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Autore: Relie Diadamat    06/09/2016    3 recensioni
Merlin, ventenne suonato, si ritrova costretto a lavorare al fianco del suo inseparabile Asino, nel bar aperto da quest'ultimo. Con loro c'è Freya, la dolce ed ingenua fidanzata di Merlin, che Arthur detesta.
Tutto cambia un giorno, quando il giovane Pendragon rivela ai suoi colleghi un cambio di programma.
*
[Dal Cap. 1]
«Non saremo i soli a gestire il bar.» continuò Arthur, serrando lievemente la mascella, evidentemente quella non era stata una scelta del tutto condivisa dal biondino «Mia sorella Morgana ed il suo fidanzato Mordred saranno dei nostri.»
Il cervello del corvino si resettò in un lampo.

*
[Cap. 6]
«Io non voglio condividere proprio niente con te, Aridian.» sibilò, serrando lo sguardo.
«Strano…» Unì tra loro le mani, aggrottando la fronte «La droga la dividevi volentieri.»

*
[Cap. 13]
«Quella stronzata che sono attratto dal tuo ragazzo. Come ti è venuta in mente una cosa simile?»
«Perché io ti ho visto, Arthur. Ho visto cosa diventano i tuoi occhi quando lo guardi».

*
[Cap 11]
«Io ti avrei amata per sempre».
*
*
[Freya/Merlin/Arthur] [Mordred/Morgana/Merlin] [Freya/Merlin/Morgana] [Merlin/Arthur/Mithian] [Elyan/Mithian/Arthur] [Kara/Mordred/Morgana] [Freya/Gwaine]
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Freya, Merlino, Morgana, Principe Artù | Coppie: Merlino/Artù, Merlino/Morgana
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Nda: Buon salve a tutti!
No, Relie non è impazzita: avevo già pubblicato il capitolo il giorno del mio compleanno (Domenica), ma poi ci sono stati dei problemi col sito e ho deciso di cancellarlo. Chiedo scusa a tutti i lettori.
Torno un po' a testa bassa, a dire il vero, perché questo ventunesimo capitolo è uno dei più lunghi che abbia mai scritto. Se finirete di leggerlo tutto, vorrà dire che la storia vi piace per davvero.
Purtroppo ho dovuto dividerlo per ovvi motivi e quindi uno degli spoiler dati in precedenza... non ci sarà. Mi spiace, dovrete pazientare ancora un po', ma in compenso posso assicurare ai fan del Merthur che questo capitolo sarà di loro gradimento!
Tengo molto a ringraziare tutte le persone che hanno aggiunto la storia nelle categorie preferite/ricordate/seguite. Ringrazio coloro che leggono in silenzio e tutti gli utenti che mi lasciano le loro stupende recensioni, in particolare CelticaLittleGinGin Claudia H Shady che hanno recensito lo scorso capitolo. Grazie mille!
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento, aspetto i vostri pareri.
Buona, spero, lettura!
 


XXI. Un sogno d’oro in frantumi
Soundtrack: Closer
                               Give me love
 
Dammi amore come mai prima d’ora,
perché ultimamente ne ho un bisogno disperato.
Ed è passato un po’,
ma i miei sentimenti sono rimasti gli stessi.
[…] No, voglio solo stringerti.
- Ed Sheeran, Give me Love
 
 
 



Ci sono molte cose che un figlio pretende dai propri genitori: il desiderio che quegli umani siano perfetti in tutto, ma non tanto da far gravare sulle sue spalle la responsabilità di eguagliarli; pensa a loro come a macchine esemplari provviste di sentimenti – ma incapaci di ferirsi. Un figlio vuole supereroi all’azione, in grado di combattere tutte le battaglie al suo fianco.
Arthur, d’altra parte, aveva sempre creduto e rispettato suo padre più di chiunque altro. Si era fatto abbindolare da ogni sua parola, obbidendo a ogni singola raccomandazione. Uther non gli aveva mai dedicato una carezza sincera o un semplice complimento che facesse intendere quanto fosse orgoglioso di lui. Sono fiero di te.
Arthur avrebbe dato qualsiasi cosa per sentirselo dire. L’approvazione di suo padre – in qualche modo – era l’unica via che il Pendragon conosceva per ricevere un suo sorriso di soddisfazione, e forse affetto.
“Un Pendragon non mangia tanta cioccolata”, gli borbottava seduto sulla sua poltrona, sfogliando un giornale, mentre bambini travestiti da zombie e mummie scorrazzavano per le strade di Londra elemosinando dolcetti. “Un Pendragon non mendica né implora niente a nessuno”.
“Un Pendragon non mostra mai le sue mutande alla gente”, era stata la frase che Uther aveva ripetuto per quattro mesi interi, ogni volta che per strada incontrava un ragazzo che indossava pantaloni dalla vita bassa.
Persino quando una volta a pranzo, seduti tutte e tre a tavola, Arthur aveva fatto accenno al suo compagno della squadra di football che aveva deciso di guadagnarsi da vivere con la musica, suo padre aveva storto la bocca liquidando in fretta la questione: “Un Pendragon non perde tempo dietro a tali sciocchezze.”
Arthur col tempo perse l’abitudine di raccontargli le cose, informarlo di come andasse la sua vita e quali erano gli amici che frequentava. Si limitava a concedergli le informazioni basilari, senza mai scendere nei dettagli… tranne che la volta in cui – a denti stretti – era stato costretto a rivelare al padre il tradimento di Ginevra. Per qualche assurda ragione, Uther non si era mai dimenticato dal suo amico Lancelot e, mettendo alle strette suo figlio, era riuscito a fargli vuotare il sacco.
“Un Pendragon non conosce il disonore”, gli disse senza la minima empatia, quasi fosse stata colpa sua. Quasi ne fosse deluso.
Arthur ne soffriva ogni volta, sentendosi irrimediabilmente colpevole. Stringeva i pugni e ingoiava la mortificazione, promettendo col capo chino di fare meglio – talvolta senza neanche dirlo.
Sua sorella, di contro, disobbediva ad Uther tutte le volte che ne aveva l’occasione. Aveva preso a pugni un ragazzo più grande solo perché ricco – esattamente come lei – e per la sigaretta che le aveva rifiutato, dopo essersi offerto di donarle ben altro. Uther si era detto mortificato col preside, non riuscendo tuttavia a passare dai genitori di Ethan. Irritato dalla situazione, aveva costretto Morgana ad un weekend rinchiusa in casa.
La ragazza gli aveva ringhiato contro e poi era corsa nella sua camera, sbattendo la porta con stizza. A notte fonda, Morgana aveva chiamato suo fratello per riportarla a casa, troppo sbronza per poterci tornare da sola.
Ma quella non fu l’unica emergenza alla quale Arthur accorse.
Pur d’indispettire il padre, Morgana cominciò una relazione senza impegno con Gwaine – uno dei compagni di squadra del fratello -, non perdendo modo di rinfacciarlo al padre, anche quando scoprì che l’attraente moro era più grande di quanto pensasse.
Arthur non aveva mai capito se Morgana facesse quelle cose solo per attirare su di sé l’attenzione di Uther o se, semplicemente, desiderasse farle davvero.
A differenza di sua sorella, il Pendragon non aveva mai tollerato quel suo comportamento – affezzionato com’era al padre -, vacillando anche dinanzi alla prova schiacciante che Morgana gli aveva sventolato sotto al naso un giovedì pomeriggio: una semplice lettera, dove una certa Vivienne affermava di avere una figlia – Morgause – e che Uther ne fosse il padre.
All’inizio aveva riposto tutta la sua fiducia in Morgana, assecondandola nel suo piano di smascherare il vecchio e fedifrago Uther, ma una volta ritrovatosi faccia a faccia con suo padre che lo guardava amareggiato e deluso per aver solo pensato che fosse stato capace di tradire Igraine, Arthur si era sentito morire.
Forse lui e Morgana non combattevano lo stesso nemico.
Adesso, seduto sulla fermata del bus, Arthur guardò da dietro i suoi capelli biondi il viso gentile e raso di Lancelot, che intanto se ne stava dall’altra parte della strada, passeggiando col suo cane.
 
