Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Mistiy_Ronny    07/09/2016    3 recensioni
"Levi! " il chiamato arrestò i propri passi ma non si voltò.
" Là fuori, noi due ci rincontreremo sotto al sole " la voce tremante dall'emozione giunse così forte e chiara che non c'era bisogno d'aggiungere alcuna altra parola.
Levi andò avanti e un sorriso tirato si disegnò sul suo volto, voleva credere alla promessa silenziosamente stipulata.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Dove ho lasciato la mia vita

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Il diario di Lysa


Degradante”,
Definiscono così la città sotterranea, di conseguenza la gente che vive là sotto è “degradata”. Strano, quando ero una bambina non sapevo neppure cos'era il degrado; passavo le giornate nella polvere con i miei coetanei, giocavamo, ci azzuffavamo, ci mordevamo per poi tornare a casa pieni di lividi. Ammazzavamo il tempo così.
Tornavo a casa e aspettavo il rientro di mamma, lavorava tanto e io avevo un sacco di tempo libero così quando non stavo fuori a rotolarmi nella polvere, lavavo il piccolo alloggio da cima a fondo. Quando giungeva a casa, mamma era felice di trovare la catapecchia pulita.
Il mondo sottoterra è piccolo, cupo, sporco quanto la tana d'un topo, ma il mio pianeta iniziava e finiva nella mamma. Era un mondo caloroso, piccolo ma al contempo immenso. L'affetto che mi donava non poteva essere quantificato, tuttora non so dargli una dimensione.
Aspettavo sempre il suo rientro e quando giungeva scoppiavo di gioia poi ci sedavamo alla tavola apparecchiata per mangiare.
Mamma mi prometteva che si sarebbe presa un giorno libero per stare con me perché ero piccola e non dovevo trascorrere tutto quel tempo da sola. Non lo faceva mai, il lavoro assorbiva tutto il suo tempo ma non m'interessava, m'accontentavo della promessa e sorridevo.

Mi bastava fermarmi pochi attimi con lei per essere felice.
Il sole non batteva nella città ma non m'importava un granché, passavo le dita tra i capelli biondi, l'abbracciavo e mi sentivo già riscaldata, chi aveva bisogno del sole quando c'era qualcuno che t'amava?
Il tutto non m'appariva così degradante.
Trascorsi così la mia infanzia e mai neppure per una volta ho pensato d'essere una persona degradata, ma poi si cresce e io dovetti farlo in fretta.


Successe un giorno, credo d'aver avuto allora dieci anni e come al solito mamma tornò a casa. Non sorrise, non si complimentò per l'odore di pulito, per l'assenza di polvere in casa. Era strana, sotto gli occhi s'erano formati due solchi neri quanto le sue pupille. Camminava con lentezza a schiena incurvata.
<< Mamma, stai bene? >> domandai con titubanza
<< Sì, sì . Devo solo riposarmi. Non preoccuparti >> sorrise per poi nascondersi sotto le coperte. Mi rassicurò più di una volta del suo stato di salute, eppure il timore si fece spazio nella mia anima.


Il timore dopo due giorni si tramutò in terrore poiché era ufficiale: la malattia s'era insidiata nella nostra casa.
Da quando s'era messa a letto non s'era più alzata. Non faceva altro che dormire, il suo respiro pesante veniva spezzato da colpi di tosse potenti e io tremavo. Avevo visto così tante persone scomparire, forse era giunto il momento di mamma ma non potevo accettarlo.
Dormiva ma io mi ostinavo a svegliarla perchè doveva nutrirsi per combattere la malattia, lei apriva le palpebre lentamente e mi liquidava con parole confortevoli del tipo “ non preoccuparti, fra qualche giorno starò bene”.

Passò una settimana e non ero più impaurita ma terrorizzata! Mamma era cambiata: le sue guance erano scavate e il colore della sua pelle aveva assunto sfumature bluastre.
Dovevo fare qualcosa e così alla mente balenò un'idea: aveva bisogno di un farmaco e solo chi vive nella città sotterranea sa quanto è difficile procurarsene uno, li vendevano al mercato nero, erano pochi e talmente cari che la gente s'indebitava per acquistarli. Non era il nostro caso, noi avevamo dei soldi messi da parte. All'interno dell'armadio c'era una piccola scatolina di legno colma di banconote stropicciate, ogni volta che mamma tornava a casa dal lavoro metteva all'interno qualche soldo.

