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Autore: SagaFrirry    29/08/2016    1 recensioni
Hope è una ragazza apparentemente normale. Venuta a sapere del malessere dello zio, decide di tentare l'impossibile: riunire la famiglia. Essa è a dir poco originale, piena di dissapori e soggetti pittoreschi. Riuscirà la Speranza a far trovare un accordo alla "famiglia più importante del Mondo"?
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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XII

 

Da qualche parte sull’Annapurna, Nepal

 

Hantay aprì gli occhi. Aveva momentaneamente interrotto la sua meditazione. Leggermente accigliato, cominciò a rigirare lo sguardo a destra e a sinistra con fastidio. Non poteva credere alle sensazioni che provava. Costantemente in contatto con suo padre, stava percependo una presenza familiare al suo fianco. Una presenza che non doveva esserci! Cercò di ignorare la cosa ma non gli riusciva facile. Lasciò cadere le braccia, inclinando il busto e guardando in alto con un’evidente curvatura del sopracciglio. Sbuffò. Forse la meditazione non faceva per lui..

 Si passò le mani fra i lunghissimi capelli neri e sorrise alle stelle. Fece qualche passo con i piedi nudi sulla neve e si allontanò dalla sua grotta. Magari camminare un po’ gli avrebbe tolto certi pensieri, fra l’altro impossibili, improbabili. Povero papà…era stravolto e la sua mente malata gli mostrava cose non vere. Hantay si passò una mano sulla spalla sinistra, toccando quel tatuaggio che aveva in comune con tutte le sue sorelle ed il suo genitore. Ridacchiò. Hope stava chiamando tutta la famiglia…ma alle sorellastre non aveva pensato. O probabilmente ci aveva pensato, ma non le aveva cercate.

“Che grande famiglia felice..”. Questo fu il suo commento sarcastico.

Si accorse di avere i capelli più lunghi della sua altezza e quindi si trascinavano sulla neve, lasciando una lunga scia. Arrivò fino in cima ad una piccola escrescenza di roccia e vi si sedette sopra, guardando il cielo sereno e pieno di stelle. E la Luna? Non c’era quella notte. O forse non era ancora sorta. Canticchiò, già più rilassato, e si accese l’ennesima sigaretta. Chiuse gli occhi. Non voleva assolutamente meditare ma solo rilassarsi. Rabbrividiva al contatto con la neve che cadeva a fiocchi sulla sua pelle nuda ma non per il freddo, bensì per il solletico. Ad un tratto si sentì chiamare. Pensò ad un’allucinazione perché da quelle parti nessuno conosceva il suo nome. O almeno così pensava fino ad ora. Ma, evidentemente, non era così perché si sentì chiamare ancora. E ancora.

E ancora.

Lui non rispose ma sentì il suo nome ripetuto nella tormenta ancora diverse volte.

“Hantay?!”.

Quale degli aguzzini di suo padre o suo zio lo aveva trovato lassù, in mezzo al nulla? Quale creatura veniva, in mezzo al gelo, ad infastidirlo? Che scocciatura…

Girò gli occhi, rimanendo seduto e drizzando le orecchie. Sentì un sommesso rantolio da poco lontano. Annusando l’aria tentò di percepire chi fosse a produrlo, ma non ci riuscì.

“Hantay!” si perse nel vento.

“Chi sei?” rispose, mentre l’eco ripeteva quelle parole diverse volte.

“Dove sei?”.

“Non è educazione rispondere ad una domanda con un’altra domanda!”.

“Dove sei? Non ti vedo! Puoi venire verso la mia voce?”.

“Arrangiati! Vieni tu da me! Sei tu che mi cerchi…”.

Seguirono diversi minuti di silenzio, in cui Hantay fumò con tranquillità, appollaiato su uno spuntone di roccia che dava su un dirupo avvolto dalla nebbia.

“Sei un bastardo” sibilò una voce alle sue spalle.

Girò la testa e vide chi lo stava perseguitando.

“Jibrihel! Sei tu! Amico mio…bastava dirlo”.

“Amico? Io e te non siamo amici”.

“Ed io non sono un bastardo. So chi sono i miei genitori. A cosa devo la tua visita?”.

“Mi manda il mio capo. Tuo zio. Devo dirti una cosa importante”.