 

Londra, autunno 2012
 
«Abbassa quella pistola, Merlin. Sei ridicolo».
La voce arrogante di Arthur arrivò alle orecchie del corvino prima ancora che potesse prendere la mira e provare per l’ultima volta a colpire una lattina; Merlin sorrise impacciato, seguendo il consiglio dell’Asino, portandosi immediato le mani nelle tasche del suo giubotto. «Sparare non è il mio forte» gli concesse, allontanandosi dalla bancarella del tiro a segno.
«Non solo quello, Merlin.» Arthur alzò un braccio verso di lui, scarmigliandogli i capelli neri con poca grazia. «Non solo quello».
Gwen, accanto a lui, sorrideva con le guance arrossate dal freddo.  Merlin non poté far a meno di notare che Arthur non le aveva staccato gli occhi di dosso se non in rare occasioni. Lancelot, invece, cercava sempre di guardare altrove.
«Si è fatto tardi.» Lancelot finse di dare una rapida occhiata al suo orologio da polso, sollevando le labbra in un breve sorriso. «Direi che è meglio se vada».
«Non se ne parla affatto!» aveva obiettato a quel punto Gwaine poggiandogli un braccio sulle spalle, indicando l’orizzonte con la sua bottiglia di birra. «La serata non è ancora finita: qui fuori è pieno di romantiche ragazze in cerca d’amore e cornetti caldi da pappare. Non puoi andare via!»
«Mai possibile che tu pensi sempre a mangiare, Gwaine?»
Ginevra, stretta al braccio di Arthur, aveva aggrottato la fronte divertita.
«Non mi nego i semplici piaceri della vita!» Gwaine sollevò la sua birra verso la ragazza, ma il piano del moro non servì a convincere né la mulatta né tantomeno Lancelot, che si defilò dal gruppo salutando gli amici con leggere pacche sulle spalle e cenni della mano.
Gwaine aveva speso qualche minuto per lagnarsi di quanto fosse noiosa la vita di un single che non amava mettersi in gioco – che nel vocabolario del giovane significava: niente spalla -; Arthur e Gwen avanzarono verso un’altra attrazione del Luna Park, così giovani e innamorati. Merlin, rimasto volontariamente qualche passo indientro rispetto alla comitiva, nascose un sorriso dietro la sciarpa rossa che aveva al collo, riparandosi dal freddo di quella sera. Perse tempo ad immaginarsi in un bel letto caldo o in una vasca piena e accogliente… magari con qualcuno in particolare, quando si sentì strattonare per il gomito.
«Dove credi di andare?»
A Merlin bastò voltare il capo per incontrare delle deliziose labbra rosse e uno sguardo furbo illuminato dalle luci dei lampioni. Morgana era lì, ad un passo da lui, bella come sempre. «Non mi freghi, Emrys».
Il corvino accennò ad una risata perplesso, ricordando l’ultima volta che Morgana lo avesse fermato in quel modo: aveva messo su un broncio adorabile, gli occhi verdi che lo trafiggevano come lame mentre gli rimproverava di aver ricambiato il sorriso di Sefa – una ragazza che frequentava gli stessi corsi di Merlin. “Quella gatta morta ti fa le fusa!” aveva brontolato, fingendo di ignorarlo.
Tutti a scuola sapevano della cotta della timida e riservata Sefa Thompson per lo sbadato e maldestro Merlin Emrys. Tutti, fuorché Merlin.
Quella sera, però, dipinto sul volto diafano della corvina vi era un ghigno che il giovane Emrys conosceva bene. Lo stesso ghigno che gli procurava brividi lungo la schiena.
Morgana si avvicinò al tizio grassoccio del tiro a segno, pagando una nuova serie di tiri, intimando il ragazzo a raggiungerla. Quando le fu vicino, lei gli porse la pistola giocattolo. «Non sono Arthur, capisco quando menti. So perfettamente che sei meno idiota di quel che vuoi far credere alla gente, e poi voglio quel draghetto bianco.» Morgana gli indicò un pupazzetto grande quanto un gatto adulto che spuntava tra tigri, stelle e orsetti di peluche ai lati del bancone, e Merlin poté giurare di aver visto i suoi occhi illuminarsi come quelli di una bambina.
Era patetico, ma una piccola parte di lui sapeva che avrebbe sempre capitolato ad ogni sua parola, ad ogni suo desiderio detto o colto tra le pieghe del suo volto. Un piccolo pezzetto di lui, era cosciente che Morgana sarebbe sempre stata la sua caduta di potere e anche il miglior modo di sbagliare di tutta la sua vita. Prese l’arma tra le mani, guardandola di sottecchi. «Non le assicuro niente, My Lady».
Quando raggiunsero gli altri, che nemmeno si erano accorti della loro assenza, Merlin teneva nascosta una mano dietro la schiena intrecciata tra le dita snelle e gelide della corvina. Nell’altra mano, Morgana reggeva un draghetto bianco di peluche.
 
 

*
 
 
Si rigirò nel letto avvertendo un caldo fastidioso sulla pelle e del sudore imperlargli la fronte, che nascose contro il cuscino bianco prima che anch’esso diventasse insopportabilmente soffocante. Si girò di schiena, liberando parte del suo corpo dal lenzuolo bianco, mentre i raggi di sole che filtravano dalla finestra gl’infastidivano gli occhi. Li strizzò per un po’, facendosi schermo col braccio finché non fu costretto a riaprirli.
Una volta messa a fuoco la stanza in cui si ritrovava, si meravigliò nel vedere le imposte della finestra spalancate, intanto che il sole illuminava l’altra parte vuota e disfatta del letto. Represse uno sbadiglio e poi si massaggiò le palpebre con l’indice e il pollice.
In poco tempo, l’odore del caffè appena fatto arrivò al suo naso, riempendo l’intera stanza del suo aroma; Merlin s’irrigidì di colpo, lo sguardo fisso nel vuoto come chi ha appena realizzato una verità sconcertante. Oh mamma!
Udì dei passi in cucina e si affrettò ad agguantare il suo cellulare e premere il tasto centrale. Saltò giù dal letto in un nanosecondo dopo aver visto l’orario, gridando: «Perché non mi hai svegliato?!»
La chioma castana di Freya spuntò sull’uscio della porta insieme a due occhi di terra umida, una maglietta a maniche corte, pantaloni a sigaretta beige e una tazza di caffè tra le mani. «Ieri sera avevi detto che non saresti andato al bar, di mattina.» Bevve un sorso, osservando il corvino raccattare i primi vestiti sott’occhio, sfilandosi il pigiama da dosso. «Mi hai anche detto più volte di non dimenticarmi di andarci al posto tuo, altrimenti-»
«Arthur mi ucciderà!»
«Esatto».
«No, intendo dire che Arthur mi ucciderà!» Indossò frettoloso i suoi jeans, alzando la zip con un gesto secco. Oh, Arthur mi affogherà con le sue stesse mani!, e a quel pensiero Merlin si bloccò come paralizzato. «Il costume…»
«Il costume?» Freya aggrottò le sopracciglia confusa, chiedendosi a quel punto quali fossero mai i grandi impegni che costringessero Merlin e Arthur lontani dal Pendragon’s. Scacciò il pensiero di un Arthur caduto accidentalmente su Merlin, mentre con un sorriso malizioso lo teneva premuto contro i ciottoli di una paradisiaca spiaggia di Brighton, lasciando avvicinare piano le sue labbra rosse e carnose ad un soffio dalla bocca in attesa di Merlin e… Perché cavolo pensava a quelle cose?! Scosse impercettibilmente la testa, prima di chiedere: «A cosa ti serve un costume?»
«Te l’ho detto ieri sera, prima che tu ricadessi in un coma profondo», le fece nota Merlin, aprendo le ante di tutti gli armadi presenti in quella stanza, ficcandoci la testa dentro e scavare con le mani tra i vestiti, sperando di trovarvi un costume. Anche se continuava a punzecchiare l’Asino su quanto fosse disordinato, Merlin dovette ammettere che non poteva permetterselo dato che l’unico motivo per cui quell’appartamento era ancora in piedi era Freya. Sa riordinare una casa intera come per magia, ma non riesce a svegliarmi quando glielo chiedo.
«Veramente, mi hai detto soltanto che tu non saresti andato al bar e che avrei dovuto sostituirti sott’ordine di Arthur».
«No, Freya», Merlin scosse il capo, accennando ad una risata nervosa. «Ti ho anche detto che Arthur aveva bisogno di me per l’idroterapia e che io lo avrei accompagnato».
«Non me l’avevi detto».
«Sì, invece».
«Ti dico di no».
«Ti dico di sì».
«Dannazione Merlin, non me l’hai detto!» sbottò, allargando le braccia, sentendosi stupida e vulnerabile. Era stanca d’interpretare il ruolo dell’animale ferito, della ragazza rifiutata dal mondo che elemosina l’amore di un tipo perbene. Era stufa della Freya messa da parte da Merlin, esausta di essere sempre la persona sbagliata. «Tu non mi dici mai niente».
Gli faceva male ferirla e l’aveva ferita anche quella volta.
Freya non aveva colpe, gran parte del fallimento totale della sua vita era dovuto alle sue scelte. Probabilmente quella sera non le aveva detto niente su Arthur e l’idroterapia, ancora intontito dalla notizia che Gwen gli aveva dato riguardo Morgana.
Eppure non aveva esistato a puntarle un dito contro, a deluderla come sempre.
Freya era lì, sull’uscio della camera che condividevano da ormai diversi mesi, i capelli un po’ mossi e ancora umidi per via della doccia di qualche mezz’ora prima, e Merlin non sapeva fare altro che guardarla colpevole. Si chiese dove fossero finiti i ragazzi di un tempo, quelli che riuscivano ad essere felici senza parlarsi e che si accontentavano di fragole e Nutella come cena.
Merlin si chiese dove fosse finita quella sensazione stupenda alla bocca dello stomaco quando l’aveva vista per la prima volta, quando l’aveva presa per mano e le aveva regalato una rosa convinto che niente era più bello di un suo sorriso.
Dov’era finita la magia che si creava quando le loro labbra si sfioravano?
Per un istante, Merlin si chiese se avesse mai provato per davvero tutte quelle cose per la ragazza a cui aveva spezzato di nuovo il cuore.
In un attimo che gli parve durare più di quanto un attimo significasse, il corvino schiuse la bocca per chiederle scusa, per chiederle di dimenticare quanto detto e per darsi dell’idiota da solo – perché Arthur non aveva affatto torto quando lo chiamava così. Ma Merlin e Freya non riuscivano più nemmeno a restare nello stesso quadro senza sembrare indatti; la ragazza abbassò i suoi occhi scuri, arricciando la bocca verso destra. «È sepolto tra le sciarpe e le muffole. Non ho mai capito perché».
Si portò il bicchiere di caffè alle labbra senza berne nemmeno un sorso, poi riabbassò il braccio e si apprestò ad uscire di casa per raggiungere il bar.
Un altro errore.
In un secondo la schiena di Merlin si ritrovò contro il materasso, le gambe a penzoloni ai margini del letto e lo stomaco più vuoto di quanto già non fosse; il sospiro pesante che fuoriuscì dalle sue labbra gli ricordò il fischio di un treno arrivato alla stazione, quello dell’ultima fermata. Quello che ascolti quando il viaggio è volto al termine e non te ne rimane che il ricordo.
Il fischio che risucchia tutta l’adrenalina.
 
