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Autore: _ A r i a    18/08/2016    4 recensioni
♟ Storia ad OC | Iscrizioni chiuse ♟
È piuttosto singolare trovare una piccola stradina secondaria, nella Londra moderna, peraltro dove l’invadente asfalto non sia arrivato e dei ciottoli irregolari premano sotto le suole delle scarpe.
Eppure, a quanto pare, è proprio così.
Amelia ricontrolla l’indirizzo, segnato su un pezzo di carta piccolo e vecchio, piuttosto sgualcito.
L’inchiostro nero è un po’ sbiadito, non si meraviglierebbe di essere nel posto sbagliato… in effetti ha paura che qualche strano individuo sbuchi fuori dal nulla da un momento all’altro.
Se non fosse per la piccola bottega di legno che si trova ora davanti agli occhi.
È un posto piuttosto particolare, con tutte le pareti di legno e una vetrata all’ingresso, piccoli quadrati trasparenti ricoperti da uno spesso strato di polvere divisi tra loro da piccole strisce di mogano non esattamente definibile “in ottimo stato”.
C’è anche un’insegna, solo che è parecchio in alto e Amelia decide di non tentare la fortuna e le sue – scarse – abilità di equilibrista nell’arrampicarsi su delle casse malridotte lì al lato per controllare il nome di quel posto.
Genere: Azione, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Jude/Yuuto, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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« Non è vero che abbiamo poco tempo:
la verità è che ne perdiamo molto »    
– Seneca –
 
