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Autore: Amatus    26/08/2016    1 recensioni
I grandi eroi esistono per sconfiggere grandi nemici e pericoli mortali. E se il confine fra eroe e mostro non fosse così evidente? Se l'eroe non sapesse contro cosa realmente combatte? Se il nemico fosse convinto di essere un eroe?
E se il nemico più pericoloso fosse l'eroe pronto a combattere per la propria giusta causa a dispetto di tutto il resto?
Una storia può essere raccontata da diversi punti di vista. Questa storia ne presenta due. Due potenziali eroi. Due potenziali mostri. Distinguere l'uno dall'altro potrebbe essere più difficile di quanto si pensi.
Era troppo tempo che qualcuno non gli rivolgeva una parola gentile e fare nuove conoscenze era una cosa così tanto al di fuori delle sue aspettative che non sapeva come reagire. Quando alla fine pronunciò il suo nome quelle lettere così scandite suonarono buffe alle sue orecchie. Non avevano più nessun significato da tempo immemorabile. Solas. Da quanto tempo nessuno lo chiamava così, sentire quel nome, anche se pronunciato dal nano lo fece sentire meglio.
[IN REVISIONE]
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Inquisitore, Solas
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fen'Len - Figlia del Lupo'
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XXIX
Si svegliò all’improvviso in preda al terrore più puro. Si toccò il viso, era bagnato di sudore e presumibilmente di lacrime. Sperò di non aver gridato di nuovo. Si guardò attorno, non aveva disturbato nessuno, tutti dormivano sereni nei letti a castello della piccola stanza della locanda.
Avevano raggiunto l’ultimo villaggio prima di inerpicarsi sul sentiero che li avrebbe condotti a Skyhold. Le Furie e Varric avevano insistito per ritardare di un un giorno il ritorno alla forezza. Il viaggio dall’Accesso Occidentale era stato lungo e difficile, ormai la maggior parte delle truppe erano tornate al proprio posto, solo l’enturage dell’Inquisitore e le Furie erano ancora sulla via del ritorno. Il loro ritorno alla base era stato rallentato da alcuni piccoli incidenti di percorso: qualche squarcio da dover richiudere, alcuni rifugiati che avevano smarrito la strada, un gruppo di briganti tanto sfortunato da imbattersi contemporaneamente nella squadra mercenaria più temuta dell’intero Thedas e nelle forze dell’Inquisizione. Risolti i piccoli problemi, l’intero gruppo si era ritrovato alle pendici del sentiero e avevano approfittato del momento di relativa quiete per spendere una sera in una delle nuove taverne nate su quella strada.
La sera precedente, l’Inquisitore e Cassandra aveva indugiato nell’osservare come fosse gratificante vedere che l’Inquisizione aveva modi insperati di riportare un poco di pace nel mondo. Villaggi e strade che un tempo erano stati abbandonati o erano caduti in disuso, ora fiorivano di nuovo e donavano a contadini e piccoli mercanti, la possibilità di una vita decorosa.
 
Per quanto Lena si sforzasse di trattenere questi pensieri lieti, l’incubo che l’aveva fatta svegliare in preda al terrore, tornava prepotente a pretendere la sua attenzione.
Gocce di sudore gelido le percorrevano la schiena. Gli occhi duri e profondi del custode che aveva abbandonato nell’Oblio tornavano a tormentarla ogni notte da quando avevano lasciato l’Accesso Occidentale. Ogni notte il sogno era diverso, ma tutti avevano lo stesso protagonista.
Questa notte, Lena aveva sognato la foresta in cui era cresciuta, aveva sognato il suo clan nei giorni lontani dell’infanzia. Si trovava vicina ad un torrente, sdraiata a terra a guardare le nuvole. Sentiva di dover essere felice, ma qualcosa le impediva di esserlo. Il sole splendeva, gli uccelli cantavano eppure lei sapeva che qualcosa di oscuro e pericoloso si stava avvicinando, nonostante questo non poteva alzarsi.
Tra le fronde qualcosa si mosse e all’improvviso un ragno enorme iniziò a calare su di lei dall’alto dei rami, oscurando pian piano il sole ma rifrangendone la luce donando alla foresta intera un inquietante colore rossastro. Aveva visto altrove quella luce, ma non riusciva a ricordare dove.
Sentiva molte voci familiari intimarle di non muoversi. Riconobbe la voce di Dorian e quella della guardiana Ismaethoriel, la voce di Menia e quella di Leliana. Tutti ripetevano la stessa frase: “Non muoverti. Non ancora. Rimani a guardare.”
E nonostante tutti gli sforzi Lena non riusciva a muovere un solo muscolo.
Il ragno era ormai vicinissimo, poteva sentire il puzzo del suo veleno e una zampa stava per toccarle il viso. All’improvviso però la creatura venne colpita da qualcosa e ristette immobile fissandola con un gran numero di occhi dall’aspetto troppo umano per essere gli occhi di una bestia. Lena poteva vedere una se stessa bambina specchiarsi in ciascuno di quegli occhi. D’improvviso gli occhi iniziarono a sanguinare, grosse lacrime di sangue le caddero sul volto.
