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Autore: Elphie94    31/08/2016    3 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xxv.

senza perdono

 

 

 

Annaspavo in cerca di aria, chiusa in una bolla di sangue dalla quale non potevo uscire. E il sangue era ovunque – era vita, morte, battito del cuore. Mi impregnava le vesti e le membra stanche. Mi trovavo in quella che sembrava una curiosa camera dalla forma sferica e le pareti pulsanti. Il livello del sangue si alzò sempre di più, finché non riuscii a tenere i piedi a terra. Galleggiavo, o almeno ci provavo, dal momento che non sapevo nuotare, nel rosso più terribile che si possa immaginare.

Poi li vidi.

I cadaveri straziati dei miei genitori. Erano l'uno di fianco all'altra, devastati dalla morte, ma da essa riuniti.

«No, no…» mormorai con quel poco di fiato che conservavo in gola. Dovevo uscire da lì, e subito. Mi agitai violentemente, come una marionetta controllata dai fili invisibili di un burattinaio crudele. Presto il sangue mi sommerse del tutto, e io continuavo a dibattermi, ad annaspare, sempre più vicina ai cadaveri dei miei genitori… (non potevo credere che mia madre fosse morta era impossibile non c'era altra spiegazione) Solo alla fine mi resi conto che quella bolla di sangue, quella camera delle torture, non era altro che la mia mente.

Cercai di urlare, ma deglutii solo un fiotto di sangue. Tutto intorno a me era rosso, rosso, rosso…

 

Mi destai con un singulto, le membra ricoperte di sudore gelido. Mi trovavo nella camera Luigi Filippo: nulla lì era mutato da quando l'avevo vista l'ultima volta. Il mobilio pulito e antiquato contrastava col mio dolore. Ero distesa supina sul letto, ma ora mi rannicchiai come un topo in gabbia, le ginocchia nodose strette al petto. Dondolai in una malia nervosa – avanti e indietro, avanti e indietro. Nello sguardo, avevo ancora impressa l'immagine di mia madre, la mia invincibile madre, che moriva senza la possibilità di rivolgermi un'ultima parola d'amore, un ultimo bacio. Solo allora mi accorsi che avevo il volto bagnato di lacrime. Mi ustionavano la pelle come sale su una ferita, ma sgorgavano dolci, luccicavano come rugiada sul mio volto dai lineamenti angolosi. Provavo il desiderio di spaccare qualcosa, qualunque cosa, di rivoltarmi come una bestia rimasta troppo a lungo chiusa in una gabbia. E forse la morte di mia madre era stata proprio questo: la liberazione dei miei istinti più ferali.

Sentii una profonda fitta di disgusto e nausea fino al centro della gola, e vomitai ancora sullo scendiletto ai miei piedi. Pessima mossa, Erik ne sarebbe stato furioso – ma al diavolo Erik e le sue regole. Non me ne importava più nulla, ormai.

Mi decisi ad alzarmi. Avrei voluto rimanere immobile per sempre, così magari la realtà non mi avrebbe investita, uccidendomi – quando udii un vocio provenire dalla stanza accanto.

«Non possiamo tenerla qui. La prenderanno. Ci prenderanno.»

«E dove vuoi che la portiamo, daroga? Con noi non è al sicuro comunque.»

«Ma almeno avrà la possibilità di vivere. Noi la difenderemo.»

Udii uno sbuffo che, chiaramente, proveniva da Erik.

«Siamo vecchi, daroga. Non siamo più in grado di proteggere nessuno.»

«Tu non lo sei mai stato, forse. Ma io sì.»

Entrai in soggiorno sferrando un calcio alla porta, facendo sobbalzare i due interlocutori. Non avrebbero discusso del mio destino in mia assenza: solo a me spettava deciderlo.

«Meg!» esclamò il Persiano, che sembrava lieto di vedermi in piedi. Si affrettò ad abbracciarmi, ma io rimasi immobile come una statua di cera, eppure non mi scioglievo tra le sue dita.

«State bene?»

«Come vuoi che stia, daroga? Probabilmente non è mai stata peggio in vita sua» commentò Erik, sardonico. Notai però la sfumatura di dolore nella sua voce.

«Ho la nausea» biascicai, massaggiandomi le tempie. «E sono anche confusa.»

«Vi spiegheremo tutto subito.»

Erik mi porse una fiala di cordiale che inghiottii immediatamente. Di colpo, un calore dalla fonte introvabile mi attraversò il corpo in tutti i suoi tendini e nervi tesi. Il Persiano, sempre premuroso, mi stringeva un braccio come per sorreggermi, o consolarmi, e mi accompagnava a sedere sulla poltrona su cui Erik amava tanto appollaiarsi e leggere nei suoi giorni di noia.

«Cosa è successo?» chiesi in quello che era a malapena un sussurro. «Chi…? Perché…?»

Non trovavo le parole. Monsieur Nadir mi strinse la mano con fare rassicurante.

«Sono stati gli uomini della Khanum. Ho riconosciuto il loro marchio.» Erik mi mostrò la fascia con la rosa rossa cucita sopra che aveva tolto all'assassino di mia madre… quando? Per quanto tempo ero rimasta incosciente? Posi loro questa domanda, ed essi mi risposero che erano passate delle ore, massimo quattro, e che era notte fonda. In quel labirinto sotterraneo, non esistevano né il giorno né la notte, quindi era impossibile contare le ore, ma mi fidavo del giudizio di Erik e del Persiano.

«Chi sarebbe questa Khanum?»

«La madre del reggente sultano di Persia. La piccola sultana al cui servizio fui tanto tempo fa.»

Rabbrividii fino al midollo. «Intendi quella che ti fece costruire la camera dei supplizi solo perché si annoiava

Erik annuì.

«Il giovane sultano attualmente in carica è suo figlio» aggiunse il Persiano. «Lo so perché continuano ad arrivarmi informazioni, di nascosto, dalla Persia. Darius era il mio fedele emissario» il suo volto si rattristò. Ma certo, avevano fatto fuori anche lui. Mi morsi il labbro fino a sentire in gola il sapore del sangue (sangue, sempre e solo sangue).

«E questo cosa centra con me?» chiesi, evitando di parlare di mia madre. In questo modo potevo fingere, anche solo per un attimo, che la sua morte non fosse reale. Stupida. Sei sempre stata una stupida bambina. Non servirà a niente.

Erik e Nadir si scambiarono un'occhiata significativa.

«Allora?» sbottai, le mani sui fianchi. Avrei voluto alzarmi in piedi, ma quando ci provai barcollai tanto che fui costretta a sedermi di nuovo.

«Sono a caccia, Meg. Di noi» Erik indicò, con un gesto eloquente, se stesso e il Persiano. «La morte di Darius e di tua madre non sono state altro che un semplice avvertimento. Le loro spie hanno indagato a lungo, fino a scoprire la mia dimora, e che tanto tempo fa il daroga mi ha salvato la vita.»

«Vogliono ucciderti per lo stesso motivo dell'ultima volta?»

«Sì. Ma c'è qualcos'altro, lo percepisco. Probabilmente una guerra in corso. Il palazzo di Mazenderan non è più al sicuro.»

«La Persia è attualmente in uno stato di guerra civile» soggiunse Nadir, sempre un braccio stretto attorno alle mie spalle. «Vogliono Erik. Lo vogliono entrambe le fazioni.»

«Per poi ucciderlo» conclusi io.

I due uomini annuirono solennemente.

«Ma tu non dovevi essere già morto?» Questa volta non riuscii a contenermi. Balzai in piedi e puntai un dito contro Erik, con il sangue che mi ribolliva nelle vene come lava. Il vulcano attendeva solo di esplodere.

«É colpa tua. È tutta colpa tua. Mia madre non sarebbe mai morta se tu non fossi entrato nelle nostre vite come un uragano!»

