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Autore: Vago    26/08/2016    2 recensioni
Libro Secondo.
Dall'ultimo capitolo:
"È passato qualche anno, e, di nuovo, non so come cominciare se non come un “Che schifo”.
Questa volta non mi sono divertito, per niente. Non mi sono seduto ad ammirare guerre tra draghi e demoni, incantesimi complessi e meraviglie di un mondo nuovo.
No…
Ho visto la morte, la sconfitta, sono stato sconfitto e privato di una parte di me. Ancora, l’unico modo che ho per descrivere questo viaggio è con le parole “Che schifo”.
Te lo avevo detto, l’ultima volta. La magia non sarebbe rimasta per aspettarti e manca poco alla sua completa sparizione.
Gli dei minori hanno finalmente smesso di giocare a fare gli irresponsabili, o forse sono stati costretti. Anche loro si sono scelti dei templi, o meglio, degli araldi, come li chiamano loro.
[...]
L’ultima volta che arrivai qui davanti a raccontarti le mie avventure, mi ricordai solo dopo di essere in forma di fumo e quindi non visibile, beh, per un po’ non avremo questo problema.
[...]
Sai, nostro padre non ci sa fare per niente.
Non ci guarda per degli anni, [...] poi decide che gli servi ancora, quindi ti salva, ma solo per metterti in situazioni peggiori."
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Leggende del Fato'
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 Hile guardò il lupo zampettargli davanti sul sentiero sassoso contornato da licheni e sporadici ciuffi d’erba.
Era passata quasi una settimana da quando aveva lasciato il Passo del Messaggero e la cima mozzata del Flentu Gar incombeva su di lui.
Una traccia appena accennata risaliva sul crinale, segnalata solamente dagli ometti di pietra lasciati sulle rocce dai pochi cacciatori che battevano quella zona.
Il lanciatore di coltelli si sistemò la borsa e prese a risalire la china, puntando sempre verso il signore di quella catena montuosa. Là, probabilmente, qualcuno lo stava già aspettando.
Il lupetto continuò a zampettare scodinzolante sul sentiero che avevano percorso fino ad allora.
- Ehi… lupo. Vieni qui. –
Hile guardò pensieroso il cucciolo mentre tornava sui suoi passi. Doveva dargli un nome, non poteva continuare a chiamarlo lupo o tu.
La pelliccia grigia si strofinò contro la gamba dell’assassino, quando quel figlio dell’Oscurità lo raggiunse.
- Buio. Che ne dici di questo nome? –
Il lupo continuò a strusciarsi sulla gamba, fermandosi solamente quando la mano del lanciatore di coltelli accarezzò la sua testa.

La vetta mozza del Flentu Gar era brulla come quando l’avevano lasciata. Nulla sembrava cambiato nonostante fossero passati dei mesi dalla loro partenza.
Hile si guardò intorno, in cerca di un segnale.
Tutto era immobile sullo spiazzo. Le case di pietra rimanevano grigie e silenziose, per la maggior parte con i muri crollati sotto il peso degli anni.
L’alto muro del Palazzo della Mezzanotte incombeva su ogni cosa, mentre i ruderi del Palazzo del Mezzogiorno aspettavano l’ora in cui sarebbero crollati, non più in grado di sorreggere la cupola dorata che aveva perso ogni brillantezza.
Uno sbuffo di vento spazzò la polvere dal terreno facendo ondeggiare un cencio color terra annodato sul battente di una delle poche porte rimaste in piedi.
Una figura nera e lontana comparve sulla cima della muraglia scura.
Il Lupo balzò dietro a un cumulo di macerie, osservando la sagoma. Questa si tolse da tracolla quello che poteva sembrare un arco, poi, dopo pochi movimenti, riscomparve oltre il muro.
- Deve essere il rituale dei Draghi. – disse l’assassino in direzione del lupo, intento ad annusare le pietre contro le quali si era seduto.
Hile si diresse quindi verso il pezzo di stoffa, aprendo la porta piena di schegge di legno ed entrando nella stanza scura, nella quale l’unico fascio di luce che penetrava dalla finestra sul muro posteriore faceva splendere i turbini di polvere che riempivano l’aria.
- Era ora che arrivassi. – disse una voce dalla parete di destra.
Un gatto nero uscì dall’ombra, per fare un giro intorno ai nuovi arrivati e ritornare con calma nel punto da cui era partito.
Nirghe si alzò da terra, avvicinandosi al Lupo con uno sguardo annoiato.
- Da quanto sei qui? – chiese il lanciatore di coltelli, facendo qualche passo nella stanza per vederne meglio l’interno spoglio.
- Quattro giorni. Cominciavo a credere che non foste riusciti a superare la vostra prova, a questo punto. –
- Mi spiace. – gli rispose il Lupo sedendosi per terra sotto la finestra e facendo accucciare Buio sulle sue gambe. – Ma io la mia prova l’ho superata. Non ti libererai così facilmente di me. A proposito, la tua com’è andata. –
- Hai presente quando quell’ultimo drappello di demoni attaccò il Palazzo del Mezzogiorno a guerra finita? –
- Si. –
- È stata colpa mia. –
- Ah… Bene. –
Nella stanza ricadde il silenzio. Dopo tutti quei giorni passati in solitudine era difficile ricominciare delle conversazioni.

