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Autore: Mary_la scrivistorie    30/08/2016    7 recensioni
“Sapeva che le persone come lei li trattavano come se fossero squallidi ranci di carne umana che avevano sottratto ‒ o prosciugato, al pari di infimi succhiasangue ‒ aloni di magia ai meritevoli componenti della società magica.
Sapeva che, per lei, lui non avrebbe dovuto essere altro che un ladro ‒ abile a derubare la gente della propria magia, della propria essenza.
[...]
La guardò, sempre sulla difensiva, pronto sia all’eventualità di un duello all’ultimo sangue che a quello di una romantica serata trascorsa a spiare le costellazioni ‒ sì, era piuttosto versatile, come ragazzo. Si manteneva a debita distanza, come se attendesse soltanto un gesto eloquente da parte sua ‒ un gesto che lei avrebbe dovuto negargli, dato che nutriva un innato odio verso di lui, che non dipendeva da lei bensì dalla propria dinastia elitaria.
Eppure fu a causa sua se Andromeda sorrise, sempre grata alle sirene invisibili, che dalle loro dolci acque continuavano a proteggerla.”

[Seconda classificata al contest “L’amor che move il sole e l’altre stelle” di S.Elric_, partecipa, inoltre, al contest “Let’s make war with... OTPs!” indetto da TheHeartIsALonelyHunter sul forum di EFP.]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromeda Black, Ted Tonks | Coppie: Ted/Andromeda
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Dopo la II guerra magica/Pace
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S i r e n e   n e l l a   n e b b i a
 
  
[Disclaimer: Questi personaggi non m’appartengono e non sono assolutamente usati a fini di lucro.]
 
Note d’autrice:
Di nuovo, arrivati al capolinea. Stavolta, confesso di essere anche meno certa del risultato: esaminare questo pairing non è stato semplice, e non lo è stato neanche riproporlo in una chiave così “dark” ma chi mi conosce saprà quant’è difficile, per me, resistere a una tentazione Angst… Era da tanto che non mi cimentavo in questo genere e spero che non sia uscito un pasticcio da quella che avrebbe dovuto rivelarsi una buona fonte d’ispirazione. Innanzitutto, ho assegnato a Ted Tonks il nome di Edward perché, scovando su Internet, ho trovato questa risorsa non così attendibile che citava che il suo vero nome fosse questo. Può esserlo o meno, a me piaceva più di “Ted” e così è stato per la mia Andromeda, dato che l’ho creata io. Perdonatemi, lol. Oltre a ribattezzarlo con questo nome, l’ho perfino Smistato a Grifondoro – spero che la zia Row non s’arrabbi con me, ops!
Bando alle ciance, ho dovuto ispirarmi, per il contest, alla poesia “La pioggia nel pineto” – che è la mia opera in versi preferita – e ho cercato di renderla sia come ambientazione che come antitesi alle sensazioni di Andromeda: se quei versi evocano un contesto idilliaco, la sua mente già saetta all’Inferno. Spero di essermela cavata almeno decentemente a esprimere quest’intenzione!
Le notizie in merito alla famiglia Black sono tutte fedelmente riadattate dall’albero genealogico fornito dalla Rowling.
Per quanto riguarda i significati dei fiori che ho sparso per questa One-shot, sono tutti ripresi dal bellissimo romanzo di Vanessa Diffenbaugh, Il linguaggio segreto dei fiori, che personalmente ho adorato. Spero di suscitarvi quantomeno qualcosa con questa storia, grazie a chi le darà un’opportunità. Le recensioni, anche critiche, saranno sempre ben accette.
Vorrei esprimere la mia gratitudine anche verso le due giudici, che hanno indetto due concorsi bellissimi che mi hanno concesso la chance di provarci con questa coppia su cui non avevo mai scritto. Infatti, la storia partecipa sia al contest “Let’s make war... with OTPs!” di TheHeartIsALonelyHunter e al contest “L’amor che move il sole e l’altre stelle ‒ HP contest” di S.Elric_, entrambi indetti sul forum di EFP.
Un saluto, Mary. ♥
[1] Nemmeno un po’, nemmeno un pochino, nemmeno niente: Citazione dal film “Dieci cose che odio di te”;
[2] Cime tempestose: titolo del celebre romanzo della seconda delle sorelle Brontë, Emily.
 
 
Sui versi de “La pioggia nel pineto” di Gabriele D’Annunzio.
 