«Meg…» cominciò il Persiano con voce pacata, ma io lo ignorai.

Mi avvicinai tanto ad Erik da sfiorargli il petto con la punta del naso. Era così alto, ma non m'importava. Mi venne voglia di prenderlo a pugni di nuovo, e lo schiaffeggiai in piena faccia. «Emerito bastardo, è sempre colpa tua! Da quando sei entrato nella mia vita, tu…» soffocai un singhiozzo. Dopodiché feci qualcosa di inaspettato sia per me che per lui: poggiai la testa sul suo petto, le lacrime che mi rigavano il volto straziato dalla stanchezza. Sollevai i pugni per colpirlo sul suo torace magro – potevo percepire le ossa al di sotto della stoffa della camicia immacolata – ma tutto quel che feci fu conficcargli le unghie nella pelle. Sperai di avergli fatto male. Dalla sua espressione dolente, però, intuii che non erano i miei artigli a stringergli il cuore, non il mio schiaffo, ma le mie parole. Ricordai che anche lui aveva tenuto a cuore mia madre – mi importa, mi aveva detto una volta. E importava anche a me.

«Non ci sono parole, Meg. Non merito il tuo perdono.»

«Tu tenevi a lei. Per questo l'hanno uccisa.» E con lei, hanno sradicato e violentato anche una parte di me, quella che mi faceva sentire umana.

«Sì.»

«E per questo vogliono far fuori anche me.»

«Sì.»

Alzai il volto e lo fissai negli occhi. Quegli occhi incredibili, disumani nel loro colore impossibile, eppure colmi di un'umanità ineffabile. Niente aveva senso con Erik, neanche il cuore che mi palpitava nel petto ogni volta che ci guardavamo così intensamente, come due fiere pronte a sbranarsi – o a fare l'amore.

«Colpiscimi, se vuoi. Picchiami, sputami addosso, uccidimi… accetterò tutto e non reagirò. Porto su di me il peso di quella lama.»

Tu porti il peso di tutti noi, pensai, ma non dissi nulla. Mi trattenni dal rifilargli un'altra sberla e arretrai, mentre il Persiano mi circondava le spalle con un braccio in un gesto di amichevole rassicurazione. Tremavo ancora, sia fuori che nelle articolazioni dell'anima.

«Chi era quel… quel tizio?»

«Un sicario al soldo della Khanum» mi rispose Erik.

«Quindi vi conoscevate.»

«Quando ero agli ordini del vecchio sultano, sì.»

Certo che lo conosceva, pensai, inorridita. Era uno di loro!

«Ti ha chiamato in modo strano…» proseguii, incerta.

«Azrael» confermò Erik.

«Per noi musulmani, Azrael è l'Angelo della Morte» spiegò il Persiano, e tutti i tasselli del mosaico ora quadravano perfettamente.

«Così mi chiamavano un tempo» soggiunse Erik con una smorfia. Evidentemente essere accomunato a una creatura sovrannaturale di natura funebre, molto differente dall'Angelo della Musica, non gli piaceva.

«Un altro soprannome» feci io, massaggiandomi le tempie doloranti. La testa mi girava come le pale di un mulino al vento.

«Dobbiamo fuggire subito. Adesso» disse Erik in tono autoritario.

«Prima è, meglio sarà per noi tutti» soggiunse il Persiano, pensoso.

«E dove?» chiesi, allargando le braccia quasi che dal cielo, come pioggia, potesse giungermi la risposta. «Dove, Erik?»

«In America. Lì sarai al sicuro, ma dobbiamo fare in modo che non scoprano la nostra meta.»

«L'America? Dico, sei impazzito?» esclamai, stupefatta. «Non conosco nemmeno l'inglese!»

«Imparerai. Vuoi vivere o no?» mi squadrò lui con occhi di fiamma.

La verità è che non lo so, pensai. Non so più nulla. Il calice della mia mente si è svuotato, per poi riempirsi solo di sangue, e altro sangue ancora.

«E tu?» gli chiesi, diretta. «Non avevi forse intenzione di morire fino a ieri?»

Lui deglutì. «Sì, ma non per mano loro. Non dove lei non potrà tornare a seppellirmi. Inoltre, avevo fatto una promessa, e questa volta ci tengo a mantenerla.»

Ma certo, aveva promesso a mia madre che avrebbe vegliato su di me. Come se ne avessi bisogno, poi. E tuttavia, ora che ero – che eravamo – davvero in pericolo…

«Perché la Khanum mi vuole morta? Non capisco. Io non centro nulla in tutta questa storia. Questa faida non interessava nemmeno mia madre.»

«Non è per voi, è per lui» disse Nadir con un cenno all'uomo mascherato, il quale si limitò a fissarmi silente. «Sa che non sarà facile catturarlo e riportarlo, per di più vivo, fino in Persia. Né sarà semplice estorcergli le informazioni che desiderano.»

«Ma se hanno in pugno te, io non posso che arrendermi. Lo capisci?» disse Erik con voce strozzata, come se qualcosa gli ottundesse la gola, impedendo alla sua bella voce di librarsi naturalmente.

Annuii. «Sono solo una pedina, allora.»

«Lo siamo tutti» mi rassicurò il Persiano.

Scossi il capo con violenza. No… Qualunque cosa il fato avesse in serbo per me, io avrei avuto una parte attiva in tutto questo. Non sarei rimasta semplicemente a guardare mentre due uomini mi aiutavano sul sentiero della salvezza. Sarei stata io la regina sulla scacchiera, non un semplice pedone da sacrificare quando non se ne ha più bisogno.

Pensai sul serio all'idea di partire per l'America. Sarebbe stato un viaggio lungo e poco sicuro, ma quel che mi spaventava era il dopo. Cosa avrei fatto in un Paese di cui non parlavo neanche la lingua? Avrei smesso di danzare per sempre? Non sarei stata sola, avevo Monsieur Nadir al mio fianco, e lui potevo considerarlo mio amico. Ed Erik, dopo avermi tratta in salvo come aveva giurato di fare a mia madre… cosa ne sarebbe stato di lui?

Queste domande non avevano risposta, non finché fossi rimasta lì ad aspettare.

«Cosa devo fare?» dissi. I due uomini si scambiarono un'occhiata che non mi sfuggì, pur fulminea che fosse. «Ci sarà pur qualcosa che potrò fare.»

«Nadir ha già preparato i cavalli e le provviste. Viaggeremo di notte, col favore del buio. Ad un buon trotto, arriveremo a Calais in una settimana e mezzo.»

«E una volta lì, come partiremo per l'America? Non sono mai stata brava in geografia, ma mi hanno detto che c'è un vasto oceano tra questo e il Nuovo Mondo» replicai, sarcastica. Sentivo il livore crescere in me come un cancro, e lo rivolsi alla persona sbagliata.

Erik mi fulminò con freddezza. «Non parlare in questo tono, ragazza. Sei ancora troppo scossa per dire certe cose.»

«Erik, comprendila. Ha la mente fragile, ora…»

«Fragile?» Erik cacciò un lieve sbuffo d'incredulità. «Ma se è l'unica persona che riesce a tenermi testa oltre te e…» Qui si fermò, deglutendo a fatica. Christine, pensai. Anche pronunciare il suo nome è come una daga nel cuore, per lui.

«Adesso tutto questo non ha importanza. Concentriamoci sulla situazione presente.» Relegai il dolore per la morte di mia madre in un angolo del mio cervello, così che avessi ancora la capacità di ragionare.

«C'è una cosa che abbiamo pensato, il daroga ed io» spiegò Erik, e il suo tono mi parve stranamente esitante. Forse temeva che lo avrei preso a sberle di nuovo – cosa non del tutto irrealistica, d'altronde.

«É per la vostra sicurezza, Meg» mi assicurò il Persiano.