Chapter five
Uprising


♟» Londra, Regno Unito, 2059


Le tende color panna ondeggiano lievemente in quell’ambiente accogliente, mosse da un alito di vento proveniente dalla finestra, lasciata socchiusa.
In effetti, tutto in quel luogo ispira uno spiccato senso di familiarità, a partire dai raggi del sole che filtrano tenui all’interno della stanza, atterrando con la fioca mansuetudine del pulviscolo fin sulla moquette beige a terra, creando soffici macchie di luce, per arrivare poi al bianco delle pareti.
Non è una tinta inospitale, di quelle tanto asettiche che ti fanno sentire quasi come se fossi rinchiuso in un ospedale, bensì anch’essa trasmette una certa aria di vissuto.
La camera è inoltre ricolma di una bizzarra quanto stranamente piacevole unione di profumi, tutti immancabilmente differenti tra loro: un vago sentore di alcool, forse tequila, rimasto a fluttuare lì dalla sera precedente – e chissà da quante altre prima ancora – dell’immancabile polvere, probabilmente attribuibile in gran parte ai mobili in legno presenti in quel luogo, un poco di fumo di sigaretta e diversi altri odori penetrati dalla finestra socchiusa.
L’acqua umida e inquinata del Tamigi, che scorre poco distante da lì, lo smog dei mezzi di trasporto, l’aroma dei caffè di prima mattina che proviene direttamente dai bar.
Atemu ha ancora gli occhi chiusi, li strizza leggermente per via del sole, che lo colpisce in pieno volto.
Se si concentra meglio, riesce a percepire anche altri due odori.
Il primo gli ricorda in modo incredibile quello delle crespelle dolci che adora, tuttavia si convince piuttosto in fretta che deve trattarsi di un’allucinazione influenzata dal suo subconscio – e soprattutto dal suo stomaco, che attualmente non sembra essere affatto intenzionato a smettere di borbottare per via della fame.
L’altro invade letteralmente tutta la stanza: è un misto di sale, vitalità e desiderio di avventura, un miscuglio alquanto peculiare che Atemu non ha mai esitato ad attribuire ad Hurley.
Atemu apre subito gli occhi, osservandosi rapidamente intorno. Non riesce a riconoscere il luogo in cui si trova, tuttavia ha la pessima sensazione di essere a casa di Hurley.
Il che non sarebbe neanche un problema, certo, se solo riuscisse a ricordarsi come diavolo sia finito lì.
Della casa di Hurley conosce davvero solo poche stanze, ossia quelle che ha visitato nelle rare volte in cui si è recato presso l’appartamento del suo amico: la cucina, il piccolo soggiorno e basta, oserebbe dire. È una casa piuttosto piccola, sebbene questo non escluda quella sensazione di confidenza che tutto lì trasmette.
Atemu si mette dapprima a sedere sul letto, per poi cercare di alzarsi: il tutto lo fa con una certa lentezza, cercando di non incappare in movimenti troppo bruschi per il timore che il male alla testa torni a tormentarlo.
Ha ricordi piuttosto offuscati della notte precedente, quindi non è esattamente cosciente di come sia arrivato fin lì – e soprattutto del perché si sia recato a casa dell’amico piuttosto che nella propria abitazione.
Deve aver fatto un salto con l’Orologio, perché ricorda abbastanza nitidamente di essere andato in Egitto – pardon, l’antico Egitto – nelle scorse ventiquattr’ore, perciò considerando la sua scarsa soglia di sopportazione di quegli assurdi sbalzi spazio-temporali.
A volte continua a ripetersi che dovrebbe proprio smetterla, con quei salti… peccato che la cultura e tutto ciò che è antico abbiano un simile richiamo su di lui che pensare di doversi privare di tutte quelle gli sembra davvero un peccato, oltre che impossibile.
Si rinfila gli scarponcini, piegandosi per allacciarli non sente la testa vorticare – e questo, a suo dire, è davvero un gran bel segno.
S’incammina a passi lievi attraverso la stanza, la moquette sotto i suoi piedi attutisce i movimenti, così da non fare davvero alcun rumore mentre si avvia verso la porta.
Aveva proprio bisogno di un buon sonno ristoratore, in effetti: ora si sente molto più leggero, ogni cosa gli sembra essere tornata a posto; perfino l’Orologio, che mentre cammina sente rimbalzare appena sul proprio petto, sotto la camicia di lino bianco che ancora conserva un po’ di decenza, gli pare decisamente più leggero e fresco rispetto alla notte precedente.
Eh, già: dopo ogni salto, l’Orologio tende a surriscaldarsi e ad appesantirsi, probabilmente per via della considerevole distorsione dello spazio-tempo che si viene a formare quando lo si usa.
In effetti, non ci si può di certo augurare di viaggiare in luoghi ed epoche differenti e non creare nemmeno una minima modificazione nel luogo e nell’epoca in cui ci si trova, sarebbe sciocco – oltre che piuttosto impossibile – sperare in qualcosa di diverso.
Se ci si mette anche ad interagire con persone provenienti da periodi storici differenti dal proprio, poi, non ne parliamo: si finirebbe per parlare o peggio relazionarsi con gente appartenente ad un mondo totalmente diverso dal proprio e, una volta ripartito, distorcerebbe la matassa temporale al punto che gli altri conserverebbero un ricordo deformato di un incontro che, di norma, non sarebbe mai dovuto avvenire.
Ahh, la difficile vita di un Crononauta…
Atemu apre la porta, ritrovandosi nello stretto corridoio dell’appartamento di Hurley: altra buona notizia, almeno quello lo riconosce.
Percorre a passi piccoli e silenziosi la strada che, gli pare di ricordare, dovrebbe condurre fino alla cucina, anche se per una buona parte si affida al proprio olfatto, seguendo l’odore di crespelle appena cotte è impossibile finire in una stanza differente.
Trova Hurley ancora ai fornelli, la padella in mano e un’altra crespella in via di preparazione, intenta ad ondeggiare nell’arnese tenuto abilmente sospeso sopra i fuochi dal ragazzo dai capelli rosa.
Non appena il surfista si accorge che l’amico l’ha raggiunto in cucina gli riserva un sorriso a trentadue denti, agitando appena una mano nella sua direzione in un caloroso cenno di saluto.
«Ehilà! Vedo che ti sei ripreso» commenta subito il padrone di casa, senza riuscire a perdere il suo ampio sorriso.
«Eh già…» Atemu, fermo sulla soglia della stanza e con la schiena poggiata contro lo stipite della porta gli rivolge un lieve sorriso, mentre ancora indugia sul da farsi.