“Dilla se proprio devi. Ma preferirei non ricevere ordini da parenti vari”.

“Non sono ordini. Solo notizie. Guardami negli occhi adesso. E troviamo un posto tranquillo, se non ti dispiace.”.

“Mi dispiace. Io sto benissimo qui. E poi…più tranquillo di questo, che pretendi?”.

Jibrihel sorrise, beffardo. “Sei proprio come tuo padre” sogghignò.

“Questo non dovevi dirlo. Andiamo. Forse nella grotta avrai meno freddo, cherubino!”.

“Non sono un cherubino!”.

“Giusto. Sei una segretaria…”.

 

I due rientrarono nella grotta, solo parzialmente al sicuro dalla neve e dal freddo.

“Scusa tanto se non posso offrirti latte e biscotti…” commentò Hantay. Guardò il suo ospite un po’ meglio e, notando quanto tremasse, aggiunse “…e neppure una bottiglia di Gin”.

“Tranquillo. Sono abituato a non venire accolto in modo normale”.

“Questo perché non appari mai in modo normale. A proposito…niente luci ed effetti speciali con me? Ti sei stancato anche tu di questi giochetti?”.

“Questi, come li chiami tu, ‘giochetti’,  funzionano solo se non conosci il trucco. Tu conosci bene chi si cela dietro ad ogni apparizione perciò che senso ha, per me, consumare energie per un’apparizione in grande stile per te? A che serve?”.

“Va bene, va bene…non ti agitare!”.

“Non sono agitato”.

“Come vuoi…” esclamò Hantay, alzando le spalle ed intrecciandosi i capelli.

“Come mai sei in un posto come questo? Insomma…tutti dicono che non è nel tuo stile star qui a meditare…insomma…non so se capisci…” parlottò Jibrihel, accoccolandosi in un angolo, soffiandosi sulle mani per scaldarle.

Hantay lo guardò male.

“Non sono stupido” sbottò “So che vuoi dire! E so anche che tutti quanti credono di conoscermi ma in realtà non è così. Io sono molto diverso da come il Mondo pensa. E adesso dimmi quello che hai da dirmi e sparisci. Qui sto bene perché posso stare SOLO e in pace. Sono venuto qui proprio per schivare la gente come te, mio zio…e mio padre!”.

“Questa è bella…tuo padre?”.

“Sì. Problemi?”.

“Tu hai problemi, non io! Perché tuo padre? Sembrate così uniti…”.

“Non equivocare, portalettere! Non ho problemi con mio padre. È solo che si aspetta determinate cose da me. Ed io, sinceramente, gradirei crearmi il mio futuro da solo e non avere già tutto predefinito. Vorrei seguire la strada che io da solo mi creo e non seguire un sentiero già tracciato”.

“Questo è strano. Teoricamente tu, come Kriss, dovresti prendere il posto di tuo padre…”.

“Dovrei. Ma non è quello che voglio. Almeno…non è quello che desidero ora. E adesso parla e vattene, per favore. Hai visto? Son stato educato. Ho detto: per favore!”.

“Sono ammirato da questo…”.

“Parla. Sei venuto a dirmi che partorirò un figlio nonostante la mia verginità? Guarda che sei arrivato tardi…” ridacchiò Hantay arrivando alla fine della sua treccia e facendo un piccolo nodo.

“Cose del genere non capitano più”.

“Non ci sono più le ragazze di una volta!”.

“Nemmeno i ragazzi…”.

“Bene. Però ora arriva al punto. Non sarai mica venuto fin quassù per parlarmi di verginelle…”.

“No. L’argomento si distanzia molto dalle vergini. Sono qui per parlare di tua madre”.

“Bada a come parli, postino volante!”.

“Non ho ancora detto niente!”.

Hantay guardò Jibrihel con sospetto, con gli occhi leggermente screziati di rosso che però tornarono subito di un azzurro omogeneo e tranquillo.

“Carini i pantaloni che porti, Jibry. È un cambiamento che mi piace. E la camicia è un tocco di stile. Dì la verità…hai lasciato perdere i suggerimenti di Kriss nel campo della moda”.

“Non so a cosa ti riferisci…”.

“Andiamo! Kriss si veste in modo terrificante! Adesso poi si è dato all’Emo e va in giro a righe orizzontali che lo rendono somigliante ad un grosso bruco nero e rosa! Per non parlare di quelle cose a quadrettoni rossi che fan sembrare grasso chiunque…”.