Un’altra voce attirò la sua attenzione e Lena fu finalmente libera di alzarsi. Il guardiano la chiamava e lei gli corse incontro piangendo di gioia. Gli alberi della foresta erano stati rimpiazzati da alte torri rosse, e il sentiero diveniva sempre più angusto stretto com’era tra queste torri. L’anziano elfo teneva in mano qualcosa che stava usando come scudo. Lena continuava a correre verso di lui, e pian piano riconobbe una testa d’uomo nell’oggetto impugnato dal guardiano.
La testa aveva lunghi capelli neri, non aveva occhi e sembrava essere stata rosicchiata fino all’osso da qualche orribile bestia. Non vi era ormai più pelle attorno al teschio, nonostante questo Lena sapeva che la testa apparteneva al Custode Loghain Mac Tir.
Ne riconosceva la voce, poichè era il teschio a parlare non il vecchio guardiano. L’elfo taceva e piangeva e la sua bocca e il suo viso erano lordi di sangue.
Quando infine l’anziano aprì la bocca, all’interno di questa Lena vide i due occhi azzurri del custode.
A questo punto si era svegliata. Ora seduta sul letto non riusciva a smettere di tremare, Varric che dormiva sopra di lei aveva iniziato ad agitarsi.
L’elfa sgusciò silenziosa fuori dal letto e dalla stanza. Era ancora notte fonda, ma sperava di trovare un fuoco acceso al piano inferiore.
L’ampia sala era deserta, anche l’ostessa doveva essere a dormire da un po’, la brace era però ancora ardente. Lena non impiegò molto a ravvivare le fiamme nel grande cammino, si sedette poi a terra davanti a questo appoggiando la schiena contro una grande poltrona e tirando le ginocchia al petto.
Non voleva pensare all’incubo, ma non riusciva ad impedirselo. A sua memoria non aveva mai sognato il vecchio guardiano fino a quella notte e questo aveva reso il suo sogno ancor più agghiacciante.
Avrebbe dovuto farsi coraggio e parlare a Solas di quei sogni, sicuramente lui avrebbe saputo come aiutarla.
Nel frattempo il calore del fuoco stava lentamente calmando il tremore che la scuoteva e i muscoli potevano tornare a rilassarsi.
“Che succede? Stai bene?”
La voce calda del custode la avvolse, ma come per cotrasto il suo corpo riprese a tremare.
L’uomo le fu accanto in pochi passi, ma sembrava interdetto, non capiva cosa fosse accaduto o forse semplicemente non sapeva come comportarsi, infine si sedette accanto a lei.
“Ti ho sentita sgattaiolare fuori dalla stanza, volevo solo assicurarmi che fosse tutto in ordine.” Le parole di Blackwall suonavano come delle giustificazioni, ma Lena non riusciva a concentrarsi sulle parole dell’uomo.
“Stai tremando, hai freddo? Stai male?” Ora sembrava allarmato. Lena temeva che se avesse cercato di parlare avrebbe iniziato a piangere e non poteva piangere davanti al custode. Lentamente si lasciò scivolare verso il basso. Appoggiò la testa sulle gambe dell’uomo e si rannicchiò contro di lui.
Le mani del guerriero lentamente presero ad accarezzarle la testa, le spalle, la schiena.
Rimasero in silenzio a lungo, guardando i ciocchi di legna consumarsi nel cammino.
“Scusami, ho fatto un brutto sogno.” Disse infine l’elfa, senza alzare la testa. Aveva finalmente ripreso il controllo ed ora era dispiaciuta di aver fatto preoccupare l’uomo, di averlo svegliato, di averlo tenuto così a lungo lontano dal letto.
Si tirò su a sedere. Blackwall non aveva spostato la mano che riposava sul fianco di lei ed ora il suo braccio la stringeva trattenendola contro di lui.
L’uomo la guardò negli occhi e chiese di nuovo “Come stai?” Davanti al suo silenzio riprese: “So che sono successe delle cose orribili ad Adamant. So che abbiamo perso molti uomini. Per favore, parlami. Come stai?”
Per la domanda del custode non vi erano risposte, ma era l’unico ad averla posta nel modo giusto. Chi era stato con lei ad Adamant o nell’Oblio, non faceva domande, perso dietro al proprio terrore. Chi ne faceva, traeva conclusioni sbagliate accecato dalla propria paura, come aveva fatto Solas. Chi non vi era stato invece parlava di demoni e arcidemoni, senza comprendere cosa fosse davvero accaduto. Blackwall aveva invece parlato dei molti uomini caduti in quella folle missione. Non poteva sapere cosa le opprimesse il cuore, ma aveva parlato da comandante, da soldato e aveva letto bene il suo dolore.