Hurley, notando l’amico temporeggiare, si lascia sfuggire una risata soffusa mentre aggiunge:«Prego, accomodati pure».
Mentre si limita a rispondere con un “grazie” sussurrato a bassa voce, Atemu prende posto al vitreo tavolo circolare che Hurley gli sta indicando con un braccio.
Il tavolo è situato davanti ad una finestra piuttosto alta, che a partire da pochi centimetri prima del soffitto arriva fin giù al pavimento, donando un’ampia visuale sull’esterno.
Da lì infatti Atemu riesce a distinguere piuttosto nitidamente i viali di Hyde Park, appena avvolti nella nebbia mattutina che sempre caratterizza Londra.
Poco dopo, mentre Atemu è ancora perso nella contemplazione del panorama esterno, Hurley lo raggiunge, portando con sé le crespelle appena tirate fuori dalla padella e diverse bevande, tra cui del caffè, il latte – ancora riposto nelle taniche in plastica nelle quali viene commerciato in Inghilterra – ed una caraffa contenente un’abbondante quantità di spremuta d’arancia.
«Ecco fatto» annuncia Hurley, con un sorriso trionfante «spero che la colazione possa essere di tuo gradimento».
«Lo è, alquanto» si affretta ad assicurare Atemu, racimolando un po’ dell’entusiasmo perduto la sera precedente, per via della stanchezza «ti ringrazio, non dovevi disturbarti tanto, specie dopo tutti i problemi che ti ho causato nel giro di così poche ore…».
L’altro si passa una mano davanti al volto, sminuendosi, per poi interromperlo:«Ti sbagli, Atemu: dopo che sei arrivato qui così malridotto, stanotte, non avrei potuto far altro che aiutarti. Sei mio amico, dopotutto, ti sembro il tipo da lasciarti fuori la porta?».
Il diretto interessato non sembra intenzionato a rispondere, mentre si passa le dita tra i lunghi capelli neri raccolti in una coda bassa si è già irrimediabilmente perso ad osservare l’amico… e dubita che la sua distrazione sia dovuta ai postumi della sera precedente.
Hurley approfitta del silenzio dell’amico per passargli una delle crespelle, apostrofandolo senza cattiveria:«Tieni, mangia: hai bisogno di rimetterti in forze».
Atemu annuisce, condiscendente, ringraziando sommessamente il rosa mentre recupera le posate ed inizia a mangiucchiare piano.
Di lì a poco anche Hurley lo imita sebbene, a differenza di Atemu, si metta ad addentare le crespelle con una certa voracità.
Hurley non è stato mai un tipo abituato a fare grandi complimenti o cerimonie e ad Atemu la cosa non ha mai dato particolarmente fastidio, anzi se ne è sempre sentito piuttosto sollevato, non avendo mai particolarmente apprezzato le persone troppo cerimoniose.
Forse però è anche vero che Atemu è piuttosto di parte, considerando che ormai si è reso conto già da un bel po’ di essersi innamorato di Hurley.
L’altro non ha mai dato segno di ricambiare i suoi sentimenti – o perlomeno di provare per lui qualcosa di simile – così Atemu si è sempre limitato a tacere la verità ad Hurley, per paura di perdere il proprio migliore – e unico – amico per via di una cosa del genere.
Certo, ha sempre sperato in un cambiamento, magari notare un giorno nello sguardo di Hurley un modo diverso di guardarlo, tuttavia per ora non si è mai accorto di niente, perciò è sempre rimasto in silenzio, ad aspettare.
C’erano giorni in cui l’attesa diventava logorante, asfissiante, nei quali il giovane dai capelli neri avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di essere notato e fare così in modo che l’altro si rendesse finalmente conto di ciò che provava realmente per lui.
Perfino baciarlo…
Poi però ogni volta Atemu tornava in sé, ricordando a se stesso che non erano quelli i pensieri che gli erano concessi, che era di altro che doveva occuparsi, non certo di quello…
Come se fosse facile…
No, lui doveva aspettare: la sua volontà era stata ferrea fino a quel momento, non poteva certo smettere di impegnarsi proprio adesso e mandare così all’aria tutti gli sforzi che aveva fatto per tutto quel tempo.
Si era di nuovo perso nei suoi pensieri, il che sarebbe stato decisamente imbarazzante se non avesse avuto ben altri problemi di cui preoccuparsi.
Solo allora infatti si rende conto che, sotto la sua camicia, l’Orologio ha preso a scaldarsi nuovamente, senza che lui l’abbia toccato.
Il che è decisamente un ennesimo avvenimento da aggiungere alla sua ormai infinita lista di stranezze che sono cominciate a capitargli, da quando ha trovato quell’assurdo orologio.
Atemu cerca di non dare a vedere la sua crescente preoccupazione ad Hurley, tuttavia con l’Orologio che si scalda sempre di più contro la pelle bronzea del suo petto gli è impossibile non agitarsi, accavallando appena le gambe sotto il tavolo e muovendosi irrequieto sulla sedia.
Nonostante tutte le sue premure, ad Hurley non passa certo inosservata l’inquietudine del ragazzo, che va mano a mano aumentando ogni secondo di più, così non riesce a trattenersi dal chiedergli:«Ehi, amico, va tutto bene?».
Atemu si sforza di sorridere mentre risponde, forse con un tono di voce più acuto del solito:«Oh, sì, va tutto benissimo, ti ringrazio…!».
L’altro, per niente convinto dalla sua risposta, cerca di insistere:«Sicuro? Magari posso offrirti…».
Le parole di Hurley, tuttavia, rimangono sospese a mezz’aria.
Poco dopo, infatti, una luce intensa e di un giallo vivace si sprigiona da Atemu – o meglio, dall’Orologio sotto la sua camicia – avvolgendo interamente la figura del ragazzo.
Quando la luce arriva al massimo del suo splendore sembra quasi esplodere, inondando l’intera cucina di scintillii dorati; non appena i bagliori iniziano a diradarsi, Hurley comincia a riaprire nuovamente gli occhi – non si era nemmeno accorto di averli chiusi, in effetti.
Ci mette un po’ a riadattare la vista all’ambiente intorno a sé, cercando di focalizzare per bene ogni dettaglio.
La prima cosa che, sfortunatamente, nota è il fatto che Atemu è letteralmente scomparso dal suo appartamento.
Di certo, Hurley non può negare a se stesso di essere alquanto sorpreso e sbigottito.
«…un sorso della spremuta d’arancia»conclude tra sé, lasciando che le parole aleggino nella stanza che ormai occupa nuovamente da solo.