Questi soldi sono intoccabili Elysa, li useremo per uscire dalla città sotterranea” mi disse una volta.
Stando ben attenta a non produrre alcun rumore, aprii l'armadio, rovistai tra gli ammassi di stoffa alla ricerca del piccolo tesoro. Quando lo presi tra le mani un grignolino di gioia mi sfuggì dalle labbra e purtroppo svegliai anche mia madre. Venni colta in fragrante: nel momento in cui i nostri sguardi si scontarono, nascosi dietro la schiena la scatola rettangolare ma fu inutile poiché mia madre ci vedeva dannatamente bene.
<< Rimettilo al suo posto >> la sua voce era fioca ma il rimprovero giunse forte e chiaro alle mie orecchie.
<< No >> dissi guardando le punte delle mie scarpe. Mamma raramente mi sgridava poiché era una donna affettuosa e ogni rimprovero era rivestito da un tono vocale morbido sempre accompagnato da un mezzo sorriso, ma quella volta il suo volto era spaventoso. La sua voce era flebile e ruvida quanto la carta vetrata, mille pieghe s'erano formate lungo la fronte.
<< Rimettili al suo posto >> m'intonò con un velo di minaccia insito nella voce.
Scossi la testa senza innalzare gli occhi.
<< Smettila di fare i capricci e rimetti la scatola al suo posto … >> innalzò il tono vocale ma la frase rimase sospesa nell'aria poiché fu colta da un ruggente colpo di tosse.
Cercava di soffocare il rumore ponendo la mano sulla bocca, ma la tosse promanante dai polmoni era talmente rumorosa che mi spaventai. L'avevo fatta agitare e un malato doveva starsene tranquillo, così rimisi la scatola al suo posto e mi affiancai a lei per massaggiarle la schiena.
Quando finalmente smise di tossire, scostò la mano dalla bocca. Sul palmo s'erano deposte gocce di sangue.Guardai il rosso e fui colta da una disperazione ceca.
<< Mamma, non morire! >> urlai e lei non si scosse. Si limitò a guardarmi mentre cercavo di trattenere le lacrime brucianti.
<< Non posso deciderlo io, ma anche se morissi la vita continua, tu vivrai anche senza di me … >>
<< No, no! >> urlai forte ponendo le mani contro le orecchie. Non volevo sentirla, non poteva arrendersi perché non potevo immaginare una vita senza di lei.
<< Elysa … >> intrappolò la mia testa fra le  mani e mi guardò dritta negli occhi, aprì le labbra ma io le impedii di parlare poiché urlai
<< Abbiamo i soldi! Usiamoli per curarti! >> sbottai, quanta paura rivestita di rabbia s'era insinuata nel mio cuore.
Lei incurvò le labbra verso l'alto rivolgendomi un sorriso forzato.
<< No, quelli non si possono toccare. Sono per la tua cittadinanza >>
<< Non me ne importa nulla! Se tu non ci sarai più che cosa me ne faccio della cittadinanza?! >>
<< Per vivere una bella vita >>
Piansi e l'abbracciai forte. Non le dissi che non potevo esistere senza di lei, non riuscivo neppure a immaginarmi un futuro. In fondo ero una mocciosa e nessun moccioso presente al mondo vuole assistere alla morte del proprio genitore.
Piansi tanto e lei si limitò ad accarezzarmi la schiena. Non disse nulla per tutto il tempo, mi cullò e tra un singhiozzo e l'altro m'addormentai.


Il giorno seguente mi risvegliai sola con gli occhi gonfi e brucianti. Un senso d'affanno mi colse vedendo il lato del letto accanto vuoto.
La morte se l'è portata via!” pensai, come se un morto potesse camminare via così facilmente, quanto ero stupida? I cadaveri rimangono immobili a decomporsi, fino a quando non puzzano talmente tanto che qualche buon samaritano li getta via da qualche parte.
Difatti la morte non se l'era portata via, mamma rincasò dopo poche ore. Il mio cuore scoppiò di gioia quando la vidi estrarre dalla borsa un flacone di vetro. Si trattava del suo salvavita, noi del ghetto chiamavamo così i farmaci.
Le andai incontro e l'abbraccia stando attenta a non farle male, diavolo s'era consumata così tanto nel giro di poche settimane!
<< Hai utilizzato i soldi della cittadinanza! >> non glielo domandai, era un'esclamazione esuberante giacché aveva deciso di non lasciarsi morire.
Lei slacciò l'abbraccio e mi rivolse un sorriso strano, non era malinconico, forse beffardo. Tutt'ora non lo riesco a interpretare, comunque sia mi disse : << no, quei soldi non si toccano >>
Io scrollai le spalle, come si fosse procurata il denaro non poteva fregarmene un bene amato niente. Ero troppo felice per preoccuparmene.