“Abbiamo perso molti uomini. Abbiamo perso uomini valorosi.” Rimase un momento in silenzio, considerando le proprie parole. Molti erano morti per l’Inquisizione in passato, ma nel proprio egoismo, non aveva mai considerato quelle vite. Si erano spente lontano da lei, lontane dai suoi occhi, non aveva sentito le loro grida. Al tavolo della guerra sapeva di avere in pugno la vita di molti uomini, sapeva che una decisione sbagliata sarebbe costata molto, ma sapeva che quelle vite erano necessarie per la loro causa. Sapeva che erano necessari dei sacrifici al fine di riportare l’ordine, al fine di creare un mondo migliore per ciascuno. Sapeva quale fosse il costo, ma non era mai stata presente nel momento in cui la loro causa richiedeva il proprio tributo. Ad Adamant invece aveva visto veri uomini e vere donne andare alla carica invocando il suo nome, invocando l’Araldo, li aveva visti morire rivolgendo a lei l’ultima preghiera. Ad Adamant aveva visto finalmente cosa significasse davvero combattere per l’Inquisizione.
Non solo. Aveva sacrificato per la propria sopravvivenza e per la propria pace, la vita di qualcuno che niente aveva a che fare con quella causa. Il custode non era sacrificabile, non era un soldato tra tanti, aveva una sua propria missione, un suo scopo, una vita che non le appartenava. Eppure aveva lasciato che morisse per lei. Gli aveva chiesto di morire per lei.
Lo aveva ucciso.
Se qualcuno poteva comprendere quel dolore era il guerriero accanto a lei. Nessuno meglio di lui poteva sapere cosa significasse prendere una vita innocente e portarne sulla pelle le conseguenze.
“Abbiamo perso Loghain” aggiunse infine “e’ stata colpa mia. Io l’ho lasciato morire.” Lena non abbassò lo sguardo pronunciando le ultime parole. Desiderava che qualcuno potesse infine riconoscere la sua colpa. Aveva scelto di mantenere il silenzio fino a quel momento, ma ora finalmente poteva parlare.
Lesse un dolore profondo negli occhi del falso custode. Le afferrò il viso con entrambe le mani, non aveva parole per lei ma nei suoi occhi Lena poteva leggere un’ondata di genuina compassione. Lui sapeva. Lui capiva. Non poteva perdonarla, non poteva condannarla. Poteva solo ascoltare e accogliere le sue parole, riconoscere lo stesso dolore e condividerlo.
Il custode avvicinò il viso al suo e Lena si lasciò baciare. Era un bacio amaro, non vi era desiderio o passione, ma solo quello stesso dolore che lei aveva riversato su di lui.
“Non c’è perdono, non cercarlo, non ne troverai. Ma non c’è neanche condanna. Potrei dirti di cercare conforto nella fede, Cassandra lo farebbe e avrebbe ragione, ma io non ne ho mai trovato.” Il custode la fissava come combattuto se parlare ancora o tacere e infine rimase in silenzio.
Lena si trovò a sorridere amaramente “In cosa dovrei avere fede? Andraste? Il Creatore? Non sono nulla per me se non dei nomi che aggravano la mia colpa, un bagaglio troppo pesante da portare, un bagaglio che non ho mai voluto ma dal quale non posso liberarmi, non più oramai. Le divinità della mia gente?Come potrei avere fede in loro? Il dio che dovrebbe vegliare su di me è un dio crudele, egoista, noncurante del destino del suo popolo, odiato dagli altri numi. Se anche esistessero, gli dei non avrebbero che occhi malevoli per me. No, la fede non è un’opzione per me.”
“Io ho trovato conforto in te. La mia fede in te mi ha dato sollievo. La mia colpa è ancora lì, ma tu me l’hai resa sopportabile.” Le parole di Blackwall la gelarono.
Lena realizzò in un istante di essere stata profondamente ingiusta. Ingiusta nel voler riversare su qualcun altro la propria colpa, nel volersi sentire accomunata a qualcuno in un delitto orribile, colpendo il custode lì dove era più vulnerabile.
E come un torrente che rompe gli argini, la consapevolezza inondò la sua mente. Improvvisamente comprese di essere stata ingiusta in molti modi. Ingiusta e meschina. Aveva condannato l’atteggiamento grezzo del custode, i suoi modi e i suoi giudizi superficiali, ma nei suoi confronti lei non era stata da meno. Lo aveva giudicato con superficialità, aveva tratto vantaggio da una presunta e inconfessata superiorità morale. Lo aveva sminuito. Lo aveva tradito.
Lui aveva confessato le sue colpe senza paura, era corso incontro alla propria condanna. Lei si era prima erta a giudice ed ora, era  pronta a trascinare l’uomo di nuovo nel fango con lei. Cosa aveva creduto di fare? Aveva forse pensato che il guerriero non avrebbe compreso il suo dolore? Che non se ne sarebbe fatto carico? Aveva creduto che lui non potesse essere all’altezza di quel dolore? Invece l’uomo aveva compreso, si era preso cura di lei, si era offerto completamente a lei senza riserve, nonostante tutto.