♟» Chicago, Stati Uniti d’America, 2059


I lampioni cominciano a spegnersi lentamente, uno dietro l’altro, in contemporanea con il sorgere delle prime luci dell’alba.
Man a mano che Ethan, arrancando faticosamente sul marciapiedi, vede quelle stesse luci affievolirsi ogni volta proprio nel momento in cui le raggiunge, non riesce a fare a meno di pensare che perfino quei bagliori si stiano spegnendo con lui.
O forse è solo l’alcool che ha in corpo che lo fa ragionare – o, per meglio dire, sragionare – in un tal modo.
Quel che è certo è che almeno non sta camminando completamente al buio: infatti, con la venuta del nuovo giorno i primi raggi del sole riescono a raggiungere le strade fredde di Chicago, rendendole almeno un po’ più ospitali, sebbene sia ancora mattino presto e non ci sia assolutamente nessuno in giro.
Il che fa sentire Ethan ancor più solo.
Tira un calcio ad una lattina, osservandola rimbalzare prima sul cemento del marciapiede e poi su quello della strada accanto a sé.
Perché non c’è in giro una macchina nemmeno a quell’ora? Non pensava che una grande metropoli come Chicago potesse spegnersi, dopotutto…
In realtà i pensieri che Ethan sta soppesando in quel momento sono proprio altri.
I suoi occhi grigi sono ancora persi nella lattina che, lentamente, rotola lungo la strada fino a che, finalmente, non si ferma.
Da musicista quale è, Ethan non ha potuto fare a meno di essere attirato da quel tintinnio metallico, così assurdamente regolare, fino al punto di chiedersi se lui non si trovi nella stessa situazione di quella lattina.
D’altronde, anche lui sta rotolando, in balìa del corso degli eventi.
Come se fosse un sasso trascinato via dalla tumultuosa corrente di un torrente, così ora si sente Ethan, come quella sua incolore routine lo stesse trascinando via, sempre più verso l’autodistruzione…
Tuttavia d’un tratto, letteralmente dal nulla, sente una voce giungere da dietro le sue spalle e richiamarlo, con una calma sorprendente.
«Ethan Bailey?»
Ah, allora non era poi così deserto, quel luogo…
Ethan pensa – erroneamente – che si tratti di uno dei soliti fan, ecco perché indugia nel voltarsi; è stanco, adesso vorrebbe solo poter andare a casa a riposarsi, non certo incappare nell’ennesima trafila di selfie e autografi per ragazzine troppo piccole per lui.
Forse è troppo perso in pensieri di quel genere, tanto da non accorgersi del pugnale dalla lama lunga una trentina di centimetri che gli trapassa l’addome fin quando non inizia ad avvertire un dolore intenso, bruciante, lacerante alla parte colpita, la lama che gratta volontariamente conto le costole.
Sente l’aria essere risucchiata via dai suoi polmoni, tanto che nel giro di poco tempo rimane a corto di fiato, mentre un fiotto violento di sangue scarlatto gli macchia la camicia candida, piena di volant sul petto.
Ethan si porta le mani sul ventre, solo che non riesce a capire… qualcuno l’ha ferito? E perché mai sarebbe dovuta succedere, una cosa del genere?
Le gambe gli cedono, così si ritrova ben presto con le ginocchia a terra sul selciato, la bocca socchiusa contratta in una smorfia di dolore.
Arriva un altro colpo, stavolta all’altezza delle spalle e forse è solo suggestione, eppure a Ethan sembra quasi di sentire la lama raschiare lo sterno.
“Per pochi centimetri non ha colpito i polmoni…” valuta il ragazzo tra sé. Forse il suo aguzzino l’ha fatto apposta, per prolungare ancora di più quella sorta di perversa ed efferata violenza.
Ethan vorrebbe poter chiamare aiuto, solo che in quel momento tanto critico la sua così preziosa voce stenta a far capolino, beffardo gioco della vita. D’altronde, senza aria in corpo è difficile cantare, figurarsi gridare per chiedere aiuto, non è forse vero, Ethan? Te l’hanno sempre detto tutti: i tuoi produttori discografici, i maestri di canto di cui dicevi di non aver bisogno… non hai mai dato loro ascolto, Ethan. Così, ecco come ti ritrovi adesso: sangue che macchia il cemento a terra e bocca dischiusa nel vano tentativo di chiedere aiuto, che non riesci a portare a termine. Perché sei debole, Ethan Bailey. Ti sei fatto fregare come un povero sciocco da… da chi, poi?
Un ladruncolo qualunque, incontrato per strada a causa della mala sorte? Qualcuno che ha bevuto più di te, stanotte e non è ancora riuscito ac smaltire la sbronza?
Comunque, forse gridare sarebbe inutile: hai già appurato che non c’è nessuno, oltre te e il tuo assassino, nel giro di diversi isolati. Forse a questo punto dovrebbe subentrare l’amara consapevolezza d’aver fallito, Ethan: dopotutto, per quanto ti atteggiassi e quante arie ti dessi, non sei certo un Dio, bensì un comune, misero – se non addirittura miserrimo – essere umano, parassita venuto fuori dai bassifondi, che ha eretto la propria carriera lucrando sulle sventure altrui, cavalcando l’onda del gossip quando ce n’era bisogno. Ogni settimana con una ragazza nuova, feste, eventi, alcol, droga. Una vita d’eccessi, la tua, proprio come quella di ogni rockstar che si rispetti.
Anche quando i giornali parlavano male, dicendo che la tua musica istigava al suicidio, non hai fatto altro che fiondarti ancora di più in quel progetto, non importava che il costo fossero delle vite umane.
Le palpebre si fanno pesanti e calano sugli occhi, mentre il corpo cade in avanti, facendolo ritrovare supino a terra, la faccia premuta contro il marciapiede. Sono tracce di sassi, quelle che sente nella propria bocca? Che schifo.
A quanto pare, tuttavia, il tizio sopra di sé non ha ancora finito di divertirsi con lui. Ethan inizia a pensare che sia il padre o il fratello di una delle sue vittime, quelle persone che si sono suicidate a causa della sua musica. Magari hanno dato troppo retta a quelle cazzate scritte sul giornale e hanno deciso di dargli il benservito. Gli pare un’ipotesi ben più plausibile, in effetti.
Gli viene rifilato un poderoso calcio sul fianco destro e se potesse Ethan si piegherebbe ben volentieri su se stesso, cercando di attenuare il dolore, solo che le ferite che ha nella pancia e tra le spalle glielo impediscono, perciò non può far altro che ruotare fino a ritrovarsi prono, non senza trattenere un rantolo per il dolore.
Sputa, del sangue coagulato si rapprende sulle sue labbra e non volendo finisce per schizzarsi tutta la faccia. La bocca vellutata e il suo intero volto sono ridotti in uno stato assai pietoso, decide tuttavia che quello è davvero il male minore.
L’aguzzino si piega su di lui, posando le ginocchia ai lati del corpo abbandonato di Ethan. Ci manca lo stupro in pubblico, e poi la sua collezione di esperienze tremende sarà finalmente completa.
Passa la lama imbrattata di sangue lungo la mascella prominente del giovane, con un cipiglio impensierito. Ethan non ha la più pallida idea di che cos’altro gli farà, adesso. Sinceramente, non gli è ancora bastato averlo ridotto in fin di vita.
Poi succede una cosa strana, che mai Ethan si sarebbe aspettato. Il suo assassino si mette a parlare.
«Sai, detesto i tipi come te» ammette infatti, la punta di disprezzo ben percepibile nella voce «quelli che nella vita hanno tutto, insomma. Successo, fortuna, amore, soldi. Ahimé, a me non è toccato nulla del genere, così adesso mi tocca sfacchinare in giro per il mondo a causa di un vecchio borioso. Odio la mia vita».
“Non sai quanto io detesti la mia, di vita” vorrebbe replicare Ethan, peccato solo che ormai abbia finito già da un bel po’ il fiato che aveva in gola.
Una domanda, tuttavia, continua a ronzargli prepotentemente nella testa, senza lasciargli tregua.
Chi diavolo è quel tipo?
Alla fine, con le ultime forze che gli rimangono, Ethan si costringe a sollevare le palpebre. E la visione che gli si para davanti è a dir poco sconvolgente.
È abbastanza sicuro di non averlo mai visto prima, in vita sua. Pelle diafana, occhi verde-grigiastri, capelli castani acconciati in una maniera talmente improponibili che farebbero ridere persino i polli. Anche in punto di morte, è difficile non notare certi particolari, per uno che tiene tanto alla moda come Ethan.
Per un attimo crede che quel tipo possa essere interessato all’Orologio, tuttavia ben presto è costretto a smentire nella sua testa anche quella ipotesi, poiché soprattutto per lui è impossibile non notare la catena che scende dal collo del giovane, terminando in un Orologio in tutto e per tutto identico al suo, tranne per il retro, decorato da tanti e fitti microscopici puntini. È abbastanza certo di non aver mai visto niente del genere. Che diavolo è quella roba?
Continua a chiedersi chi diavolo sia questo ‘vecchio borioso’ che quel ragazzo ha nominato, solo che non ha il tempo materiale per poter trovare una risposta a quella domanda.
«Oh, beh» riprende il ragazzo, con voce fredda e impassibile, melliflua, calcolatrice «sono qui per portare a termine un lavoro. Vediamo di finirlo nel migliore dei modi».
Ciò detto, Ethan sente ancora la lama trafiggerlo. Solo che, questa volta, ad essere colpito è il cuore. E il buio cala davanti ai suoi occhi mente Ethan Bailey, inesorabilmente, muore da solo, in una via deserta del centro di Chicago.