Passo dopo passo, giorno dopo giorno riprese le forze. Certo dormiva molto e non era nelle condizioni di lavorare perciò il cibo scarseggiava a casa, dato che quei dannati soldi non si potevano toccare, mi dilettai in piccoli furti. Quando mamma dormiva andavo al mercato nero, mi nascondevo nella baraonda di gente e furtiva allungavo la mano qua e là rubando il cibo presente sui banchi, tali volte riuscivo a prendere anche dei portafogli. Mi procuravo il necessario per mantenerci in vita.
L'unica cosa che m'importava era che lei si stava riprendendo: le guance tornavano piene, gli occhi più lucidi e la pelle non era più così pallida. Mamma si stava rigenerando e la mia vita sarebbero tornate quella di sempre. Io fuori a giocare con i miei coetanei, poi a casa ad attendere il suo rientro.


Quel giorno fu il rumore della serratura a svegliarmi. Mi alzai di scatto con gli occhi semi chiusi e vidi mamma dinnanzi alla porta.
<< Esci? >> chiesi stropicciando le palpebre con le dita.
<< Sì >>
<< Vai a lavorare? >>
Non ripose subito, ma alla fine annuì, allora rasserenata dalla conferma mi sdraiai con la sicurezza che tutto era tornato come prima.
Mia madre m'impedì di chiudere gli occhi perché si sedette sull'orlo del materasso.
<< Elysa? >> alzai gli occhi per incrociare quelli neri di mamma. Le sue labbra erano incurvate verso il basso e trovai il fatto alquanto strano. Pensai che doveva comunicarmi qualcosa d'importante e così mi sforzai di tenere le palpebre aperte.
<< Se qualcuno bussa alla porta tu non aprire, mai, per nessuna ragione, chiaro? >>
Annuì, era una cosa che mi diceva sempre prima d'uscire
<< Ricordati che i soldi quelli nascosti nell'armadio, non si toccano. Servono per comprare la cittadinanza. Quando sarà il momento opportuno, tu vai dai gendarmi con i soldi in tasca >>
Annuii di nuovo. Era una delle tante raccomandazioni.
Ci fu un momento di silenzio, durò qualche istante e vidi gli occhi di mamma diventare liquidi come inchiostro. Non mi diede il tempo di preoccuparmi di tale cosa perché le sue labbra s'incurvarono verso l'alto e mi regalò un sorriso stupendo, uno di quelli capaci di dissipare ogni dubbio, d'eliminare ogni incertezza.
<< Ricordati che ti amo >> mi accarezzò la guancia e sorrisi. Anche quella era una delle tante cose che mi diceva.
Mi addormentai immediatamente, con la certezza che sarebbe tornata per ridirmelo.


Mamma non tornò.
Nessuno bussò alla porta.
Non so quanto tempo trascorsi chiusa in casa, fatto stava che alla fine uscii per cercarla tra le strade. Ovviamente non la trovai.


Erapassata una settimana, la trascorsi in solitudine, tali volte uscivo per cercarla ma poi tornavo sempre a casa. Per non pensare, per non annegare nella preoccupazione, pulivo. Ogni angolo, ogni mobile, ogni crepa, io la rendevo immacolata così che quando mamma sarebbe tornata a casa … che gioia! Quella casa doveva risplendere a tutti costi

I giorni passavano e qualcuno bussò alla porta
<< Erika? Sei in casa? >> con insistenza continuò a bussare. Era una voce femminile e non pareva affatto minacciosa così decisi d'infrangere il comando di mamma e con titubanza aprii l'uscio. Mi ritrovai dinnanzi a una donna alta con il volto pieno di lentiggini e una testa colma di ricci focosi.
<< Tu sei la figlia di Erika, giusto? >>
<< Sì , tu chi sei? >>
<< Sono adriana, una collega di lavoro di Erika. Dov'è tua madre? Non si fa viva da giorni >>
<< Non lo so. >>
<< Davvero? >> disse sbarrando le palpebre senza celare la preoccupazione, la stessa che mi stava divorando da giorni.
<< allora chiederò in giro dove si è cacciata …. >>

La donna sparì per poi ripresentarsi qualche giorno più in la. Mi disse che mia madre pareva essere scomparsa nel nulla, nessuno sapeva dove s'era cacciata e così mi propose d'andare a vivere con lei ma declinai l'offerta. Quella poveretta aveva già cinque figli da tirare su e poi io ce l'avevo già una mamma, non volevo sostituirla. Non era né morta né scomparsa, sarebbe tornata, ne ero certa. Non avrebbe mai osato lasciarmi sola.