“Non mi ha mai dato suggerimenti riguardo al mio modo di vestire”.

“Menti! Quella tunica informe con i sandali era un’idea sua!”.

Jibrihel girò gli occhi al cielo, cercando di fuorviare dall’argomento.

“Sono italiani?” domandò Hantay, giocherellando con un grumetto di neve.

“Cosa?”.

“I bruchi neri e rosa! SVEGLIA! I pantaloni, Jibry! Dove li hai comprati? Da dove vengono?”.

“Non saprei. In effetti potrebbero essere italiani. Ma non credo. Al capo piace spendere poco. Avrà schiavizzato un branco di cinesi! Ma…adesso che ci penso…è più facile che il capo convinca gli italiani! I cinesi hanno altri punti di vista…perciò sì, potrebbero essere italiani”.

“Bene!” esclamò Hantay, sorridendo “Allora chiederò a mio padre di procurarmene un paio! Magari neri, non color nocciola come i tuoi…”.

“Di questo anche vorrei parlare”.

“Di cosa? Del nocciola?”.

“No! Di tuo padre!” sbottò Jibrihel, arrossandosi il volto.

Aveva infilato le mani nelle tasche del cappotto imbottito, dello stesso colore dei pantaloni, ed aveva alzato il cappuccio per coprirsi i capelli biondi. La sciarpa, arrotolata attorno al collo, pendeva da un lato toccando quasi la terra. Rabbrividiva. Faceva molto freddo e i guanti non gli impedivano di perdere sensibilità alle dita. Hantay sorrideva, chiedendosi quale misterioso animale era stato ucciso per creare gli stivali che l’ospite portava. Erano pelosi, molto pelosi, all’esterno come all’interno, e bianchi candidi.

“Sono finti. È pelo sintetico” borbottò Jibrihel, come a leggere nei suoi pensieri.

“Ma…hai tanto freddo?” si stupì Hantay.

“Ovvio! Fa freddissimo qui! Saranno almeno 40 gradi sottozero! Non sono io quello con i problemi ma tu, che sei mezzo nudo in mezzo alle tempeste di ghiaccio!”.

“Ho altro in testa. Basta non pensarci e il freddo non si sente”.

“Sarà…”.

“Ad ogni modo…cos’è che devi dirmi? Mia madre…mio padre…scegli tu con chi partire”.

Hantay, nel dire quelle parole, sembrava con la mente distante, persa chissà dove. Si era seduto a gambe incrociate e guardava fuori, nel buio della notte e della tempesta. Nel grigio della nebbia e delle nuvole, infranto dal bianco di neve e ghiaccio.

“Vorrei partire da tuo padre, se non ti dispiace. Tua sorella Hope era molto preoccupata per lui. E tu che sei sempre in collegamento mentale con lui capirai che c’è qualcosa che non và. Ha perso il controllo. Ci sarà qualcosa che lo tiene a freno nel fare sciocchezze…”.

“C’era. Era mia madre. Tanto tempo fa. Perché è passato così tanto tempo…”.

“Capisco…e non c’è altro modo per farlo ragionare?”.

“Mmm…no! Ma a che ti serve farlo ragionare?”.

“Non serve a me. Ma al mio capo”.

“Allora in questo caso poteva pensarci prima”.

“Non sarai mica anche tu dell’idea che tutto ciò che è accaduto a tua madre è colpa del mio capo?”.

Hantay non rispose, ma il suo sguardo fece capire a Jibrihel che era esattamente di quell’idea.

“Perché pensi una cosa del genere?”.

“Perché il tuo capo ha sempre qualche cosa a che fare con tutto. Non dice forse di essere onnipotente, onnisciente, onniognialtacosa eccetera eccetera….?!”.

“Anche tuo padre dice così”.

“Ma con meno frequenza”.

“Se lo dici tu…”.

“Che cosa hai da dirmi su papà? Come ti ho detto all’inizio, preferisco stare da solo”.

“Niente. So già, ora, quello che mi serve. Piuttosto…vorrei che tu mi dicessi che cosa sai esattamente sulla sorte di tua madre”.