Riemergere da quella specie di visione è come prendere una profonda boccata d’aria, dopo interminabili minuti d’apnea.
Thiago sbatte un paio di volte le palpebre, decisamente confuso.
Il musicista Ethan Bailey è morto nella notte tra il venti e il ventun novembre, brutalmente assassinato da un uomo senza nome e senza volto. Le ipotesi sul suo omicidio sono state tante – vendetta personale, rapina finita male, semplice incidente umano – eppure, dopo quasi un mese dall’accaduto, gli inquirenti sembrano non riuscire ancora a darsi una risposta.
Più che altro, le prove dell’omicidio – tra le tante, l’arma del delitto – sembrano essersi letteralmente volatilizzate nel nulla.
Ora, però, la situazione sembra essersi ribaltata.
Dopo aver sentito parlare di quell’artefatto, per mesi e mesi Thiago l’ha cercato in lungo e in largo, fino a quando non è incappato in quell’articolo di giornale sulla morte di Ethan, in cui si faceva cenno al misterioso medaglione che il ragazzo aveva indosso, quando era stato ritrovato riverso in una pozza di sangue.
Si era pensato che fosse stato quello l’obiettivo dell’aggressore, tuttavia non era riuscito a portarglielo via. Forse per mancanza di tempo?
In realtà, in quel momento Thiago può tranquillamente affermare che non era all’Orologio che quel tipo mirava, bensì a Ethan stesso.
Non per faida personale, non spinto dalla foga dei giornali scandalistici o quant’altro… no, il punto era un altro.
Qualcuno aveva spinto quel ragazzo a compiere un gesto così efferato. Un ‘vecchio borioso’, stando a quella ricostruzione. Thiago non può fare a meno di porsi la stessa domanda che è riecheggiata nella mente di Ethan, in punto di morte: chi diavolo sarebbe questo vecchio di cui il ragazzo parlava?
Per anni, Thiago ha rincorso quell’orologio, sulla scia di miti e leggende. Aveva sentito parlarne per la prima volta tanti anni addietro, in uno dei suoi numerosi viaggi di lavoro. Da allora non aveva mai smesso di cercarlo, correndo dietro alle più disparate piste, da quelle più giuste ad altre, decisamente sbagliate ed altamente improbabili.
E poi era incappato in quel trafiletto, su un giornale di seconda mano, in cui si faceva riferimento alla morte di un giovane musicista ventenne, sepolto con il suo strano orologio.
Da qualche parte – una biografia di Ethan, uscita in seguito alla sua prematura scomparsa – aveva letto che uno dei sogni del ragazzo era morire a ventisette anni, possibilmente di morte violenta, così da poter essere ricordato nel Club 27, ossia gli artisti principalmente statunitensi morti proprio a quell’età.
Vedere il proprio nome comparire insieme a quelli di Kurt Cobain, Jimi Hendrix ed altri artisti di tale calibro gli avrebbe conferito gloria e fama eterne.
Non sa quante di quelle dicerie corrispondano alla realtà, tuttavia Thiago preferisce pensare che Ethan volesse avere successo nella vita con la sua musica, non certo per essere morto alla stessa età di Jim Morrison.
Comunque, a quanto pare Ethan non è riuscito nel suo intento di diventare “indimenticabile” nella memoria della gente e Thiago dubita che sia perché è morto con sette od otto anni d’anticipo rispetto a Brian Jones, quanto piuttosto per quel che ha fatto in vita. Ethan Bailey era infatti un narcisista, cinico, insensibile musicista, disposto a lucrare sulla morte altrui pur di costruire il proprio successo.
In un certo senso, Thiago si sente simile a lui: certo, non ha mai pensato di passare sulle vite altrui pur di raggiungere i suoi scopi, però non può negare a se stesso di essere anche lui, almeno un poco, arrivista.
Ha investito tutta la sua vita nel lavoro e nella ricerca di quell’Orologio, ecco perché adesso è lì.
Meglio non pensare a quanto ha dovuto pagare i becchini per far disseppellire loro quella bara e, chiaramente, per assicurarsi che tengano la bocca chiusa sull’argomento. Per lo scopo che si è prefissato, è disposto a questo ed altro.
Tornando alle dicerie sull’Orologio, una di queste era che, al momento del passaggio non concordato tra il vecchio possessore e quello nuovo, quest’ultimo rivedesse nella propria mente gli ultimi momenti di vita del vecchio proprietario.
Beh, inutile dire che Thiago ha appena accertato la veridicità di quelle parole – per quanto non fosse di certo favorevole a ricevere gli ultimi stralci di vita di un ragazzo spocchioso e pieno di sé morto assassinato, certo.
La visione era stata incredibilmente realistica, gli sembrava di poter sentire ancora l’odore acre del sangue e il pugnale conficcarsi nelle proprie carni, anziché in quelle di Ethan.
Thiago rabbrividisce, nel freddo pungente di dicembre. È passato quasi un mese dal funerale di Ethan – niente di troppo formale o pomposo, una semplice cerimonia privata riservata solo agli amici e ai pochi famigliari – e le corone di fiori poste sul cumulo della bara sono pressoché appassite, tra i primi fiocchi di neve.
Nessuno si reca a far visita a quel tempio, nemmeno i fan. Neppure un nuovo omaggio ad ornare la terra fredda che ha accolto la salma senza vita di quel giovane uomo.
Thiago se l’aspettava, perciò ha avuto il buonsenso di portare un unico fiore, una rosa bianca. Non che fosse un ammiratore della musica di Ethan, è abbastanza certo di non aver mai sentito niente di suo, perlomeno fino a dopo la sua morte, quando qualche radio locale si è degnata di passare alcuni suoi pezzi. Aveva una gran bella voce, Ethan. Roca, sofferta, accattivante.
Cantava d’amore, a volte di dolore. Qualche ANSA di nicchia deve aver sparso la notizia che Ethan fosse innamorato di un suo amico, un certo Joseph King. Ecco perché gli ha portato quella rosa: una volta, una fiorista in Portogallo – la sua patria – gli ha detto che, nel linguaggio vittoriano dei fiori, la rosa bianca significava “un cuore che non conosce l’amore”. La definizione gli è parsa adatta ad Ethan, poiché a quanto pare non ha mai avuto il coraggio – o forse, più semplicemente, il tempo – necessario per poter confidare il suo amore a questo Joseph.
Quanto all’Orologio, Thiago ha cercato di ricostruire un filo di verità intorno a quell’oggetto. Parrebbe trattarsi di un artefatto magico, costruito anni addietro da un alchimista di Londra, un certo Joshua Parrish, che per molto tempo si è spacciato per un semplice artigiano, lavorando presso la sua bottega.
Pare che, nel 1782, Joshua avesse costruito dodici Orologi, dei congegni che, grazie all’alchimia che scorreva nei loro ingranaggi, fossero in grado di viaggiare tra le varie pieghe del tempo, passate o future.
Peccato che qualcuno avesse scoperto le reali intenzioni dell’artigiano-alchimista, così da decidere di ostacolarlo. Chi fosse stato in possesso di tutti gli Orologi, infatti, sarebbe stato un vero e proprio Signore del Tempo, capace di dominare ogni epoca a proprio piacimento.
A quel punto, un uomo crudele e senza scrupoli tentò, dopo aver ucciso Joshua, di impossessarsi di tutti gli Orologi, tuttavia l’alchimista era stato più furbo: infatti, aveva già disposto ogni cosa in modo da far sì che, alla sua morte, avvenisse quella che comunemente viene denominata la “diaspora degli Orologi”, vale a dire la dispersione degli artefatti magici in giro per tutto il mondo.
Da allora, al succedersi di ogni nuova generazione, una dozzina di nuovi ragazzi entra in possesso ciascuno di un Orologio e il loro compito è quello di non far cadere gli artefatti in mano del loro nemico e, dunque, sconfiggerlo.
Quanto a chi sia quest’uomo, beh, nessuno lo sa per certo: è senza dubbio una persona assetata di sangue, pronto a qualsiasi cosa pur di ottenere quel potere che agogna da quasi due secoli e mezzo. Già, chi entra in possesso di un Orologio – comunemente abbreviato in Oro – perde la capacità di invecchiare, fino a che non se ne separa, per volontà propria o costretto da altri che sia.
Probabilmente, ragiona Thiago, quello che ha visto nei ricordi dell’Oro di Ethan doveva essere un emissario del nemico, visto che al collo portava l’Oro del male – sì, gli Oro si distinguono in base ai simboli raffigurati sul retro e cambiano in base a chi li possiede.
La cosa strana è che Thiago è abbastanza sicuro di non aver mai visto quell’effige, prima di allora.
L’Oro tra le sue mani brilla di una luce turchese scuro, mentre sente il retro di esso farsi di una temperatura insostenibilmente calda. Malgrado ciò, Thiago si costringe a tenere l’Oro ancora ben stretto nella sua mano, fino a che la luce non si attenua e il calore smette di diffondersi.
Adesso, sul retro dell’Oro, è rappresentato un ragno, simbolo dello zelo e dell’operosità: gli aracnidi, infatti, sono noti per la loro pazienza nel tessere le tele, dove poi attirano le loro prede, per catturarle e mangiarle in tutta calma, mentre queste si dibattono tra quei fili da cui non riusciranno a liberarsi e che causeranno loro la morte.
Ecco, Thiago non è certo un ragno in questo senso, tuttavia sa di essere provvisto di quel giusto pizzico di zelo – e, talvolta, sprovvedutezza, certo – che gli consentono di avere sempre la meglio su tutti i suoi avversari. Anche stavolta ce l’ha fatta, sebbene sopraffare qualcuno che è già in una bara non sia poi così difficile.
A tal proposito, continuare ad osservare la salma grigiastra di Ethan non gli sarà certo di beneficio. Ormai il passaggio dell’Oro è avvenuto e senza intoppi, pertanto non ha più senso fissare quel corpo dalla pelle mortalmente diafana.
«Potete rimetterla giù» comunica agli inservienti del cimitero, che chiudono la bara e cominciano a calarla nuovamente sottoterra. Non sa perché, eppure ha come l’impressione che questo gli costerà degli altri soldi.
Ora anche Thiago è finalmente un Crononauta e ha tutte le intenzioni di rimanerlo per un po’, non certo di farsi portare via la vita tanto facilmente come è successo ad Ethan. Ripensa tuttavia all’emissario del nemico che gli è apparso nella visione, con quello strano Oro mai visto da nessun’altra parte e sa già che sarà una missione tutt’altro che semplice.