Blackwall, la guardava ora con rinnovato ardore, lui l’amava. Lo vedeva chiaramente, questo sarebbe stato un altro dei crimini che Lena poteva ascrivere a proprio carico.
“Mi dispiace.”
Il guerriero la guardava dubbioso “Per cosa?”
“Ho sbagliato così tanto, non saprei da cosa cominciare. Io non ho mai compreso quanto fossi... Non ti ho mai valutato per ciò che sei davvero.” L’uomo la guardava interdetto. Come poteva capire quell’uomo così devoto, quanto lei gli avesse mancato di rispetto? Cosa poteva dire? Non voleva che le sue parole lo facessero sentire colpevole, o che lo sminuissero, o peggio che suonassero alle sue orecchie vuote come un’orribile scusa: non è colpa tua, sono io...
Nel momento in cui la sua bocca si aprì di nuovo per parlare seppe esattamente cosa dire: “Solas.”
Una sola parola, un solo nome, era bastato. Il custode in un attimo aveva presumibilmente costruito attorno a quel nome, un ingorgo di fantasie, assolutamente sbagliate, ma che agirono su di lui come un bagno in un torrente ghiacciato. Il suo sguardo si era adombrato, le mani che la stringevano l’avevano lasciata, all’improvviso il suo intero corpo sembrava rattrappirsi nello sforzo di allontanarsi da lei disgustato. In un attimo era in piedi.
Rimase a guardarla dall’alto, imponente e solenne come un boia. Poi girò sui tacchi e si allontanò.
Lena era di nuovo sola davanti al grande camino, le fiamme erano ormai basse e la brace spargeva sulla sala un colore cupo. Rimase lì seduta fino al mattino. L’ostessa fu la prima ad entrare nella sala, le portò silenziosa una tazza di tè. Non sembrò particolarmente stupita, doveva essere abituata a trovare ubriaconi incalliti o sprovveduti passeggeri addormentati sul pavimento della sua locanda. Riconosceva l’odore della disperazione e non se ne lasciava insozzare.
Poco dopo anche Solas fece la sua comparsa nella grande sala, mattiniero come al solito. La vide e le si avvicinò.
“Da’len...” ma le parole gli morirono in gola. Lena pensò di aver spaventato l’amico con la brutta cera del proprio volto e si sforzò di sorridere.
“Hai fatto ancora brutti sogni?” La domanda era piena di gravità, come la voce di un guaritore che interroghi il proprio paziente riguardo sintomi preoccupanti.
Lena era sorpresa, non aveva parlato con nessuno dei propri incubi fino a quella notte.
“Ti ho sentita gridare nel sonno alcune notti fa e Cassandra mi ha assicurato che non era la prima volta. Avrei voluto parlartene ma non sapevo...” di nuovo le parole gli mancarono.
“Sì, un brutto sogno. Puoi aiutarmi? Ho bisogno di riposare, ma non riesco.”
Solas annuì semplicemente senza fare altre domande. “Ho un rimedio adatto, ma dovremo prima raggiungere Skyhold, è probabile che tu dorma a lungo dopo aver bevuto l’intruglio, preferirei che che tu fossi al sicuro prima.”
Le parole dell’elfo scendevano come miele sul suo cuore dolorante. Aveva allontanato da sè Blackwall e ne rimpiangeva già i modi semplici e diretti, la sensualità, il suo modo tenero di prendersi cura di lei, la sua risata. Ora l’elfo medicava con poche parole le sue ferite. Non poteva permettere a se stessa di ferire Solas come aveva ferito Blackwall. Era andata già ben oltre qualunque limite fosse stato stabilito. I due uomini avevano alzato muri tra loro stessi e gli altri e lei aveva lavorato strenuamente per abbattere le loro difese. Per cosa? Il buon custode era rimasto disarmato e ferito nel modo peggiore, a Solas, se non avesse preso le giuste precauzioni, non sarebbe spettato un destino migliore.
Mormorò un grazie e si alzò in piedi, salendo in fretta verso le stanze. Aveva bisogno di sciacquare via con acqua gelida i pensieri della notte. I suoi compagni dormivano ancora. Avrebbe vegliato su di loro in silenzio d’ora in avanti.
 
 
 
 
 
 



 
 
 
 
  XXX
Skyhold era tranquilla, addormentata. Non si udivano il clangore delle spade o le urla dei soldati, anche i mercanti tacevano. Solas aveva l’impressione che persino i cavalli rispettassero in silenzio l’atmosfera quasi sacra che ristagnava nella fortezza da quando tutti avevano fatto ritorno.
Le ferite venivano medicate senza fretta, che fossero legate al fisico o alla mente, nessuno aveva troppa premura di tornare davvero in salute. Rimettersi in forma avrebbe significato essere costretti ad affrontare di nuovo quel mondo corrotto. Poter rimanere per un breve periodo tra quelle mura imponenti, dava a ciascuno la sensazione di poter dimenticare la follia e la violenza, la paura e la morte. Erano al sicuro. Erano circondati da amici. Potevano finalmente riposare.