Corrugai la fronte. Qualunque cosa stessero per propormi, non doveva essere piacevole per la sottoscritta.

«I sicari che ci stanno alle calcagna stanno inseguendo un uomo in maschera, uno originario del Medio Oriente e una ragazza» disse Erik in una cadenza lenta e modulata che avrebbe dovuto tranquillizzarmi, ma che invece ebbe solo il potere di allarmarmi ancora di più. Se usava la malia della sua voce, allora voleva dire che c'era qualcos'altro sotto.

«Un ragazza» ripeté Erik. «Non un ragazzo.»

Ammiccai, come dinanzi a un improvviso fascio di luce puntato sui miei occhi. Era assurdo.

«Volete che mi travesti da uomo?» chiesi accigliata, in tono pungente.

«Te l'avevo detto che non avrebbe gradito» disse Monsieur Nadir, al che Erik replicò: «Non è costretta a gradire nulla.»

«Perché mai dovrei fare una cosa simile?» continuai, sempre più confusa. Non avrei avuto problemi ad indossare abiti maschili, ma le mie forme erano decisamente quelle di una donna. Come avremmo fatto a nascondere anche questo?

«Sarebbe molto più sicuro. Incontreremo gente per la nostra via, e sarete voi a rivolgervi a loro in caso di bisogno. I nostri cacciatori si aspettano una ragazza, non un orfano di strada.»

«Per il resto viaggeremo in aperta campagna, seguendo vie traverse e più sicure che mi sono note da quando ero un ragazzino e viaggiavo con una carovana di guitti per il Paese» aggiunse Erik. «E poi, se sapessero che sei una ragazza… se ti prendessero… farebbero cose… cose indicibili.» Lo vidi stringere il pugno in segno di rabbia repressa. La violenza carnale lo inorridiva, a quanto pareva.

«Capisco.» Annuii, muta. Poi ritrovai la voce: «Non posso nascondere tutto» dissi senza pudore. «Mi dovrete cercare un corsetto bello stretto.»

«Abbiamo già tutto il necessario» spiegò Monsieur Nadir con voce sempre gentile, lievemente in imbarazzo.

«Quindi già sapevate che avrei accettato.»

«Ti conosco troppo bene, Meg» interloquì Erik. «Sapevo che avresti scelto la strada più furba.»

«D'accordo, allora. Lo farò» strinsi i pugni e, di nuovo, cacciai via dalla mia mente il ritratto funebre di mia madre dinanzi ai miei occhi colmi d'orrore. Sentii crescermi un magone in gola, tale che mi fu difficile aggiungere: «E gli altri? Tutti mi conoscono, qui all'Opera. Non posso sparire all'improvviso, come nulla fosse. Cosa diremo loro?»

«A questo ho già pensato io» ribatté Erik, in tono non meno gentile di quello del Persiano. «Lascerai una lettera alla direzione dicendo che sei partita per andare in campagna, poiché molto malata. Ormai la notizia di… di quanto è accaduto a tua madre si sarà sparsa, la polizia avrà aperto le indagini (finirà per bollare il tutto come una rapina andata male, non temere). Lascerai l'Opera nel cuore della notte, traumatizzata da quanto accaduto. Nessuno sospetterà nulla.»

Aveva già pensato a tutto, come sempre. Era come quando aveva rapito Christine per la prima volta: in quelle due settimane di prigionia, aveva fatto credere a tutti che la mia amica fosse malata.

«E il cadavere dell'assassino?»

«Me ne sono già occupato io.»

Sospirai. «Immagino che dovrò scrivere io stessa la lettera. La tua calligrafia è francamente orrenda, e troppo riconoscibile» dissi ad Erik, che annuì, sebbene corrucciato dal mio commento sulla sua grafia illeggibile e sbilenca.

«Ho già portato tutti i tuoi averi qui, in modo da farla sembrare una vera partenza. Così nessuno potrà insospettirsi.»

Annuii. «Come usciremo di qui? Se ci stanno aspettando, là fuori…»

«C'è un condotto nelle fognature di Parigi che porta direttamente fuori dalla città» spiegò Erik semplicemente. «Attraverseremo quel passaggio, di cui pochi sono ancora a conoscenza, e certamente non il nostro nemico.»

Passare per le fogne. «Splendido. Non vedo l'ora di partire» mormorai tra me e me, sarcastica.

«C'è un'altra cosa che dovete fare, oltre che indossare vestiti da uomo» il Persiano mi si rivolse in tono esitante. Questa volta temeva davvero che avrei detto di no.

«Cosa?»

Ero stanca, così stanca. Sentivo la testa girare per le troppe emozioni, susseguitesi l'una all'altra come una raffica di proiettili nella mia mente. Avrei dovuto lasciare l'Opera, forse per sempre; avrei dovuto abbandonare Parigi e la Francia – la mia città e il mio Paese; non avrei più rivisto Luc, e Juliette, e Fabienne e Louise. E le piccole Jammes e Tholomyés, l'affettuoso Reyer, il dolce Figaro… Sarebbe tutto finito nell'oblio di un passato che era come una cicatrice sulla mia pelle imperfetta.

Frattanto, Erik aveva rovistato in un cassetto della più vicina credenza. Mi porse un paio di forbici.

«Devi tagliarti i capelli, Meg.»

D'istinto mi portai una mano alla mia capigliatura crespa e arruffata. Stopposi com'erano, mi avevano sempre dato problemi, ma non li avevo mai amati come ora. Fissai le forbici che Erik mi tendeva: era il punto di non ritorno, l'ultimo legame con una realtà che non potevo più chiamare mia.

«Va bene. Lo farò.» Afferrai le forbici con un movimento deciso che lasciò Erik leggermente accigliato.

«Sei sicura?»

Annuii. Certo, tagliarmi i capelli era come estrarre, ancora pulsante, quel cuore che mi rendeva ancora “la piccola Meg”, ballerina dell'Opera e tragicamente orfana. Da quel momento in poi, non sarei più stata la stessa.

«Se devo fare una cosa, che la faccia come si deve. Vado a vedermi allo specchio nel bagno. Tu portami i vestiti che mi servono.»

I due uomini si scambiarono uno sguardo contrito: la mia determinazione li turbava, ma acconsentirono con rapidità.

«Bene» mugugnai con voce rauca. Mi diressi nel bagno attiguo alla stanza Luigi Filippo e mi guardai allo specchio: i miei occhi erano ancora rossi e gonfi di pianto. Ma adesso non volevo più piangere. Hanno bevuto tutte le mie lacrime. Si sono portate via anche quelle.

Le forbici erano stranamente gelide nelle mie dita contratte. Rabbrividii quando tagliai la prima ciocca. Essa cadde sul pavimento senza emettere alcun rumore, come piume d'uccello.

«Vuoi una mano?» chiese Erik sulla soglia del bagno. Non osava avvicinarsi oltre allo specchio.

«No, ce la faccio da sola» risposi con decisione.

Non contai i minuti, solo le ciocche che cadevano e si ammucchiavano sul pavimento in un cumulo nero come bitume. Alla fine la mia testa pareva un bitorzolo dalla forma lievemente appuntita. La frangia mi frusciava sulla fronte, ma i capelli erano molto più corti di quando mi arrivavano alle spalle. Ora mi sfioravano le orecchie, mettendole a nudo. Mi sentii vagamente a disagio, come se mi fossi vestita della pelle di qualcun altro, fattezze che non mi appartenevano. Sono solo capelli, pensai. Ricresceranno.

