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– QUANDO LA BANDA PASSO’
La cosa
strana era che, sebbene
legati da una forte amicizia e dal desiderio di passare del tempo
insieme, non
è che ci riuscissimo spesso, oltre
all’appuntamento fisso e improrogabile delle
sere. Durante la mattinata non ci vedevamo mai, spalmati, come eravamo,
sui
lidi di Policoro, inconsapevoli della presenza degli altri del gruppo
al mare e
altrettanto desiderosi di andarci. Il pomeriggio in realtà,
a parte me e
Giuseppe che riuscivamo a stare insieme spesso, avevamo solo da un anno
incominciato a studiare insieme, anche se materie e libri diversi.
Sostanzialmente,
l’unico
periodo della giornata in cui riuscivamo a stare insieme era la sera.
Più o
meno verso le sette e mezza, con l’aria un po’
più fresca, ci si trovava fuori
casa di Giuseppe e si incominciava a giocare o chiacchierare con le
altre
ragazze vicine di casa, soprattutto Annalisa e Francesca. Poi alle otto
spaccate io ricevevo la chiamata dei nonni, per la cena e non ci si
vedeva per
un’oretta buona, perché prima mangiavo io, poi
verso le otto e mezza, anche i
miei amici. Alle nove ci si trovava di nuovo tutti insieme e si stava
insieme
fino a mezzanotte.
Quando si
era più piccoli a
giocare a palla, nascondino, e tutti i giochi da bambini. Essendo la
via di
Giuseppe una strada chiusa e circondata da due schiere di case, era un
posto
sufficientemente tranquillo e che non permetteva il passaggio delle
macchine.
Ogni anno, verso la metà di Agosto, ci si organizzava
addirittura la tavolata e
ci si mangiava la carne, magari guardando alla televisione qualche
incontro
sportivo. Trenta persone, cinque o sei famiglie che si divertivano fino
all’una, le due, senza disturbare nessuno.
Poi, verso
i miei dodici,
tredici anni, avevamo incominciato a passeggiare, con gli altri per le
strade
limitrofe, oltre che semplicemente utilizzarle come territorio per
giocare a
nascondino. Finché ci accorgemmo che quelle strade erano
troppo grandi per
essere il territorio di una partita a nascondino. Cioè una
persona, da sola,
non riusciva mai a vincere contro quelli che si nascondevano. Il
risultato fu
che ci annoiammo sempre di più di giocarci.
Un giorno,
a Emanuele, venne un
idea pazza: unire “nascondino” con
“Guardie e ladri”. Cioè invertire i
ruoli
del nascondino. In pratica uno si nascondeva e gli altri lo dovevano,
in
quell’immenso territorio, scovare e prendere. Vinceva il
gioco chi riusciva a
rimanere nascosto per più tempo.
Sembrava
un gioco come tutti
gli altri, ma con il tempo rivelò alcune caratteristiche e
peculiarità di
ciascuno di noi.
Ad esempio
sia Francesco che
Emanuele impararono con quel gioco, a pedinare e seguire, senza essere
scoperti, qualcuno.
Giuseppe
imparò a trovare sempre
una soluzione alternativa per evitare una certa situazione, come quando
si
ingegnava a trovare una via di fuga per non essere acciuffato dagli
altri. E ci
riusciva praticamente sempre.
Io
accrebbi la mia capacità di
soluzione di problemi, di osservare e di esaminare tutte le variabili
per trovare
la via migliore per agire.
Soprattutto
tutti imparammo a
lavorare in gruppo. E apprezzammo il piacere di farlo. Così
tanto, che dopo un
estate di gioco, quando avevo tredici anni, quindi due anni prima di
quello dei
fatti che vi sto raccontando, dovemmo stabilire delle regole,
perché nessuno
più voleva andare a nascondersi, amando di più il
gusto di partecipare con
tutti gli altri alle ricerche.
Francesco
suggerì una soluzione
semplice alla questione. Bastava che ad uscire fossimo, a turno, tutti.
In
ordine alfabetico.