Solas poteva facilmente approfittare di quella calma ovattata. Aveva iniziato da tempo a radunare le proprie pedine, e finalmente era pronto a fare la sua mossa. Non poteva essere certo che fosse la mossa vincente, ma avrebbe senza dubbio tenuto sotto scacco per un po’ l’intero Thedas.
Se i suoi calcoli si fossero dimostrati esatti una lettera sarebbe giunta a Skyhold ben presto, una lettera che avrebbe cambiato gli equilibri, aprendo la partita a nuove possibilità.
Solas sapeva di dover ringraziare l’Inquisitore anche per questo. Era stata lei a suggerire l’idea. Ne aveva parlato tempo indietro proponendo la questione con la leggerezza di uno scherzo. Lui aveva continuato a rimuginare sulle sue parole, soppesandole e considerando le molte implicazioni, fino a saggiarne la concretezza, fino a dispiegare un piano che potesse rendere la facezia un obiettivo reale.
Proprio in questi giorni in cui ciascuno sembrava sonnecchiare come un gatto in un cortile soleggiato, il mago avrebbe avuto il proprio responso.
Quel giorno l’elfo aveva trascorso l’intera mattinata nella rotonda con occhi attenti ed orecchie tese, deciso a non perdere un solo dettaglio dell’intenso via vai di corvi che continuava costante sopra la sua testa. Solas credeva che solo quelle creature e lui stesso in tutta Skyhold stessero ancora attendendo al proprio dovere, tutti gli altri come ammaliati da un incantesimo si lasciavano cullare dal primo sole estivo.
Doveva essere da poco passata l’ora del pranzo perché dalle cucine iniziava a provenire lo sciabordio di acqua e il rumore del cozzare delle stoviglie nell’acquaio. Anziché disturbare, il suono dava all’atmosfera innaturalmente rilassata, un’aria familiare, che rendeva tutto ancor più placido.
Solas insofferente, decise che avrebbe potuto prendersi una pausa. Qualche occhio o qualche orecchio più pazienti dei suoi, avrebbe in seguito riferito riguardo le comunicazione giunte in sua assenza.
Uscì dalla rotonda e si diresse verso le mura, voleva passeggiare, voleva allontanarsi da quella bambagia soffocante che sembrava renderlo ogni momento più nervoso.
Camminò veloce e si arrampicò su di un torrione ancora semi diroccato, raggiungendo la cima con il fiato corto e con la stessa sensazione frustrante che lo rendeva incapace di rimanere fermo.
Si impose di fermarsi ad osservare la vallata. Le montagne imponenti nascondevano l’orizzonte e delle nubi minacciose si addensavano in lontananza. Il respiro iniziava a tornare regolare ma il battito rimaneva fin troppo veloce e lo poteva udire rimbombare forte nelle orecchie. Sentiva una smania incontrollata impossessarsi di ogni suo muscolo, le articolazioni fremevano come dopo un’immobilità prolungata. Avrebbe avuto voglia di correre a perdifiato.
Ma perché?
Solas non capiva, aveva cercato in vano calma e pace per tutta la vita, aveva agognato momenti di serenità, aveva lottato per raggiungere equilibrio e stabilità anche in questo mondo nato per errore, e quando finalmente il fato concedeva una breve tregua, tutto il suo essere scalpitava rifiutando il riposo.
Doveva forse riconoscere in quel suo stato d’animo un sintomo del proprio rimorso? Sentiva la pace di quei giorni additarlo e marchiarlo come intruso?
Non aveva voglia di pensare. Non voleva meditare, riflettere o sognare. Voleva correre. Voleva gridare. Voleva risvegliare l’intera fortezza dall’insano torpore che l’aveva avvolta. Avevano tutti un lavoro da fare. Ridiscese in fretta dal torrione.
Continuò a percorrere a passi lunghi e quasi furiosi le alte mura difensive di Skyhold.
Skyhold,  Tarasyl'an Te'las, grande era il nome di quella forteza e i suoi abitanti dovevano esserne degni. Sorreggere il cielo, proteggere il mondo, come potevano farlo questi deboli e molli shemlen. Si guardava attorno ed una rabbia irragionevole cresceva dentro di lui. Non voleva analizzarne le cause, voleva assaporare la rabbia montargli dentro, avrebbe voluto lasciarla sfogare. Avrebbe voluto avere di nuovo i propri poteri, non per ferire qualcuno, ma per poter far uscire tutta quell’energia che si andava accumulando dentro di lui. Avrebbe voluto trovarsi in battaglia e poter sfogare così la propria rabbia. Dietro il fuoco che cresceva dentro la sua testa sentiva la ragione dirgli che non era contro coloro che lo circondavano che avrebbe voluto rivolgere quell’energia. E allora contro chi? Contro se stesso?