 
 
 
 

Se c’era una cosa che Arthur odiava più delle cene in famiglia, era aspettare – escludendo dall’elenco il Chelsea e, dopo un mese infernale poteva dirlo con certezza, una gamba ingessata.
Il biondino scoccò un’occhiata al cellulare, la trentaseisima volta durante quella mezz’ora passata accanto alla fermata di un bus, espirando innervosito aria dal naso.
Quell’idiota di Merlin, lamentò nella sua testa. Quando serve non c’è mai.
Arthur aveva provato ad ingannare il tempo nel miglior modo che conoscesse: perse due volte di seguito a gare di quiz online, lesse gli ultimi articoli del mese sul calciomercato e ricontrollò per puntiglio i messaggi inviati a quell’imbranato di Merlin.
Sbuffò, facendo su e giù per il marciapiede, portandosi le mani nelle tasche dei pantaloni per evitare un uomo travestito da enorme hot dog con più di venti volantini, sorridente e pressante al limite della sopportazione. Cavoli, certe cose si sopportano solo a Natale!
Non era la prima volta che Merlin ritardasse tanto da fargli pensare che aspettare una tizia sotto casa fosse più divertente. Quando entrambi frequentavano il liceo, spesso Arthur era costretto a battere forte i pugni contro il garage del vecchio Gaius per destare quell’imbranato e vederlo comparire qualche minuto più tardi con gli occhi ancora socchiusi dal sonno, una maglia al contrario e i lacci delle scarpe sciolti. Una volta aveva persino cercato di difendersi, accigliando a malapena lo sguardo, chiarendo con la voce ancora impastata di sonno: «Arthur, non c’è motivo di essere così sgraziato. Mi sono appena dormito dal letto… ehm, lettato dal sonno. Cioè… Buongiorno».
Arthur gli aveva risposto con uno scappellotto sulla nuca.
Una sera gli aveva persino dato buca durante la partita, lasciandolo solo sul divanetto scomodo di un pub insieme a Gwaine – capace di ciarlare più di una ragazzina pettegola -, avvisandolo solo dopo un’ora tramite messaggio.
Nell’inverno di tre anni fa si era persino assentato per una settimana; non aveva risposto alle sue chiamate e a niente erano serviti gli appostamenti sotto casa del vecchio. Merlin lo aveva informato dopo qualche giorno, sempre tramite sms, di avere la febbre molto alta e di essere ipercontagioso.
C’era stato un periodo in cui Merlin aveva ritardato ad ogni partita di calcetto… poi si era messo con Freya e aveva cominciato a tardare anche al bar. C’era stata la sparatoria, mentre lui lo attendeva a casa della sua fidanzata in compagnia di Tristano e Isotta.
Merlin sapeva come farlo restare sulla soglia di un rasoio, ma tornava sempre.
Si bloccò fulmineo.
Ne aveva abbastanza di quei continui ritardi e ad onor del vero non sapeva più cos’altro inventarsi per rendere l’attesa meno snervante. Sicuramente avrebbe architettato un modo per fargliela pagare, una punizione esemplare che gli ricordasse quanto fosse sbagliato e di cattivo gusto costringere una persona a sopportare lunghissimi ritardi.
Alzò lo sguardo fiero - come un Pendragon che si rispetti -, alcune ciocche bionde a sfiorargli la fronte. Merlin aveva intenzione di farsi attendere anche quel giorno? Beh, Arthur non lo avrebbe di certo accontentato! Si sarebbe diretto da solo al centro medico, magari mandandolo a quel paese con un autoscatto prima dell’inizio della terapia… Ma forse non ce ne sarebbe stato alcun bisogno: Merlin lo avrebbe raggiunto comunque, era quello che faceva sempre. Si sarebbe goduto il piacere di picchiarlo con le sue stesse mani.
Avanzò qualche passo verso le strisce pedonali pregustandosi la scena e per un qualche motivo sconosciuto il suo ghigno soddisfatto sfumò nel nulla.
C’era un lato di lui che rimaneva ancorato alle parole dette da Isotta e da Parsifal, un lato che si sentiva sopraffatto dai sentimenti che provava per Merlin – reali o non che fossero – tanto d’avvertire la sua assenza come un difetto da correggere.
C’era un lato di lui che non avrebbe mai saputo ignorare il modo in cui la vicinanza di Merlin lo completasse. Un lato che non si vergognava per quel che sentiva, seppur insensato che fosse.
Quando i suoi occhi scattarono verso destra, il suono del clacson che gli fracassava il cranio e rendeva le sue gambe di cemento, Arthur riuscì appena ad intravedere il volto dell’uomo alla guida dell’auto nera.
Non ci fu il tempo per pensare a nient’altro.
 