Lei era il mio mondo nonché il terreno sul quale poggiavo i piedi, dove sarei mai potuta andare? Senza il mio suolo sarei precipitata punto e basta. Con questa convinzione lavai da cima fondo casa, andai persino a pulire gli angoli spigoli, mi arrampicavo sui mobili alti perchè volevo eliminare qualsiasi granello di polvere. Serrai la porta, chiusi le finestre, perchè la casa era immacolata e l'aria malsana della città non doveva contaminarla. Trascinai il materasso nell'ingresso, sotto alla porta così quando mamma sarebbe tornata a casa l'avrei accolta a braccia spalancate, e lei sarebbe stata tanto felice di trovare la casa immacolata.
Tutto sarebe tornato come prima. Mamma, io, la casa pulita, mi bastava questo per essere felice.

I giorni passarono e mamma non tornò, io non volevo uscire ma le scorte di cibo erano terminate, i soldi c'erano ma quelli erano intoccabili così andai a bussare alla porta di Arianna
<< Dove lavorava mamma? >> gli chiesi, avevo deciso di cercare un lavoro e magari potevo sostituirla ma di fatto non sapevo che mestiere praticasse, neppure l'ubicazione del luogo.
La rossa storse il naso << se tua madre non te l'ha detto ci sarà un perchè >>
<< Non m'importa, portami nel luogo in cui guadagnava il pane perché anche io devo mangiare >>
<< No, sei troppo piccola! >> sbottò lei irritata ma io me ne infischiai, insistetti così tanto che alla fine decise d'accompagnarmi. La strada non fu lunga, qualche isolato ed Arianna mi indicò una grande case marrone incastonata tra le catapecchie laterali. Non cadeva a pezzi come la maggior parte delle costruzioni della città sotterranea. Era alta, dotata di sei piani.
M'incamminai verso il porticato dove stavano delle donne agghindate, non udendo il rumore dei passi di Arianna mi arrestai per domandarle
<< Tu non vieni? Non lavori anche tu qua? >>
<< Oggi è il mio giorno libero e non voglio sprecarlo lì dentro >>
Scrollai le spalle per marciare verso la casa colossale
<< Aspetta >> esclamò la rossa e io mi voltai
<< Tua madre faceva la donna delle pulizie, domanda per questo lavoro, se Lukro ti vuole affidare un'altra mansione non accettarla, capito? >> le pronunciò con una serietà unica così annuì per accontentarla, solo in seguito capii il senso delle sue parole e oggi la ringrazio per averle pronunciate: il vecchio proprietario disse che le mie mani erano troppo belle per essere immerse nel detersivo, io non gli credetti e alla fine diventai la bimba delle pulizie del bordello.



Non sapevo che mestiere praticasse la mamma, lavorava tanto perché s'assentava anche per giorni da casa ma io non ero curiosa, non m'interessava come si procurava il necessario per vivere. in fondo ero una bambina, mi bastava che tornasse a casa e il resto non era rilevante..
La consapevolezza del mestiere che le donne praticavano arrivò gradualmente a passo scalzo. Non sapevo cosa fosse il sesso fino a quando non lo vidi, sì lo vidi con i miei occhi. Stavo pulendo il corridoio del piano superiore, una delle tante porte era socchiusa e da questa giungevano rumori soffocati che non parevano appartenere a bestie. Spinta da una curiosità timorosa, mi accostai alla porta e sbirciai, quello che vidi mi sconvolse: due corpi nudi, la donna stava sotto a gambe aperte, invece il maschio si dimenava con ferocia.
Scottata dalla scena mi allontanai immediatamente, afferrai la scopa e ricomincia a pulire con energia, cercai d'ignorare i suoni disgustosi provenienti dalla stanza.