Gli unici
a non essere
d’accordo con questo gioco, che ci faceva scorrazzare da soli
per quelle vie,
erano i vari genitori e nonni. Per tranquillizzarli, anche se avevamo
già
acquisito quell’arroganza adolescenziale da pensare che non
ce ne sarebbe mai
stato bisogno, decidemmo che in caso qualcuno di noi si fosse trovato
in
pericolo, avremmo dovuto fare tre fischi brevi e ravvicinati. Le
ragazze erano
quelle che sapevano fischiare meglio. Questo segnale, annullava
automaticamente
la mano, interrompeva il gioco e faceva muovere tutti verso il luogo da
cui era
stato emesso il fischio. Regola che, comunque, non ci era mai capitato
di dover
utilizzare, se non per rassicurare i vari genitori e nonni.
Qualche
sera dopo il mio
arrivo, eravamo, appunto, a giocare a nascondino al contrario. Era
quasi
mezzanotte, il che significava che nel nostro “campo di
gioco” passava solo una
macchina ogni tanto. Era il mio turno. Sebbene, come tutti gli altri,
provassi
più gusto nel cercare che nel nascondermi, stavo provando
diverse tattiche che
mi permettevano di vincere la mia stessa tattica di ricerca che usavo
quando
ero dall’altra parte. Insomma, combattevo contro me stesso. E
stavo pure
vincendo, perché erano dieci minuti buoni che mi ero reso
assolutamente
invisibile dallo sguardo dei miei amici, soprattutto quello attento di
Emanuele. Quello era più o meno il momento in cui iniziavo
ad annoiarmi. Di
solito a quel punto mi stufavo di essere cercato, se ci arrivavo, e
trovavo il
modo di farmi trovare. Così poi toccava ad Annalisa, che
veniva puntualmente
trovata entro i primi trenta secondi. E poi passava il turno di
Emanuele, che,
sotto quell’aspetto, era un osso duro.
Secondo i
miei calcoli, avendo
visto passare, proprio qualche secondo prima, Giuseppe dalla via che
stava più
in alto rispetto a quella nella quale mi trovavo, capii che
nessun’altro
avrebbe potuto trovarmi prima di un paio di minuti, perché
Giuseppe, il più
acuto ed il più veloce del gruppo, veniva mandato alla mia
ricerca da solo.
Quindi tutti gli altri sarebbero stati praticamente
dall’altra parte del campo
di gioco. E Giuseppe difficilmente sarebbe ritornato sui propri passi,
se non
insospettito da qualcosa che, comunque, non avevo fatto.
Udii
nitidamente due fischi. Il
terzo fu strozzato. Sobbalzai, quando compresi da che direzione stavano
arrivando. Ero indubbiamente il più vicino. Quindi mi
avvicinai lentamente
all’incrocio. Riuscii a sporgermi appena per vedere quello
che stava succedendo.
E rabbrividire. Dorian aveva preso Giuseppe e, dopo avergli sferrato un
pugno
in pancia lo teneva premuto contro il muro. Al suo fianco
c’era Michele. I due
erano, evidentemente da soli. Compresi che la paura che avevo provato
solo
pochi giorni prima non era niente a confronto con quella che stavo
provando in
quel momento.
Che cosa
volevano da Giuseppe?
E gli
altri avevano sentito i
fischi? Tutti e tre?
E se la
risposta a quest’ultima
domanda era affermativa, quanto ancora avrei dovuto attendere per
ricevere
l’aiuto e l’appoggio di Francesco e Emanuele?
Purtroppo
quelle domande, nella
mia mente, rimasero per pochissimi secondi, soppiantate immediatamente
dallo
spavento e dal dolore per un pugno allo stomaco, e un coltellino
puntato alla
pancia subito dopo da Salvatore. Una mano mi prelevò dal
nascondiglio
improvvisato che era stata quella via. Era Michele. Puntandomi lui, a
questo
punto, un coltellino al viso, mi costrinse a raggiungere Giuseppe con
le spalle
contro il muro.
“Bene!
Abbiamo
qui il capo! E siamo anche in superiorità
numerica!” disse Salvatore ridendo
mentre la stessa sensazione del coltellino la ebbe Giuseppe, vedendo di
fronte
a sé Dorian.
“Cosa
pensate di
farci?” chiesi con il tono più calmo che mi venne
fuori in quel momento.
Michele mi
buttò
una sbuffata di fumo di sigaretta addosso. Aveva anche incominciato a
fumare
adesso? Pensai in un momento di lucidità.