♟» New York, Stati Uniti d’America, 2120

Quando l’ossigeno torna a fluire nei suoi polmoni, Jude quasi non se ne accorge.
Ha gli occhi chiusi, sente le guance in fiamme e il cuore martellargli ad un ritmo folle nel petto. Le labbra gli fremono ancora, mentre tutto il mondo sembra essersi ristretto ad un pugno di centimetri.
Sa di non essersi sognato tutto – ed è ben lieto del fatto che non sia così – eppure gli appare tutto in modo così incredibile che crederci gli sembra folle.
Sa tuttavia che non sta immaginando le mani che ora gli stringono piano il volto, così come la fronte che si poggia alla sua, o lo sbuffo di fiato leggero che gli colpisce il viso, riportandolo di colpo alla realtà.
È in una dimensione che non è la sua.
Parla da tempo indefinito con una persona che credeva morta da quattro anni.
Quella persona – che altri non è se non Ray Dark – lo ha appena baciato.
No, un momento.
Ray Dark l’ha appena baciato.
Oddiooddiooddiooddio.
Jude deve ripeterselo nel cervello circa un centinaio di volte, prima di cominciare a rendersi conto dell’effettiva realtà dei fatti.
“Calmo. Sta calmo, Jude. Ragiona lucidamente, ti prego, non andare nel panico…”
Oh, andiamo, a chi voleva darla a bere, ormai era già innegabilmente nel panico più totale da cinque minuti buoni. Lui, quello sempre padrone di sé e delle proprie emozioni—
Oh, al diavolo.
«Jude»
La voce dell’uomo sembra risvegliarlo da una letargia secolare; non appena solleva le palpebre ed incrocia lo sguardo affranto e colpevole dell’altro, Jude sente il cuore riprendere a battere con una frequenza insostenibile, mentre un nodo in gola si stringe, ad ostruirgli il respiro.
«Ti prego, perdonami» lo sente riprendere, di lì a poco «ho fatto una cosa terribile, lo so. Io—»
Jude, tuttavia, non gli lascia il tempo per finire la frase.
Poggia l’indice sulle sue labbra, intimandogli il silenzio, mentre percepisce il corpo di Ray sobbalzare per quel gesto improvviso, inatteso.
«Ti stai scusando per avermi baciato?» domanda Jude, la voce piatta e monocorde che si rivela stranamente minacciosa.
«B-beh… sì, a dir la verità…» cerca di spiegare l’altro, avvertendo la voce pericolosamente incerta.
«Mi è piaciuto»
«Cosa?»
«Come ‘cosa’?» Jude sospira, facendo roteare gli occhi per l’esasperazione «Parlo del bacio, Ray, a cos’altro diavolo dovrei rif—»
«Ti è piaciuto?» Ray sembra incredulo, non pensava che avrebbe mai sentito dire quelle parole a Jude Sharp.
«È quello che ho appena detto» replica il diretto interessato, gli pare di star parlando con uno stupido – cosa che Ray Dark non è, affatto. Può attribuire un sacco di aggettivi negativi a quell’uomo – megalomane, folle, cinico, prepotente e via dicendo – di certo tuttavia non può dargli dello stupido. Ha visto con i suoi occhi quello che è in grado di fare e per quanto il più delle volte si tratti di cose malvagie su cui Jude non è affatto d’accordo,  sa che dietro ogni suo gesto si cela una grande dose di raziocinio.
«Davvero?» rincara l’altro, sembra letteralmente incredulo.
«Certamente» gli assicura il giovane, rivolgendogli un lieve sorriso.
«Oh, allora è così, mh?» Dark sembra essersi ripreso dallo shock della rivelazione, mentre stringe la vita del ragazzo e lo trascina con sé «Beh, in tal caso potrebbe anche saltarmi in mente di fare una cosa».
«Che genere di cosa?» si azzarda a chiedere il giovane, tenendo le braccia strette attorno al collo dell’ex allenatore e lasciandosi trascinare lentamente.
«Direi… questa» si appresta a rispondere l’uomo, sorridendo furbescamente.
Neanche un secondo dopo, le sue labbra tornano su quelle del ragazzo, riempiendole con una miriade di piccoli baci.
Jude arrossisce, senza tuttavia accennare all’intenzione di allontanarlo da sé.
In fondo, finirebbe per mentire a se stesso se dicesse che tutto ciò non gli stia dannatamente piacendo.
«Ti amo» sente mormorare Ray, tra un bacio e l’altro «ti amo, ti amo, ti amo…»
«E-ehi…» lo richiama poco dopo Jude, carezzandogli una guancia mentre si distacca piano da lui, appoggiando la fronte contro la sua «e perché te ne vieni fuori con una cosa del genere solo adesso?»
Ray sembra sorpreso da quella domanda, tanto che per un attimo le sue iridi sembrano dilatarsi, puntini neri d’inchiostro che si espandono lungo un mare di carta bianca.
«Beh, ecco, io…» balbetta l’uomo, poco dolo, apparentemente spiazzato «…n-non sapevo se dirtelo. Avevo paura di spaventarti, non volevo che mi odiassi ancora di più…»
«Ray» Jude sospira, ha l’impressione di rivolgersi ad un bambino «io non ti odio. Ti ho perdonato tanto tempo fa, ricordi?»
«M-ma» dopo quelle parole, Ray sembra essere ancora più confuso «tu l’altro giorno hai detto che mi odi…»
«Oh, insomma» Jude sbuffa, esasperato, deve fare uno sforzo immenso per non mettersi ad urlare «mi dispiace per quello che ho detto. Credevo sapessi però che non lo penso sul serio, in quel momento ho sbraitato così solo perché ero infuriato con te».
«Sul serio?»
Jude sospira di nuovo prima di replicare ancora una volta:«Dio, Ray, certo che sì. E smettila di tremare in questo modo, dov’è il Comandante spavaldo e sicuro di sé che amo?»
«Che il cielo sia lodato!» gli occhi dell’uomo sembrano illuminarsi, mentre si lancia nuovamente a baciare quelle labbra giovani e tanto amate «Hai detto che mi ami, Jude, hai detto che mi ami~»
«E-ehm… sì, l’ho detto. Ray, adesso potresti smetterla di—»
«Hai detto che mi ami!»
«Ray, se non la pianti immediatamente di interrompermi giuro che mi rimangio ogni singola parola che ho detto» lo minaccia subito il ragazzo, senza indugiare oltre.
«Oh» l’uomo si ferma all’istante sul posto, congelato al pensiero di quella possibilità «sì, giusto, hai ragione. Ti chiedo scusa, Jude».
Il giovane Sharp sogghigna soddisfatto: sono poche le volte in cui Ray Dark l’abbia lasciato spuntarla, durante un dibattito.
«Molto bene» Jude gli carezza il capo, con sguardo malizioso «e adesso che si fa?»
Ray ghigna immediatamente, ricambiando l’occhiata lasciva del giovane.
«Oh, io una mezza idea ce l’avrei…~» ammette infatti poco dopo, prendendo colui che ora, a maggior ragione, può finalmente definire il suo ragazzo, per mano.
«Vieni con me» aggiunge ancora, la voce carica d’aspettativa.
«Anche in capo al mondo» s’affretta a replicare il ragazzo, un sorriso gentile che gli fa capolino sul volto.
Ed è lo stesso sorriso che, poco dopo, incurva le labbra dell’uomo, solitamente piegate nel consueto ghigno arcigno, mentre inizia a correre attraverso l’ufficio in cui si trovano, e poi giù, giù, giù, lungo rampe e rampe di scale.
Jude ride cristallino, lasciandosi trascinare con piena condiscendenza. Per un istante la tentazione di ricordare a Ray – sebbene sia abbastanza sicuro che l’uomo lo sappia già – che non avrebbero dovuto baciarsi, oltre al fatto che nessuno di loro due dovrebbe provare dei sentimenti del genere verso l’altro. Però alla fine decide di non farlo, non vuole rovinare quel momento così perfetto con le sue solite stupidi ed inutili paranoie.
Dal canto suo, anche Ray ha preferito omettere qualcosa al suo ragazzo: mentre correvano via da quell’ufficio, infatti, ha intravisto uno strano bagliore purpureo, attraverso la lunga vetrata.
Non gliene ha parlato, perché quella risata limpida e quegli occhi rossi che scintillano solo per lui valgono decisamente molto di più di una luce che potrebbe benissimo essersi sognato.
Non turberebbe mai e poi mai la tranquillità di Jude, non in un momento del genere, ora che il ragazzo ha ripreso a sorridergli e a fidarsi di lui dopo così tanto tempo.
Ray, però, ancora non sa che quel bagliore potrebbe essere ben più importante di quello che crede…