 
Scese le rampe di scale in tutta fretta, senza neanche farci caso. I suoi passi rimbombavano in tutto il palazzo.
Quando si è di corsa, certe cose non si notano nemmeno: le orecchie diventano sorde a causa dell’ansia, le gambe si muovono ancora prima che il cervello registri il movimento. Quando si è in ritardo nasce l’emergenza, l’emergenza determina una situazione di pericolo.
La prima volta che Merlin aveva sceso i gradini di un appartamento così di fretta era stato anni addietro, con la schiena di suo zio davanti agli occhi, la mano sudata di Agravaine arpionata al suo avambraccio e l’alito fetido di Helios che penetrava nelle narici fino a nausearlo.
Se si inciampa sui gradini sbattendo la faccia da qualche parte, il sapore che si espande nella bocca somiglia a ruggine incolore sparsa nel palato. Merlin l’aveva assaporata col braccio a penzoloni tra le scale, il corpo meno agile di Agravaine ruzzolato giù con lui.
Aridian si era fatto vicino, afferrando Merlin per la giacca. Sotto il cappotto dello zio, il corvino poteva facilmente intravedere il manico della pistola.
Aveva sibilato qualcosa a denti stretti, strattonandolo via da lì.
Questa volta, Merlin rischiò di incespicare sull’ultimo gradino, poggiando il piede sul bordo. Con la schiena ricurva verso il basso avanzò traballante, tentando di ritrovare l’equilibrio momentaneamente perso.
Non cadde.
Tirò un lungo sospiro di sollievo, sorridendo impacciato alla volta di Pernilla – la donna con i capelli abitualmente raccolti in una cipolla castana e unta, due piccole fessure scure al posto degli occhi che lo guardavano puntualmente in cagnesco… che, purtroppo per il ragazzo, era anche la sua vicina.
Cuoca in un ristorante rinomato del quartiere, il giovane Emrys si era presentato alla sua porta con un viso d’angelo e un mazzo di fiori appena comperato – il povero Merlin non sapeva proprio cos’altro regalare in segno di cortesia ad una vicina/cuoca -, chiedendole scusa per il disturbo e pregandola d’insegnargli a preparare un Tiramisù.  Giusto la sera prima aveva scoperto che Morgana ne andava pazza e il corvino si era ripromesso di preparargliene uno così buono da conquistare il cuore della Pendragon per sempre.
Pernilla aveva accartocciato le sue spigolose e sottili labbra in una smorfia che seppe mettere i brividi al giovane Emrys, borbottando un’offesa verso i poveri girasoli che Merlin le porgeva speranzoso – davvero, non sapeva cos’altro portarle.
Dopo un quarto d’ora speso a supplicarla – arrivando persino a mostrarle un pietoso labbruccio come asso nella manica -, Pernilla sembrò pensarci su e, seppur riluttante, la donna concesse di aiutarlo – a patto che lui avesse badato al suo piccolo e adorato Petyr i pomeriggi in cui era via per lavoro.
Merlin, entusiasta all’idea di una Morgana che mugugnava di piacere tra una cucchiaiata e l’altra di dolce ripetendogli quanto lo amasse, accettò senza pensarci due volte.
Il peggio arrivò in un pomeriggio di Novembre, quando esausto dallo studio Merlin si era lasciato cullare dalle mani fresche e morbide di Morgana che gli scostavano i capelli dalla fronte. Gli disse di non preoccuparsi e di riposare e che al piccolo PetePete – così chiamava quel Chihuahua dal manto beige e gli occhi furbi e ingannatori, diventando spaventosamente smielata e amorevole come non lo era mai stata con lui - avrebbe pensato lei. Morgana amava i cani, ma Uther non le aveva mai permesso di tenerne uno.
Merlin aveva accettato di buon grado il suo aiuto, sprofondando in un sonno profondo. Qualche minuto dopo, Morgana lo buttò giù dal divano terrorizzata, con le lacrime agli occhi,  farfugliando e urlando allo stesso tempo che PetePete si era sentito male.
Per fortuna il veterinario li rincuorò che fortunatamente il Chihuahua non avrebbe rischiato la vita, ma che un altro pezzetto di cioccolato gli sarebbe stato fatale.
Da quel giorno Pernilla non gli rivolse più la parola… e Morgana rivalutò l’idea d’invadere casa con mille trovatelli come da anni fantasticava con Gwen.
Merlin incassò in silenzio lo sguardo gelido della cuoca mentre chiamava l’ascensore, passandogli davanti.
Il corvino continuò a sorridere di circostanza, apprestandosi verso il portone… e fu sicuro di aver udito un ringhio provenire dalla borsa dalla donna.
Uscì dall’appartamento incamerando aria fresca nei polmoni.
Adesso che ci ripensava, da quando Arthur era entrato a far parte della sua vita, erano state sempre meno le volte in cui era caduto.
Merda.
Il giovane Emrys scattò come una furia in direzione della fermata del bus, perché se quel malefico Petyr non l’aveva già sbranato, Arthur non si sarebbe posto alcun problema di farlo al posto suo.
 

 
Londra, inverno 2011
 
 
Si era raccolta i capelli corvini, quella sera.
Si stringeva infreddolita nel suo cappotto viola, il naso probabilmente arrossato per via del freddo. Lei e Gwaine se ne stavano appoggiati con la schiena contro la ringhiera del piccolo parco dall’altra parte della strada rispetto al Fish&Chips da dov’erano appena usciti, in mano due panini grondanti di salse.
Morgana guardò di sottecchi il moro mentre scartava una patatina dal panino e poi trangugiarla in un sol boccone. Non le sarebbe affatto dispiaciuto se le avesse offerto anche il suo giubbotto.
«Questo cosa significa?»
Gwaine si leccò i baffi come un gatto goloso e due dita sporche di ketchup, addentando nuovamente il panino con così tanto appetito da macchiarsi il giubbotto con gocce di salsa. «Che sposerei questo panino, se non fossi già innamorato della torta di mele di mia madre».
«Dico sul serio, Gwaine».
Il ragazzo si voltò a guardarla, la mascella ricoperta da un generoso strato di barba che andava su e giù, l’angolo destro della bocca sporco. «Pensavo avessi fame».
«Infatti è così».
«Dov’è il problema, allora?»
Morgana lo guardò di traverso. Andava a letto con Gwaine da un arco di tempo sufficiente per capire dove fosse il problema: la loro non era una vera e propria relazione, almeno non come la gente pensava. Lei e Gwaine non condividevano niente oltre amplessi passionali, baci necessari per staccare la spina e qualche boccone.
Entrambi avevano chiarito le cose fin dal primo giorno, dalle prime effusioni che si erano scambiati con urgenza; sia Morgana che Gwaine avevano bisogno di sconnettersi dal mondo, smetterla di pensare. Sfogarsi.
E funzionava alla grande, perché tutti e due volevano le stesse cose… almeno così era sembrato alla ragazza. Erano settimane che Gwaine si comportava in modo strano: chiacchiere superflue dopo il sesso, una carezza di troppo quando erano in compagnia… e poi vere e proprie uscite, come quella.
Una cosa su Gwaine l’aveva capita, dopo tutto quel tempo: se il moro condivideva del cibo e tentava di vere insieme ad una ragazza un caffè, faceva sul serio.
Gwaine alzò le spalle. «Non vedo dove sia il problema. Stiamo bene insieme e abbiamo molte cose in comune».
«È ridicolo, Gwaine.» Morgana lo aggredì come se le avesse chiesto di puntare un’arma contro un cucciolo indifeso. «Perché voi uomini volete sempre rovinare tutto?»
Il pomo d’Adamo andò su e giù, e Morgana non ebbe bisogno d’incrociare i suoi occhi per comprendere quanto Gwaine si sentisse ferito. «Non sono buono solo per il sesso, sai?»
Morgana lottò con tutte le sue forze per non mordersi il labbro, ne andava del suo orgoglio… e quello era un gesto di debolezza.
Già, debolezza. Proprio come i sentimenti.
Inspirò preparandosi alla parte più difficile. In fondo Gwaine l’aveva saziata quando ne aveva sentito il bisogno, gli doveva almeno quel piccolo gesto di cortesia: «Gwaine tu sei un ragazzo fantastico – soprattutto a letto -, ma io non sono quella persona».
«Io credo che tu abbia solo paura di esserlo».
Sorrideva, adesso, l’idiota.
«Che intendi dire?» sputò fuori, infastidita da quelle stupide insinuazioni.
«Non sei la mia prima, signorina Pendragon. Certe cose si avvertono, si riconoscono a pelle».
Morgana crucciò le sopracciglia corvine. «Di cosa stai parlando?»
«Di te. L’umore incostante, poco appetito… i tuoi occhi sono diventati dei fanali, Pendragon! Non sei tu a “non essere quella persona”, sono io a non essere quel ragazzo».
Morgana schiuse la bocca per dire qualcosa ma non fiatò. Gwaine aveva colto nel segno, l’aveva scoperta con le mani nel sacco… Si era accorto di tutto.
Il moro sorrise dell’espressione trafilata della Pendragon. «Ho fatto centro, a quanto pare».
«Tutte stronzate».
«Non lasciarti frenare dalla paura, Pendragon… E poi, se dovesse andare male, sai già chi ti leccherà le ferite».
Nel veder danzare le sopracciglia del moro in modo allusivo, Morgana lo spintonò con la mano dandogli del deficiente… eppure era stato uno dei pochi a vedere ciò che tentava di nascondere da un bel pezzo, persino a se stessa. E mentre la convinzione di amare Merlin si faceva spazio nel suo cuore scaldandole l’interno, Morgana parve leggere nelle iridi castane dell’altro in cui si rifletteva la luce dei lampioni, il desiderio di trovare qualcuno che gli facesse provare le stesse cose.
La persona giusta.
 