Ero una sciocca sconvolta, cosa potevano mai fare delle donne chiuse in quelle stanze? Perchè arrivavano solamente uomini in quella grande casa? La risposta era talmente ovvia, ce l'avevo lì sotto al naso eppure ci arrivai solamente quando la vidi con i miei stessi occhi.
Poi arrivò anche la consapevolezza che mamma non era la donna delle pulizie, ma solamente una prostituta, una delle tante. Lo dimostrava la paga settimanale, con quella che ricevevo riuscivo a malapena a procurarmi il cibo, invece con le monete che portava a casa mamma potevamo permetterci di soddisfare qualche sfizio.
Eppure mamma non era come le prostitute situate nella casa, queste si distinguevano in due categorie: alcune erano rabbiose, suscettibile e bastava una mezza parola per farle arrabbiare e m'arrivava uno schiaffo sui denti, altre invece parevano amebe prive di carattere. Si movimentavano, parlavano con una strana lentezza. A dire il vero parevano sorde e ceche.
Mamma non era così, lei era energica, rideva, mai neppure per scherzo ho pensato che fosse una persona triste, forse all'interno del bordello soffocava se stessa e si trasportava con la mente in un altro posto durante le degradanti ore lavorative.
E allora in quel tumulto di amebe finsi anche io d'essere sorda e ceca.


Tra la puzza di fumo, incenso e detersivo, divenni un adolescente senza neppure accorgermene. Fu Arianna a farmelo notare
<< Hey tu! >>
Mi girai per ritrovarmi dinnanzi a una donna dai lunghi capelli ricci e focosi
<< Che cosa diamine stai a fare qua? >> chiese lei con severità, dato che ero muta le mostrai lo spazzettone e il secchio colmo d'acqua acquitrina. Era ovvio il mio mestiere.
<< Non intendevo questo. Ti sei guardata allo specchio? Hai visto come ti guardano i clienti? >>
accennai un no col capo dal momento che non guardavo mai il mio riflesso, ci vedevo spesso la mamma e la cosa m'infastidiva. Stavo sempre con la schiena piegata sul pavimento alla caccia di macchie e sporcizia.
Uno sbuffo esasperato uscì dalla sua bocca, si avvicinò e con poca grazia pose la mano sul mio seno. Scandalizzata scattai all'indietro urlando << “ che cazzo fai?! >>
<< Che cazzo fai tu? Non lo capisci? Ti sta crescendo il seno, ti stanno venendo fuori i fianchi, stai diventando una donna appetibile, credi veramente che potrai continuare a pulire i cessi d'un bordello? >>
<< Perchè, dove sta il problema? >>
<< Sei davvero così ingenua? >> Arianna alzò gli occhi verso il soffitto per poi proseguire con una certa noia << tra le gambe hai una piccola miniera d'ora e ben presto il proprietario ti costringerà ad usarla, a nessun cliente importa che il luogo sia profumato. >>
Sconvolta sbarrai le palpebre, qualcuno poteva veramente costringermi a prostituirmi?
<< Vattene via finché sei in tempo, altrimenti farai la mia fine e quella di tua madre. >>
Quelle parole bruciarono come fuoco, avrei fatto la fine di mia madre? Ma quale era stata la sua fine? Non sarebbe mai più tornata, oramai era divenuto un fatto chiaro e cristallino dato che non l'avevo mai più incrociata neppure per caso. Ma che fine aveva fatto?
Certo, da quello che avevo capito aveva trascorso gli anni lì dentro, s'era lasciata possedere da uomini schifosi in cambio di denaro che io stessa avevo utilizzato per sopravvivere all'interno della città. Anche io avrei percorso i suoi stessi passi?
Abbandonai la scopa per chiudermi all'interno d'una delle camere vuote del bordello. Mi spoglia dinnanzi allo specchio, scostai la lunga frangia dal viso e mi guardai con un certo distacco, come se il riflesso non rispecchiasse me stessa bensì un'altra persona. Era una ragazza così magra, le scapole erano talmente pronunciate che parevano voler schizzare fuori dalla pelle.
Corse giù lo sguardo e vidi due piccole coppe morbide e pallide, scesi ancora di più e dalle costole sbucavano due curve aguzze.
Arianna aveva ragione, stavo diventando una creatura simile a tutte le donne presenti nel bordello. Avevo due scelte: diventare una prostituta per poi consumarmi fino a morire, oppure andare via verso un mondo che non conoscevo e tentare di vivere.
Mentre mi rivestivo promisi a me stessa che me ne sarei andata.


