto perché avessi bisogno d’immaginare altro di lei. Era bella come la felicità. E non era mia.
Non avrebbe mai potuto esserlo.
Oh, se solo avessi avuto davvero quindici anni!
Avrei colto l’amore che mi offrivi come si fa con una rosa, Yuki.
T’avrei tenuta stretta fra le braccia per imparare il profumo della tua pelle e il ritmo che prende il tuo respiro prima che ti addormenti. Per conoscere ciò che di te non sa nessuno.
Saresti stata accanto accanto a me senza mai appartenermi e forse il tuo amore mi avrebbe permesso di essere migliore di quel che sono ora.
Ma questo genere di chimere hanno ali di vetro e mentre tentavo di gridare il tuo nome con labbra e voce che non mi appartenevano più, o non mi appartenevano ancora, il tuo viso si allontanava da me, sfocandosi come dietro al vetro di quella maledetta capsula. Quanto avrei voluto avere davvero quindici anni, non portare il peso di tutte le cicatrici che si erano impresse ben più sotto della mia pelle, in posti di me che nessuno sapeva raggiungere, laggiù, tra le ossa e il cuore. Laggiù dove non sapevo arrivare più nemmeno io.
E avrei voluto gridarti, mentre ti allontanavi alla velocità alla quale cambiava il mio corpo e si rifaceva buio fondo dentro di me, avrei voluto gridarti, Yuki, che ti amavo anch’io.

   
 
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