 
 *

 
«Mi hai salvato la vita».
Era la seconda volta che lo ripeteva, ma quella suonava più come un lamento che come un ringraziamento.
Mordred finse di non farci caso, sorridendo sghembo mentre il medico si allontanava. La piscina era a pochi passi da loro e Arthur aveva messo su una faccia schifata nel ricordare ciò ch’era successo molto tempo prima alla fermata del bus: Mordred, che si era trovato a passare di lì dopo aver deciso di allungarsi volontariamente la strada per il bar, lo aveva raggiunto di corsa e strattonato per un braccio, impedendo a quell’imbecille di farsi investire.
Quando si era proposto di accompagnarlo e  stargli vicino durante l’idroterapia, Arthur non aveva battuto ciglio e aveva accettato il suo aiuto.
Bastò un breve elenco degli esercizi che avrebbe dovuto eseguire e dopo aver rifiutato testardamente l’aiuto del medico e aver visto Mordred insistere per assisterlo, assicurando l’infermiere di saper gestire la situazione, per far cambiare idea al biondo circa la compagnia di Mordred.
Il parigino non se ne curò. «Non è così male come sembra. Dopo la prima settimana, mio zio non vedeva l’ora di tornarci».
Arthur storse la bocca.
Essere lì insieme a Mordred non era di certo uno dei suoi sogni rinchiusi nel cassetto, ma d’altro canto era solo grazie a lui se ora poteva lagnarsi di quell’imprevisto.
Mordred non gli era mai piaciuto, ma dopo quei due mesi, si era abituato alla sua presenza… e poi gli aveva salvato la vita, un minimo di riconoscenza gliela doveva. Tutta colpa di Merlin.
Appena avuto tra le mani, quell’idiota avrebbe maledetto il giorno della sua nascita.
«Non sapevo avessi uno zio».
«Ci sono molte cose che non sai di me.» Senza preavviso, Mordred si sfilò la maglia bianca da dosso, lasciando in bella mostra l’addome chiaro e più maturo del suo. «Avrai modo di scoprirle».
Nessun effetto.
Mentre guardava il petto nudo del francese, era questo che pensava: non gli faceva alcun effetto.
Era dal giorno in cui aveva temuto di perdere per sempre Merlin che si era interrogato sui suoi sentimenti: se provava davvero qualcosa per il corvino come si era convinto, avrebbe provato le stesse cose anche per altri uomini?
Se dinanzi a lui ci fosse stata la bella dottoressa Princess col seno scoperto, avrebbe avuto anche qualcosa da nascondere imbarazzato… e invece non era successo niente.
Arthur si chiese se le cose fossero state diverse con Merlin, senza una maglia a coprirgli la pelle pallida del petto, al posto di Mordred.
Arrossì a quel pensiero e scostò repentino lo sguardo dal francese che ormai era bello che pronto in costume, voltandogli le spalle; si avvicinò alla piscina, afferrando l’asta di metallo.
Forse, rimanere nel dubbio era solo un bene.
Mosse un piede sicuro, certo della presenza di Mordred al suo fianco, intenzionato a scendere le scale che lo avrebbero condotto nella vasca quando…
«Cosa significa tutto questo?!»
Gli sguardi sbigottiti di Mordred e Arthur si posarono all’unisono sulla figura ansimante e sudata di un Merlin seguito da un’infermiera preoccupata – ci mancava soltanto che chiamasse la sicurezza! -, la maglia sgualcita dalla corsa che si abbassava e si alzava a ritmo col petto.
«Merlin?!»
Arthur ancora aggrappato all’asta d’acciaio, lo squadrava incredulo, la stessa espressione che avrebbe usato se qualcuno gli avesse detto che il Chelsea avrebbe vinto il Campionato.
Solo quando il corvino avanzò nella loro direzione immusonito, l’Asino si accorse che tutta l’irritazione del giovane era rivolta a Mordred.
Incrociò le braccia, Merlin, indispettito. «Credevo volessi la mia, di compagnia!»
Che faccia tosta che aveva quell’imbecille! Prima lo faceva penare per una buona mezz’ora alla fermata del bus e poi aveva pure il coraggio di mostrarsi infastidito per essere stato rimpiazzato!
Incredibile.
«La prossima volta impari» gli disse semplicemente Arthur. «Certo, Mordred ha fatto un po’ tardi per trovare un costume, ma intanto non mi ha lasciato ad aspettare sulla fermata del bus!»
Non che ne avesse tutta quella voglia, ma se serviva a rinfacciare qualcosa a Merlin, Arthur avrebbe lodato Mordred tutte le volte che l’avesse ritenuto necessario.
Credeva che quell’idiota di Merlin avesse colto l’antifona e invece – con suo grande stupore – la fronte del corvino si aggrottò vistosamente. «Io ho fatto tardi!» precisò offeso, puntandosi una mano al petto.
«Esatto, Merlin!» Arthur allargò le braccia per la disperazione, rischiando di rovinare a pancia in acqua se non fosse stato per i riflessi scaltri di Mordred che seppe afferrarlo con rapidità – e per un attimo Arthur s’immaginò Merlin infervorarsi ancor di più, stringendo simultaneamente i denti all’idea di dover essere in debito con Mordred per la seconda volta.
Quella mattina, però, il ventenne aveva proprio deciso di farlo diventare matto: distese la fronte, abbandonando l’aria crucciata per far spazio ad una completa faccia da ebete.
«Ma… se io e te siamo qui, e anche Mordred non è al bar… Chi c’è al Pendragon’s oltre Freya?»
Arthur rimase impalato sul posto, labbra schiuse pronte a proferire una risposta che gli costava più del suo stesso guardaroba.
Cosa gli era saltato in mente, poi, non sapeva spiegarselo.
 