 
Taci.
Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
 
Andromeda aveva da sempre desiderato scorgere, tra le spirali disegnate dalla fitta nebbia che offuscava le acque del Lago Nero, le ombre delle sirene.
Talvolta aveva provato a crogiolarsi nell’illusione, sporgendosi oltre il dovuto per contemplare la distesa buia che scorreva placidamente, ipnotizzata da quell’eterna danza: s’accingeva a scrutare ogni movimento riflesso in quelle sfuggenti acque, trepidante d’avvertire il mistico richiamo attraversarle la mente e trascinarla via dalla realtà ‒ da quella triste, vile realtà.
Altre volte, accantonava quelle brute chimere e s’infervorava nel tentativo di convincersi che quello non fosse nient’altro che un brutto sogno ‒ le febbrili allucinazioni e le ferite sanguinolente inferte sulla sua carne non rappresentavano altro che cimeli delle burrascose lacerazioni della sua anima.
I “brutti sogni” erano sempre stati una sua prerogativa: era lei che, giunta ai pilastri delle stelle, incarnava la vittima sacrificale del suo stesso inconscio ‒ e sanimava doscurità. Il sonnambulismo non le aveva mai dato pace da che era al mondo, perciò non sperava più di tanto che le notti a venire fossero differenti. Ormai s’era abituata all’impetuosa bufera che la ghermiva di colpo durante la fase più remota dei suoi sogni, carpendola dal suo intimo regno onirico e angustiandola tramite una maledizione che nulla aveva da invidiare all’anatema “Imperio”: in balia degli echi delle tenebre, era ogni volta completamente sopraffatta da quelle voraci insidie che si nutrivano del suo stesso terrore.
Andromeda sognava più che altro la morte, nelle sue forme più raccapriccianti, e molte delle sue visioni si rivelavano venefici oracoli della vita reale. Aveva profetizzato i decessi dei suoi consanguinei già molto tempo prima che si compissero: era stato così per la nonna paterna, Irma, e per il prozio Magonò Marius ‒ un altro nome nella lista dei Reclusi della sua famiglia e perciò nient’affatto compianto dal resto di essa.
Fino a quel momento, il numero dei traditori della sua nobile stirpe ammontava a cinque: aveva scartabellato ogni polveroso documento segregato nei meandri di casa sua, al fine di trovare le risposte che cercava. Aveva letto le loro storie, socchiudendo gli occhi, regalando alla propria mente un muto assenso: era così che aveva permesso al vortice della fantasia di scaraventarla nel bel mezzo delle vicende vissute dalle loro anime, commemorando la spensieratezza di quei lieti giorni – che, per ironia della sorte, non erano suoi. Aveva desiderato con tutta se stessa che quelle fioche novelle fossero vere per lei, che fossero ricordi del suo gaudio e non di quello altrui. Ciascuno degli esili enumerati nella Lista Nera, almeno per la sua esperienza personale, equivaleva a una differente forma di libertà: i loro nomi, sebbene anneriti dalle fiamme della condanna che gravava inevitabilmente su di loro, erano in realtà limpide fonti d’oblio stagliate in un orizzonte in cui lei stessa avrebbe tanto voluto addentrarsi. Nonostante fosse la mezzana tra le giovani predilette dell’intera casata, perfino Andromeda era sulla buona strada per trovare la sua proibita oasi di felicità ‒ che, di certo, non si trovava nei varchi del maniero della sua famiglia. Anche lei, proprio come quei reietti, stava infrangendo uno dei principali dogmi del proprio lignaggio ‒ la purezza del sangue e dell’animo – e, per di più, s’ostinava a non assumersene la responsabilità. Dopotutto, la colpa del suo crimine era di luiche sera guadagnato lincarico di traghettarla nel regno dei sogni ogni notte.
Un cigolio piuttosto familiare segnalò il rintocco della mezzanotte. Un qualsiasi estraneo non avrebbe colto nel suo profilo alcun cambiamento – era un’esanime ragazza che contemplava il Lago Nero –; tuttavia, un’analisi più accurata avrebbe potuto facilmente contraddistinguere una metamorfosi nella sua espressione. Se dapprima Andromeda era un’altra mercenaria smarrita in uno dei principali anfratti che accomunava le anime umane ‒ il giaciglio dellattesa ‒, dopo era la personificazione dell’orrore: sapeva che, se solo avesse ceduto alle lusinghe del dio Morfeo, i demoni l’avrebbero assalita ‒ ancora ‒ e sospinta verso la coltre spettrali degli Inferi. Durante quelle travagliate notti, Andromeda era stata più volte sul punto di scomparire per sempre: le sue mortifere visioni l’avevano spesso condotta sull’orlo di un precipizio o a un passo dalle fiamme di un incendio innescato chissà come. Aveva ormai paura anche solo a chiudere un occhio: il mondo aldilà delle palpebre era ancor più terribile di quello dove sostava nelle ore diurne – dopotutto, la luce aveva il potere di ferire solo le sirene.
Non sapeva chi o cosa l’avesse difesa, in quelle occasioni, dall’oscurità che dimorava nel suo stesso corpo e l’opprimeva non appena riusciva a prendere il sopravvento sulla sua ragione.
Aveva discusso molte volte con i suoi familiari di quegli incubi e dell’orrido significato che implicavano: le tesi dei suoi genitori erano più che altro concentrate sulla speranza di una miracolosa discendenza da Salazar Serpeverde, ritenuto il portavoce dell’onniscienza dei rettili, che su effettive e veridiche possibilità. Quanto alle sue due sorelle, erano convinte che si trattasse di una frode ben improvvisata al fine di elevarsi di gradino agli occhi dei parenti, dato che secondo il loro parere lei era il partito meno appetibile della loro discendenza.
Era contenta che Bellatrix, ormai sulla soglia dei diciannove anni, avesse già terminato gli studi: ci pensava già Narcissa a tormentarla a dovere con le sue accuse di piombo, non aveva bisogno che s’intromettesse anche lei in quella rappresaglia. Per fortuna ‒ o sfortuna, dipendeva dai punti di vista ‒ la sua spietata sorella era più che altro occupata a cimentarsi fedelmente nel ruolo di Mangiamorte e a essere soffocata da quell’insopportabile onere. Come al solito, era la figlia all’altezza delle aspettative ‒ quella che s’accaniva contro chiunque sostenesse una buona causa ‒ e Andromeda non poteva farci niente, se era lei l’involucro sterile della famiglia. Narcissa era già ormai felicemente promessa al rampollo dei Malfoy e Bellatrix, nonostante avesse brutalmente declinato le più favorevoli proposte di matrimonio, era ormai abilmente versata nelle Arti Oscure e non aveva bisogno di alcun pretendente ‒ si vociferava che aspettasse una dichiarazione da parte di Lord Voldemort, cosicché riuscisse a coronare il più grandioso sogno d’amore a cui una giovane donna Purosangue potesse ambire. Povera illusa, pensava ogni volta Andromeda, che già considerava l’ammaliante fascino di sua sorella sfigurato dalla raffica di ombre che la   trasportavano sempre più lontano dalla sfera di cristallo in cui era cresciuta. Di certo, Tom Riddle non l’avrebbe neanche degnata di attenzioni se non fosse stata una devota seguace della sua settaria dottrina.
Nessun altro era a conoscenza dei brutti sogni che infestavano assiduamente le sue notti. Nessun altro, eccetto un’insignificante sagoma appartenente alla schiera della lurida feccia di Hogwarts ‒ quella da cui avrebbe dovuto starsene alla larga, quella che s’era prepotentemente insinuata nella sua esistenza.
Edward Tonks, figlio mago di due Babbani scozzesi, l’aveva sorpresa lì, una sera, nel bel mezzo di quel rituale d’arcana natura che serviva semplicemente a non farla addormentare, ormai più di un anno prima. Andromeda rammentava che, all’improvviso, era emerso dalla Foresta Proibita e l’aveva riscossa dal languore che era già stato sul punto d’intorpidirla e   menarla verso la landa infernale che l’attendeva in agguato. Non l’aveva da subito riconosciuto, ridotta al limite dello sfinimento, ma s’era lasciata confortare dalle sue braccia accoglienti, che avevano tentato con tutte le loro forze di mantenerla in piedi, come se lui avesse già sperimentato di persona quella sorta di dilemma. Annientata dalla necessità d’assopirsi, aveva provato a balbettare qualcuno degli interrogativi che sentiva il bisogno di porgli, ma non c’era riuscita. Il volto di perle del ragazzo era stato lentamente risucchiato dai suoi stessi pensieri fino a diventare un’accozzaglia sbiadita in lontananza. Ricordava ancora l’angoscia riflessa nei suoi occhi d’argento quando l’aveva abbandonato per dirigersi, al pari di un’iridescente supernova, verso il proprio carcere d’amarezze.
Come ogni altra notte, s’era risvegliata nel suo letto, custodita dalle mura del castello e ignara del come e del perché, ma con una schiera di mostri luciferini e irreali alle calcagna. Quello era il suo fato, ogni volta: finiva sempre con la sua resa, sancita sotto lo scintillio del firmamento, e con la comparsa dell’altro mondo, quello mefistofelico. Aveva ben presto dedotto che fosse una catena irreversibile di eventi e che avrebbe dovuto soltanto provvedere a sopportare quella croce come meglio poteva.
Andromeda, suo malgrado, era forte. Resuscitava ogni mattina da quell’infausta pira e fingeva che non fosse appena emersa da un’ecatombe psichica, bensì da un idillio fiabesco che l’avesse rinfrancata con la sua corrente di freschezza e beatitudine. Recitava, recitava dovunque: nessuno sembrava accorgersi che, dietro quella splendente maschera di letizia, si nascondeva una creatura oberata dai demoni dell’Inferno.
Non concepiva come i suoi compagni se la bevessero ogni volta: quando le capitava di darsi un’occhiata allo specchio ‒ di rado, dato che aveva paura di ciò che avrebbe visto ‒ era sconvolta dal pallore cadaverico della sua pelle e dalle ossa ben visibili al di sotto degli zigomi spigolosi. Quanto ai suoi occhi, meglio non riportare le condizioni a cui erano costretti: il colore, che di solito s’accordava a quello dei carboni ardenti e delle nubi in tempesta, era sempre più neutro e flebile; l’espressione era spiritata e abbattuta come quella di una chiaroveggente sull’orlo di una crisi di nervi. Le occhiaie, poi, somigliavano a un fascio di ombre violacee che s’annidava al di sotto delle sue ciglia, in attesa di rapirla di nuovo.
Uno o due pomeriggi alla settimana si recava in biblioteca e sfogliava i più astrusi volumi sui disturbi psicologici e sui loro rimedi, in cerca di esiti che schiarissero i suoi dubbi: nessuno fra quei malanni, tuttavia, presentava sintomi affini ai suoi. Ogni volta si rassegnava al proprio destino, scagliando i libri sul tavolo con indignazione, estenuata da quel tranello diabolico e dalla posta in gioco ‒ che lei, sebbene non la conoscesse ancora, temeva più di ogni altra cosa. Per quanto ne sapeva, c’era un solo antidoto ‒ seppur proibito.
Uno flautato ronzio vicino a lei la destò brutalmente da quelle riflessioni. Per un attimo, temette che il Custode fosse riuscito a intravederla dalla sua postazione di vedetta e che l’avesse raggiunta per scortarla dal professor Lumacorno; le bastò tuttavia un attimo ‒ esalazioni di sospiri caldi e soffocati ‒ per identificare la figura che si stagliava fra i refoli della foschia. Non poté fare a meno di ringraziare silenziosamente le sue sirene custodi: la sua cura ‒ che non consisteva né in una fiala stillata di uno strano intruglio né in un rito consacrato alla foresta ‒ era finalmente arrivata.
Nessuno avrebbe potuto definire “bello” Edward Tonks: aveva un naso eccessivamente aquilino, un paio di occhiali rotti e capelli tanto spavaldi da risultare un ammasso indomabile di ricci crespi; eppure, nel complesso, poteva vantare un’avvenenza rara. Aveva un fisico asciutto ma muscoloso, le ginocchia nodose e i lineamenti dritti e marcati.
Quando comparve all’orizzonte, cosparso del marchio della foresta ‒ l’aspro odore dell’assenzio e l’umidità della pioggia ‒, rivolse ad Andromeda un piccolo cenno di saluto, come se volesse dimostrarle qualcosa ‒ aveva mantenuto la propria promessa ‒ ma fosse sull’attenti. Probabilmente, si ritrovò a valutare lei, temeva una sua possibile reazione negativa: non la conosceva così bene da riuscire a prevedere le sue mosse. In lei, aveva senz’altro potuto notare la notte, celata al mondo da due paia di ali nere impregnate di sangue, ma, a parte quella corazza, che effondeva nell’aria un frizzante odore di lavanda ‒ “diffidenza” ‒, nulla di più.
Di lei, Edward conosceva soltanto il disprezzo con cui aveva precocemente additato quelli come lui ‒ la sua “razza”, a tutti gli effetti ‒ e verso cui aveva ostentato uno spudorato atteggiamento di repulsione.
Sapeva che le persone come lei li trattavano come se fossero squallidi ranci di carne umana che avevano sottratto ‒ o prosciugato, al pari di infimi succhiasangue ‒ aloni di magia ai meritevoli componenti della società magica.
Sapeva che, per lei, lui non avrebbe dovuto essere altro che un ladro ‒ abile a derubare la gente della propria magia, della propria essenza.
Sapeva che, per lei, era integrato nel gradino inferiore, quello che racchiudeva i più fetidi abomini della specie.
La guardò, sempre sulla difensiva, pronto sia all’eventualità di un duello all’ultimo sangue che a quello di una romantica serata trascorsa a spiare le costellazioni ‒ sì, era piuttosto versatile, come ragazzo. Si manteneva a debita distanza, come se attendesse soltanto un gesto eloquente da parte sua ‒ un gesto che lei avrebbe dovuto negargli, dato che nutriva un innato odio verso di lui, che non dipendeva da lei bensì dalla propria dinastia elitaria.
Eppure fu a causa sua se Andromeda sorrise, sempre grata alle sirene invisibili, che dalle loro dolci acque continuavano a proteggerla.


 
 
*
 
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che lanima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
tilluse, che oggi millude,
Ermione.
 