“Farvela
pagare!”
disse. “Avete qualche idea?” propose ai due
ragazzini che si era portato dietro
in quella che stava sempre più prendendo la forma di una
vendetta.
“Sfiguriamoli,
con il coltellino o con una sigaretta!” fu la proposta di
Salvatore.
“Rompiamogli
il
naso a tutti e due” quella di Dorian.
“Avevo
in mente
qualcosa di meno doloroso, ma più umiliante!”
aggiunse Michele.
Io e
Giuseppe ci
guardammo attoniti. La paura non aveva smesso di crescere. E sentimmo
contemporaneamente cederci le gambe quando Michele continuò.
“Stasera
tornate
a casa nudi!” fu la semplice e lapidaria sentenza di Michele.
Seguita da un
ordine. “Spogliatevi!”.
Per un
attimo mi parve di non
aver capito bene la loro richiesta. Se in un qualsiasi altro momento,
una cosa
del genere sarebbe stata ampiamente fuori discussione, in quella
situazione
rasentava l’inverosimile. Cosa voleva dimostrare Michele con
quell’azione? La
sua supremazia nei nostri confronti? La loro forza? O voleva
semplicemente
umiliarci? Giuseppe, lo sapevo, non avrebbe mai acconsentito facilmente
a fare
una cosa del genere. Anche se il coltello dalla parte del manico che
avevano in
quel momento era un buon deterrente per la disubbidienza. Ma
perché? Che
bisogno c’era di umiliarci così?
Ebbi un
flash-back. Mi ricordai
che quattro anni prima, quando ero in prima media, era successa proprio
una
cosa del genere. Un mio compagno di classe, un mio amico, almeno
così credevo,
nel giro di qualche giorno aveva incominciato a prendermi in giro,
prima
leggermente, poi con prese in giro sempre più pesanti. Aveva
incominciato a
fare il bullo con diversi di noi in classe, me compreso. E alla fine di
una
lezione di educazione fisica, davanti a tutti i miei compagni di
classe, mi
ordinò di spogliarmi completamente. Fortunatamente in
quell’occasione la fine
dell’incontro fu fischiata dal professore che risolse la
questione.
Qui,
però, professori non ce
n’erano. Scuole neanche. C’erano i coltellini,
però. Ed eravamo in due contro
tre.
Passai
pochi secondi immerso in
quei pensieri che, grazie ancora una volta alla nostra amicizia,
bastarono.
Due rumori
cupi,
due coltelli che tintinnavano cadendo dalle mani dei loro proprietari,
il
lamento di dolore di entrambi. Dorian e Michele si inginocchiarono per
un
momento in preda al dolore alla mano destra che era evidentemente
contusa.
Fortunatamente io e Giuseppe eravamo in preda ad una paura fortissima
ma non nel
panico, perché in un momento prendemmo in mano i coltelli.
Salvatore purtroppo
aveva già iniziato la fuga, anche se un sasso velocissimo
raggiunse anche lui,
questa volta sul sedere, e lo fece saltare, urlare e correre via
più
velocemente. Giuseppe non lo rincorse neppure, poi con una
complicità sempre
esistita gli bastò uno sguardo con me per capire quello che
era successo.
“Allora
li avete
sentiti anche voi i fischi?” chiese Giuseppe.
“Si!
Anche
l’ultimo, che ci ha preoccupati ancora di più.
Così siamo accorsi, ma eravamo
dall’altra parte del campo di gioco e soprattutto siamo
dovuti, per sicurezza,
passare da casa! Direi che abbiamo fatto bene!” disse
Emanuele.
“Benissimo!
Anche
se adesso anche i nostri nemici sanno della vostra mira infallibile con
la
fionda. Spero per questo che non cercheranno di scappare”.
Francesco,
che,
dopo aver disarmato con la fionda Dorian aveva anche ricaricato e
colpito
Salvatore, ricaricò nuovamente la propria arma. Emanuele,
che aveva disarmato
Michele, immediatamente dopo averla ricaricata, continuava a tenerlo
sotto
tiro. Giuseppe fece alzare Dorian. Puntandogli il coltello allo stomaco
e forte
della mira di Francesco, gli fece un’offerta che non poteva
rifiutare. “Se te
ne vai ora, forse non ti accadrà nulla”.