«Birra ghiacciata!»
«B-Birra ghiacciata».
Nell’esatto momento in cui Gwen fece il suo ingresso al Pendragon’s – pregata gentilmente da un Arthur piuttosto preoccupato di tenere la situazione sotto controllo finché Mordred non sarebbe arrivato – vi trovò di tutto.
Gwaine, munito di un sorriso smagliante, tentava di fare colpo su alcune clienti senza scrivere neanche mezza riga sul blocchetto che aveva tra le mani, più in là Freya era vittima di un andirivieni costante con… tanti vassoi mantenuti in equilibrio con molta fantasia, dietro al bancone un Gaius spaesato riempiva un boccale di birra a spina.
«Gaius…» articolò sconcertata la mulatta, incurante del fatto che fosse troppo distante per essere udita dal povero anziano.
Adesso poteva dire di aver visto di tutto.
Recuperata la lucidità, Gwen si avvicinò al meccanico strattonandolo per la camicia, lontano dal tavolo occupato da due povere ragazze. «Gwaine, ma ti sembra questo il momento di fare il cretino? Quella poveretta di Freya sta impazzendo e Gaius… non capisco nemmeno come ci sia finito lì.» Così come non riusciva a capire perché improvvisamente quel bar si riempisse di gente solo nei momenti meno opportuni.
Il moro si lasciò andare ad una risata spensierata, quella di chi crede di aver programmato tutto nei minimi dettagli. «Tranquilla, Wilson. Stavo solo prendendo le ordinazioni con gentilezza, per chi mi hai preso? È stata la principessa a chiedermi questo favore».
Gwen non si sognò nemmeno di chiedergli dove avesse messo la piccola Hartie.
«Bene, allora renditi utile.» Capì di dover prendere le redini della situazione – Arthur contava su di lei. «Vai ad aiutare Freya ai tavolini – magari con meno “gentilezza” -, io nel frattempo vado a cambiarmi. Bisogna allontanare il povero Gaius da lì».
Autorevole come una buona maestra d’asilo – anche se avrebbe preferito paragonarsi ad una solenne regina – Gwen si diresse soddisfatta verso lo stanzino, euforica per il ruolo che l’era stato assegnato.
Trascorsi sette minuti, il Pendragon’s sembrò ritrornare ad una calma quotidiana. Due mani in più fanno miracoli, si disse compiaciuta tra sé e sé Gwen, certa che parte del merito fosse suo.
Fatto accomodare Gaius nel posto che gli aspettava – ovvero dall’altra parte del bancone -, la mulatta si premurò di offrirgli un caffè, facendosi raccontare come fosse finito a riempire boccali di birra ghiacciata nel bar in cui, in tutta onestà, non metteva quasi mai piede.
Come biasimarlo.
Gaius la ringraziò per il caffè portandosi la tazza alle labbra, spiegandole di essere passato al Pendragon’s per una breve visita – Merlin in quel periodo sembrava sotto pressione, e l’ex medico militare voleva sincerarsi che fosse tutto a posto -, ma Freya, ritrovatasi da sola con Gwaine “ad aiutarla”, lo aveva pregato di darle una mano e l’anziano non aveva saputo declinare la richiesta d’aiuto della mora.
Gwen si morse il labbro.
Era dalla sera scorsa che non aveva notizie di Merlin… e nemmeno di Morgana. Effettivamente, poteva essere successo di tutto: quei due erano completamente pazzi e c’erano alte probabilità che si fossero già uccisi a vicenda – per colpa sua.
«Temo di aver fatto una cosa orribile, Gaius».
L’anziano per poco non si strozzò con il caffè.
Da quando Merlin era entrato nella sua vita era diventato il confidente preferito dei giovani, soprattutto di quelli che ronzavano attorno al ventenne. Non che la cosa gli pesasse, ma non avrebbe mai pensato che avere un figlioccio fosse così impegnativo… Quei ragazzi erano pieni di problemi e anche se a suo modo si era affezionato a loro, doveva ammettere che crescere sua figlia Vivian era stata un’impresa meno ardua.
Gaius tossicchiò, leccandosi le labbra. «Vuoi parlarne?»
«No», rispose sbrigativa la ragazza.
«D’accordo. Semmai vorrai parlarn-»
«Sì» Gwen si contraddisse nell’arco di cinque secondi. Quel senso di colpa la stava opprimendo. Dire la verità a Merlin le era sembrata la cosa giusta da fare, ma in quel momento… Aveva bisogno di un parere esterno, obiettivo. Abbassò lo sguardo e qualche ciocca riccia le nascose parte del volto. «Mettiamo caso che una persona a me molto cara mi abbia confidato un enorme segreto – enorme quanto un castello, anzi no, come un regno intero! -, facendomi promettere di non dirlo a nessuno… Solo che questo segreto riguarda anche un’altra persona – forse due, o addirittura tre… - ma questa persona non sa niente di tutto questo…»
Gwen si fermò aspettando un cenno da parte dell’anziano.
Gaius, nonostante il sopracciglio crucciato e l’aria vagamente perplessa, annuì.
«Ecco…» la mulatta si torturò le dita, sospirando colpevole. «Io potrei aver raccontato quel segreto alla persona interessata… Ma Merlin non c’entra niente!» si affrettò a precisare Gwen, mordendosi la lingua.
Non era poi così brava a mantenere un segreto… E i fatti lo dimostravano.
L’ex medico militare indugiò per un po’, poi poggiò la tazzina di caffè sul bancone. Dedicò alla mulatta uno sguardo comprensivo, calmo. Lo sguardo che Gwen aveva imparato a conoscere molti anni addietro nelle fredde giornate di Novembre, in compagnia dei suoi migliori amici e una tazza di cioccolata calda.
«È normale commettere degli errori, non commiserarti troppo per questo. L’importante è saper rimediare».
Alzò piano gli occhi castani sul volto  invecchiato dell’ex medico e, forse grazie al sorriso che le rivolgeva, Gwen si sentì meglio. Espirò piano, sentendosi seppur di poco più leggera.
«Il tizio strano al tavolo cinque si è lagnato. Ha chiesto se servire un Vampiro adesso fosse più impegnativo di un Golden Dream».
Gwaine arrivò al bancone con un sopracciglio all’insù e una smorfia di disappunto sul volto. «Sarà ricco marcio, ve lo dico io.»
Gwen scosse lievemente il capo, ridacchiando. «Non essere classista, Gwaine».
«È parte del mio eterno fascino», scrollò le spalle prima di ammiccare.
Gwen non avrebbe perso tempo prima di roteare gli occhi al soffitto se Freya non fosse arrivata esausta al fianco del meccanico, poggiando sfinita il vassoio sul bancone prima di collassarci su. «Questa è la quarta volta che sbaglio tavolo, non ne posso più. Odio questo bar!»
L’anziano arricciò il naso all’odore che quel cocktail emanava: agrumi mischiati alla Tequila, con un leggero accenno di pomodoro.
«Sembra disgustoso» commentò il moro alla volta del liquido rossiccio e della fetta di lime sul bordo del bicchiere.
Freya sembrò riemergere dallo stato di catalessi nel quale era caduta, osservando il cocktail ad un passo dal naso. L’odore del sale, mescolato alla voce di Gwaine, sembrarono risvegliarla. «È il drink preferito di Mithian, spesso ne abbiamo bevuto un po’ insieme».
Da quando la dottoressa Princess era apparsa sempre più di frequente nel bar per controllare il Pendragon, Freya aveva avuto l’occasione di conoscerla meglio e stringerci un buon rapporto.
«Oh», Gwen sembrò quasi dispiaciuta di quella scoperta. «Davvero? La dottoressa non mi sembrava una tipa da Vampiro».
«Ah-Ah!» Gwaine scoccò un’occhiata allusiva al bicchiere nel vassoio e la mulatta non si sarebbe meravigliata di sentirgli urlare “Eureka!”. «Così è questo il famoso Vampiro… Un cocktail da ricchi, avevo ragione. Lascia, lo porto io».
Freya aveva appena ripreso il vassoio tra le mani quando il moro le si avvicinò per prenderlo, ma in meno di pochi secondi in tutto il bar riecheggiò il rumore di un vetro in frantumi e quello più fastidioso di un vassoio al suolo.
«Sono un disastro!» piagnucolò quasi Freya, prima di abbassarsi a racimolare i pezzi di vetro mettendoli nel vassoio.
Gwen si offrì premurosamente di aiutarla, anche quando il meccanico fece lo stesso. Freya rifiutò entrambe le volte, dicendo di potercela fare da sola. Era stata colpa sua, o almeno così pensava… ma Ginevra sapeva bene cosa aveva visto e a mollare la presa, dopo aver sfiorato le dita di Freya, erano state le mani di Gwaine.
L’unica cosa di cui era certo Gaius, invece, infastidito dall’odore nauseante del cocktail caduto sul pavimento, era che a controllare scrupolosamente il suo orologio da polso al tavolo numero cinque, c’era Aridian.
 

 

 
È solo acqua.
Continuava a ripeterselo come un mantra, i muscoli tesi e le gambe completamente sommerse. È solo acqua.
Mordred era andato via, offrendosi spontaneamente di tornare al bar. «Adesso c’è Merlin. Non c’è motivo che resti» aveva detto.
E forse era stato meglio così.
Merlin era lì, nella vasca insieme a lui che lo aiutava quando poteva, talvolta sorreggendolo per non farlo scivolare.
Arthur aveva evitato di guardare il petto del ragazzo per tutto il tempo e il solo pensiero lo mandava in tilt, colorandogli gote e orecchie di un rosso imbarazzante.
Merlin non aveva quasi aperto bocca da quando erano rimasti soli e tutto questo rendeva Arthur ancora più nervoso: avrebbe avuto bisogno di distrarsi, l’imbecille gli aveva concesso il silenzio che tanto aveva agognato.
Tratteneva il fiato, Arthur.
Lo tratteneva tutte le volte che avvertiva la pelle di Merlin a contatto con la sua.
Non respirare equivale a non pensare, ed era esattamente quello che il Pendragon desiderava: smetterla di pensare a Merlin in quel modo, preoccuparsi di nasconderlo e a tratti temere di essere scoperto.
Fece un altro passo su quella specie di pedana sott’acqua. Cosa avrebbe detto Merlin se lo avesse scoperto?
Gli occhi blu del Pendragon si sollevarono dall’acqua calda e trasparente della piscina attraverso la quale poteva vedersi i piedi, incontrando quelli attenti di Merlin fissi su di lui.
«Pensi che sarei stato un buon padre?»
Le parole fuoriuscirono dalle labbra del biondino a bruciapelo, lasciando il corvino spiazzato da quella domanda improvvisa; eppure quell’espressione smarrita ebbe vita breve: Arthur vide Merlin ricomporsi e lanciargli un’occhiata sincera, in meno di un secondo.
«Ne sono convinto».
«Davvero?»
«Arthur, se mai dovessi diventare padre – senza qualcuno accanto – e morire in un modo o nell’altro… non esiste persona diversa da te alla quale affiderei mio figlio».
Se in quel momento al posto dell’acqua ci fosse stato un enorme specchio, Arthur era certo che avrebbe visto il suo petto gonfio d’orgoglio… e forse anche gli occhi un po’ lucidi dall’emozione.
«Credo sarebbe più saggio affidarlo a Gwen».
Merlin si lasciò scappare un sorriso che di allegro aveva ben poco. «Credo di sì».
Tuttavia, Arthur non si accorse dell’improvviso velo di dolore calato sul volto del corvino.
 