«Sei in ritardo», snocciolò, facendo scivolare le sue gambe affusolate al di là delle umide fronde che s’interponevano fra lei e l’unica medicina in grado di riscattarla da quella gabbia di cicatrici ‒ lui.
«Devo dedurre che tu sia stato intrattenuto da qualche altra giovane fanciulla?».
Si pentì immediatamente delle proprie parole: erano richiami troppo espliciti e lasciavano presagire quanto potere detenesse quell’eventualità ‒ al punto di essere capace di straziarla per l’eternità.
Al fine di camuffare la sua illecita collera, ripiegò su una smorfia mordace che mirasse a canzonarlo più che a supplicarlo ‒ di restare, con lei, avvinto dalle sue stesse tenebre. Quella preghiera, tuttavia, risuonava nel suo sangue e nel suo respiro affettato: Andromeda, nel profondo del suo cuore, aveva sempre sperato di trovare qualcuno che condividesse con lei la sua malsana esperienza ‒ la discesa agli Inferi ‒ e il suo sogno più fervido ‒ la metamorfosi in sirena ‒, giusto per sentirsi un po’ meno sola. Quel fardello l’avrebbe prima o poi sconfitta, se non si fosse adeguatamente imbrigliata agli spiragli di luce in cui le capitava d’imbattersi durante il suo viaggio metafisico – daltro canto, la luce non poteva ferirla.
Cercava quelle rassicurazioni spiritiche anche in Edward Tonks, nonostante fosse la più vile delle compagnie che avesse potuto accaparrarsi. Già riusciva a figurarsi gli echi delle feroci bestemmie della madre alla scoperta del losco tizio che la figlia frequentava la notte ‒ “Sei peggio di Giuda, piccola lurida traditrice del tuo sangue” ‒ e gli algidi biasimi del padre ‒ “Hai infangato, con il tuo disonore, la reputazione del nostro purissimo lignaggio, osando avvicinarti a quel sudicio Sanguesporco”. Erano anche quelle tonanti cantilene, talvolta, a perseguitarla di notte.
Lui, con il volto illuminato di perle sotto i bagliori delle stelle, si limitò a scrutarla. Non diede segno d’aver afferrato ma la stava osservando come se il criptico enigma fosse lei e non ciò che le accadeva.
La sua ansia crebbe sotto il suo sguardo indagatore, tuttavia provò a non darlo a vedere. Intrecciò le mani ‒ cercando un sostegno nelle proprie dita nivee ‒ e rilassò le spalle che s’erano inarcate a causa di quel sinistro silenzio.
Fu soltanto quando raggiunse il culmine dello strenuo che il ragazzo si riscosse dalle proprie meditazioni e le fece notare con tono lapidario: «Ieri notte sei scappata senza preavviso.»
Era la verità. Non avrebbe voluto fuggire o rintanarsi nel suo dormitorio – i sotterranei, a  loro modo, le davano i brividi più della Foresta Proibita –, tuttavia aveva dovuto correre lì quando aveva avvertito un’inusuale pulsazione bruciarle il ventre e inghiottirla nel suo stesso subconscio. Qualcosa era mutato, la sera prima: non rammentava l’incubo che aveva fatto ma s’era svegliata con un coltello insanguinato e un inquietante biglietto sotto il cuscino. Quel sangue non era il suo. Il messaggio era stato micidiale come una pugnalata da parte di quella lama: “Sei prigioniera di te stessa: adesso come te la strighi?”.
Aveva dato fuoco a quella carta maledetta e l’aveva osservata ridursi al nulla, quando le uniche ceneri visibili erano quelle che s’erano addensate nel suo cuore: non era qualcuno a tenerla in ostaggio contro la sua volontà ma era il suo parassita demoniaco, che l’aveva informata che era proprio quello il suo futuro – essere consumata da quel rogo di tenebre.
Andromeda serrò a forza gli occhi e scartò gli incubi che stavano aspettando la sua abituale resa. Questa volta no, pensò risoluta.
Si soffermò, piuttosto, sulle parole di Edward.
Pronunciata dalle tiepide labbra di lui, quella somigliava quasi a un’accusa ‒ o forse era soltanto lei a bramare che lo fosse.
«Gli incubi erano tornati.», replicò lei, con tono disteso, come se ormai quel fato non potesse più scalfirla. S’eresse sulle punte dei piedi per oltrepassare una pozza d’acqua dove rilucevano i bagliori delle stelle e s’accostò a lui, ormai esausta di quei dinieghi morali. Nonostante fosse costretta a mantenere il suo ritegno ‒ con una certa riluttanza ‒, aveva bisogno che lui ci fosse. Sebbene appartenesse a una fazione intollerante nei confronti dei nati Babbani, era ridotta a cercare conforto perfino in colui che avrebbe dovuto essere il suo nemico giurato ‒ la nemesi dei suoi principi, che non erano poi così saldi come credeva.
Edward Tonks, con suo sommo stupore, non la rifiutò: accolse i suoi passi aggraziati con un’aria diplomatica e non si sottrasse a quell’inconsueta vicinanza. Continuò a scandagliarla, con quel suo cipiglio da stratega ‒ che lei poteva accettare sui lineamenti di un Corvonero ma non sui suoi ‒, e, aggrottando la fronte, sussurrò: «Temevo che ti fossi già addormentata, stanotte, senza di me.»
Suonò come la rivelazione di un segreto trattenuto per secoli piuttosto che per poche ore, quelle della giornata scolastica, in cui facevano di tutto per evitarsi reciprocamente – e questo la divertì e la lusingò al contempo. Anche per Andromeda, il tempo senza di lui sembrava essere interminabile: doveva fingere che non fosse ansiosa di rivederlo, quando invece era l’esatto contrario – ma non poteva concederselo.
La dolcezza riflessa nelle sue iridi la fece barcollare un attimo, strattonandola con irruenza verso la realtà – almeno, quando c’erano lui e la radura, quella rimpiazzava dignitosamente un bel sogno.
«Temevo che ti fossi dimenticato di me.», ribatté lei, ormai a pochi centimetri dal suo volto. Quella vicinanza era al contempo bizzarra e beffarda: nonostante il suo palpabile imbarazzo non avesse alcun fondamento, si sentiva avvampare come se davvero tenesse a lui e non lo manipolasse al solo scopo di guarire il suo disturbo. Forse le cose sono bilanciate, si rassicurò, già apprensiva. Forse lo odi e non te ne rendi nemmeno conto.
Lui s’azzardò ad accennare un sorriso sghembo che lo rendeva più simile a un Serpeverde che a un Grifondoro. «Touché
Accadde in uno spaccato d’istante: il contatto con la sua pelle fu tempestivo, eppure l’accecò di sollievo. Edward aveva percorso con le dita il profilo delle sue spalle nude, disegnando la circonferenza che le delimitava, e aveva notato i brividi che s’erano venuti a creare sulla sua pelle lattea. Si bloccò soavemente sui suoi pori, lambendoli in superficie, e li accarezzò con i suoi ruvidi polpastrelli. Nonostante la compattezza di quel contatto, Andromeda s’illanguidì alla sua lieve carezza e, per un istante, si dimenticò tutto il resto ‒ chi era lei, chi era lui e quantaltro. Le dita del ragazzo non erano morbide ed eleganti come quelle dei suoi cugini, che erano abituati a suonare l’arpa e il violino sin da piccoli e che avevano lavorato soltanto attingendo alle proprie risorse magiche: erano sì elastiche, manifesto della sua maestria nei lavori pratici, ma anche callose, come se le sue competenze fossero estese anche all’artigianato Babbano ‒ il ché, stranamente, non la ripugnava. Fu lui, tuttavia, a scansarsi bruscamente: i suoi occhi erano lividi d’indignazione, quando l’agguantò per le spalle scarne e la coprì con il suo sciatto soprabito – era intriso di un odore bizzarro, un miscuglio di sudore e di camelia. Andromeda rammentava che il significato di quel fiore, secondo il dizionario che le aveva regalato sua nonna Irma anni prima, era “Il mio destino è nelle tue mani – una sentenza pericolosa, per uno come lui.
«Inutile che ti rechi qua mezza nuda: avrai solo freddo.», la rimbrottò poi, tentando inutilmente di riscaldarla con le mani ‒ almeno quelle, a dispetto degli occhi, erano roventi.
«Non dovresti preoccuparti per me ma per te stesso.», sibilò lei in risposta, sistemandosi la camicetta bianca che aveva fregato a Narcissa e distanziandosi, per quanto riuscì, da lui.
Edward continuò a sondarla, con i suoi occhi vaganti e le labbra sigillate, come se stesse cercando di metabolizzare il suo monito come meglio poteva ma non ci riuscisse affatto. Probabilmente, proprio come lei, era attratto da quel divieto che finiva inevitabilmente con il separarli e congiungerli in modo assurdo – creando un “tira e molla” che, per prime, devastava le loro anime.
Lui si scompigliò i capelli con la mano – nonostante fossero già molto arruffati – e decise di ignorare il suo avviso senza tanti convenevoli. «Ti va, stanotte, di andare alla radura?», chiese poi, indicando un bagliore di luce che emergeva dalla tetra vegetazione che si preannunciava dinanzi a loro. I riflessi lunari aleggiavano sulle sue ciocche brune, facendole luccicare di bronzo e di mogano.
Andromeda non esitò a rispondergli: «Non vedevo l’ora che tu lo chiedessi.»
Il sorriso che sfoderò lui alla percezione della sua determinazione la gratificò abbastanza da permetterle un ghigno di soddisfazione.
Fu in quel momento che le cristalline stille della pioggia accarezzarono i suoi pensieri e le sue membra.
 
*
 
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nellaria
secondo le fronde
più rade, men rade.
 