Hantay fermò ogni suo movimento, dai giochetti con la neve agli scricchiolii che produceva con le giunture delle dite della mani. Jibrihel fece un passo indietro, un po’ inquietato dall’improvviso silenzio. Nemmeno il vento fischiava all’interno della grotta. Silenzio totale.

“Che intendi dire?” disse Hantay, con un tono di voce leggermente più basso del solito, e senza guardare l’altro occupante della grotta.

“Intendo dire quello che ho detto. Cosa ne sai esattamente sulla sorte di tua madre?”.

“Non molto” ammise Hantay. “So che è morta” mormorò, girando gli occhi verso Jibrihel.

Questi fece un altro passo indietro, allarmato dall’espressione leggermente malvagia dell’altro.

“Mmm…morta…incorporea…”.

“Che intendi dire?” scattò Hantay.

“Niente…”.

“Come niente?”.

“Era questo che ti volevo dire. Ma…devi promettermi di non arrabbiarti!”.

“L’unica cosa che ti posso promettere è quello di non ucciderti. E non perché non abbia voglia di farlo” ringhiò Hantay, avvicinandosi con fare minaccioso a Jibrihel.

Lo spinse contro il muro e lo guardò negli occhi, prima di continuare.

“Ora tu mi dirai tutto, fattorino. E spero che non ci siano strane macchinazioni sotto tutto questo perché ho sofferto già abbastanza per la perdita di mia madre. Perciò non mentirmi. Ricorda di chi sono figlio…”.

L’ultima frase era quasi sibilata. Jibrihel deglutì ripensando, fra se e se, “Ambasciator non porta pena un paio di balle!”.

“Ok. Ti dico tutto. Ma adesso siediti e stai calmo”.

“Non dirmi di stare calmo. E parla”.

I due si guardarono negli occhi per un po’. Poi Jibrihel, in seguito ad un lungo sospiro, iniziò.

“Tu, Hantay, dentro di te hai gia visto la verità. Tua madre ha parlato con tuo padre. E non era il frutto della mente, ormai malata, del tuo genitore. Era la realtà. Tua madre non è propriamente morta. Ma è una storia complicata…”.

“Inizia dal principio. Se non vuoi che ti scaraventi di sotto. Sai quanto è alto l’Annapurna? Non ti consiglio di volare con il culo fino a valle!”.

“Va bene. Ricordati però…che non è colpa mia!”.

“Colpa di qualcuno è. Saprò con chi prendermela…”.

“Spero non con me. Comunque…io devo solo dirti questo: tua madre non è morta. Ma non ha più un corpo fisico. È un’ombra. Non un’anima. Qualcosa di difficile da spiegare. Ma non è morta. Io dovevo solo dirti questo…”.

“Come può non essere morta?” si arrabbiò Hantay, iniziando a camminare nervosamente per la grotta, a pugni chiusi e ringhiando sommessamente.

“Io…non conosco i dettagli…il capo mi ha detto solo di venire qui e dire questo: tua madre non è morta. Tuo padre ti ha mentito. Ora…posso andare?”.

Hantay scattò verso Jibrihel e lo afferrò per la gola.

“Come sarebbe a dire devi dirmi solo questo? Come puoi venire fin qui per darmi un’informazione a metà? Parla! Apri quella bocca!” urlò.

“Io…io…non so niente! Te lo giuro!” balbettò Jibrihel, dimenandosi. “Non so niente! Niente di più! Mi è stato solo detto che lei non è morta. Credo che tuo padre possa saperne più di me”.

“Mio padre?!”.

Hantay lasciò cadere la sua preda e rilassò le braccia.

“Sì. Tuo padre…”.

“Hai ragione. Lui parlava con lei. Lui sapeva che non era morta…” mormorò Hantay.

“Esatto…”.

“…e mi ha mentito…”.

“Già”.

“…e me lo ha tenuto nascosto…”.

“Così pare”..

“…perché ha fatto una cosa simile?”.

“Non te lo so dire”.

“Perché ha detto a me e ad Hope che era morta? A che scopo?”.

“Nemmeno a questo so rispondere. Che pensi di fare, ora che sai la verità?”.

“Andarlo a prendere. E mostrargli che anni di meditazione non mi impediscono di incazzarmi come una bestia!” ringhiò Hantay.

Detto questo si allontanò, correndo a folle velocità, balzando da una rupe all’altra con determinazione e furia. Aveva gli occhi completamenti rossi, segno della sua rabbia.