Mancava solo che indossassi gli abiti appositi preparati per me da Erik e Nadir. Erano piegati sul letto: li osservai con attenzione. Dovevano essere i vestiti di un ragazzino, a giudicare dalla taglia, ma proprio per questo mi entravano a pennello. Strana sensazione: non avevo mai indossato dei pantaloni, prima, ma erano miracolosamente comodi. La mise consisteva in un camiciotto bianco, un paio di calzoni di stoffa resistente, color mattone, e una giacchetta dello stesso colore. Le scarpe erano ugualmente marroni, ma così piccole che potevano essere appartenute solo a un bambino. Mi calzavano bene – erano perfette per il mio piccolo piede deformato da anni e anni di danza en pointe. L'idea della danza mi riempì gli occhi di lacrime, perciò volsi i miei pensieri altrove. Mi concentrai sulla mia nuova tenuta, infilandomi come tocco finale un berretto, sempre marrone, sul capo rasato. Ecco, ora apparivo più simile che mai ad un gamin di strada, solo più pulito. Sperai di mantenere tale questa apparenza per molto tempo, poiché ero, in effetti, irriconoscibile.

Se Jacques e gli altri amici di Luc mi avessero visto in questo stato, certamente avrebbero trovato un nuovo straordinario nomignolo per me, oltre che Faccia di Scimmia. Quante grasse risate si sarebbero fatte a mie spese.

Le fasce che Erik mi aveva consegnato mi stringevano il seno – o meglio, quel poco di carne che avevo al suo posto – in modo da renderlo invisibile sotto il largo camiciotto. Ero perfetta, dolorosamente perfetta.

Quando tornai in soggiorno conciata in quel modo, il Persiano mi rivolse uno sguardo di comprensione, addolorato. Gli occhi di Erik erano invece indecifrabili dietro la protezione della maschera.

«Partiamo, allora» disse quest'ultimo, indossando la cappa nera sulle spalle e il cappello che gli copriva gli occhi. Anche Nadir si era infilato la giacca.

Annuii. Addio. «Partiamo.»

 

 

Chi conosce la storia delle fogne di Parigi sa che sono un coacervo di cunicoli scavati nella terra, di viscere strappate al cemento, di passaggi larghi quanto la gola di un drago. L'acqua che scorreva nei condotti emanava un lezzo che mi costringeva a tapparmi il naso per non cedere all'istinto di dare di stomaco. Anche Monsieur Nadir, al mio fianco, appariva a disagio, ma era un uomo dai nervi d'acciaio e non espresse alcuna lamentela. Questo valeva anche per Erik: mi chiesi chi tra i due fosse il più stoico.

Non potevo guardarmi indietro, difatti non osavo voltarmi. Come nel mito di Orfeo ed Euridice, una storia dell'antica Grecia che mio padre amava raccontarmi quando ero piccola, seduta sulle sue ginocchia: voltati indietro e sarai perduta. Orfeo aveva ceduto alla tentazione, ma io sarei stata più forte. Avanzavamo tra cunicoli che apparivano direttamente scavati nel buio, budelli di oscurità che solo la torcia di Erik rendeva attraversabili, come il guado di un fiume durante una tempesta logorante. Le pareti di pietra e salnitro parevano trasudare umidità e fetore. Intravedemmo anche parecchi ratti che gironzolavano vicino ai nostri piedi, grandi come cuccioli di gatto, ma non li temevo: non era dei ratti che bisognava avere paura.

Le piastrelle sdrucciolevoli sotto i miei piedi non mi mettevano più a mio agio delle larghe voragini di terra umida dove affondare, come nelle sabbie mobili – le trappole delle fogne. Tuttavia, Erik vi si districava con naturalezza. Sembrava conoscere la strada a menadito, e noi ci affidammo totalmente a lui in questa occasione.

Arrivammo alla meta dopo circa un'ora, o così mi era apparso, di girovagare. Un'uscita da cui penetrava un singolo raggio di luna rubato alla notte si allargava dinanzi a noi come una piaga nella carne nera dell'oscurità. La attraversammo e sbucammo nella notte fredda e limpida di una Parigi addormentata. Legati a due pali lì accanto, c'erano una puledra dal pelo bianco come la neve e uno stallone nero dall'aria imponente. Entrambi portavano sacchi con le provviste sui loro dorsi sellati.

«Dove avete preso dei cavalli del genere?» chiesi, perplessa.

«Ho i miei mezzi» rispose Erik, enigmatico come sempre.

«Mi chiedo quando mai mi darai una risposta comprensibile.»

Nadir salì sulla puledra bianca, che scalpitò appena sotto il peso del suo cavaliere. Naturalmente, per Erik rimaneva lo stallone nero come la notte.

«E per me nessun cavallo?»

«Non sai cavalcare, no?»

Scossi il capo. In effetti, l'unica volta che ero salita in groppa a un cavallo era stato anni e anni prima, con mio padre – quando era ancora mio padre e non la sua ombra deturpata – che mi aveva insegnato a tenere le redini quando eravamo andati in vacanza in campagna, un'estate fresca di tanto tempo prima. Ricordai il sorriso di mia madre quando mi aveva vista in sella – non mi ero mai sentita più libera come in quel momento – e il magone che mi ottuse la gola rischiò quasi di soffocarmi. Non pensarci. Non pensare. Non ricordare.

«Salta su con uno di noi.»

Mi avvicinai a Monsieur Nadir, trepidante, ma a metà strada mutai idea. Con grande sorpresa dell'interessato, feci per salire in groppa allo stallone di Erik che, sgomento, mi tese la mano per aiutarmi. L'afferrai e mi sistemai sulla sella, goffa. Né Monsieur Nadir né Erik stesso fecero commenti.

«Bene. Andiamo. Dobbiamo essere più veloci del lampo» concluse quest'ultimo, e partimmo al galoppo verso Calais, attraverso vie strette e introvabili sulle mappe, che valicavano ruscelli nati da sorgenti sconosciute.

 

 

Era Erik a guidarci. Aveva una profonda conoscenza delle strade che percorrevamo, frammezzo a boschi di radi alberi di quercia e radure di gigli ancora in boccio. Ci fermavamo a qualche torrente solo per abbeverare i cavalli e lasciare che riposassero almeno un'ora o due, mentre noi stessi mangiavamo qualcosa di malavoglia. Per il resto del tempo, eravamo in sella. Il mio senso di libertà svanì ben presto quando mi accorsi che avevo il didietro e le cosce doloranti, poiché non ero abituata a quel ritmo assurdo. Erik non voleva che riposassimo neanche un minuto, e anche Nadir era d'accordo, quindi ci accontentavamo della nuda terra quando facevamo abbeverare e nutrire i cavalli. Erano un paio d'ore di sonno al giorno, ma presto imparai a dormire anche in sella, la testa poggiata alla schiena del mio sinistro compagno. Così abbigliato, con lo stallone nero che tra me e me avevo ribattezzato Notte, rassomigliava proprio alla Morte biblica, venuta per scatenare l'Apocalisse insieme alle sue tre sorelle: Pestilenza, Guerra e Carestia. Quante volte, da piccola, avevo udito quel sermone in chiesa, quando la mia povera madre mi costringeva ancora a recarmici, sebbene io obbedissi di malavoglia?

Bisogna aggiungere che Notte aveva un pessimo carattere e solo Erik sembrava in grado di domarlo. Aveva una dolcezza con gli animali che in lui non avvertivo mai in presenza di altri esseri umani. Ma certo, era ovvio: a quegli animali non importava che volto avesse. Erano le uniche creature sulla terra a potergli donare amore incondizionato.

Gli chiesi se avesse mai pensato ad avere un animale da compagnia.

«Da bambino avevo un cane di nome Sasha. Apparteneva a mia madre, veramente, ma da quando nacqui divenne mia. Mi leccava il viso senza spavento alcuno nelle sue moine» Erik mi raccontò in tono malinconico, mentre cavalcavamo senza sosta e io gli circondavo la vita con un braccio. Intuivo che c'era qualcos'altro a proposito che non mi diceva.

«Che fine ha fatto?»

«L'hanno uccisa. Tanto tempo fa.»