Ogni giorno rimandavo la dipartita dal mondo sotterraneo, la vita che stavo vivendo era degradante e il futuro si prospettava peggiore del presente stesso, eppure qualcosa mi tratteneva. Probabilmente era la paura, già avevo paura d'andare via da sola. Il mondo sotterraneo faceva schifo, ma almeno lo conoscevo. Il mondo sovrastante invece era una incognita, chi poteva mai assicurarmi che sotto un cielo blu avrei vissuto una vita migliore?


. ***

<< Ce l'ho un padre? >>
lo chiesi un bel giorno spinta da una curiosità innata che tutti i bambini sprovvisti d'un genitore possiedono.

Mamma mi prese in braccio e seduta sulle sue ginocchia cominciò a raccontare: disse che mio padre era un'eroe che era sceso a patti con se stesso ma nonostante tutto credeva nella libertà ma non la processava poiché lui era un uomo dall'animo gentile, non avrebbe mai osato opporre una propria convinzione nelle teste altrui. Era un uomo che non si piegava allo squallore, alla vigliaccheria, al malessere generale. Lui era l'uomo che aspirava alla libertà, un piccolo eroe che combatteva contro se stesso e il mondo circostante, che non si piegava dinnanzi a nessuno e che un giorno l'avrei incontrato lassù, nel mondo sovrastante perché nelle mie vene scorreva il suo sangue, per tal motivo dovevo seguire le sue orme.
Non mi disse il suo nome poiché non glielo chiesi, allora non m'interessava, mi bastava sapere d'essere stata generata da un padre.
Lavorando nel bordello mi resi conto che m'aveva raccontato una bella quanto finta fiaba.

Mia madre lavorava nel bordello da anni, ancora prima che nascessi perciò l'uomo che aveva contribuito alla mia nascita non poteva trattarsi d'un eroe ma d'un lurido cliente. 
Li vedevo come i clienti trattavano le donne: le prendevano con violenza, le piacchiavano scaricavano addosso lo squallore della loro stessa vita. Certo, alcuni erano gentili, così si potevano definire coloro che s'accontentavano dell'ebbrezza del coito sacrificando qualche moneta.
Mio padre non era un eroe, era uno schifoso puttaniere che aveva ingravidato mia madre costringendola a quella miserabile vita. Già, avevo riflettuto a lungo ed ero giunta a una convinzione: se mia madre non fosse rimasta incinta, lei se ne sarebbe andata dal bordello dopo aver racimolato i soldi necessari per la cittadinanza e invece sono capitata io. Mio padre ed io siamo stati la sua rovina, il suo cancro che l'ha costretta a rimanere immobile lì, a consumarsi giorno dopo giorno per mantenere una figlia nata dalla violenza e dal soldo.
Avevo contribuito alla scomparsa di mia madre.

Non volevo conoscere mio padre ma un giorno accadde.
Era una giornata tranquilla, non c'erano clienti nella hall così mi misi a pulire il grande spiazzo sotto l'occhio vigile di Lukro, quello se ne stava a sedere beatamente dietro al bancone. Mi guardava e poi leggeva il registro contabile tra una boccata di pipa e l'altra.
L'uscio si aprì, in genere non guardavo mai i clienti che entravano, ma di sottecchi sbirciai. Era vestito in modo elegante, portava una camicia e una giacca nera di velluto. Dietro gli abiti perfettamente stirati si nascondeva una grossa e disgustosa pancia, ricordo che bottone della giacca a stento rimaneva fermo sul punto vita.
Era un grasso porco, come tanti, ma quello che catturò la mia attenzione furono i suoi capelli: dal cappello a cilindro scendeva una capigliatura liscia e scura quanto le ombre della città. Quella tonalità così nera l'avevo vista solamente addosso a me stessa.
Non fu solo questo ad attirare la mia attenzione. Il grasso porco si fermò e i nostri sguardi si incrociarono e li vidi, sotto le soffuse luci del locale vidi brillare due piccoli occhietti cerei. Si infossavano tra le pieghe del suo volto ma ne ero certa, quegli occhi erano grigi come i miei, come l'acqua sporca raccolta all'interno del secchio sotto stante ai miei piedi.
Ci scrutammo a lungo, ci studiammo e sentii qualcosa movimentarsi nel mio petto, era animalesco e rabbioso.
Alla fine camminò via verso Lukro e io continuai a spazzare il pavimento con una certa foga. In me s'era accesa la rabbia, una miccia pericolosa che non portava a nulla di buono.