Mea guardò in alto.
Il sole aveva da poco superato l’apice della sua parabola, iniziando così una lenta discesa che lo avrebbe portato a morire alle spalle dell’Isola dei Draghi.
Di fronte a lei si apriva un sentiero coperto di morbida terra che proseguiva dritto sul pendio per quelli che potevano essere venti metri di dislivello, per poi scomparire dopo una secca curva a sinistra dietro un masso fratturato dalle intemperie.
La sagoma scura del piccolo corvo si stagliava controluce nel cielo limpido. Venne raggiunto da un rapace che dopo qualche lento cerchio sopra le vette dei monti, scomparve nuovamente verso il versante opposto.
Qualcosa scintillò verso il mare meridionale, come un diamante lanciato in aria, ma subito quel fenomeno svanì com’era comparso.
Mea riprese il cammino, facendo ben attenzione a ogni passo per la paura di scivolare su quel suolo friabile.

Era quasi ora che arrivassero.
Cominciavo ad annoiarmi a stare qui, fermo, appollaiato su un tetto, scomodo, a pulirmi le penne.
Noia a parte, devo capire chi diavolo sia l’infiltrato. E che il Fato vada per la sua stramaledetta strada, non ho intenzione di condannarmi ad altri mille anni di schiavitù, magari sotto i magnanimi ordini del demone. Devo solo capire chi potrebbe essere stato scelto dal demone.
Maledette limitazioni! Perché non posso leggere quei loro maledetti animali? Sarebbe più facile, avrebbero scritto in faccia “Animale di origine divina” oppure “Ehi, guardami, sono stato mandato qui dal demone per uccidervi tutti”. Sarebbe chiedere troppo?
Dannazione.
Comunque per come stanno adesso le cose non posso farci niente, se non aspettare che si riuniscano tutti in questo posto allegro.
Ma, se io fossi un demone assetato di potere e vendetta… in parti più o meno uguali con una briciola di megalomania, chi sceglierei come mio araldo?
Che bella parola, araldo. Erano secoli che non la utilizzavo.
Comunque, se fossi Follia non sceglierei mai Seila, sarebbe un azzardo troppo rischioso affidare a lei la mia sorte. No, decisamente è un no.
Mea nemmeno, è troppo sveglia e ligia, dubito si farebbe infinocchiare da quattro parole dolci, anche se fosse la bocca, come se avessero una loro bocca, di un dio. Impossibile.
Jasno non è male come idea, come anche Keria, Nirghe e Hile. Tutti e quattro sono forti e mediamente intelligenti. Per di più Gatto e Lupo si contendono il ruolo di capogruppo, mi stupisce non si siano ancora scontrati su qualche decisione.
Probabilmente sceglierei uno di loro due, anzi, sicuramente. Ma quale? Non saprei dire…
E se non fosse uno di loro? Dopotutto sono anche quelli che avevano più possibilità di passare la loro prova. E, per questo motivo, Seila torna papabile.
Maledizione! Se avessi una testa antropomorfa mi scoppierebbe!
Alla fine mi sono fatto un monologo mentale. Il buon vecchio Saggio sarebbe fiero di me, se non fosse morto come tutti gli altri.