Un tocco leggero si posò sulla sua spalla e lui si voltò in quella direzione quasi ringhiando, sperando di trovare qualcuno dei suoi agenti da poter quanto meno rimproverare.
Invece fu il  viso dell’Inquisitore quello che si trovò davanti. L’elfa che per un istante sembrò spaventata si ricompose immediatamente.
“Non volevo disturbarti ma ho visto  che ti stavi aggirando come una furia, cosa è successo?”
Solas si sentì in trappola per un momento. Cercò di respirare a fondo ma l’aria non dette sollievo ai polmoni. Le idee rimanevano confuse. Perché proprio lei?
Non parlavano da giorni. Nella rotonda c’era un rimedio contro gli incubi che la aspettava, ma lei continuava ad evitarlo. L’aveva vista da lontano passare in punta di piedi come a voler evitare di destare la sua attenzione. Da giorni l’elfa evitava anche solo di incrociare il suo sguardo. Giorni di quiete, di bevute e di tempo libero e non aveva messo piede nella rotonda neanche per un istante. Aveva sentito la sua voce scendere leggera dal piano superiore, doveva aver speso molto tempo con il mago del Tevinter, doveva aver ogni volta fatto in modo di evitare di passare davanti a lui.
Era ciò che aveva desiderato, aveva forse il diritto di sentirsi ferito dall’atteggiamento di lei? Ovviamente no, ma di tanti momenti, senza dubbio più adeguati, quella dannatissima dalish doveva scegliere questo per rivolgergli la parola?
Rimaneva immobile e lo fissava accigliata, sembrava preoccupata. “Che succede?” Chiese ancora.
“Ti sembra strano vedere qualcuno fare effettivamente qualcosa mentre tutti dormono?” La risposta di Solas era stata caustica e ringhiata tra i denti, mentre un ghigno gli torceva le labbra. La rabbia aveva iniziato a fluire fuori dalla sua bocca insieme al suo cinico sarcasmo e il mago non fece nessuno sforzo per trattenersi. Aggiunse anzi: “la tua Inquisizione si prende una vacanza mentre la gente continua a morire per le strade e un pazzo che si proclama Dio va in giro a seminare caos. Un vero esercito di codardi, rinchiuso tra queste mura a leccarsi le ferite. Non siete degni di questo posto, nessuno di voi lo è.”
“Solas credo tu stia esagerando, dimmi cosa sta succedendo.” L’Inquisitore sembrava perfettamente controllata. Aveva assunto le sembianze del capo, la sua espressione non aveva niente della giovane elfa di pochi istanti prima.
“Ecco il leader dell’Inquisizione! Non sono io ad avere bisogno della tua guida ma quegli sbandati che chiami i tuoi uomini. Credevo foste forti, credevo avreste lottato, invece siete facili alla disperazione e all’ira come qualunque shemlen. Anche tu lo sei. Non sei diversa da nessuno di loro. Sei una vera delusione.”
Solas aveva degli ottimi riflessi, ma quelli dell’elfa erano migliori. La ragazza ricordava nella grazia e nella velocità dei movimenti, i cacciatori dei tempi antichi, il loro sangue scorreva senza dubbio nel suo corpo. Il pensiero raggiunse la sua testa nell’istante in cui il pugno dell’Inquisitore colpiva la sua mascella. Solas si portò entrambe le mani al viso e prese a massaggiarsi la parte dolorante.
Era sconvolto dal modo in cui la ragazza aveva reagito. Aveva cercato di ferirla, aveva lasciato che la rabbia che portava dentro trovasse libero sfogo contro di lei. Si aspettava di vederla infuriata, ma lei lo aveva sorpreso di nuovo. Il cuore del mago iniziava finalmente a rallentare, alzò lo sguardo cercando gli occhi dell’elfa. La ragazza non sembrava arrabbiata e neanche turbata, Solas poté leggere nei suoi occhi forse solo una vaga preoccupazione.
Si lasciò cadere a terra e si sedette appoggiando le spalle contro il parapetto, chiudendo gli occhi e assecondando il proprio respiro.
Quando li riaprì vide che l’elfa si era seduta di fronte a lui e lo osservava attentamente.
Il mago sentiva il corpo finalmente rilassato, i muscoli doloranti come dopo uno sforzo estenuante. Si accorse, grazie al sollievo che lo avvolse, del dissolversi di una terribile emicrania che doveva perseguitarlo da giorni e che ora finalmente lo stava abbandonando, permettendo ai pensieri di tornare a fluire limpidi.
Guardò di nuovo l’elfa negli occhi.
“Va meglio ora?” Sembrava divertita.
“Mi dispiace.” Non disse altro, ma l’elfa non sembrava in cerca di scuse.
Rimasero per un po’ seduti in silenzio a guardare il cielo. Solas si era seduto rivolgendo le spalle alla vallata ma poteva sentire l’odore della tempesta avvicinarsi.