Andromeda s’immaginava il canto delle sirene come un inno, un inno ai sogni – gli stessi che le erano stati violentemente strappati dalla vita.
Si diceva che le loro voci, verso le tre o le quattro del mattino, si levassero in aria sin dalle acque del Lago e salutassero la nuova giornata alle porte e l’avvento del sole da cui, poi, si nascondevano. Si diceva che potessero godersi soltanto i primi istanti di quelle sfuggenti folgori, quelle dell’alba, prima di essere costrette a rintanarsi negli abissi per non essere condannate a morte dai raggi solari – che non danneggiavano altre creature se non loro.
Lei era stata più volte intenzionata a rimanere sveglia per accertarsi della veridicità di quelle voci di corridoio, tuttavia non ce l’aveva mai fatta. Era crollata prima che potesse sollevarsi il sole – e piombata, come sua consuetudine, nelle mostruose atrocità dellAde – e non aveva potuto trovare le sue tanto agognate risposte. Doveva essere un canto tanto ammaliante, quello che evocavano le sirene, se aveva il potere di scacciare la nebbia e schiarire l’opacità della notte.
Ci rimuginò su quando, avvolta dal giaccone di Edward – che sapeva di sudore e di camelia, che sapeva di lui – e stretta dalle sue braccia d’avorio, s’avviarono insieme verso la loro radura. A dire il vero, non apparteneva né a loro né agli umani in generale: era, come tanti altri luoghi prediletti dalle coppie di Hogwarts, l’ennesima proprietà territoriale dei centauri, che tuttavia non li avevano mai banditi da lì. Se solo avessero voluto, avrebbero potuto ucciderli con un battito di ciglia o, ancor peggio, consegnarli a Silente – come accadeva per ogni altro Serpeverde, il nuovo Preside di Hogwarts non le era mai andato a genio.
Era sempre stata all’erta, in quel posto, ma nessun contrattempo l’aveva mai separata da quel ragazzo: sembrava quasi un’ironia del destino, che quella compagnia così idilliaca fosse quella meno indicata per una fanciulla del suo rango.
Il melodioso scroscio della pioggia accompagnava i loro passi furtivi: leggendo lo sguardo di Edward, Andromeda aveva capito che non gradiva quel frastuono, mentre lei lo adorava – forse riproduceva il rovescio delle emozioni nel suo cuore.
Come al suo solito, lui era taciturno e non avrebbe mai fatto la prima mossa – menomale che, in una coppia normale, avrebbero dovuto essere i maschi ad agire! Forse era proprio quello il punto: loro non erano una coppia normale – anzi, non erano nemmeno una coppia – e lei avrebbe dovuto incoraggiarlo fino allo strenuo per suscitargli qualche reazione.
Abbindolarlo, tuttavia, si rivelava un proposito più arduo del previsto: lui non era come gli altri uomini, che cedevano alle sue moine non appena notavano le sue regali fattezze o il suo generoso davanzale. Si trattava di davvero un osso duro da gestire: era completamente immune al fascino femminile. Andromeda era riuscita ad appurarlo in più di un’occasione: nel tempo libero, lui s’associava al suo ristretto gruppo di amici e s’isolava con loro presso le querce sul limitare della foresta. Non che avesse indagato a riguardo: aveva a malapena tempo per rimpiangere il suo vecchio ritratto allo specchio, figurarsi per spiare un nato Babbano come lui. Sembrava, tuttavia, indissolubilmente connesso a lei, qualunque cosa facesse: era una cosa irritante, alla lunga – ma era abituata a scenari ben peggiori di quello.
Fatto stava che l’unico suono che accompagnava il loro cammino era il frizzante richiamo del cielo e il silenzio colmo del rammarico di parole non pronunciate – custodite con devozione negli alvei delle loro menti, in attesa di un riscatto morale.
Le gocce di pioggia le avevano nel frattempo inumidito i capelli e il volto, rendendolo terso e scintillante sotto gli spiragli della luna, e d’istinto innalzò il mento al cielo, appropriandosi totalmente di quei cristalli d’acqua. La pioggia calava su di lei, sgorgando sulla sua pelle come avrebbe fatto una fonte celestiale, rendendola un’altra icona imperlata dal suo marchio. Assaporò il gusto delle stille sulle proprie labbra – celavano i racconti delle stelle – e s’arrese a quel tacito invito – proveniva sicuramente dalle sirene nella nebbia.
Andromeda si concesse di guardare Edward, anche lui sfiorato dal fluido manto dell’etere: era bellissimo. Si girò anche lui a squadrarla per un tempo che parve infinito e, mordendosi il labbro inferiore, mormorò: «Sei tutta fradicia: se non ti copri ora, ti ammalerai.»
Dopotutto, in una coppia normale, nessuno avrebbe fatto una constatazione del genere – un maschio non avrebbe mai criticato una femmina prolifica vestita solo di candidi veli in un bosco solitario. Perlomeno, non l’avrebbe fatto alcun Serpeverde, ne era certa. Con i Grifondoro la situazione era diversa: la loro irritante bontà d’animo compensava di gran lunga la loro scarsa libidine. Forse uno come lui pensava che fosse un sacrilegio profanare in modo così oltraggioso una ragazza di soli diciassette anni. Che idiozia, si disse lei, ma riconobbe che era il suo lato ormonale a pensarlo. Aveva sempre sognato d’incontrare un gentiluomo dei secoli scorsi, uno di quelli che irradiava onore con un semplice sorriso e che proteggeva la sua donna da ogni ostacolo; ora, invece, riteneva che un uomo del genere fosse soltanto la brutta imitazione romanzata di un amante estratto da una vicenda destinata all’adulterio. Se ne era stancata, della galanteria: bramava impeto, passione, rabbia. Rimase sconcertata da quegli irrequieti desideri che la rendevano più una cacciatrice che una principessa in frangente amoroso – più intrepida di quanto non fosse mai stata.
Per giunta, suo nonno soleva decantarla come un “bocciolo di rosa nel fiore dei suoi anni”: era l’unico suo parente, Pollux, che aveva il coraggio di trovare bellezza perfino in lei, probabilmente comparandola alla defunta moglie che era stata incredibilmente simile a lei in gioventù.
Peccato che quello stesso corpo non riuscisse a persuadere – anzi, a manipolare – quel testardo di un Edward Tonks, che proprio non voleva saperne di “attrazione carnale”.
Si rassegnò – rammentando a se stessa che perfino quella sua sensazione era proibita, se abbinata a lui – e continuò a seguire i movimenti delle rigogliose piante, che si trasformavano al contatto con la pioggia benefica – che lavava via, oltre ai pensieri, ogni carestia.
«Se non chiacchieri, finisco per addormentarmi», gli ricordò cupamente, «ed è bene che io non lo faccia.»
Le mani di lui scivolarono via dai suoi fianchi, dove s’erano posate per una mezz’ora buona senza che lei se n’avvedesse, e s’accostò a lei così tanto da farle venire la pelle d’oca. Sperò vivamente che non notasse il risveglio dei suoi pori – non voleva illuderlo che tra loro potesse nascere qualcosa, ecco. Tuttavia, Edward, ignaro dell’ipnotico effetto che deteneva sul suo corpo, mormorò: «Hai una relazione con Lestrange, per caso?». Il tono l’artigliò con la sua austerità. La presa sui suoi polsi si fece più urgente, quasi come se esigesse di marcare un territorio.
Appagata da quell’impeto di gelosia, Andromeda si permise di sorridere: «T’importa così tanto, Tonks?». Era la prima volta che usava un vocativo per chiamarlo, ma l’accenno al cognome fu decisamente una scelta infelice. Edward, pensò lei intanto, meccanicamente, appropriandosi dell’essenza del suo nome. Edward Tonks.
«Ted.», la corresse lui a denti stretti, probabilmente infastidito dal suo compiacimento. Sorvolando sul suo profilo, lei poté notare che s’era fatto impenetrabile, al pari di una statua ellenica, mentre squadrava l’orizzonte e tentava – fiaccamente – di non degnarla di un’altra occhiata.
«Edward», sussurrò lei ad alta voce – uno dei desideri che aveva covato per tanto tempo, chiamarlo a fior di labbra –, «È il massimo che posso fare. Non riesco a soprannominarti come un orsacchiotto, scusami. Quantomeno, devo abituarmi all’idea che, chiamandoti così, tu non cominci a dilettarti in filastrocche come faceva a suo tempo il pupazzo di Narcissa. Sai che l’aveva ribattezzato proprio “Ted”?»
Perfino lui soffocò una risata – emise però un rantolo che mirava ingegnosamente a celarla. Ritornò al suo usuale distacco in un battibaleno, allentando la stretta – che era saltata nuovamente al suo bacino – e rilassando i muscoli del torace – Andromeda riusciva ad avvertire i suoi spostamenti sulla schiena e ciò le regalò un altro vortice di brividi.
«Non mi hai ancora risposto.», la rimproverò, sibilandole all’orecchio.
Lei si voltò di scatto e si ritrovò le labbra appese a pochi centimetri dalle sue. Aveva gli occhi fulgidi di stelle e di solennità – occhi da fiaba. Si sentì a disagio, frantumata tra il buonsenso e un’ardente brama, e proferì di getto: «No. Conosce mia sorella e sono buoni amici: quando può, mi passa notizie su di lei.»
Tecnicamente, non era quella la più corretta delle innumerevoli verità che aveva da rivelare – diciamocelo: era un’autentica menzogna.
Rodolphus Lestrange ispezionava la scuola alla ricerca di talenti promettenti o di volontari da arruolare alla congrega di Lord Voldemort – ma non era certamente un dettaglio da sbandierare ai quattro venti. Bellatrix giocava solo una minima funzione in quel progetto: era stata lei, di fatti, a suggerirgli di provarci con Andromeda, viste le sue sorprendenti abilità come Legilimens.
Era sicura che la sorella non lo facesse per gentilezza quanto per estendere il prodigio della propria famiglia: se anche la seconda in linea di successione si univa al branco, c’era una remota possibilità di diventare la luogotenente del Signore Oscuro e di essere considerata uno dei migliori partiti in circolazione per un eventuale matrimonio – quant’era stupida!
Non era il caso di dirlo però a quello che la sua casata riteneva un “Sanguesporco”, ovvero   uno scarto da abolire dal loro mondo.
Edward parve tuttavia intuire che sotto ci fosse ben più di ciò che lei gli aveva narrato – ma – che Merlino lo benedica – non ne parlò più.
«Ripugno così tanto anche te, Andromeda?». La sua domanda, nonostante fosse più che lecita, riecheggiò nell’aria come un’armonia deplorevolmente stonata al violino. Sembrava un quesito smorzato dall’incertezza, inabissato dalla sua coscienza – somigliava terribilmente a uno squarcio dell’apocalisse che tormentava anche lei.
Riuscì a scorgerne la disperazione – comprendeva che si trattava di qualcosa che sconfinava da un ordinario dubbio e che lo devastava con tutta la sua vastità – e questo la dilaniò, come se quella sofferenza un poco le appartenesse. Beh, Andromeda, non sapevo che ti fossi ridotta a essere una disgraziata sentimentalista, commentò nella sua testa una vocetta maligna che somigliava incredibilmente a quella di sua sorella Bellatrix.
Attese e attese, incapace di articolare le giuste parole e di respirare – perfino quello le sembrava un peccato, ormai. Ancora non sapeva che sarebbe stata proprio quella remora a condannarla alle pene dell’Inferno: si trattava della stessa bufera che le offuscava l’anima e che non le permetteva di compiere la decisione più adeguata e meno dolorosa – quella di sfuggirgli per sempre.
Esangue e privata di ogni traccia dell’arguzia che l’aveva da sempre contraddistinta, stava vagando in quella landa desolata – la vita – alla ricerca di uno scampo morale nella sua fede originaria – e non ne trovò mai, nel corso della sua esistenza. Non c’erano ostacoli da raggirare – e in quello lei era davvero un’esperta – e neanche bestie da ingannare: quella che le si presentava dinanzi agli occhi, in tutta la sua imponenza, era la realtà – ineluttabile, feroce e smaniosa come poche altre entità.
La risposta a quel semplice interrogativo, evocata dalle avverse stelle che li attorniavano, era inequivocabile: Edward Tonks non la ripugnava – nemmeno un po, nemmeno un pochino, nemmeno niente [1]. Un brivido le s’insinuò sulla nuca quando si ritrovò a valutare che magari s’era... innamorata, terminò disgustata tra sé e sé. D’un tratto, l’intenso aroma sulla giacca le fece storcere le narici dalla nausea, non più inebriandola con i suoi dolci effluvi – era un altro pegno di lui. Non poteva accettarlo, non poteva più neanche concedersi di studiarlo o di ravvicinarlo: le era vietata, quella deliziosa amnesia dei sensi.
No, si disse con convinzione, non lo amava e non lo temeva.
Ostentando il migliore tono indifferente che fosse capace di improvvisare, biascicò: «No, Edward, in fin dei conti, non mi ripugni affatto – ed io?».
 
*
 
 
 
 
 Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non sode voce del mare.
Or sode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nellombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
 