Dopodiché percepii la sua riluttanza a dilungarsi sull'argomento. Qualunque ferita gli avessero inflitto con la morte del suo compagno canide, era ancora ustionante.

Superammo fattorie e villaggi, villette di campagna e boschetti di alberi d'acero, ma non ci fermammo mai a parlare con nessuno, né qualcuno venne ad interrompere il nostro cammino.

Fummo fortunati, perché l'apparenza dei miei compagni era fin troppo riconoscibile. Ci accostammo ad un villaggio solitario, costituito da casette costruite col legno e una chiesetta sempre aperta a chiunque volesse pregare (non io; io ormai avevo finito di credere in Dio da molto tempo), dove trattai con un fattore per acquistare con l'oro di Erik – quello che aveva risparmiato negli anni di ricatti ai direttori dell'Opera – della biada per i nostri cavalli. Il mio travestimento funzionò: sembravo davvero un ragazzo come tutti gli altri, e nessuno fece domande. Se i nostri inseguitori avessero interrogato gli abitanti del villaggio, questi avrebbero risposto di aver visto solo un gamin in giro, nessuna giovane donna né tanto meno uomini mascherati o dalla pelle scura, visibilmente stranieri. Erik e Nadir si tenevano sempre in costante lontananza dai centri abitati, ed era un bene: non volevamo essere notati – il nostro trio era già alquanto bizzarro di per sé, e avrebbe attirato non pochi mormorii. Una volta a Calais, ci saremmo dispersi tra la folla, dal momento che era una grande città, anche se non maestosa quanto Parigi.

 

 

Le scintille del bivacco creavano arabeschi d'oro rosso sul terreno color ruggine. La luna, i cui raggi trasparenti filtravano attraverso le imposte, era una pietra incastonata in un cielo di ghiaccio nero. Erik, accanto a me, era immobile come quell'astro.

«Dovresti dormire» mi disse d'un tratto. Monsieur Nadir, poco lontano, già riposava beatamente – per quanto lo permettesse un giaciglio di paglia. Il turno di guardia toccava ad Erik, quella notte. Ci fermavamo così di rado che ormai avevo imparato a dormire in sella al cavallo, la testa che ciondolava al trotto, una mano stretta alla vita del mio sinistro cavaliere per impedirmi di ruzzolare al suolo. Avevo le cosce dilaniate da piaghe da sella, ma mi limitavo a stringere i denti, emettendo rari sibili di dolore. Eravamo in perpetua fuga da un nemico che era sempre alle nostre spalle, attenti a confondere le nostre tracce per depistare gli inseguitori. Una volta giunti sulla costa settentrionale della Francia, ci saremo imbarcati su una nave di contrabbandieri, vecchie conoscenze di Erik che già lo avevano accolto a bordo una volta. La nostra meta era l'America, il grande continente in cui non avrei mai pensato di mettere piede, e lì saremo rimasti fino alla fine della guerra che ci aveva coinvolto nel suo uragano di sangue e detriti di vite distrutte. Mi sentivo addosso il lezzo della decomposizione… o forse era solo la vicinanza eccessiva di Erik. O anche il fatto che non mi lavavo da più di una settimana. I giorni trascorsi in sella a un cavallo, senza mai riposarsi o mangiare altro che fosse pane duro, strisce di pesce affumicato e formaggio stagionato avevano segnato anche Nadir, che eppure era un uomo di costituzione robusta e di solida forza d'animo, che non si lamentava mai. Quanto ad Erik, lo avevo visto trangugiare qualcosa pochissime volte.

Ma dorme mai?, mi chiedevo. Una mattina fredda e senza nubi lo scoprii a sonnecchiare insieme a me che, alle sue spalle, gli circondavo la vita con un braccio.

Era immobile e insondabile come un muro di granito, ma quando feci per scuoterlo per un gomito udii l'obiezione di Nadir. «E' così da un paio d'ore» mi riferì in un sussurro. Cavalcava piano, senza mai lasciare il nostro fianco. I suoi gentili occhi di giada erano segnati dalla durezza a cui quella rocambolesca fuga lo stava sottoponendo, circondati da occhiate livide, il volto scavato. Eppure era ancora in piedi, fermo e deciso. Non volevo neanche pensare a che aspetto avessi io. Per quanto mi riguardava, se avessi dovuto mangiare altro pesce affumicato o formaggio, avrei dato di stomaco. E quando le scorte fossero finite, cosa avremmo fatto? Ci saremmo cibati dei vermi che si celavano nella terra o degli scarafaggi sotto i sassi? Non potevamo cacciare: Erik ci aveva proibito di accamparci e di accendere il fuoco, e aveva ragione. Voleva attirare l'attenzione il meno possibile, scivolando tra sentieri che sembrava conoscere solo lui nelle campagne abbandonate. Se incrociavamo un villaggio o una fattoria, li aggiravamo, superandone i confini. Ma era raro che ne incontrassimo. Erik aveva scelto un itinerario che comprendeva solo foreste e lande deserte. Conosceva bene quelle strade – così ci aveva rassicurato: da ragazzo, ci era già passato. Quanto a me e Nadir, non potevamo far altro che appoggiarci a lui. Io avevo oltrepassato le mura di Parigi rare volte, e solo da bambina; Nadir era uno straniero che conosceva il Paese soltanto in piccola parte. Erik aveva attraversato la Francia in lungo e in largo e viaggiato molto, arrivando perfino in Asia. Il buon senso ci suggeriva di lasciar fare a lui, anche se il solo pensiero che mi desse ordini mi ottundeva la gola in una morsa rabbiosa. La furia mi montava dentro ogni giorno, insieme alla spossatezza, al dolore, agli incubi. Era per questo che non riuscivo a dormire.

Dopo una settimana, Nadir aveva proposto ad Erik di fermarci in qualche casolare abbandonato. «Ci basterebbe anche una stalla, Erik. Non possiamo andare avanti così. Le nostre provviste stanno per finire. Dobbiamo fermarci in un villaggio e riprendere fiato… Di denaro ne abbiamo.»

«Quello ci serve per la nave e il trasporto. Se pensi che i nostri amici contrabbandieri ci lasceranno salire a bordo con loro come nulla fosse, ti sei rimbecillito completamente.»

Nadir ignorò l'insulto. «Come pensi che andremo avanti, dopo? Dovremo pur fermarci per cambiare cavalcatura.» Aveva ragione, i nostri destrieri erano stremati. Erik permetteva che riposassero solo poche ore al giorno. Proprio come me e Nadir, stesi sulla nuda terra in chissà quale bosco sperduto. Notte era schiumante di sudore e aveva il fiato grosso: persino un cavallo forte come lui era alle strette.

«Non dirmi che non ci hai pensato» biascicai con voce raschiante. Era divenuta sempre più rauca, dal momento che mi ero ridotta a una sorta di muta. A volte avrei voluto essere altrettanto sorda, altrettanto cieca, altrettanto insensibile.

«Certo che sì.» Non ne dubitavo. Tra tutti gli aggettivi che potevo attribuirgli, stupido non era tra questi. «Ma non possiamo fermarci. Non ora.»

«Erik, pensa che anche loro dovranno fermarsi. Anche loro avranno i nostri stessi bisogni. Abbiamo ancora del vantaggio nella corsa. Fermiamoci al prossimo villaggio, te ne prego.»

Erik meditò per un po', ma alla fine acconsentì. Forse anche lui era stremato: in fondo, non era più un ragazzo. Dovevo ricordarmi che doveva essere sette, otto anni più giovane di Nadir.

Ci fermammo a una fattoria alla periferia di un minuscolo villaggio, e fui io a parlare con i proprietari. Una volta visto quel losco figuro mascherato e lo straniero dalla pelle scura, sapevamo che non ci avrebbero mai fatti entrare in casa… Nessuno di loro. Non sbagliavamo, difatti.