♟» Nel frattempo, in un luogo non meglio definito…


Spire di fumo si uniscono in ipnotici movimenti circolari, ricreando una superficie speculare, attraverso la quale appaiono, nitidi e ben visibili, Jude Sharp e Ray Dark, intenti a correre giù lungo ampie rampe di scale, tra risolini entusiasti ed occhi scintillanti.
“Che scena al limite del patetico” si limita a commentare tra sé l’uomo seduto sul trono dorato, con la solita espressione impassibile.
«Non era così che dovevano andare i piani» sente sbottare qualcuno, in fondo alla sala immersa nelle tenebre.
L’altro rotea gli occhi, esasperato. Possibile che, tra tutti i servitori esistenti al mondo, proprio a lui dovesse toccare un moccioso spocchioso e amante delle insubordinazioni?
«Ah, buonasera» l’uomo si volta in direzione del nuovo arrivato, con un’espressione di biasimo «andato bene il viaggio? Per tua fortuna ti sei risparmiato la parte in cui si dichiarano amore eterno e via discorrendo—»
«Non mi racconti cazzate» sbotta il giovane, sputando a terra, disgustato «dovevamo farli fuori tempo fa, quando ne avevamo la possibilità. Quei due sono una minaccia bella e buona per i nostri progetti…»
«I miei progetti, vorrai dire» il sorriso scompare dal volto dell’uomo, tramutandosi ben presto in un ghigno che gli è più congeniale «non prenderti meriti che non ti appartengono, Stonewall. Se non fosse stato per me, tu saresti ancora da qualche pare a commiserare la tua patetica figura, nel 2059. Suvvia, porta rispetto… e modera il linguaggio, soprattutto».
Fosse per Caleb, adesso salterebbe ben volentieri alla gola di quel vecchio aguzzino senza scrupoli. Un attimo prima che possa farlo, tuttavia, si ricorda che l’uomo per cui lavora ha così tanto potere da poterlo uccidere in un istante, se solo lo desiderasse.
«Vorrei ricordarti inoltre – visto che forse te ne sei scordato – che sei dentro questa storia fino alla punta dei capelli, pardon, mi correggo, fino alla punta di quell’orrendo ciuffo che ti ritrovi in testa. Hai forse dimenticato di essere stato tu ad uccidere Ethan Bailey, lo scorso novembre?» puntualizza il vecchio, con voce arcigna e calcolatrice.
E merda, sì, quel tizio ha fottutamente ragione. Si è macchiato le mani del sangue di qualcun altro per lui, solo perché era d’intralcio per i piani. ‘Una minaccia troppo grande’ l’aveva definito il vecchio, prima di mandare Caleb ad ucciderlo. Minaccia per cosa, poi, il ragazzo non l’aveva capito.
Cazzo, aveva ammazzato Ethan senza nemmeno saperne il perché. Se quell’uomo gli avesse detto di buttarsi da un ponte, probabilmente l’avrebbe fatto senza battere ciglio, pur continuando a non capirne il motivo.
«Piuttosto» lo richiama il vecchio, massaggiandosi distrattamente una tempia «ti sei occupato di quelle ‘faccende’ che ti avevo detto?»
«Certamente, Signore» risponde meccanicamente Caleb, non senza una smorfia di disgusto «ho rifilato una botta in testa a Ziva Shapira, per poi iniettarle la sostanza – che Lei mi ha consegnato, Signore – mentre era ancora svenuta. Sono abbastanza certo che, una volta risvegliata, non ricordasse un bel niente di Orologi e quant’altro. Comunque, adesso a quanto pare l’Oro del Tempo – quello con il simbolo della pergamena, per capirci – sarebbe caduto nelle mani di una certa Claudine Blanchard, cambiando il simbolo in una rondine, quindi l’Oro della Libertà. Per quanto riguarda Shiba Orubo, è stato più semplice del previsto: quel tipo ha sempre la testa in culo al mondo, mi è bastato spingerlo giù oltre il reticolo spazio-temporale durante uno dei suoi viaggi e il gioco è fatto. Adesso ad essere in possesso dell’Oro dell’Ingegnosità sarebbe Amos Akolzin, chi diavolo sia nessuno lo sa. Infine, quanto all’Oro della Musica di Ethan Bailey che, come Lei ha ricordato, sono stato io stesso ad uccidere…»
«…ora appartiene, proprio come io avevo previsto, a Thiago Joel Ferreira dos Reis, arrivato in America direttamente dal Portogallo, come Oro dell’Ambizione. Possiamo rilassarci, Caleb. Tutto procede secondo i nostri piani. E ti avevo detto di moderare il linguaggio, cosa che tu non hai fatto, tuttavia adesso queste non sono che inezie, dinanzi alla magnificenza di ciò che si sta costruendo sotto ai nostri occhi» conclude l’uomo, pieno di un preoccupante fervore.
«Sì» cerca di riprendere Caleb, ben più ancorato alla realtà dei fatti «ma per quel che riguarda Jude Sharp e Ray Dark…»
«Oh, Caleb, dunque è questa la tua preoccupazione?» chiosa l’uomo, quasi prendendolo in giro con quelle sue stesse parole «Di questo non dobbiamo preoccuparci, mio fedele servitore. Lasciali pure ardere in questa passione: vedrai che, a conti fatti, di loro non resteranno che ceneri, mentre a trionfare saremo noi».
E, detto ciò, quell’essere viscido e perfido scoppia in una roca risata malvagia, mentre Caleb serra la mascella, fissando il suo migliore amico e il suo ex allenatore correre e ridere attraverso quelle strade deserte, diretti verso l’Hillton Hotel.