L’ultima frase guastò inevitabilmente la sua farsa – aveva parlato con voce concitata, spezzata dall’esitazione e dai battiti frastornanti del suo cuore. Cercò di regolare le proprie palpitazioni, distendendo innaturalmente gli arti, ma fallì miseramente: era preda di un batticuore incessante, forse per l’irritante vicinanza di lui oppure per via di quelle delicate argomentazioni, che la intimidivano in modo alquanto incomprensibile.
La parvenza di disinteresse della prima parte della sua orazione venne completamente eclissata dalla domanda – accorata e quasi incandescente – che gli aveva poi rivolto.
Edward non si scompose, tuttavia: parve meditare a lungo, combattuto sulla scelta di un fendente piuttosto che di un altro, con gli occhi ridotti a due fessure di metallo. Non la guardava neanche più: concentrato su un punto indefinito che rientrava nella sua visuale, stava, con ogni probabilità, giudicando meticolosamente il responso più opportuno da offrirle. Le sue labbra fremettero più volte, lasciandosi sfuggire borbottii indecifrabili, che rappresentavano tutti esiti da lui scartati – magari, tra quelli, poteva salvarsene qualcuno che non lavrebbe straziata.
Ci fu un momento in particolare in cui lui raccolse un profondo respiro e lo trattenne, intenzionato ad assaporarselo tutto, in ogni sua sfumatura – a prolungare fino allo strenuo ogni dubbiosa aspettativa di Andromeda. Lei pensò che sarebbe stata bella, un’esistenza senza disillusioni: vivere negli alvei dei suoi effervescenti desideri si sarebbe rivelato meno stancante di interrogarsi continuamente sulle sorti che le sarebbero toccate di lì a poco.
Quell’istante d’indugio fu l’ennesimo, tuttavia, a sfolgorare il suo cuore: sempre più succube del messaggio che sprigionavano gli occhi di lui, si sentì umiliata per quella sua incontrollabile frenesia. Il suo impellente bisogno di risposte era palese ed era colpa sua, che s’era esposta in tal modo al suo nemico che – neanche a dirlo – ne avrebbe approfittato per lederla. Era stata davvero una stupida. Non avrebbe dovuto permettersi di abbassarsi a un tale squallore: era pur sempre una Black e doveva mantenere un certo ritegno – sebbene quello fosse soltanto l’artificiosa etichetta di uno pseudonimo immaginario. La fragranza di camelie che l’avvolgeva – “Il mio destino è nelle tue mani” – sembrò farsi sempre più asfissiante: lei, che avrebbe dovuto raffigurare la variabile indipendente in quell’irrisolvibile equazione, era ormai prostrata dinanzi all’inesorabilità del suo fato. La sua preghiera – ovviamente intrisa di sudore e camelie, di lui – era l’unica candela accesa nel granaio della speranza, che bruciava, diffondendo nell’etere la magia infinita che lui le donava. La fine dei suoi sogni era  ormai imminente, d’altro canto. Socchiuse le palpebre con veemenza: era pronta.
Si stupì quando Edward scattò su senza preavviso, incollerito, e l’afferrò malamente per un braccio. Quando riaprì gli occhi, stravolta, si sentì aggrappare a lui: l’aveva stretta a sé, tanto che era premuta contro il suo corpo cocente e zuppo per la pioggia – che la inondò ancor di più dell’aroma di sudore e camelie che già la indeboliva. La domanda le sorse spontanea: era il suo destino a essere nelle mani di lui o, piuttosto il contrario? Quando gli rivolse lo sguardo, avida di conoscere a fondo ogni sua sfaccettatura, inquadrò i suoi occhi, che erano diventati lampeggianti d’ira funesta e ardenti come cime tempestose [2]. Per un attimo, Andromeda temette che fosse impazzito del tutto – faceva quell’effetto a tutti,  pertanto c’era abituata. Si chiese che cos’avrebbe fatto nel momento in cui lui l’avesse malignamente respinta: con il fiato sospeso, suppose che avrebbe chinato lo sguardo e sarebbe sgusciata via verso la direzione meno rischiosa – verso i suoi incubi infernali. Avrebbe errato, smarrita presso la deriva dei rimpianti, e avrebbe superato quella delusione con il tempo – quello necessario a far sì che la sua raggrumata ferita si cicatrizzasse. Quello di lui – quella bozza indistinta di latrati – era inevitabilmente destinato a essere un rifiuto.
Edward soderò invece un sorrisetto impertinente e amaro, che non era affatto da lui e che le diede i brividi. C’era qualcosa di agghiacciante eppure terribilmente magnetico in quella sua aspra smorfia: nonostante la presenza di quel macabro fulmine di crudeltà, reso evidente dalle spettrali pieghe che gli deformavano il contorno degli occhi, Andromeda riusciva a percepire una sensazione più tortuosa e profonda, un dolore antico che si protraeva da tempo immemorabile. Incuriosita da quel sentimento nascosto, ricominciò a ispezionarlo e a prepararsi per la batosta che avrebbe a breve ricevuto. Lui inveì: «Sai, Black, c’è stato un periodo in cui ti ho trovato insolitamente attraente – quel tipo di fascino che una ragazza non realizza mai a pieno di possedere. Ti osservavo, annebbiata in te stessa, indiscutibilmente splendida: camminavi in mezzo alle altre – almeno per i primi anni, ora affianchi solo Narcissa – ed emergevi tra di loro, ci credi? I miei amici scommettevano su quale, tra di voi, fosse la più brava a letto: se la bionda, la mora o la castana. La vera contesa si svolgeva fra la minore e la maggiore – nonostante sia stata Bellatrix a prevalere, alla fine. Io mi rannicchiavo in disparte e non esponevo mai le mie tesi, sebbene fossi attirato dalla castana del gruppo – da te. Eri avvolta da un’aura di mistero, come una sirena, e volevo assolutamente conoscere ogni brandello di te. Sei rimasta affascinante anche in preda al delirio dei tuoi incubi, per la cronaca.»
La circondò con il proprio corpo, stringendola prepotentemente per la vita e attirandola a sé con una spavalderia che Andromeda non gli avrebbe mai affibbiato. Non sapeva come osava prendersi quelle libertà che lei non gli avrebbe mai e poi mai consentito e stava giusto per urlargli contro di mollarla immediatamente, quando realizzò che le mancava la voce per lo stupore. Non riuscì a scagliare nessuno degli anatemi che aveva in mente e giacque, paralizzata e sconvolta, tra le sue braccia possenti. Una volta tanto, ebbe paura: d’un tratto, non era più con il ragazzo che ogni notte la confortava di beatitudine e attenzioni, bensì con un tiranno che l’avrebbe pretesa senza che lei ne fosse consenziente. Tentò di rimuginare su una rapida tattica per distrarlo e, nel frattempo, scappare; quello strano terrore tuttavia le impediva di elaborare un’efficace strategia.
Si sentì come una bambola di pezza strattonata da mani troppo rudi e aggressive; si sentì affluire il sangue al cervello come se stesse soffocando in mezzo a onde anomale, avvinghiata con una tale arroganza a un corpo estraneo; si sentì pietrificata, come se avesse subito l’Incantesimo delle Pastoie, e totalmente vulnerabile. Provò invano a costruire uno scudo psichico che non la vincolasse a quella presa più di quanto non lo fosse già – niente da fare: era sua, di nome e di fatto.
Edward parve accorgersi dei suoi timori e la sua rabbia scemò via, insieme alla tracotanza con cui l’aveva ingabbiata. Allentò la presa e la cinse con delicatezza, facendola roteare su se stessa e rendendola protagonista di una leggiadra piroetta accompagnata dalle raffiche del vento, per poi passare le dita bramose sulle sue guance rosee, ad accarezzarle come nessuno, prima di allora, aveva mai fatto. Lei si sentì avvampare per quel repentino rovescio di medaglia: tra loro due, poi, non era mai stata la componente inerme; non era mai stata a tal modo ammansita dai suoi occhi argentei che in quel momento, tuttavia, la possedevano infinitamente più di quanto potessero fare le tenebre.
La cosa più incredibile era che godeva lei stessa della propria passività: si lasciò cullare dalle sue mani inesperte, che vacillavano dubbiose sulla sua pelle vellutata, e dai suoi occhi, che la esaminavano con un buffo miscuglio di circospezione e gentilezza. Andromeda anelava il suo sguardo incantato sulle proprie carni e desiderava che ritornasse a toccarla in quel modo lieve e compiacente con cui l’aveva fatta arrendere alla sua presenza.
Il rossore sui suoi zigomi non s’affievolì neanche quando si fece forza e s’impose di reggere quel confronto con dignità – dopotutto, si disse, era una Black: non avrebbe dovuto temere niente e nessuno, tantomeno un infido essere come lui. Il suo unico intento era quello di circuirla e di sottometterla, ne era sicura, eppure le riusciva difficile fronteggiarlo dirimpetto e resistere a quell’esplicita provocazione. Riprese a osservarlo, senza tanta discrezione, e ad attendere la sua prossima mossa. Dentro di lei, eruttava anche il trionfo della sua ormai ammuffita e sconveniente confessione – la trovava irresistibile – nonostante lui non se ne fosse vergognato neanche un po’.
La fissava, piuttosto, mirando dritto alla sede del suo cuore, sfiorandole la pelle soffice delle clavicole con le sue dita coriacee – non era lunico contrasto, quello, che cera tra di loro. Si morse poi il labbro inferiore e sospirò, come se dovesse reprimere un immediato moto di negatività – pessimismo, presentimento, paura di perderla. Lambì le sue fragili labbra, quasi come se le pretendesse, e proseguì con il suo monologo: «C’è stato, poi, un periodo in cui ti ho trovato maledettamente insopportabile. Eri arrogante, fredda e superba: probabilmente incarnavi soltanto una Purosangue, ed effettivamente lo sei, ma non riuscivo davvero a digerirti. Ho finto di esserti indifferente, di essere una persona composta e quieta: a dire il vero, la cosa mi distruggeva. Eri troppo distante da me: non sai quanto m’abbia fatto male.»
Andromeda non s’aspettava di certo una risposta del genere, dopo quella che gli aveva strappato prima. Sgomenta e disorientata dai suoi giudizi, fu lei, quella volta, ad accarezzarlo sulle scapole, come a lenire il suo storico dolore – che, in un certo senso, apparteneva anche a lei. Si sentì colpevole di quell’afflizione che gli aveva scatenato, sebbene fosse trascorso un bel po’ di tempo, ma non voleva assolutamente darlo a vedere – doveva ingannare tutti, con quel suo fiero contegno alla Black. In fin dei conti, non era così brava a recitare: se fosse stata un’impostora degna del suo nome, non si sarebbe certamente trovata in quell’oscena situazione.
Deglutì, reprimendo le vertigini che le stavano per dare alla testa, e si mantenne rigida quando lui le s’appressò di nuovo per proferire di nuovo. La sua mente era in sovraccarico e, a un altro contatto lusinghiero da parte sua, sarebbe esplosa – non sapeva in che modo, non sapeva quale ne sarebbe stata la causa, non ne conosceva gli effetti collaterali. In pratica, Andromeda era totalmente maldestra, in quella criptica materia. Era frustrante, l’amore: era come tentare d’orientarsi in un anfratto buio e dimenticato da Dio, in assenza di luci o appigli su cui fare affidamento. Ben presto tutte le peripezie le avrebbero estorto ogni illusoria e frivola speranza superstite della battaglia per la vita che infuriava rabbiosamente in lei e, allora, sarebbe divenuta un altro ibrido spettrale redivivo dedito a vagabondare per le meste dimore della Terra.
Con suo sommo stupore, lui le scostò gentilmente dietro l’orecchio un ricciolo color castano chiaro e proseguì: «C’è stato un periodo in cui non mi sono accorto che mi stavo gradualmente ossessionando a te: non riuscivo più a evitarti, durante il giorno, e il minimo ritardo durante le nostre notti mi rendeva un impensabile cavernicolo terribilmente possessivo verso la sua donna. Ridevo di me stesso, canzonandomi con quella cruda metafora, quando l’unico problema di quella logica, a dire il vero, era che non sei mai stata la mia donna.»
Quelle parole la trafissero con lo stesso potere della sciabola ben calibrata di un guerriero: nonostante fosse scossa dalle sue allusioni affettive – “le nostre notti”: lui s’era assuefatto di lei – che non avrebbero dovuto stare né in cielo né in terra, l’ultima frase cominciava a risuonare come un’arma temibile appena sguainata – “non sei mai stata la mia donna”. Andromeda, un po’ per il suo carattere difficile un po’ per la sua naturale diffidenza, non era mai appartenuta a nessuno prima d’allora: la gente finiva per additarla come una misantropa eremita e per eludere in ogni modo la sua compagnia – sia quella del medesimo rango che persone antitetiche ai principi della sua casata.
Non era solitaria o asociale come sostenevano gli altri: l’unico suo neo era quello di essere a tal punto introversa da disdegnare le iniziative collettive e quant’altro riguardasse le interazioni sociali, ma non le sembrava una tara così abominevole. Davanti agli studenti, s’accingeva a fingere: ravvicinava le sue sorelle e mentiva spudoratamente, mentiva senza nemmeno dar adito alle loro insulse tesi, mentiva e si nascondeva come una murena. Il ruolo d’attrice era un vezzo ereditario, a quanto pareva.