Ma con il denaro si comprano molte cose. Erik ne aveva portato con sé abbastanza da convincerli a cederci biada, acqua e cibo in quantità. Per una notte, inoltre, avevamo affittato un casolare abbandonato poco più avanti. In realtà con quel denaro avevamo solo acquistato il loro silenzio, anche se Erik non ne era affatto convinto.

«Non durerà… Non quando su di loro pioverà altro oro. Dalla mia parte ho il frutto di anni di…»

«… coercizioni?» suggerii, sarcastica.

Lui m'ignorò. «In ogni caso, nemmeno io posso competere con un sultano.»

«Credi che li abbiano pagati molto per darci la caccia?»

«Oh, sì. Non vedono l'ora di stringermi una corda attorno al collo. Per loro sono più importante dell'oro, adesso. Sono il mezzo con cui vincere una guerra.»

«Sei un esemplare di razza, Erik. Si danno davvero molto da fare per metterti in gabbia.»

Lui mi scoccò un'occhiata fulminante da dietro la maschera. I suoi occhi, nell'oscurità, erano molto più visibili che alla luce del giorno, e io avevo imparato a decifrare i suoi stati d'animo attraverso i due buchi della maschera nera… Perlomeno alcuni. E se ti catturassero… cosa farebbero di te, dopo?, mi domandai.

«Ma poi mi scuoierebbero vivo» aggiunse lui, come se mi avesse letto nella mente. «Dimenticano che le ho create io, le ora rosa di Mazenderan. Non sono che pallide copie… Nessuno ha fatto ridere la sultana più di me.» Concludemmo la conversazione con quella nota sinistra.

Dopo esserci sistemati nel casolare, aiutai Nadir a spennare la cena di quella sera – due galline, ancora vive quando le avevamo portate via dal pollaio. Ero stata io a sventrarle e a tagliare loro la testa. Il daroga mi aveva mostrato come si faceva, aiutandomi non poco, e anche come si accendeva un fuoco. Erik era rimasto a guardarmi con i suoi strani occhi dorati, fissi, due stelle di pietra. Nadir mi lanciava occhiate apprensive. «Siete sicura?» Sembrava allarmato dalla mia ostinazione… E forse aveva ragione di esserlo.

«Voglio dare una mano.»

«Dovreste stendervi sul pagliericcio e riposare un po'.»

«Sto bene. E voglio davvero dare una mano.»

Mi sentivo inutile, un pupazzo che doveva fare qualcosa per non sentirsi più tale.

«Lasciala fare, daroga. Se ci tiene tanto, perché insistere su una questione così sciocca?» Fui sorpresa dal fatto che Erik fosse giunto in mia difesa. Avevo l'impressione che non si intromettesse in discussioni del genere, che avesse altro a cui pensare. O forse anche lui voleva solo divorare quei maledetti volatili.

Quando la nostra cena fu ben arrostita e rosolata, mi avventai su un cosciotto con tanta voracità che per poco non soffocai ai primi due morsi. Avevo ben poco di signorile in quel momento: con quei capelli, gli abiti e tutto il resto, mi stavo trasformando sempre più in un monello di strada.

«Se mangi troppo in fretta ti si chiuderà lo stomaco. E non sarebbe piacevole, dal momento che cavalchi con me.» Inutile dire chi mi aveva rivolto quell'aspro consiglio. Mi pulii il mento gocciolante con la manica della camicia e folgorai Erik con un'occhiataccia, anche se aveva ragione. Terminata la cena, Nadir si addormentò subito. Quel pover'uomo era esausto, ma speravo che perlomeno il buon cibo l'avesse rinvigorito. Fu allora che Erik mi disse che avrei dovuto dormire.

«Non ci riesco. Non adesso.» Il dolore alle cosce mi impediva di pensare, ma ora che ero sdraiata su un pagliericcio davanti a un fuoco acceso… No, era diverso. Lui inclinò la testa di lato, come per osservarmi meglio.

«Mi apparivi molto spossata fino a poco fa.»

«Lo sono. Ma non posso dormire.»

«Sei sicura di stare bene?» mi chiese con la sua voce d'angelo. Annuii: ero certa di non avere febbre né altro di simile.

«Se resto qui distesa, per tutta la notte rimarrò a pensare a come è morta.» La sensazione viscida del sangue di mia madre sulle mani, un abbraccio di morte e sogni spezzati… l'ultimo. «Me le immagino ogni notte, sai? Le facce di chi ha dato ordine di ucciderla.»

«Sì, ho notato che ripeti la parola “Khanum” a bassa voce di tanto in tanto, nel sonno, quando credi che io non possa udirti. Ma io ti sento sempre, Meg. E non comprendo il motivo di una litania tanto… odiosa.»

Gli lanciai un'occhiata di sottecchi. Aveva pronunciato la parola giusta.

«É per ricordarmi della rabbia» risposi. Sperai che Nadir stesse dormendo della grossa; non mi sentivo a mio agio nell'intraprendere quel discorso davanti a lui. Con Erik era diverso… anche se non sapevo perché. «É l'unica cosa che mi fa andare avanti in questo momento. Non mi rimane altro.» Ero una cavità di ombre e ceneri, tutte unite da una stessa trama: la morte mi seguiva ad ogni passo. E con essa, la rabbia e il dolore. «Se prima temevo di fare la fine di mio padre» dissi, sforzandomi di tenere ferma la voce, «ora non sono altro che questo: furia e ossa. E fa male… dappertutto.» Mi strofinai le tempie, mentre una fitta lancinante mi attraversava il capo da parte a parte come un'aureola.

«Il sonno non concilia» commentò Erik, che ora teneva lo sguardo fisso sul focolare.

Annuii. «Il sonno è… una rimembranza indesiderata.»

«Non potresti dimenticare comunque.»

«Lo so. E non voglio farlo.»

Questa volta si decise a guardarmi. I fantasmi delle fiamme volteggiavano nei suoi occhi.

«Perché hai voluto uccidere tu le galline?»

«Cosa?»

«Ti sei sfogata? Ti ha fatto stare meglio?»

Intendeva forse chiedermi se… se provocare a delle creature più deboli ciò che aveva dovuto provare mia madre mi avesse risollevata? L'idea non mi aveva sfiorata… se non in parte. Ma non era stato il pensiero delle galline sofferenti a rincuorarmi.

«Non i maledetti polli» sibilai. «Loro. La Khanum, lo Shah – tutti loro.»

Lo vidi irrigidirsi. «Ti sbagli. Non ti farà stare meglio.»

«Davvero?» lo sfidai. Ero impudente, e lo sapevo. Ma quella era una questione troppo importante, e oramai la mia rabbia poteva quasi pareggiare con la sua. Ma se la mia era un fuoco ardente, quella di lui era una miscela di ceneri divenute pietra: calda come lava, ma dura come il granito.

Sta parlando con le parole del nuovo Erik, compresi. Quello vecchio – prima di Christine, del nostro incontro, di tutto – sarebbe stato diverso.

«A te ha fatto stare meglio?»

«Che cosa vuoi sapere davvero, Meg?» mi chiese con voce severa.

«Voglio sapere…» esitai. Avrei avuto davvero il coraggio – o la follia – di pronunciare le parole che adesso mi vorticavano nella mente? Fin quando rimanevano dubbi irrisolti, non sarebbero divenuti reali… Ma era di fatti e verità che ora dovevo nutrirmi. Fu questa consapevolezza a dar loro voce.

«Quando hai ucciso per la prima volta… quale ne fu la ragione?»

Erik s'irrigidì considerevolmente. «La mia non è una strada che vorresti intraprendere. Credimi, bambina.»

Una brivido di rabbia gelida mi corse lungo la schiena. «Non ho ti chiesto di rispondermi con cianciate filosofiche. E non chiamarmi bambina! Non sono…»

«É vero, non lo sei. Ma forse dovresti.»