 
 
Quando Mordred varcò la soglia dello stanzino ormai utilizzato da tutti i dipendenti del bar come spogliatoio, Freya era stesa sulla panchina; le mani lungo i fianchi, le palpebre calate e qualche ciocca di capelli castani che restava in bilico nel vuoto senza toccare il pavimento.
La presenza della ragazza non sembrò infastidire il francese che, richiudendo la porta alle sue spalle, si sfilò la maglia di dosso cercando la sua divisa. Nemmeno il rumore della cintura sembrò destare Freya dal trance nel quale era ricaduta, e per qualche ragione Mordred fu sicuro che lo avesse riconosciuto.
Si infilò la camicia nera tenendo da parte il gilet rosso con il logo del bar, abbottonandosela alla bell’e meglio prima di passarsi una mano nei folti ricci castani e deviare lo sguardo sulla mora.
Quella non si mosse neppure quando il parigino le si avvicinò, accomodandosi ai piedi della panchina, la schiena che a stento sfiorava le mani di lei.
«Devo farti vedere una cosa» le disse.
La sentì muoversi sulla panchina senza sollevare le palpebre. «Okay».
«Soffri di vertigini?»
«Perché?»
Mordred non si era voltato a guardarla, ma qualcosa gli disse che Freya lo avesse guardato di sottecchi sorridendo a mezza bocca. Fu per questo che il francese incurvò le labbra in un sorrisetto. «Chiudi gli occhi».
Aspettò qualche secondo per essere certo che Freya avesse fatto quanto le aveva detto, poi distese a sua volta le gambe lungo le mattonelle fredde dello stanzino. Inclinò la testa all’indietro e imitò la ragazza, poi continuò: «Non parlare e non pensare, dimenticati di tutto… e prova a immaginarti Parigi. Di notte, vista dall’alto».
La voce di Mordred si era tramutata in un sussurro, una carezza delicata che danzava tra di loro, in quella stanza. Freya avrebbe potuto storcere le labbra in una smorfia strana, ma l’altro era così immerso nei suoi pensieri che il dubbio non gli sfiorò neanche la mente.
«Le vedi tutte quelle luci?»
L’impulso di sbirciare l’espressione di Mordred fu forte, ma Freya la controllò decidendo di fidarsi.
«Sei solo tu, in cima alla capitale più magica del mondo, puoi vedere ogni cosa da quassù. Gli altri non sono che semplici puntini invisibili, sovrastati da altrettanti puntini luminosi e tutto questo è…»
«Meraviglioso».
Mordred aprì gli occhi, voltandosi verso di lei. «Meraviglioso».
Freya ridacchiò, piegando il capo nella direzione del francese. «Siamo sdraiati nello stanzino del bar».
«Credo che ci servirà una ripulita».
«È la cosa più stupida che io abbia mai fatto.» Ma Freya seppe di mentire.
Mordred non si scomodò a guardarla con fare scettico e accusatorio, si limitò a spostare lo sguardo al soffitto, sentendo la mano della ragazza vicino ai suoi riccioli castani. «Ti sei nascosta da un tizio dietro un bancone.» Sollevò il sopracciglio destro e un angolo della bocca. «Sei una bugiarda».
Freya ne rise senza controbattere. Mordred era ancora l’unico che sapeva rasserenarla. «Touché».
Il francese sghignazzò ripensando alla faccia di Arthur semmai l’avesse udita.
«Comunque», Mordred si spostò da quella posizione che lo rendeva così rilassato, sedendosi rivolto al volto di Freya. «Voglio farti vedere anche questo… Sei la prima persona qui a Londra a cui lo mostro e in un certo senso sono contento. Spero in un tuo consiglio».
Dapprima la cameriera lanciò una semplice occhiata alle mani dell’altro, ma quando vide un cofanetto nero aprirsi dinanzi ai suoi occhi mostrandole un meraviglioso diamante incastonato su un anello d’oro bianco, Freya si tirò a sedere, coprendosi la bocca con una mano, ritraendola un attimo dopo.
«Mio Dio, Mordred… è…»
«Un anello di fidanzamento».
«Meraviglioso» lo corresse, cercando le sue iridi azzurre che parevano di ghiaccio grazie al gioco di luci che la lampada dello stanzino permetteva.
«Sai, esistono molti significati legati agli anelli di fidanzamento. Ad esempio c’è l’anello composto da tre diamanti. Essi rappresentano l’amore tra passato, presente e futuro. E poi c’è questo.» Mordred indicò il gioiello col mento, prendendolo in mano. «Un anello sovrastato da un diamante trasparente, luminoso, puro e immutabile come l’amore che rappresenta».
Freya era sinceramente meravigliata. «Wow», si lasciò sfuggire. Non riusciva a staccare gli occhi dal gioiello, quasi fosse stregato.
«Spero che lei lo gradisca come te».
Mordred si lasciò scappare una lieve risata nel vederla trasalire, imporporata sulle gote, per poi ricomporsi giocherellando con  le punte dei capelli castani che le ricadevano sul gilet sbottonato, nascondendo in parte il drago dorato stampato sulla divisa. «È bellissimo», ammise ancora una volta lei, impacciata. «Ma non capisco in cosa posso esserti utile, in tutto questo».
«In realtà avevo le idee molto chiare quando l’ho comprato. “Voglio sposarla”, mi sono detto, ma improvvisamente mi sono reso conto di non conoscerla come credevo. Mi sono accorto che non saprei cosa dirle una volta…» Gli occhi del francese si erano abbassati sull’anello e proprio quando meno Freya se l’aspettava, si risollevarono su di lei. «Avrei chiesto consiglio alla mia migliore amica, ma è troppo impegnata per una videochiamata su Skype, e poi qui ci sei tu».
«Io?»
«Già. Sei una delle poche persone qui a Londra che mi fanno sentire a mio agio».
Il sorriso timido che Freya gli regalò in qualche modo gli scaldò il cuore più di un “grazie”. Mordred sentiva di averne avuto bisogno da un bel po’.
«Comunque non credo che sia importante conoscerla meglio di chiunque altro. La ami, no? Ed è questo l’importante.»
A dire il vero aveva paura di aver detto una stupidaggine: aveva adottato quella tattica con Merlin per così tanto tempo… Lo amava, ma non faceva altro che dubitare di lui.
Un sorriso storto nacque sulle labbra del parigino. «Sei forte, sai? Mi piaci».
 


 
«Vuoi che ci fermiamo?»
Era quasi ora di pranzo. Erano usciti dal centro medico e Arthur aveva insistito di tornare a casa a piedi senza chiamare nessuno per un passaggio – al massimo avrebbero preso un bus.
Merlin si era detto contrato e lo aveva costretto ad una nenia insopportabile su quanto sarebbe stato meglio se non si fosse affaticato dopo gli esercizi svolti, ma l’Asino non ne volle sapere niente.
Quando però il ginocchio cominciò a procurargli un po’ di fastidio, decise di fermarsi.
Il corvino lo affiancò, prendendolo per un braccio. Lo trascinò verso le panchine, ripetendosi: «È meglio fermarsi. Te lo avevo detto, brutta testa di legno. Siamo due spugne di sudore».
Arthur avrebbe preferito morire piuttosto che dargli ragione; si asciugò la fronte con l’avambraccio, godendosi l’ombra degli alberi che li riparavano dai raggi del sole.
La panchina indicata da Merlin era deserta, a poca distanza vi era una cabina telefonica. Una donna li superò reggendo due buste di plastica belle piene.
Arthur si fermò a guardare l’altro riprendendo fiato poi, mentre una gocciolina disegnava una scia bagnata sulla guancia del corvino, il biondo si mosse.
Merlin non ebbe neppure il tempo di registrare ciò che stesse accadendo che si ritrovò le braccia di Arthur strette a lui, petto contro petto.
Erano tante le cose che Arthur sentiva di aver perso e sbagliato: aveva deluso suo padre con la decisione di aprire un bar anziché dargli una mano in azienda, poi si era reso ridicolo con la storia del tradimento; un fottuto incidente lo aveva costretto ad un mese infernale nel quale gli erano successe di tutti i colori: aveva rivisto Ginevra, l’aveva fronteggiata e scoperto la morte di un figlio che non sapeva di avere, un figlio che non avrebbe mai conosciuto. Sua sorella era ritornata per sconvolgergli la vita con tutte le sue novità e Merlin…
Merlin cominciava ad essere concretamente qualcosa che avrebbe potuto perdere.
Un lieve venticello fece danzare appena le foglioline verdi appese ai rami degli alberi e Arthur sentì il dorso di Merlin scosso dalla sua risata.
«Arthur. Ma ti rendi conto che mi stai abbracciando?»
Il Pendragon non rispose.
Continuò a stringerlo, a respirare quel momento. Era come stesse cercando di tenerlo stretto a sé in tutti i modi possibili su questa Terra, quasi avesse il bisogno di toccarlo per impedirgli di uscire dal suo spazio.
Merlin non fiatò più, perché anche se era un idiota certe cose le coglieva a pelle. Erano una squadra.
Il corvino legò il corpo di Arthur al suo, cingendogli la schiena con le braccia.
In fondo, si ritrovò a pensare il biondo mentre tutto il mondo sembrava essere scomparso nel nulla, era come se gli stesse rubando una fetta d’amore che avrebbe tanto desiderato tutta per sé… e che al momento si serviva da solo.
 