Nonostante gli inoppugnabili pregiudizi altrui, aveva bisogno di qualcuno ‒ il suo era il desiderio infiammato di essere preceduta da un qualunque cavaliere nel sentiero delle ombre. Andromeda era perennemente in balia delle proprie fobie ‒ paure di se stessa, più che di altro ‒ e la cosa l’avrebbe, a poco a poco, sgretolata sino a ridurla al nulla ‒ un’orripilante profezia che l’attendeva dietro l’angolo.
Non gli rispose: continuò a sondarlo imperturbabile, con le braccia contratte e i nervi tesi. Non aveva intenzione di smuoversi o di reagire: voleva, piuttosto, che lui terminasse il suo bislacco discorso.
Edward, d’altra parte, corrugò le labbra ed esitò, quasi come se non fosse capace di procedere oltre. Chinò lo sguardo, per un breve attimo: Andromeda ipotizzò che stesse attingendo a tutto il suo coraggio per la nuova confessione che stava per rivolgerle. Seguì i suoi movimenti intimoriti, spaesata, e sussultò quando lui le conficcò le unghie nel polso per richiamare la sua attenzione con urgenza ‒ un’urgenza del tutto particolare.
«C’è stato un periodo, Andromeda, in cui la faida tra di noi è stata surclassata da qualcos’altro, qualcosa di molto differente, che s’avvicinava più che altro a una specie di redenzione salvifica. Tu avevi bisogno del mio aiuto; io del tuo: la nostra relazione, nata come una deprecabile simbiosi, ha mutato le proprie radici contro ogni mia aspettativa. Non mentirò dicendoti che tutto ciò mi allieta: il mio è un amore malsano, Andromeda. Non può giovare né a me né a te; capisco che non potrò averti mai del tutto, ma...».
Ogni donna, ragionevolmente, a quel punto, mandata in solluchero da quella dichiarazione ‒ che era la peggiore di sempre, secondo lei ‒, l’avrebbe interrotto e sommerso di effusioni a dir poco imbarazzanti. Fu un pensiero che colse anche l’innocente mente di Andromeda, in verità: valutò la possibilità di saltargli addosso e appropriarsi di quelle labbra che, secondo il suo parere, sprecavano solamente del tempo prezioso, tuttavia... Decifrò le sue parole in tutta la loro reale intensità ‒ erano, di grazia, piccoli scorci di gioia in un infimo letamaio ‒ e l’istinto le suggerì, piuttosto, di mollargli un ceffone. Tutte quelle rivelazioni non erano altro che incresciosi segreti che avrebbero dovuto essere revocati all’istante, prima che li portassero entrambi a dei verdetti catastrofici ‒ sebbene fosse già tardi. Incerta sul da farsi, Andromeda rimase impassibile, a tollerare la pioggia che, sin dalla nuca, scendeva silenziosa lungo la sua pelle nivea e la costellava di limpide stille d’acqua ‒ erano le lacrime, destinate a lui, che lei non avrebbe mai potuto permettersi di versare.
Si sentì quasi potente a detenere quella minuscola supremazia su di lui: la stava analizzando con perizia, come al suo solito, ed era la sua, in quel momento, l’anima divorata dall’ansia ‒ il vantaggio, seppur labile, era di lei. Dal suo sguardo penetrante evinse che era giunto il momento di decretare le sorti di quella discussione. Nonostante quella sua voglia matta di schiaffeggiarlo, scelse di non esporsi in un modo così sfacciato e di gestire invece la propria  irruenza – doveva sforzarsi di mantenere un temperamento pacato e di controllare i suoi impulsi ormonali. No, non l’avrebbe picchiato e no, non l’avrebbe nemmeno baciato. Lasciò che le gocce di pioggia le disfacessero l’acconciatura elaborata e piantò gli occhi sulle ipnotiche iridi di lui ‒ ammalianti come quelle di un serpente, piuttosto che ardenti come quelle di un leone. «No, non ti sei innamorato di me», riuscì a bofonchiare alla fine, ripiegando sull’autoconvinzione. «Io e te ci disprezziamo. Mi stai soltanto prendendo in giro per ingannarmi così da rendermi patetica.»
Riteneva le sue stesse frasi ridicole e fragili persuasioni, castelli di cristallo destinati a frantumarsi al passaggio di altri coltelli in grado di reciderle e ridurle in mille pezzi. Quelle parole erano tutte spine affilate conficcate a forza nel suo cuore – aveva un animo notevolmente masochista. Tentò di schivare, per quanto possibile, il suo sguardo: ci riuscì, infine, mantenendo un profilo basso e concentrandosi sulle scarpe logore che lui indossava. Quella flemma le dava sui nervi, facendola fremere d’impazienza, ma tentò di rispettare i suoi tempi.
«In teoria, la Serpeverde dovresti essere tu.»
La sua voce, roca e inconfondibile, non fu nient’altro che l’ennesima e tagliente scheggia che le martoriava il petto. Quel giudizio era ancor più doloroso, se espresso da lui: il suo tono sembrava indugiare sui punti più critici e mutilare a sufficienza il suo orgoglio.
Andromeda replicò duramente: «Errori di circostanza, Edward Tonks. Tu dovresti essere, allora, quello coraggioso e onorevole – e non sei nessuna delle due cose.»
Il sospiro che Andromeda avvertì sulla propria pelle avrebbe potuto essere benissimo un altro spiffero della brezza. La pioggia ormai aveva inzuppato loro corpi: avvolti nei fradici tessuti scuri dei loro mantelli, entrambi vibravano d’elettricità per quel vischioso contatto. Erano esattamente agli antipodi della Terra, per quanto riguardava i pilastri delle loro fedi avverse, ma incontestabilmente avvinti in quella radura piovigginosa, reduci del fugace bacio del cielo ‒ che, come tutto il resto, era proibito.
Le accuse dei Reclusi della sua famiglia le riecheggiarono nella mente, susseguite dall’inquietante rumore di uno sparo del fucile a cui suo padre aveva accordato il privilegio di cancellare le loro targhe maledette. Rammentava ancora quel terrificante momento della propria infanzia: era una bambina, con le guance scavate da fossette e pensieri giocosi, quando il suo tutore aveva sfiorato con l’indice le gelide canne brunite e le aveva rivolte all’arazzo nel corridoio, appena più a destra del sontuoso candelabro di famiglia. Lo scoppio aveva rimbombato nei suoi orecchi per settimane, mesi, se non di più: ricordava ancora l’odore della pallottola che aveva urtato sui cinque nomi e li aveva brutalmente espunti dal loro patrimonio genealogico. L’espressione glaciale e febbrile del padre aveva fugato ogni suo dubbio in merito ai suoi propositi. Il suo gesto non era stato altro che un rito propiziatorio, un’iniziazione alla strage che si preannunciava perfino per la loro casata: non si sarebbe mai accontentato di aver fucilato soltanto le loro identità ma li avrebbe perseguitati uno dopo l’altro, al fine di sottrargli anche le carni.
Andromeda, sebbene ammirasse i Reclusi – o, forse, li compativa per le loro fuorvianti vicende –, non si sentiva pronta per aggregarsi alla loro schiera di dannati – aveva già una terribile dannazione con cui fare i conti.
«Ne ho avuto anche troppo, di coraggio. L’onore è tutto un altro discorso: dubito che sia onorevole amare alla follia una propria nemica d’interessi e scegliere lei piuttosto che una buona causa.», ribatté Edward, scostando le ciocche castane che gli solleticavano la fronte.
Lei pensò che, almeno per quanto riguardava quello, si sbagliava di grosso. Era lui a pretendere che rinunciasse lei alla propria causa; era lui a costringerla a un bivio che non avrebbe mai voluto fronteggiare; era lei a spogliarla di ogni sua veste – ogni suo principio – e invitarla ad arrendersi alla pioggia che s’infiltrava fra i rami dei pini e inondava ogni cosa, perfino le loro intoccabili fazioni.
«Sono io che devo abbandonare la mia causa.», sibilò, rotta dal rancore e dall’incertezza.
Lui la strinse ancor di più – camelie e sudore, lui – e le mormorò: «Abbiamo entrambi la nostra buona dose di sacrifici.»
Quel gesto le suscitò così tanta tenerezza che, nonostante fosse indigesta all’idea, riuscì ad addolcirla – una volta tanto.
«Non voglio tramutarmi in una Grifondoro tutta focosa e allegra, ti avviso, o mi premurerò di farti sperimentare di persona ogni giorno una diversa e innovativa Fattura Orcovolante.», lo minacciò, con l’ombra di un sorrisetto beffardo sulle labbra.
«Diamine! Ho sempre avuto un debole per le Fatture Orcovolanti che lanciavi a Dolohov e a Lestrange.», sorrise lui. Andromeda notò che aveva rilassato i muscoli e pareva, sommerso in tal maniera dal pianto notturno e attorniato dallo smeraldo dei licheni, un elfo sperduto – non un elfo domestico, ma uno di quelli veri e propri, quelli armati di faretra e dardi e con gli occhi brillanti di meteore. Difatti, gli mancava soltanto un arco.
Una burrasca di brutti pensieri l’aggredì, tuttavia lei si convinse a dar adito alla propria anima e ignorare i suoi presentimenti. Quando Edward la baciò, si sforzò di dimenticare il resto – la conta dei propri diavoli – per dedicarsi esclusivamente a quel morbido contatto. Non la sfiorò più del consentito, limitandosi a delineare le estreme curve del suo corpo, come per studiarne le fattezze. Andromeda non aveva tanta esperienza con i ragazzi e con i loro desideri, ma non si fece scrupoli a trascinare le sue mani sulle gambe, coperte appena dall’eburneo velo della propria gonna a strascico, e a passarle sui propri pallidi pori. I brividi costellarono spontaneamente la sua epidermide e la fecero gemere, mentre spingeva la voluminosa chioma all’indietro e si godeva l’invasivo tocco con cui lui, accompagnato dai cristalli infranti della pioggia, se ne appropriava. Procedeva, intanto, a rapirle la bocca fra la sua e a cercare una carezza sempre più intima, sempre più disonorevole. Le lambì con le dita anche l’ombelico, prima di riversarla sotto di sé, sull’erba bagnata, e di continuare a possederla in tanti piccoli altri modi.
Andromeda ansimò, riconoscendo che quella proiezione corporea non era lei, che le mani avide che lo spinsero a violarla ancor di più non erano le sue, che non era il suo cervello a non ragionare lucidamente. Eppure, ormai arresa e annebbiata da ciò che rappresentavano insieme, non protestò quando lui le crollò addosso e la premette contro di sé, estenuato dalla fobia della perpetua lontananza che avrebbe potuto dividerli in qualsiasi momento. Andromeda si concesse un attimo per riprendere fiato, con i vestiti ormai scomposti e con un batticuore da infarto, pensando che gli incubi l’avrebbero ancora attesa dietro l’angolo e che quella era soltanto una distrazione soddisfacente ‒ insomma, nulla di definitivo. Desiderosa di vendetta, si buttò su di lui e armeggiò con i bottoni della sua camicia, impaziente di denudare anche lui. Sebbene non fosse quello il tipo di nudità a cui avrebbe voluto esporlo, si sarebbe sentita appagata anche a contemplare le sue forme virili e statuarie in quell’ariosa penombra.
Ogni suo piano vacillò quando lui le afferrò la mano intrepida con delicatezza, portandosela alle labbra e posandovi un lieve bacio: le sue certezze crollarono e si ritrovò a pensare che forse il galantuomo dei suoi sogni era sempre stato lì, ad attenderla, e che la cosa non le dispiaceva affatto. Non fece neanche in tempo a incrinare la propria corazza che lui le rovinò addosso e, con una brama violenta e dirompente negli occhi, cominciò a privarla di ogni altra barriera.
Intanto che Andromeda percepiva le sue mani liberarla dei ghingheri superflui ed esplorarla instancabili e vittoriose; intanto che lui riprendeva a esasperarla con le sue micidiali lusinghe; intanto che s’era adagiata per terra, preda di quell’irruente passione, lei rivolse lo sguardo in alto, a metà tra il cielo stellato e la distesa vegetale che li circondava. Nella meteora scura e indistinta che s’offriva alla sua indagine, che si faceva più sempre annebbiata a causa dall’ondata di piacere che la stava cogliendo, le parve di scorgere un trio figure nere e disumane. Quando, in mezzo alla foschia, inquadrò le ombre delle sirene – i suoi sogni perduti –, capì che aveva appena ricevuto una benedizione – ancora non le era chiaro se dalle stelle del cielo o piuttosto dagli abissi del lago. Le sondò, rapita dalle fiamme dalla lussuria ma intenzionata a intrattenere con loro almeno un dialogo, tuttavia quelle le rivolsero un sorriso scintillante e si mimetizzarono con le spirali della nebbia dalle quali erano apparse. Esitò ancora un istante, spiando la radura e la nebbia, ma ben presto cedette alla lussuria, con lo sguardo che vagava ancora sul punto dove erano svanite le loro effervescenti icone e – strano a dirsi – con un nuovo sogno alle calcagna. Edward era ancora dedito ad appagarla con le sue premure carnali, sferzandola con il suo odore mascolino, imprimendo tracce della propria essenza in lei.
Il messaggio delle camelie – che sbocciavano anche nella sua anima – le ghiacciò il sangue nelle vene: era il suo destino, a essere nelle mani di lui.
 