Keria raggiunse la vetta brulla del Flentu Gar.
La ragazza si guardò velocemente intorno, cercando di far evitare allo sguardo l’imponente muro scuro. Notò subito lo straccio annodato su una porta alla sua sinistra.
Fischiò per un secondo abbondante, osservando il cielo terso in cui volteggiavano due piccoli uccelli scuri.
Uno scintillio brillò tra l’azzurro luminoso, poi un essere grosso poco più di un cucciolo di cane atterrò di fronte all’arciere.
Le sue squame parevano diamante, talmente lucide da riflettere l’ambiente circostante come piccoli specchi sfaccettati.
Keria lo guardò sorridendo, per poi spostare la sua attenzione sul guanto che le copriva la mano destra. Se lo sfilò, studiando ancora lo strano fenomeno che l’aveva colpita.
La pelle fin sull’avambraccio era diventata di un trasparente opaco, così come i tessuti sottostanti, facendo intravedere ciò che c’era dall’altra parte come attraverso una lente appannata.
Il Drago strinse più volte le dita, non riuscendo a capacitarsi di come le fosse potuta accadere una cosa del genere.
Il guanto tornò al suo posto, per poi appoggiarsi sulla porta segnata.
La stanza che attese l’arciere oltre quelle assi di legno martoriate era spoglia, illuminata unicamente dai pochi raggi che filtravano da una fenditura sul muro opposto. Due grosse figure scure si mossero.
Da qualche parte sopra la sua testa un corvo ruppe il silenzio gracchiando.

Forse è il caso che cambi forma. Non è il caso che il primo suo simile che il corvo di Mea vede in vita sua sia io.
Sai che casino poi a spiegargli che non tutti i corvi di questo mondo sono come me?

Jasno si asciugò il sudore che imperlava la sua fronte coperta dal cappuccio.
Il sentiero proseguiva di fronte a lui costeggiando una parete rocciosa a strapiombo alla ricerca di una salita più facilmente percorribile.
Sopra la sua testa la sua piccola aquila compiva ampi cerchi.
L’elfo strinse la presa sul bastone che aveva raccolto pochi giorni prima e si rimise in marcia, ansimando sotto quegli abiti opprimenti irradiati di calore da un sole che non aveva intenzione di abbassarsi o farsi coprire da una nuvola di passaggio.
Probabilmente i suoi compagni erano già arrivati.
Il Flentu Gar si innalzava poco più a nord, l’avrebbe raggiunto certamente il giorno successivo, si disse, continuando a mettere un piede davanti all’altro, mentre malediceva la scomodità di quella sacca che si portava appresso.

Tra le rocce macchiate di muschio qualcosa si mosse, poi la testa del serpentello ocra fece capolino, guardando con i suoi piccoli occhietti scuri la sua compagna che arrancava lungo il percorso.
Seila si fermò nuovamente in mezzo al tracciato, piegata a metà dal fiatone.
I piedi le bruciavano dentro agli stivali, le ginocchia quasi non ne volevano sapere di continuare a portare avanti il peso del corpo della ragazza e della vetreria che affollava la bisaccia.
Con gli occhi appannati l’elfa bionda guardò in alto, dove la parete scoscesa della montagna si interrompeva bruscamente, lasciando il posto al profilo scuro di alcune abitazioni fatiscenti.
L’erborista si sedette pesantemente su un masso poco distante, bevendo a gran sorsate dalla borraccia che teneva con sé.
Il serpentello si avvicinò, strusciandosi contro la gamba della compagna come ad incoraggiarla a continuare il suo cammino.
Il camminò continuò frammentato da pause via via sempre più frequenti con l’avvicinarsi della punta mozzata del re dei Monti Muraglia.
Quando Seila raggiunse la tanto attesa meta i piedi si spostavano trascinati, con la punta delle calzature ricoperta da un fitto strato di polvere grigia strappato al sentiero.

Il gruppo si riunì di fronte alla porta segnata. Buona parte degli sguardi continuavano a cadere sul cucciolo di drago che sonnecchiava a terra accanto alla sua padrona.
Hile fece scorrere il suo sguardo sui suoi compagni.
I volti erano segnati e sporchi delle più disparate cose, i capelli  blu di Mea quasi sembravano essersi ingrigiti, tanta la polvere che li ricopriva.
Tutti avevano rammendato velocemente i pantaloni strappati dal viaggio sul dorso dei draghi e questo li rendeva ancor più simili a dei mendicanti di quanto le fatiche che avevano fatto per ricongiungersi lì non avesse già fatto.
Il Lupo contò tre animali a terra, oltre il suo compagno, e due in aria. Quindi erano riusciti tutti a superare la loro prova.
Il silenzio era cupo, velato da un’evidente stanchezza. Nessuno dei sei assassini sembrava avere intenzione di cominciare una conversazione.
Jasno aprì la bocca più volte, indeciso se far sentire la sua voce o meno. Poi si permise di fare una domanda. – Quindi… ora? Cosa facciamo? –
Il silenzio si fece ancor più teso. 

   
 
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