«Non sono innocente, Erik! Ho dentro di me cose… cose oscure…» Cose alle quali un tempo non volevo dare nome, limitandomi a confinarle nella bolgia della paura. Ma ora tutto era cambiato. «E ho sete, ma non di innocenza. Quella me la sono lasciata alle spalle definitivamente quando ho visto il cadavere straziato di mia madre!» Lacrime di rabbia mi salirono agli occhi, ma non caddero. Erano come congelate. «Aiutami a comprenderle» gli chiesi infine in un soffio. Lui si limitò a fissarmi a lungo, in silenzio. Quello sguardo un tempo mi aveva messo a disagio – avrebbe fatto stare sulle spine chiunque – ma ora non cercavo altro.

Sei il mio specchio distorto. La mia metà nera. Aiutami a dare un colore ai relitti che mi celo dentro. Aiutami a trasformarli in vita e caos. Proprio come aveva fatto lui, ne ero certa, tanto tempo prima.

Emise un sospiro lievissimo. «La prima volta che commisi un omicidio avevo dodici anni» disse infine. «Fu per legittima difesa. All'inizio ero troppo stordito per dare un nome a ciò che provavo, anche solo per rendermi conto del sangue che mi scorreva tra le dita… Ma poi capii. E sentii.»

«Cosa?» chiesi, affamata di risposte.

«Il… potere. Per la prima volta da quando avevo memoria, mi sentivo più forte di chi mi aveva minacciato, umiliato, ferito fuori e dentro, dove non si vede… Avevo ancora le mie cicatrici, le avrei avute addosso per sempre, come un vessillo, a ricordarmi ciò che ero e ciò che era stato. Ma ora potevo procurarne anche ad altri. Non mi sarei più tirato indietro. Ora ero io la minaccia. E…» si guardò le mani, come immerso in un ricordo che, seppur passato, mostrava ancora la sua carne pulsante, bruciata, viva, «… provavo una sorta di… indescrivibile euforia. Non assomigliava a nulla che avessi mai provato prima. Non era gioia, era… spezzare catene invisibili. Ero più vivo dell'uomo dissanguato ai miei piedi… Più vivo di quanto fossi mai stato fino ad allora. Eppure ero ancora al limite. Uccidere non mi avrebbe regalato la vita che anelavo, di questo non m'illudevo… Ma avevo reso qualcuno più morto di me. Ancora più freddo, le orbite incavate, e presto la sua pelle si sarebbe ridotta in scaglie decomposte, diventando polvere su un teschio visibile quanto il mio. Sarebbe diventato più simile a me di qualunque altra creatura vivente…! Ma con quell'uomo non volevo condividere nulla, neanche il suo aspetto da morto. E così me ne andai.» Si fermò. Sapevo che era la prima volta che dava voce a quei pensieri, la prima volta che ne parlava con qualcuno. Era stato per lui come aver vomitato della bile che gli marciva il fegato da anni e anni. Si torse le dita, naturalmente turbato da quella confessione.

«Non voglio più sentirmi morta» fui io a infrangere per prima il silenzio. Lui mi fissò con occhi che non avevano bisogno di parole. «Non potrò mai più essere viva, non come prima. E allora… Se non posso essere viva, voglio essere Morte

Dirlo ad alta voce, trovare le parole giuste fu come un'epifania. Se non posso avere la vita, allora diventerò padrona della morte. Ne farò un'arma, così nessuno potrà più farmi del male.

Guardai Erik. Sapevo che in lui giaceva, meno dormiente e inesperta che in me, la stessa risoluzione. Ed era spaventoso. Il mio nero riflesso, pensai. Anche se lui non era più l'assassino senz'anima di un tempo… Eravamo diversi, eppure le affinità tra noi erano innegabili. Scossa da questa improvvisa consapevolezza, mi strinsi nella coperta e poggiai la testa sul pagliericcio. Era pieno di pulci, ma ormai, pulce in più, pulce in meno…

Quella notte i miei sogni furono popolati da cadaveri putrescenti, e quelli dei miei genitori erano tra loro. Il ventre squarciato di mia madre, le cervella disintegrate di mio padre… Tutto sui miei vestiti laceri. Avevo dieci anni, come il giorno in cui mio padre si era sparato alla testa davanti ai miei occhi colmi d'orrore. Nello specchio che mi fronteggiava, potevo vedere il sangue e i residui organici che inzaccheravano il cotone bianco, il pavimento, la parete… D'un tratto il mio riflesso si trasfigurò in una maschera di carne marcia, decomposta, l'osso ben visibile oltre il velo di pelle inaridita… Stavo diventando un cadavere come loro! Mi afferrai la gola nel tentativo di non urlare. La pistola di mio padre, di cui chissà come mi ero impossessata, tremava nella stretta delle mie dita piccole e sudate. L'onda di cadaveri stava per travolgermi e soffocarmi, lo sapevo… Una marea vestita di bianco, le braccia legate in una cinghia, i denti marci pronti a strapparmi via la faccia a morsi… Sarei diventata come loro, una reliquia di ciò che era stata Marguerite Giry, finita in un manicomio perché, come suo padre, vedeva sangue e morte dove non ce n'erano. Il terrore mi avvinghiò a sé in un abbraccio che mi era ormai familiare. Quel terrore era differente da tutti gli altri: faceva parte della mia stessa essenza, né più né meno della danza. Non potevo ignorarlo né annientarlo del tutto. Sarebbe rimasto nella mia mente, dormiente, per poi risorgere come una fenice dalle sue ceneri. Solo che non era una fenice: il suo piumaggio era di un nero corvino, il becco mi picchiava sulla fronte e diceva: «Vedi, vedi…» Era un corvo, presagio di morte. E la morte mi seguiva dappresso oramai da anni.

No, non l'avrei permesso. La pistola di mio padre, che avrebbe decretato la mia fine, poteva essere qualcosa di diverso. Fronteggiai l'orda di cadaveri con più coraggio di quanto credevo di possedere. Presi la mira e sparai. La forza del contraccolpo mi svegliò in preda agli spasimi. La prima cosa che feci fu mettermi una mano sul cuore: batteva all'impazzata, la fronte imperlata di sudore gelido, brividi scuotevano il mio piccolo corpo fasciato in abiti sbagliati, che non mi appartenevano. Sono viva, pensai. Sono viva. Lanciai un'occhiata ad Erik che, avvolto nel lungo mantello nero, dormiva su un pagliericcio poco lontano dal mio. Il suo respiro era lieve e ritmato, come una musica fatta di fiati, che imprigionava il vento. Quel suono mi tranquillizzò. Sono viva, pensai ancora. E lo sei anche tu.

Quella notte aveva generato il seme della mia fame, e io le avevo dato un nome: vendetta.