 
 
 
*
 
 
 
Piove su le tue ciglia nere
che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra lerbe,
i denti negli alvèoli
come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
cintrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
 
Edward non era mai stato un uomo di tante parole. Andromeda l’aveva dedotto con il trascorrere degli anni, attraverso la metodica osservazione che gli aveva riservato, giusto perché aveva serbato l’ossessione dell’esito che lui le aveva astutamente rubato in quella notte d’incanto di tanto tempo prima.
A sua discolpa, c’era da dire che non s’era mai rimangiato il giuramento – “Per sempre, finché morte non ci separi” – e non le era mai mancato di rispetto; s’erano amati oltre il limite del dignitoso ma sempre in quella loro maniera pacifica e ultraterrena – tanto che s’era sentita più volte come catapultata in un regno immaginario –; avevano vissuto la loro storia d’amore in tutta serenità e generando una loro famiglia – sebbene le sue originarie proteste.
Che cosa avrebbe dovuto angustiarla, dato quel passato così soddisfacente? La risposta, tanto scontata quanto evocativa, aleggiava nella sua camera ottenebrata come un anatema scagliato contro la parete di cemento ‒ il fatto che lui non cera più. Andromeda si rigirò una camelia violacea fra le lunghe dita avvizzite e pensò che quel fiore appassito rifletteva in pieno il messaggio della sua esistenza – era unaltra cosa marcia, esattamente come lei. I petali, un tempo così vividi e prosperi, erano ridotti a gracili e grinzose corolle ‒ un altro pegno dell’ecatombe che stava devastando quella dimora spettrale. La purezza della casa ‒ del santuario delloblio ‒ era ormai un mero ricordo: il luogo era ormai irriconoscibile, ridotto a uno scempio che nemmeno un santo sarebbe riuscito a emancipare.
L’atmosfera, là dentro, era infatti mortifera: i mobili erano solcati da profondi graffiti lignei che sembravano essere stati scavati da taglienti aculei di demone, la dispensa era diventato il covo della putrefazione ‒ deteriorata da quella strage infernale ‒ e i cuscini sparsi per le varie stanze ‒ in memoria dell’incredibile sogno che con lui era diluito fino al nulla ‒ erano ruvidi e sgualciti, come se fossero stati usurati dal passaggio dei secoli piuttosto che di pochi decenni. In fin dei conti il tempo, a differenza delle emozioni, non si poteva frenare ‒ lei laveva imparato a proprie spese. Andromeda avrebbe potuto ripulire quell’ambiente con un battito di ciglia – le era sempre piaciuto, in passato, dilettarsi negli incantesimi di manutenzione – ma non ne aveva più le facoltà. Non comprendeva più a quale scopo mantenere in piedi quel cimitero commemorativo, quando erano bastati un paio di lampi di luce smeraldina a scacciare la breve e vigorosa vita che v’era presenziata ‒ il destino si faceva beffe di lei, come al solito.
Cercando strettoie libere in quel porcile, riuscì a raggiungere la porta scardinata e a sprangarla, attingendo a ogni energia che le restava. Già estirpare l’ultima delle camelie le era costato un enorme sforzo ‒ così come aveva fatto con le erbe che costellavano la lapide di Edward ‒, al punto che sentì il sangue ribollirle nelle arterie e il suo scheletro scricchiolare in modo raccapricciante come se qualcos’altro, oltre al cuore, si fosse frantumato. Nonostante la sofferenza fisica, ebbe l’ardire di scrutare con odio profondo un’ammuffita fotografia sul comodino, che ritraeva un gioioso trio alle prese con un’antenna satellitare: i gagliardi volti che saettarono a tormentarla furono quelli dell’uomo e della bambina, arazzi della sua anima sradicati dall’avvento della cruenta guerra. Andromeda, sempre con gli occhi indemoniati inchiodati sulla pellicola, pensò che forse avrebbe dovuto scagliarla contro il muro per arrivare a incrinare il vetro che proteggeva lo scatto della polaroid ‒ dopotutto, anche quella apparteneva alla schiera delle innumerevoli cose morte in casa sua. Si concesse una risata che non aveva alcunché di divertito, ma che era piuttosto un’eco dell’espressione spiritata e impassibile che sfoggiava da tempo immemore ‒ erano le sue melodie, quelle di un’anima lacerata.
Edward non era mai riuscito a guarirla dai suoi incubi notturni, ma prima aveva potuto confidare sulla sua carità non appena avesse schiuso le palpebre ‒ lui era lì, aveva scelto lei e non se ne sarebbe mai andato. Tollerarli si rivelava un po’ più facile, quand’erano avvinti fra le loro lenzuola accartocciate. La temerarietà di suo marito ‒ il suo amante per la vita ‒ aveva fatto sì che s’avvedesse sempre con prontezza di spirito dei turbamenti di lei e che la cullasse tempestivamente, cantandole qualche sinfonia musicale con cui di solito s’esercitava al pianoforte. Le mancavano, quelle segrete serenate che lui dedicava solamente a lei. Le mancava, sprofondare in quell’abbraccio confortante e inebriarsi di quel piccolo perpetuo amore che era riuscita a ottenere dalla vita.
Dopo la morte del suo amato, gli incubi erano tornati a eclissare la sua vita – e lei se ne tormentava ogni santa notte. Da anni a quella parte, il suo letto matrimoniale era innaturalmente gelido: non c’era nessuno, al suo fianco, che potesse riscattarla dall’avvento dei suoi demoni. Si risvegliava, più sola che mai, con le lacrime mal trattenute e le urla soffocate ‒ non aveva mai sfogato la sua sofferenza, la reprimeva e lasciava che le corrodesse il rimasuglio di vitalità che l’ancorava a terra.
Da anni a quella parte, s’era affievolito quasi del tutto l’odore di camelie che aveva, per lungo tempo, pervaso ogni anfratto di quella casa: sembrava che la loro vivacità fosse deceduta insieme a quella di Edward e, da allora, non avevano più profuso nell’etere il loro aroma. Le mancava anche la dolciastra scia che si lasciavano dietro sin dal giardino, illuminando i locali di bagliori soffusi di speranza, che erano poi andati a farsi fottere.
Quella notte, Andromeda s’era – per l’ennesima volta – svegliata di soprassalto, pallida come la sua consunta camicia da notte e madida di sudore. Aveva afferrato la prima caraffa di cristallo che era riuscita a raggiungere ‒ aveva percepito le ossa emettere un macabro rumore quando aveva spiegato gli arti verso la mensola ‒ e s’era scolata tutta d’un fiato l’intruglio che conteneva ‒ qualsiasi diavoleria contenesse.
Era abituata a evitare, per quanto riusciva, ogni genere d’infuso che non presentasse un’etichetta ben leggibile anche per la sua vista sciupata: dopotutto, la sorte aveva voluto che fosse stata appunto una pozione a condannarla a quella vita. Edward l’aveva capito soltanto poco tempo prima di morire ma, alla fine, aveva in ogni caso adempiuto alla propria fanatica missione: le aveva lasciato, allegate al testamento, una fiala che emetteva sbuffi di vapore verdognolo e una lettera suggellata da un sofisticato sigillo di ceralacca
‒ il sigillo che lei aveva ripudiato, quello dei Black. Quello stemma ‒ nero come la pace, nero come la sua dinastia rinnegata ‒ l’ammutolì, e lei lo mollò a terra non appena vi lesse il loro motto maledetto ‒ “Toujours pur”, letteralmente “sempre puri”. La purezza che decantavano i suoi avi non era altro che una calunnia ben contraffatta: oltre agli otto nomi fucilati dalla loro nobile discendenza, non erano altro che subdoli fraudolenti dannati sin dall’origine alle fiamme dell’Ade. Le era stato necessario un po’ per trarre quella conclusione ‒ settimane, mesi, forse qualcosa in più ‒ ma non aveva mai rimpianto le privazioni del suo sofferto esilio. Non aveva mai più conversato neanche con i propri genitori ‒ essi la rifuggivano come un’appestata ‒ e aveva, con il progredire del tempo, metabolizzato il loro rifiuto. Aveva rinunciato a spedir loro pagine destinate al fuoco ben prima di essere sfogliate e aveva cominciato a blindare, oltre che al recinto del suo cottage, perfino i cancelli del proprio cuore.
Sopra la boccetta balsamica, suo marito aveva lasciato una targa: “Veleno di Acromantula ‒ Druella Rosier”. Il nome del distillato e quello di sua madre: oltre a questi due dettagli, niente di più. Andromeda aveva ispezionato perfino i margini della lettera, in cerca di una qualunque postilla, ma sulla pergamena non c’era nulla in proposito: incisa da una calligrafia sottile e sinuosa che avrebbe riconosciuto dovunque, lì era riportata soltanto una poesia Babbana, la preferita di Andromeda ‒ “La pioggia nel pineto”, di Gabriele D’Annunzio.
L’aveva riletta fino allo strenuo, alla ricerca di un qualsiasi legame con lei e con la loro ormai antica esistenza, e aveva avuto il piacere di rivivere, come se si trattasse della prima volta, i loro vecchi incontri proibiti. Rammentava la radura della Foresta Proibita e la pioggia che li sommergeva con le sue fonti acquitrine, rammentava le pozze d’argento ben cristalline in mezzo ai vapori della nebbia; rammentava la luce che proveniva da lui e che l’attirava, sospingendola in modo sempre più indecente verso la sua anima; rammentava gli attriti che all’epoca s’erano frapposti fra di loro e l’avevano condotti a consumarsi nel bel mezzo del rogo delle tenebre; ricordava la peggior dichiarazione di sempre ‒ ma erano soltanto logore memorie, dato che lui non c’era più.
Era quella la sua routine: serrava gli occhi, incapace di piangere, e si rinchiudeva nelle sue fervide illusioni d’amore. Soleva arrestarsi in quello stato catatonico per un paio d’ore al giorno; per il resto del tempo, si limitava a fare congetture sugli indizi che lui le aveva lasciato prima di andarsene.