“Credo sia meglio che tu rientri, tra poco pioverà.” Non era pronto ad alzarsi ma non voleva trattenere l’elfa lì fuori con lui.
“Mi piace la pioggia.” La ragazza aveva parlato continuando a fissare il cielo, osservando probabilmente l’avvicinarsi delle nubi.
Si sentivano già i tuoni rombare sommessi.
“Mi hai spaventato poco fa. Prima delle sciocchezze sull’Inquisizione. Il tuo sguardo era... C’era una luce...” Rimase in silenzio per un poco sforzandosi di trovare le parole. “Non aveva nulla di normale. Vuoi dirmi cosa succede?” Davanti al suo silenzio l’elfa aggiunse con un tono più freddo: “Se dovessi diventare un pericolo, dovrei saperlo. Non sono pronta a mettere in pericolo nessun altro dei miei uomini sbandati.”
Nessun altro. Le parole stridettero per un attimo nella testa del mago, poi la crudele ironia delle parole dell’Inquisitore ebbe il sopravvento e permise alla tensione restante, di sciogliersi dentro una cupa risata.
“Certo che sono un pericolo. Non mi viene in mente uno solo dei nostri compagni che non sia un pericolo. E tu sei il pericolo più grande di tutti. Il potere che tieni tra le mani è più grande di quanto qualunque mortale possa riuscire a comprendere.”
Si piegò in avanti, prese la mano marchiata di lei tra le proprie e aggiunse: “E tutti sono pronti a prostrarsi davanti a te e ad accrescere il tuo potere, cosa ne farai sta solo a te deciderlo. Non ti sembra pericoloso? Potresti con una parola distruggere un villaggio o addirittura una nazione. Se credi che io sia un pericolo, ebbene, la mia vita è nelle tue mani, come quella di molti altri.”
Solas nel pronunciare quelle parole, si trovò a desiderare intensamente che fossero la verità. Finalmente capiva. Era stanco. Era stanco di combattere, di lottare, di seguire un sentiero che giorno dopo giorno sentiva meno suo. Era stanco di mentire e di dover rinunciare a ciò che il suo cuore bramava con ardore. Avrebbe voluto potersi riposare con gli altri, rilassarsi, lasciarsi andare, bere, ridere, flirtare.
Era stanco di dover vestire un nome che non sentiva più proprio, che non significava più nulla. L’Inquisitore aveva ora il potere sufficiente, era intelligente e attenta, se lei avesse sposato la sua causa, lui avrebbe potuto smettere di essere un dio, avrebbe potuto tornare ad essere un umile mago, un servitore se necessario. Sì, avrebbe potuto servire quella giovane elfa, compassionevole e giusta, avrebbe potuto abbandonarsi a lei completamente.
La guardò ancora un momento. Il suo sguardo sembrava ora colmo di disprezzo. Erano lacrime quelle trattenute a stento nei suoi occhi?
Lei si alzò di scatto e lui la seguì.
Le cose orribili che aveva detto su di lei e sull’Inquisizione in un momento di rabbia non l’avevano scossa minimamente e quelle ultime parole, che altro non erano se non un tributo alla sua grandezza, l’avevano invece quasi indotta alle lacrime. Perché?
Si avvicinò a lei e stringendole le spalle, la spinse a voltarsi verso di lui. Ora lo sguardo era duro, le lacrime erano state ricacciate indietro.
“Credi di sapere molte cose, ma non è così. Non sai cosa vuol dire avere questo potere tra le mani. Non sai cosa vuol dire essere l’Araldo. Io non lo voglio questo potere, non l’ho mai voluto, ed ora lo voglio meno che mai. Man mano che questo potere cresce le persone che amo si allontanano.” Un barlume di speranza si accese nel cuore di Solas.  Avrebbe la giovane dalish, potuto davvero capire?
“E’ vero, è triste, ma è giusto. Quando avrai preso le distanze da tutti, allora potrai fare le tue scelte liberamente, anche le più difficili.” Solas avrebbe voluto dirle che sapeva di cosa stava parlando, che quel sentiero era giusto anche se difficile, che lui però le sarebbe rimasto accanto.
“Quando sarò sola, per chi salverò questo mondo? Come farò a sapere se le mie azioni sono giuste? Come farò a sapere che non ho perso di vista ciò che conta davvero?”
Sorprendente, come sempre. Solas dovette arrendersi ancora una volta a quella giovane dalish. Comprese che se anche avesse avuto il coraggio di lasciare il proprio egoismo prendere il sopravvento, se anche avesse deciso di farsi da parte e lasciare che fosse lei a prendere il comando, che fosse lei a guidare tutti verso un nuovo mondo, più giusto e più libero, non sarebbe stato possibile. Lei non avrebbe mai potuto prendere il suo posto. Lei era già al suo posto, ma aveva scelto di non diventare come lui. Anche il mondo a cui aspirava era diverso dal suo. Il suo sentiero diverso. Si augurò per un istante che quel sentiero potesse procurarle meno dolore di quanto lui ne avesse dovuto affrontare seguendo il proprio. I loro sentieri divergevano lì, quel giorno. Due falsi dei uno di fronte all’altra. Solas sentì una stilettata al cuore. Credeva di aver già sofferto abbastanza, ma la saggezza popolare avverte che non c’è mai limite al peggio. Strinse l’elfa tra le braccia, per nascondere il proprio volto al suo sguardo attento e per potersi sostenere contro l’esile corpo di lei, che affrontava il suo stesso destino scegliendo una via di saggezza che lui aveva presto abbandonato.