Note dell'autrice: Scusate il ritardo (again). Sono andata in vacanza al paese di un'amica, mi sono (quasi) ubriacata per festeggiare i miei ventidue anni appena compiuti (tanti auguri a me! XD), ho conosciuto persone fantastiche e tornata a casa il pc non mi faceva più aprire i documenti di Word. Quindi come avrei potuto pubblicare il capitolo qui su EFP? Non sapete quante parolacce ho scagliato contro il mio computer, eh eh. XD Però ora eccomi qui, come promesso.
Prima di tutto, credo che tutti abbiate sentito del terremoto. Ora, io vivo in Campania, quindi non l'ho sentito, ma voi? Sono stata in pensiero. State tutti bene? Vi prego, ditemi di sì! Sono stata in ansia. Una preghiera per tutte le vittime del terremoto, questa tragedia mi strazia il cuore. :(
Dopo aver posto questa importantissima premessa, vi voglio dare una bella (credo) notizia: da un po' sto scrivendo una Modern AU di Phantom, ma non lunga come questa… É una long shot (si dice così?), cioè, molto long… Ma se mai la finirò e la pubblicherò qui, la dividerò in capitoli. Ovviamente ho già in mente il finale e più o meno il corso della storia, che è molto più leggera di questa e una sorta di… sua AU… Un po' complicato da spiegare. Le due fic non sono collegate, comunque. Ah, è raccontata dal punto di vista di Erik, e mi sono divertita moltissimo con quel matto. Tra l'altro, sono così fangirl da aver convinto una delle mie migliori amiche (anche lei amante della lettura) a leggersi il libro di Leroux. Il musical no, perché non le piacciono i musical – dice che l'annoiano, vabbè. Ognuno ha i suoi gusti. Per me è strano perché vivo di musical, quindi… XD Fra non molto anche lei leggerà la mia fic e sono molto soddisfatta di questo. Riuscirò nella mia missione di trasformarla in una fangirl sfegatata? Ci sono riuscita a metà con i miei fratelli minori (che adesso non ne possono più del Fantasma perché dicono che sono una pazza ossessionata, ma io non sono pazza, sono solamente… una povera fangirl. Mi capite, vero? Ditemi che mi capite).
Ora, tornando al capitolo… quando parlavo di una “trasformazione” di Meg, almeno parziale, intendevo proprio questo. L'ultimo paragrafo l'ho scritto prima di mettere giù la storia, perché già sapevo dove volevo, come si suol dire, andare a parare. Meg si sente attratta da Erik perché percepisce una sorprendente somiglianza tra loro due, malgrado le apparenze… E ora le somiglianze si fanno più evidenti. O almeno, così fa apparire il desiderio di vendetta di lei che, vi dico, sarà un punto chiave per la psicologia del personaggio. Volevo scrivere di un'anti–eroina fin dall'inizio, come Erik è un anti–villain. Per ora si tratta di una fantasia contorta in cui le piace crogiolarsi, ma secondo voi si attuerà mai? Sembra molto improbabile… Cosa farà? Lo scoprirete nel prossimo capitolo! *risata maniacale alla Erik perché sì, ogni tanto una degna scrittr… oddio, non mi definirei una scrittrice, anche se sarebbe il mio sogno diventarlo; diciamo scribacchina – comunque, dicevo, una degna scribacchina deve essere malefica e sadica coi suoi personaggi*
Vi amo tutti! E ora, le recensioni.

Malinconica: Cara, hai visto giusto, Erik deve proprio vedersela con qualcuno del suo passato. Il passato viene sempre a bussare alla porta, come si suol dire. Davvero non ti aspettavi la morte di Madame Giry? Beh, non ti do torto, era difficile da immaginare, anche perché è avvenuta così, senza preavviso. Sono contenta che tu mi abbia perdonata il ritardo della scorsa volta. Mi perdonerai anche adesso? Spero di sì. (sì sì sì sì ti prego perdonaaaaaami) :) Un bacio! <3

debbythebest: Non sei affatto una “povera scema”, io mi stavo commuovendo quando ho letto la tua recensione, specialmente la parte (e cito direttamente): “hai di certo un futuro [con la scrittura]”. Io amo scrivere più di qualsiasi altra cosa al mondo, e mi ci sono voluti anni per convincermi a pubblicare qualcosa di mio, ma alla fine per vostra grande gioia (XD) ci sono riuscita. Quindi eccomi qui. Adesso tutti i personaggi (Meg, Erik, Christine, il Persiano, Raoul, Madame Giry, ecc.) sono un po' come mie creature. Oddio, fa strano dirlo, ma li amo tanto. Grazie, Leroux, per averli inventati. Il merito va tutto a lui. Sapevi già che Azrael nel mondo islamico era l'Angelo della Morte, dunque? Io no, non prima di alcune ricerche per questa storia – sono un po' ignorante in religione. XD Comunque brava, quindi avevi già dedotto qualcosa. Adesso le cose saranno drammatiche, poi di nuovo felici (ma quando mai lo sono state? XD), poi SUPER drammatiche… Eh, basta spoiler. Spero che ti piaccia anche questo capitolo! Se non ti piace, non fa nulla, puoi anche scrivermelo in una recensione e mandarmi a quel paese. XD Un bacio. <3

bibliofila_mascherata: Eh sì, Erik è un personaggio poetico. Sono tanto innamorata di quel vecchio, orrido pazzo. Eeeeeh. *sospira* (Anche Meg lo è. O lo sarà. Però non glielo dire perché altrimenti picchia XD) Sai, questa estate, per il mio ventiduesimo compleanno e la tanto attesa Maturità, presa in ritardo ma comunque, sorvoliamo… Eh sì, dovevo andare a Londra con la mia famiglia. E secondo te cosa facevo a Londra, proprio l'esatto giorno del mio compleanno? Ma sì, vedevo il Fantasma dell'Opera a teatro! Ormai il musical lo conosco a memoria. E anche il libro. Penso che avrei pianto dalla gioia e saltellato per tutto il tempo nella poltrona, cantando nella mente le parole delle canzoni insieme agli attori. E invece alla fine non se n'è fatto più niente, causa problemi più grandi di me e dei miei genitori. Niente di grave, eh, e a Londra ci andremo sempre, un giorno, ma mi è dispiaciuto tanto. Ho comunque trascorso un bel compleanno, e ora che sono tornata dalle vacanze mi faccio risentire anche su EFP. ^^ Comunque sei troppo dolce a farmi questi complimenti, lo siete tutti. Non li merito, no! Ma sono felice lo stesso. Al prossimo chapter, cara! <3

P.S. Una curiosità: se mai facessero un film o una miniserie TV basata sul libro di Leroux e FEDELE a quest'ultimo (seh, è bello sognare), chi vorreste nella parte dei protagonisti? O meglio: quando leggete il libro e/o questa stupida fanfiction, chi immaginate a vestire i panni dei personaggi?
Per Erik ho qualche idea. Allora, visto che hanno tutti voci molto particolari, pensavo a:
1. Madds Mikkelsen.
2. Tom Hiddleston (che però ora è troppo giovane per la parte. Magari fra qualche anno?)
3. Benedict Cumberbatch.
4. Una volta avevano in progetto una miniserie TV, produzione francese, con Jeremy Irons. PERCHÉ NON L'HANNO FATTA PIÙ? Ecchecavolo.

Nel ruolo di Christine, o Léa Seydoux (che è pure francese. Beh, Christine è svedese) oppure Holliday Grainger. Molto simili a come immagino la dolcissima Daaé. Raoul… Aaron Taylor Johnson. Nel film Anna Karenina con Keira Knightley, era Raoul. Andate a dare un'occhiata, la somiglianza con la descrizione del libro è francamente impressionante.
Il Persiano… non lo so. Alexander Siddig? Oh, sì, potrebbe andare.
Madame Giry… Mi piacerebbe Maggie Smith, naturalmente. Quel tocco di classe british è inconfondibile. Sarebbe una favola averla nel cast.
E la mia Meg? Come la immaginate? Ricordate che deve essere piccola, magra, scura di pelle, non una bellezza ma comunque graziosa. (Beh, non tanto appena sveglia senza trucco. Insomma, si è capito, una persona normale. Non un'attrice di Hollywood.) Difficile, eh? Io immaginavo il suo volto come quello di Samantha Barks, che è una bravissima attrice di teatro che ha recitato nel ruolo di Éponine nel recente film tratto dal musical de Les Misérables. È molto bella e un po' troppo… formosa per Meg, e dovrebbe essere anche più scura di pelle anche se so che suo nonno aveva origini africane, ma qualcosa negli occhi… nelle fossette sulle guance… nei capelli… non so. Mi aveva attirato. Poi boh, Meg è difficile da immaginare.
Fatemi sapere le vostre idee! :)
   
 
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