                               
   
*Angolo autrice*
Oddio, non ci credo, sono riuscita a finire questo capitolo.
Probabilmente adesso, in qualche remota parte del mondo, a Marina sarà venuto un infarto
Sono molto felice di potervi lasciare questo nuovo capitolo e Ange è contenta di poterlo finalmente leggere
Comunque, ammetto di essere in ritardo stratosferico, visto che l’ultimo capitolo risale a sei mesi fa e al tempo stesso di essere invece abbastanza in tempo, perché le nuove iscrizioni si sono chiuse tre giorni fa.
Ebbene sì, abbiamo un nuovo assetto dei Crononauti, che qui di seguito vi andrò ad elencare, con rispettivi colore della luce dell’Orologio durante il salto spazio-temporale e simbolo sul retro dell’artefatto


Amelia Greene ~ corvo
Thiago Joel Ferreira dos Reis ~ ragno
Claudine Blanchard ~ rondine
Margarita Rimšaitė ~ maschere del teatro classico
Atemu McKinley ~ mondo
Amos Akolzin ~ ingranaggi
Andrea Cervini ~ scheggia di vetro


Ed eccoli qua, i nostri prescelti :3
Mi spiace per chi è stato eliminato ma… in un certo senso, ve la siete cercata voi.
Parlando del capitolo… come vi avevo promesso, abbiamo un nuovo banner. Probabilmente l’altro era più carino, sappiate però che per il terzo ed ultimo arco narrativo ce ne sarà uno ancora diverso (alla faccia della pigrizia).
Ammetto che la parte di Atemu – e un pochino di quella di Ethan – avevo cominciato a scriverla già da maggio, solo che poi, tra un problema e l’altro, sono rimasta lontana dalla scrittura per un bel po’. Ora però ho tutte le intenzioni di recuperare il tempo perduto.
Mi dispiace di aver ucciso Ethan? No, affatto. È stato anzi una sorta di esercizio per sfogare tutta la rabbia repressa che avevo dentro, ecco perché – almeno a me – sembra una narrazione incredibilmente realistica. E poi andiamo, Thiago è un personaggio centomila volte migliore di Ethan, questa cosa non si discute.
(Se mi venite a dire via recensione che vi dispiace che io abbia ucciso Ethan giuro che vi mangio la testa)
Quello che mi premeva fare è un ragguaglio sulle situazioni temporali: tutta la storia è ambientata nel 2059, mentre gli eventi della premiata coppia KageKi avvengono in una dimensione parallela atemporale, dove il tempo si sarebbe ipoteticamente fermato nel 2100 dopo una grave catastrofe. Ieri sono stata tipo tutto il giorno sul computer per poter far quadrare ogni cosa, inoltre ho corretto tutti i vari errori di punteggiatura e tempi verbali disconnessi che avevo disseminato  in giro per il testo. Giuro che appena trovo dieci secondi di tempo posto anche i capitoli revisionati e corretti.
A proposito di questi ultimi, ci sono state delle modifiche sostanziali nelle parti di Amelia: le vicende di lei e Darren si svolgono comunque nel 2059 e non nel (cos’era) 2012, inoltre la paura di Amelia quanto a ciò che non può confidare a Darren è relativa al fatto che sia una Crononauta, non certo perché venga da un’epoca diversa – perché per l’appunto no, le loro epoche non sono più diverse.
Un’altra cosa importante: gli eventi di Amelia nel capitolo precedente e di Atemu e Thiago in questo si svolgono nel dicembre 2059, mentre tutti gli altri archi narrativi – all’infuori dei salti temporali – si ambientano a novembre 2059. Questo succede perché mi dovevo far quadrare i conti, in qualche modo dal prossimo capitolo in poi la narrazione sarà stabilmente ambientata a dicembre 2059, tranne per i salti spazio-temporali.
Dovevo aggiungere a questo capitolo anche una parte in cui Amelia richiama gli altri sette Crononauti alla bottega, solo che ormai il chap mi era venuto decisamente troppo lungo – circa 7.150 parole e 20 pagine di Word – perciò ho preferito spostarlo nel prossimo capitolo, che se tutto va bene uscirà i primi di settembre (scusate ma attualmente sono alle prese con una one shot molto impegnativa, pertanto ho preferito lasciarvi questo capitolo oggi in modo da potermi concentrare poi sull’altra storia e riprendere la long più avanti, quando sarò un po’ meno oberata di impegni).
Ho anche modificato l’ordine dei capitoli, quindi questo è il quinto, mentre il prossimo sarà il sesto. E anche lì, aspettatevi colpi di scena a go go: conosceremo anzitutto i due nuovi personaggi, Claudine e Amos, inoltre avremo la prima vera e propria riunione dei Crononauti e… oh, finalmente un po’ di azione!
Dunque, con questo credo di aver detto tutto. Mi dispiace di non aver pubblicato prima ma, davvero, è stato forse il periodo peggiore di tutta la mia vita. Adesso però sono qui, lo giuro, e m’impegno solennemente a portare avanti questa storia.

A presto
Del       


Next stop .:: Chapter six  —Resistance
   
 
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