“Mia saggia, giovane amica, potrai mai perdonarmi?” Un sussurro sfuggì dalle sue labbra mentre una pioggia lenta iniziava a cadere su di loro.
La ragazza, che fino a quel momento era rimasta rigida tra le sue braccia, si abbandonò all’abbraccio, iniziò ad accarezzare con dolcezza la schiena dell’amico e prese a ripetere come una nenia: “Va tutto bene. Andrà tutto bene.”
Le gocce di pioggia cadevano grandi, pesanti e sempre più fitte. Solas si allontanò dalla ragazza per poter tornare a guardarla negli occhi. Poteva forse non essere troppo tardi per lui? Lei era finalmente a tutti gli effetti una sua pari. Avrebbe potuto capire? Avrebbe potuto accettare la verità? Se lei fosse stata in grado di comprendere, lui avrebbe potuto condividere il sentiero con una sua pari, avrebbero potuto insieme inventare un’altra via, avrebbero insieme disegnato un nuovo mondo. Prese il volto di lei tra le mani, era caldo nonostante l’acqua avesse iniziato a grondarle dai capelli lungo le guance e lungo il naso. Avrebbe voluto bere la pioggia dalle sue labbra. Cercò di avvicinarsi al viso della ragazza, ma questa con un gesto rapido si liberò della sua stretta, si fece indietro e scosse la testa guardandolo negli occhi. Una nuova fitta attraversò il vecchio cuore dell’elfo. Aveva avuto una possibilità di divergere dal triste destino che aveva scelto per sé. Quell’elfa poteva essere il sentiero nuovo ed inesplorato, e lui l’aveva fatta fuggire.
“Vieni, andiamo a bere qualcosa, ne abbiamo entrambi bisogno.” Lo sguardo dell’elfa era gentile e Solas si lasciò guidare da lei, verso la taverna. Proprio lì, inaspettatamente, lo raggiunse la notizia che attendeva dalla mattina e Varric fu il messaggero involontario del suo trionfo.
“Ehi ragazzina, sai la novità?”
“No Varric, ma dammi almeno il tempo di asciugarmi.”
“Mettiti davanti al fuoco ed ascolta, è la notizia più improbabile che ti capiterà di ricevere d’ora in avanti.”
Solas e Lena si misero davanti al grande camino, cercando di scrollarsi di dosso l’acqua in eccesso sotto lo sguardo irritato dell’oste.
“Lo dici ogni volta, ed ogni volta capita qualcosa di orribile che ti smentisce.”
“Ragazzina di poca fede! Quelle vecchie suore polverose di Val Royeaux hanno finalmente fatto dei nomi per l’elezione della nuova divina. Dicono che verrà scelta tra le fila dell’Inquisizione. Indovina di chi si tratta?”
“Madre Giselle?”
“Usignolo!” Varric sorrise sornione davanti allo sguardo stupito dell’Inquisitore e poi aggiunse: “Ma non è tutto, la contendente di Usignolo sarà niente meno che la nostra beneamata Cercatrice.” Varric non trattenne una risata chiassosa che incontrò la risposta disgustata della cercatrice stessa.
 
Solas era rimasto in silenzio. Non si aspettava che avrebbero fatto il nome di Leliana, Cassandra era senza dubbio più semplice da controllare, ma dopotutto quello era un ottimo inizio. Avrebbe solo dovuto trovare il modo di far pendere la bilancia dalla parte della Cercatrice ed era certo di poterlo fare agilmente.
Il chiacchiericcio esplose allegro, ognuno aveva qualcosa da dire. Solas si sedette davanti al fuoco e rimase ad osservare la scena, combattuto tra la soddisfazione di essere riuscito a mettere a segno un’altra mossa vincente e la sensazione di stare sprofondando sempre di più in una fossa scomoda che continuava a scavare per sè con le proprie mani.

 

Un po' come nel film The BlairWitch Project, ora dovrei iniziare a chiedere scusa. "Chiedo scusa a tutti".
Non ho scritto niente per una mesata e poi torno con questo, mi dispiace. Ringrazio tutti coloro che in questo periodo di silenzio hanno letto, commentato o semplicemente preferito. Grazie davvero.
Per quanti avranno la forza di superare questo capitolo un po' triste, posso assicurare  che non sarà sempre così, ma la mia è una Lavellan, non potete sperare che le cose vadano proprio bene bene...
A presto!
   
 
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