Jibrihel estrasse un piccolo telefono dalla tasca.

“Missione compiuta”sussurrò all’apparecchio e qualcuno dall’altra parte si complimentò, mentre Hantay imprecava al vento chiedendo il perché di ogni bugia.

Saltava, da una roccia all’altra, come se fosse la cosa più naturale del Mondo. Scendeva rapidamente, lungo le impervie discese dei crepacci dell’Annapurna, urlando e ringhiando. Era furioso, ed i suoi occhi non accennavano a voler tornare azzurri.

Jibrihel sorrise. A quanto pare tutti quegli anni passati in completa meditazione non avevano in alcun modo intaccato il suo pessimo carattere. Meglio così. Rabbrividendo, ed infilando le mani in tasca, alzò la testa e riprese il volo verso casa.

Alcuni monaci aprirono un solo occhio, distratti da tutta la confusione che si era sprigionata. Intravidero Hantay buttarsi fra i venti ed il ghiaccio, allontanandosi velocemente dalla loro vista. Alcuni di loro pensarono ad una sorta di segno del cielo, un messaggio dagli Dèi o da qualche altra entità superiore. Ne rimasero meravigliati e per un bel po’ non fecero altro che guardare il punto in cui il giovane era scomparso, con ammirazione.

Altri pregarono più profondamente, vedendo in quel giovane un incitamento a credere più intensamente. Lui si gettava fra le rocce senza paura, aveva molta più fede. Fissarono lo stesso punto che fissava il precedente gruppo ma con devozione.

La maggior parte di loro vide, in quel gesto insensato ed immotivato, tutto il manifestarsi di uno scompenso mentale serio. Richiusero subito l’occhio che avevano aperto, ignorando il suicida.

In ogni caso erano tutti più che certi che si fosse sfracellato sulla prima sporgenza incrociata, fede o non fede, divinità o non divinità.

Invece Hantay continuava a scendere, velocissimo, con sempre maggior determinazione.

“Papà! Spero tu abbia una spiegazione più che valida per tutto questo perché, se non è così, farò in modo di essere davvero orfano di uno dei genitori! Con le mie mani!” gridava.

Nella sua mente sorgevano innumerevoli dubbi. Primo fra tutti era il pensiero che, forse, Hope sapeva qualcosa e lo aveva lasciato all’oscuro. E se era così allora la sua rabbia si sarebbe sfogata anche sulla sorella, nonostante tutto il bene che provasse nei suoi confronti. Se era una traditrice doveva pagare. Tutti dovevano pagare. Tutti dovevano capire che non si poteva prendere in giro una creatura come lui. Non era più un bambino e non aveva bisogno di essere protetto e circondato da inutili bugie per evitargli sofferenze. E se poi, alla fine, la causa di tutto si potesse ricondurre allo zio? Il solito zio che aveva lo zampino un po’ in ogni cosa, senza mai ammetterlo? Poteva essere così. Poteva non essere colpa di suo padre, in fondo, ma ad ogni modo non aveva alcun diritto di raccontargli balle in quel modo. Come se fosse un cucciolo. Un pulcino. Non lo era più da tempo ed era stanco di essere trattato come tal!. Non era quella cosetta preziosa che suo padre credeva! Non era il figlio perfetto che desiderava! Ed Hantay si chiese di chi fosse colpa.

Sempre correndo, passò lungo diversi villaggi, urlando e rimuginando su diverse cose. E tutti quelli che incrociò si terrorizzarono. Era spaventoso ed innaturale. Specie di notte, quando i suoi occhi color del fuoco illuminavano il buio più della Luna piena e delle stelle.

“Anche Shiva si arrabbia…” mormorò un induista, con apparente calma.

“Una creatura malvagia è appena passata per qua” rispose un buddista, senza scomporsi.

“Un’anima tormentata…” commentò un animista, tranquillo.

“Iblis!” e “Satana! Il demonio corre fra noi!” urlarono, isterici, cristiani ed islamici.

 “Non sono colui che voi dite…” sibilò Hantay, passando oltre a tutte quelle voci e grida, persone e religioni, stati e regioni, continuando a correre. La sua voce, solo un sussurro, e la sua lingua non erano comprensibili “…sono suo figlio!”.

   
 
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