Dorian non
se lo
fece ripetere due volte. Appena Giuseppe abbassò
l’arma corse via, lasciando
solo Michele e prendendosi anche lui il suo sasso sul sedere. Io feci
alzare
Michele e conservai il coltello in tasca. I due fratelli, da ormai
pochi metri
di distanza, lo tenevano sotto tiro ed io e Giuseppe sapevamo, come
d’altro canto
lo stesso Michele da qualche secondo poteva ben immaginare, che ogni
tentativo
di fuga o di aggressione nei confronti di uno dei due avrebbe
comportato il
pericolo di farsi male sul serio. Guardai negli occhi Michele e
sorrisi. Ce
l’eravamo vista proprio brutta. Menomale che Francesco e
Emanuele erano arrivati
giusto in tempo. Ma ora che il pericolo era passato, era andata via la
paura ed
era rimasta solo la rabbia per quello che Michele e i suoi avevano
voluto e
provato a farci, era giunto il momento di dargli una lezione. Una di
quelle
lezioni che non avrebbe mai più dimenticato. E parlai.
“Così
volevi
umiliarci davanti a tutti? Beh! non ci sei riuscito! Ti è
andata male! Prima di
tutto i nostri amici si sono dimostrati veri amici. Sono accorsi in
nostro
aiuto e non hanno esitato un solo istante per agire con le loro
migliori
risorse, per salvarci. Poi complimenti per i tuoi amici. Non hanno
esitato un
solo istante per scappare e lasciarti da solo. Beh! Con degli amici del
genere
facevi bene ad avere paura di me l’altra sera. Non riesci a
farti rispettare
neanche da quelli che consideri tuoi sottoposti. Come pensi di
meritarti il
rispetto di noi, o farci paura?”
Michele,
che
all’inizio aveva retto lo sguardo, ora l’aveva
nuovamente abbassato e le
braccia penzoloni ai fianchi dimostravano la sua debolezza in quel
momento. Se
non fisica, sicuramente emotiva. Io me ne accorsi e, in un impeto di
benevolenza,
avevo quasi deciso di lasciarlo andare. Ma accadde qualcosa che mi fece
cambiare idea. Michele, forse anche in preda di un pizzico di vergogna
per
quella situazione così capovolta e perché
comprese che, almeno per quanto
riguardava l’amicizia, avevo ragione, disse una cosa.
“Tanto
prima o
poi succederà che ti troverò da solo. Guardati le
spalle, perché quando meno te
lo aspetti ti trovo e ti ammazzo di botte!” e alzò
lo sguardo verso di me. Se
solo l’avesse fatto prima di dire quella frase, si sarebbe
morso la lingua pur
di non usarla così male. Avevo fatto appena in tempo a
ritornare solare e
simpatico come sempre. Come ero sempre stato anche con lui, quando
eravamo
amici. Solo che, appena sentito quella frase, di nuovo per quella
serata, cambiai
espressione.
Ora ero
arrabbiato. Molto arrabbiato. Anzi, ero arrabbiato come non lo ero
stato mai
nei primi sedici anni della mia vita. Perché, per la prima
volta in vita mia,
avevo capito pienamente le parole di mio padre. Capii cosa significava
“picchiare forte e bene” in quella situazione.
Capii che avevo sbagliato,
perché con persone del genere, per quanto il passato possa
in qualche caso
costituire un’attenuante, sebbene l’amicizia che ci
legava fino a due anni
prima fosse forte e genuina, ormai, le parole, per quanto pesanti e
serie come
quelle che avevo appena detto, non servivano a molto. Capii che era il
momento
di lasciare spazio alle azioni. Ponderate, si, ma il segnale doveva
essere
forte. Quasi istintivamente, quindi, la mia espressione facciale
ritornò quella
cattiva e da bullo che avevo visto tante volte in certi miei compagni
di classe
e che ora dovevo, per forza, mostrare anche con lui.
“Bene!
Te la sei
cercata. Stavo per lasciarti andare, come con gli altri, punendoti come
gli
altri. Francesco, o Emanuele, o entrambi, ti avrebbero fatto la stessa
cosa che
hanno subito i tuoi soci e tutto sarebbe finito lì. Ma con
questa ultima frase
hai commesso un grossissimo errore. E adesso la paghi. Con la stessa
moneta che
volevi farci pagare. Ragazzi? Mirate alla testa!” dissi,
rivolgendo questa
ultima frase ai due armati. I due eseguirono immediatamente. Capirono
che a
quella distanza l’avrebbero ammazzato, ma non avremmo mai
permesso che
accadesse una cosa del genere. Era solo un modo per dissuadere Michele
dal giocare
brutti scherzi.