Che sua madre c’entrasse con i suoi incubi era indubbio, così come lo era che il veleno di Acromantula sortisse una miriade di effetti differenti da quelli che lei avrebbe mai pensato. Erano letali, sì, ma non mortali: erano più simili a una droga che a un’arma; un veleno lento e micidiale, che uccideva prima l’anima del corpo. Se avesse dovuto tirare a indovinare una ragione per cui sua madre avrebbe voluto alterarla per mezzo di sostanze magiche, avrebbe scelto i grandi timori che nutriva verso la vita da Mangiamorte. Aveva sempre tentato di dissuadere invano anche Bellatrix dalle proprie scelte, indicandole la retta via che, naturalmente, lei non aveva mai neanche calcolato.
Forse sua madre, conscia delle sue grandi abilità profetiche, le aveva somministrato quell’ampolla al fine di renderla così folle da non poter suscitare altro che pietà fra gli apostoli di Lord Voldemort. Forse sua madre, con quel gesto avventato, aveva tentato di proteggerla dal fato orrendo che si prospettava per il suo futuro. Forse sua madre, che s’era più volte rivelata una strega straordinariamente intuitiva, aveva previsto le sue abilità nella Legilimanzia e non se l’era sentita di lasciarla in balia delle attenzioni del Signore Oscuro ‒ e, nel tentativo di salvarla, le aveva aizzato contro una sfilza di demoni d’ombra. Sua madre era stata una genitrice con i fiocchi, non c’è che dire. Per quanto riguardava i biglietti e il pugnale che aveva recapitato sotto il letto a Hogwarts, non aveva la più pallida idea di come ci fossero finiti: probabilmente era stata una delle sue sorelle a prendersi gioco di lei, o forse era stato un piano di sua madre. Il mistero capovolse ogni suo credo e la confuse più di quanto già non fosse – prima o poi, l’avrebbe scoperto.
Estenuata da quei pensieri, che riuscivano sempre a colmare il suo animo d’angoscia, posò l’arida camelia sul copriletto e s’issò verso il comodino, dove giacevano tutti i pegni che le rimanevano del nucleo affettivo che aveva instaurato al di fuori del suo vecchio maniero. La fede nuziale che aveva suggellato l’unione di sua figlia e del suo genero scintillava ancora del suo oro lucente, per ironia della sorte: nonostante quell’arcaico sollievo fosse ormai ridotto a un’opaca ombra, il ricordo sfolgorava ancora quella miserabile abitazione. La lettera di Edward era ancora lì, intatta nonostante le avversità, indenne alla guerra: buffo, come fossero le cose più deboli in realtà a sopravvivere. Andromeda ricordava il vigore e l’energia che la sua piccola Ninfadora aveva sprizzato durante la sua vita, propagandola nell’aria e riportando la luce nella sua vita. Rammentava che sua figlia aveva ereditato la sua caparbietà mentre le era toccata, da parte di suo padre, una buona dose di goffaggine. Perfino lei, una delle poche cose belle che erano fiorite da lei, non era nient’altro che un cumulo di cenere, seppellito tuttavia con tutti gli onori funebri possibili e immaginabili. L’aveva fatto più che altro per suo nipote, affinché un giorno avesse una tomba a cui rivolgere le proprie preghiere ‒ affinché avesse un altare per compiangere la madre che non aveva conosciuto.
Non era mai riuscita a guardare il cadavere di Ninfadora, spaventata dai sentimenti che avrebbe provato, mentre il problema con quello di Edward non si era neanche posto: semplicemente, le era stato detto, giaceva in una misera fossa comune che era stata allestita dai Mangiamorte e da loro stessi demolita, al momento della sconfitta finale. Non sapeva se essere sollevata o rancorosa per quella loro decisione: da un lato, le avevano risparmiato la disgrazia di assistere all’unzione del marito e provare disperatamente a scuoterlo; dall’altro, l’idea che fosse da qualche parte nelle fogne londinese l’accecava d’ira funesta. Avrebbe voluto maledire tutti coloro che avevano violato le spoglie di Edward e che le avevano destinate ad ammassarsi con le innumerevoli carcasse stanziate là sotto. Per quanto le era possibile, tentava sempre di non rimuginare sull’idea di quel volto cereo a causa dell’assenza di vitalità e del suo cadavere altrettanto emaciato, lasciato a congelare nella demoralizzazione di quella placida eternità. Strizzò gli occhi e cercò di trovare un altro scampo morale ‒ doveva eludere la stretta sorveglianza dei suoi demoni.
Si scostò dalla sua postazione e s’affacciò alla finestra, spannandola con la candida manica che infagottava il suo polso cedevole, per contemplare la desolata landa che accerchiava la sua villa. Tutto, nello scenario pittoresco che aveva di fronte, reclamava la disperazione della sua recente perdita ‒ tutto confluiva nella voragine del suo petto. Non c’era scampo a quel tipo di persecuzione e lei lo aveva potuto finalmente appurare: i mostri non avrebbero mai smesso di tallonarla, visto che s’ostinava ad avvolgerla con le fiamme dell’oscurità e attirandola inevitabilmente a loro. Com’aveva già supposto in precedenza, era quello il suo destino: essere una sfuggente anima braccata dalle più diaboliche bestie degli Inferi.
Esitò, rapita dalla velata danza dei salici, e le parve di scorgere, riflesse nel vetro, le ombre delle sirene che in gioventù l’avevano tanto tormentata. Adesso che poteva di nuovo sondarle, le sembravano più che altro mere illusioni dipinte dalla foschia. Le sorridevano, quiete nei loro sciami d’alghe, e alzavano le mani come a sollecitarla a unirsi a loro. Le parve di ascoltare la soavità della loro sinfonia, mentre si sporgevano oltre i prismi dov’erano imprigionate e levavano un coro di voci soprane che sconfinava da quel mondo perverso ‒ raffigurava senz’altro l’invito a congiungersi a loro.
Andromeda corrugò le labbra, con le rughe dell’anzianità che le deturpavano il viso un tempo eccezionalmente armonioso. Con l’ultimo briciolo di vigore che le restava, fece leva sui propri gomiti raggrinziti, che aveva saldamente poggiato sul davanzale di marmo bianco, e contrasse le braccia quanto bastava per distenderle e ricambiare il loro cortese saluto. Le sue dita tremolarono quando le divaricò e una leggera fitta di dolore le pulsò nelle vene per quella distensione forzata che cercò di prolungare per quanto le riusciva.
Camminare non le era mai parsa un’impresa così faticosa, ma utilizzare gli arti superiori era tutta un’altra faccenda. Un brivido le percorse la cervicale mentre meditava sulle amarezze della vecchiaia. Non ne aveva riscontrate tante, eccetto il fatto che loro non c’erano più. Raggiunse stancamente la maniglia e spalancò la finestra per incontrare le volatili sagome delle sirene: almeno quelle, pensò, avrebbero avuto la virtù di rinsavirla.
Non fu delusa quando le loro ombre effervescenti non rivelarono la propria presenza: conscia del fatto che si trattava soltanto di allucinazioni dovute al veleno che aveva inconsapevolmente ingerito per la durata di tutta la sua vita, dischiuse le palpebre e fantasticò sulle morbide correnti dell’oceano. Sapeva che le sirene alate provenivano dalle grotte vulcaniche scavate nelle scogliere e che l’avrebbero attesa là per l’ultimo verdetto ‒ il sole era fatale, per loro.
Quando i raggi d’oro s’infiltrarono in casa sua e l’abbagliarono con i loro lumi incandescenti, Andromeda si piegò in due e rifuggì quell’abbacinante contatto, come se avesse potuto ferire anche lei. Era lo stesso sole che era svettato beffardo in cielo dopo il massacro della sua dinastia; era lo stesso sole che l’aveva vista crollare a terra in preda alle convulsioni; era lo stesso sole che le aveva accarezzato la schiena quando la sua famiglia le aveva sbattuto la porta in faccia, disconoscendola all’istante dall’eredità e dal proprio castello. Si chiese se quella stella non fosse stata per lei un cattivo auspicio e se non detenesse il potere di distruggere anche lei: nel dubbio, preferì sbarrare ogni bifora della sua casa e segregarsi per sempre in quegli interni ombrosi e scellerati.
Sempre nella penombra, raggiunse con lentezza il comodino e afferrò il flacone smeraldino ‒ lo stesso colore del lampo che l’aveva privata di ogni cosa ‒ e ne sorseggiò il suo contenuto, tracannandolo per un’ultima fatidica volta. Percepì il sapore agro invaderle la bocca e incendiarle la gola, tuttavia s’impegnò a deglutire e a ingoiare quel denso liquido.
Sarebbe finita come le altre volte: si sarebbe addormentata, proiettata nell’Inferno, e avrebbe combattuto la sua guerra ‒ quella cruciale, che non faceva altro che pedinarla. Percepì il torpore incitare le sue carni e queste afflosciarsi più di quanto non fossero già, mentre i suoi sensi venivano gradualmente occultati da un nuovo manto di porpora che le ricordò spaventosamente dei rivoli di sangue.
 
 
 
*
 
 
 
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
milluse, che oggi tillude,
Ermione.
 
 
Le sirene nella nebbia torreggiavano sopra di lei con scettri di diamante e morbide piantine di verbena fra le dita. Ne sfioravano le foglie con una tale amorevolezza che pensò che fossero consacrate a qualche santo martire.
Con i loro bastoni alcune di esse indicarono imperiosamente la sua figura costretta al pavimento e le altre, sotto quell’ordine perentorio, cosparsero la sua pelle nuda di fiori color indaco ‒ il loro odore speziato invase le sue narici ‒ fino a ricoprire ogni centimetro del suo corpo.
Andromeda percepì leggero peso premerle sulla pelle e sprigionare il loro forte aroma. Guardò negli occhi delle sirene e ne riconobbe solo l’inusuale e cangiante sfumatura ‒ un argento screziato di mare, che le era terribilmente familiare.
Il colore le diede alla testa e rilassò gli arti mentre s’abbandonava al primo quasi-sogno della sua esistenza.
Il richiamo della verbena era limpido nella sua mente ‒ “prega per me”.
 
   
 
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