 
 
La prima cosa che i suoi occhi incontrarono, appena varcata la soglia del bar, fu il volto eterno dell’imperioso Colosseo dipinto su un quadro e appeso alla parete, abbellito da una cornice dorata.
Si passò la lingua sul palato, guardandosi intorno; era tutto come lei avrebbe sempre desiderato: tavolini gremiti di gente, delle casse che suonavano Cheerleader in tutto il locale – l’aveva già sentita quella canzone. Nei pochi giorni in cui i suoi figli erano tornati a casa, dai loro Ipod non si udiva altro –, e il sorriso stampato sul volto dei clienti che chiacchieravano sorseggiando bevande fresche, addentando panini.
Represse un conato di vomito, serrando la mascella.
Aridian era lì, seduto al tavolo, che lo salutava agitando la mano. Quanto lo odiava. Odiava tutto di lui, compresa la sua famiglia.
«Signor Pendragon…»
La spalla di Uther andò a sbattere contro qualcosa, e forse avrebbe anche farfugliato delle scuse sbrigative se una volta girato il capo non avesse incontrato due occhi castani e ricci vaporosi raccolti alla buona: Ginevra Wilson.
«Che ci fai qui?»
La voce di Uther era spinosa, velenosa.
«Io», Ginevra cercò le parole giuste da dire, quelle che si erano sciolte tra i denti quando gli occhi dell’uomo l’avevano trafitta. «Lavoro. Arthur mi ha assunta da poco».
«Ti ha assunta?» Sibilò incredulo quella domanda. Cosa diamine passava per la testa di suo figlio? Era inconcepibile.
«Sì.»
Nella risposta della ragazza il Pendragon lesse qualcosa che gli mandò il sangue al cervello: determinazione, sicurezza. La certezza di essere nel giusto. La vide alzare il mento fiera di sé, prima di superarlo. «Se vuole scusarmi, io andrei».
La giornata non era affatto iniziata nel verso giusto. Raggiunse stizzito il tavolo occupato da quel verme di Aridian, sentendo la rabbia pizzicargli la pelle nell’udire la risata fastidiosa che lo accolse.
«Questo sì che si chiama dejavu, amico mio».
Strinse così forte la mano in un pugno da far impallidire le nocche. «Non sono amico di un verme come te, Aridian» ringhiò.
«Che peccato», si finse teatralmente addolorato, picchiettando i polpastrelli sul legno del tavolo a ritmo con la musica. «Cosa ti serve questa volta?»
Ad Igraine non era mai piaciuto, e glielo aveva fatto presente fin dal primo giorno che si erano conosciuti. Le metteva i brividi, diceva. “Sembra uscito da un film dell’orrore”.
Aridian era sempre stato il tizio col quale condivideva una sigaretta, una canna e in rare occasioni anche una donna, ma da quando Igraine era entrata nella sua vita aveva creduto che per lui fosse possibile un finale diverso, che lo meritasse.
Quando quel rettile velenoso aveva capito le intenzioni di Uther si era allarmato: non poteva abbandonare il giro, non ora che stava andando tutto alla grande col mercato nero. Lo aveva ricattato, messo alle strette e ricondotto nel tunnel buio e lurido da dove stava cercando di riemergere.
Gli aveva strappato via, via ogni cosa... rendendolo vittima della dipendenza, facendogli credere di essere felice così.
Si era sporcato le mani di sangue per una nuova dose… e quel verme gli aveva portato via la cosa più bella della sua vita.
«Tieni tuo nipote lontano da mio figlio.»
Aridian sembrò sorpreso; smise di tamburellare le dita sul tavolo, guardandolo bene negli occhi. Stava soppesando la sua proposta, Uther lo sapeva bene. Conosceva fin troppo quello sguardo pensoso e serio, ciononostante non si sarebbe mai aspettato che la sua bocca si sarebbe allargata in un sorriso spinoso, mentre le mani correvano ad accartocciare lo scontrino dimenticato accanto al bicchiere vuoto. «Non se ne parla nemmeno».
Lo vide alzarsi e, vinto dall’ira, il Pendragon circondò il braccio dell’uomo costringendolo a fermarsi. Gli occhi di Uther urlavano per lui, mentre il corpo quasi tremava per la rabbia. «Me lo devi. Mi devi un favore».
«Davvero, Uther?» lo stuzzicò, un ghigno sbilenco che il Pendragon avrebbe volentieri preso a pugni. «Per quale motivo, rinfrescami la memoria».
Come avrebbe potuto ammettere il suo crimine? Come avrebbe potuto dargliela vinta in quel modo, spogliandosi di ogni menzogna e ricadendo ai piedi di quel bastardo proprio nel bar di suo figlio?
Strinse i denti, inghiottendo un boccone amaro.
«Vedi, vecchio mio», Aridian si liberò con facilità dalla sua morsa, spingendo con due dita lo scontrino accanto al braccio dell’altro. «Non siamo poi così diversi, io e te».







 

Relie's Corner
Intanto vi ringrazio di essere arrivati fin qua, vuol dire che tenete davvero molto a questa storia, e questo non può che rendermi felice. Ma, partiamo con le precisazioni:

- Fin da quando ho deciso di introdurre il personaggio di Gwaine nella fanfiction, il moro era più grande dell'allegra comitiva del Pendragon's. Capitoli fa ho commesso l'errore di affibbiargli gli stessi anni di Morgana... Sorry!;
- Ethan è un personaggio canon, comparso nel quarto episodio della terza stagione. In realtà non è un bad guy, ma proprio non ricordavo il nome del compare del tizio che voleva uccidere Arthur, so...;
- Da qualche parte deve esserci un rimando alla Freya canon (animale ferito) e a Pirandello (che mi scusi!);
- Se da qualche parte trovate scritto "centro di riabilitazione" mi dispiace; navigando per il web mi sono confusa, in realtà è un centro medico dove si fa riabilitazione;
- E niente, io credo che Gwaine e Morgana abbiano davvero molto in comune, ma insieme non ce li vedo proprio. Sorry fan della coppia!;
- La storiella dell'anello di fidanzamento l'ho presa da internet. Al sito tutte le colpe;
- Il cagnolino Petyr è un chiaro riferimento al Trono di Spade, che dedico volentieri alla mia Celtica. (A lei devo anche l'idea dell'inserimento dell'immagine della tazzina). Passate da lei se vi piace il fandom!;
- Pernilla doveva essere la cuoca di Camelot, ma su internt non ho trovato il suo nome... dunque ho preso in prestito quello che Luminosa le ha affibbiato nella sua bellissima saga "Merleen";
- Io ODIO Mordred, ma adoro la gelosia (canon, a mio dire) che suscita in Merlin quando gironzola troppo vicino ad Arthur. Spero vi sia piaciuto questo mio rimando;
- Il Vampiro è un cocktail molto complicato (a mio dire); gli ingredienti sono bene o male descritti nel capitolo;
- Il Golden Dream (sogno d'oro) è un cocktail composto da: Galliano, Cointreau, succo d'arancia e crema di latte fresca. Il titolo si rifà a questo drink;
- E niente, i Merthur mi stanno prendendo ogni giorno di più e tutto il merito va a quel genio di Elyxyz. Ci tenevo a farlo presente xD


SPOILER
- Dal prossimo capitolo entrerà in scena un personaggio che prima è stato solo nominato;
- Ci sarà la fatidica proposta di matrimonio;
- Una coppia giungerà al capolinea;
- Arthur e Merlin avranno quel famoso faccia a faccia;
- Nel prossimo capitolo si capirà, finalmente, il collegamento che Merlin ha con la droga!


Se qualcuno è interessato, vorrei ricordare la mia pagina facebook --> Relie , qui troverete 'scene tagliate' che non ho potuto inserire, essere aggiornati sulle pubblicazioni e suggerirmi OC. (Potete suggerirmeli anche tramite messaggio privato qui su Efp, se vi va, basta che non sia in recensione).
Credo di avervi trattenuti abbastanza.
Spero di ricevere vostri pareri.
Alla prossima!

 
   
 
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