“Visto
che prima
sei stato tu a pensare ad una cosa meno dolorosa ma più
umiliante, adesso ci
passerai tu. Se tra due minuti non sei completamente nudo, i due, al
mio
fianco, lasceranno partire il colpo, e ti faranno molto male, se non
peggio!”
conclusi.
A Michele
veniva
quasi da piangere. Sia per la situazione, che per
l’umiliazione che avrebbe
provato di lì a poco. Ma vedendo lo sguardo deciso di tutti
e quattro i suoi
nemici non poté fare altro che ubbidire. Neanche un minuto
dopo, rosso in volto
e con le mani a coprirsi d’avanti, era nudo, come ordinato,
davanti a noi. I
vestiti accatastati in un mucchio al suo fianco. Giuseppe quasi
divertito da
quella situazione palesemente vittoriosa per noi, tirò fuori
il cellulare per
fargli una foto. Feci appena in tempo a bloccarlo.
“No!
Questo è un
comportamento tipico di loro. Potremmo farlo e avremmo di che farlo
vergognare
per tutta la vita. Ma noi non siamo come loro. Merita una lezione, ma
voglio
dargli l’opportunità di cambiare atteggiamento e
non costringerlo con i ricatti
a farlo” dissi.
Michele
guardò la
scena e avvampò ancora di più. La rabbia e
l’imbarazzo dovuti all’umiliazione
fisica che stava subendo, si erano uniti all’umiliazione
morale di quelle
frasi, che adesso lo colpivano peggio dei sassi con cui avrebbero
potuto
colpirlo quei quattro ex-amici. Perché loro avevano
veramente pensato di fargli
fare quella fine. Compresa di foto e ricatti e umiliazioni conseguenti.
Adesso invece,
l’unica cosa che voleva era tornare a casa.
“Posso
andare?”
fu l’unica frase che gli uscì.
“Aspetta”
disse
Giuseppe.
Si
avvicinò ai
vestiti di Michele, frugò nei pantaloni, prese il
portafogli, il cellulare,
sfilò la cintura, e prese le scarpe. Prese infine
l’accendino dalla tasca della
camicia, lasciando nella stessa tasca le sigarette. E accese
l’accendino.
“Digli
addio!”
disse, rivolgendosi a Michele, e contemporaneamente dando fuoco a tutti
i
vestiti e alle sigarette in essa contenute. Neanche un minuto dopo i
vestiti
erano completamente bruciati. Appoggiò il resto dei
possedimenti di Michele ai
piedi di quest’ultimo e gli diede il permesso di andare.
Questi prese la sua
roba, e, cercando di coprirsi come poteva, scappò via.
Appena voltate le
spalle, Emanuele e Francesco rilasciarono il loro colpo. E mentre
Michele
correva via, iniziando a nascondersi tra le macchine, divennero quasi
immediatamente ben visibili due chiazze rossastre sui suoi glutei.
Appena
scomparso dalla loro vista, io e Giuseppe gettammo immediatamente a
terra
dietro una macchina i coltelli. Francesco e Emanuele abbassarono le
armi,
riponendole in tasca. Ognuno se ne andò verso casa sua,
stranamente senza
alcuna voglia di parlare. Prima di dividersi, però io sentii
il bisogno di
farlo.
“Quello che abbiamo fatto oggi, in nessun altro caso dovremo farlo. Spero solo che questo estremo rimedio abbia messo fine a questo discorso!”. Evidentemente questo servì a rasserenare gli animi degli altri tre. Ci sentimmo tutti e quattro uniti in quel pensiero e con quella speranza. Di veder finita una volta per tutte quella storia. Ma le emozioni, per quella sera, erano veramente state troppe. Ce ne andammo, quindi, ciascuno a casa propria.
oooo
...
oooo
...
oooo
Buongiorno/sera/notte a
tutti!! tornati dalle vacanze, questo è il quarto capitolo.
Attendo ansiosamente di sapere cosa ne pensate!!! CIAOOO