Non c'erano dubbi. Quello era mio padre e non vedevo l'ora di ucciderlo.


. *** .


Quell'uomo è interessato a te, che dici? Vuoi fare un po' di soldi?” mi disse Lukro e io ovviamente accettai, potevo rimanere sola con quel porco e così colsi l'occasione .


Il giorno seguente mi ritrovai distesa sul letto di una delle tante camere che avevo pulito da cima a fondo.
Addosso avevo un lunga e setosa camicia da notte, l'aveva comprato l'uomo per farmela indossare.
I lunghi capelli erano racchiusi in una treccia che cadeva sulla spalla destra, mi aveva pettinato con cura una prostituta del posto.
Lo attendevo con impazienza. Toccai la punta del pugnale posta sotto al cuscino e il cuore cominciò a battere frenetico, gli occhi balenavano lungo la stanza e il fiato diveniva sempre più corto. Ero eccittata, tale stato fisico non scaturiva dalla prospettiva del sesso, bensì dalla vendetta: non vedevo l'ora d'immergermi nel sangue del porco, berlo per poi invocare la giustizia.
Arrivò senza bussare, rimasi immobile mentre chiuse la porta. Lo guardai spogliarsi per porre le vesti sulla sedia. Era disgustoso, la pelle sbilenca cascava verso il basso, ogni movimento era accompagnato da un tremore del suo corpo. Non m'importava, mi bastava porre il pollice sulla lama del coltello nascosto e il disgusto calava giù nello stomaco.
Si mise sopra di me a cavalcioni, voleva domarmi e io rimanevo inerme, qualsiasi cosa poteva farmi poiché sapevo come sarebbe finita quella vicenda, ovviamente tutto era a mio beneficio. Dovevo solamente ignorare le sue mani grassocce e sudate, le labbra bavose e vogliose, l'erezione schifosamente ritta.
M'aveva strappato le vesti di dosso e non faceva altro che strusciarsi. Quando spalancò le mie gambe capii che il momento stava giungendo. Io sudavo e ansimavo, forse lui deve averla intesa come una sottospecie di febbri citazione sessuale, così fu veloce. In un colpo solo penetrò.
Strinsi i denti per soffocare il dolore e lo guardai. Si muoveva dentro di me con spinte forti, la sua pelle si dimenava e la voglia di sgozzarlo cresceva sempre di più, ad ogni spinta. Ma dovevo essere paziente e così attesi il momento che non tardò ad arrivare. Lo vidi stringere forte gli occhietti grigi, emanò un lungo brontolio gutturale. Era il momento, era distratto e reso ubriaco dall'orgasmo. Inclinò all'indietro la testa mostrandomi la lunghezza della gola e così lo feci. Veloce piantai la lama, sprofondò nella carotide.
Mi arrivò addosso una cascata calda odorante di ruggine, tenni le palpebre aperte, non distolsi lo sguardo da quegli occhietti stupiti. Spalancati e inniettati di sangue mi guardava, apriva la bocca per emanare brontoli sbottanti di sangue.
Mi cascò addosso e il suo corpo preso dalla convulsioni si muoveva a scatti. Non mi scostai, rimanevo lì a sentirlo, petto contro petto il suo cuore scalpitava come se volesse uscire dalla gola. Rimasi lì, immersa nella sostanza vischiosa fino a quando il suo corpo non smise di tremare assieme al suo cuore.
Rimaneva un'ultima cosa da fare: avevo eliminato il cancro principale di mia madre, ora rimanevo io. Puntai la lama sulla carotide pulsante ma ero indecisa. Avevo visto mio padre morire eppure la cosa non m'aveva recato alcuna gioia, neppure un briciolo di soddisfazione. Difatti non era cambiato niente: lui era morto ma la mamma non sarebbe mai più tornata a casa, cosa avevo risolto? Un bel niente. Se mi fossi suicidata avrei risolto qualche problema? No, però avrei smesso di soffrire.
Scostai il cadavere con rabbia, non lo guardai neppure.
Mi alzai e acchiappai dei vestiti che infilai in fretta e furia.
Il suicidio non era la risposta, soltanto soffrendo là fuori avrei estirpato la colpa d'essere venuta al mondo.

Ricordo d'essermi cambiata, d'aver pulito meticolosamente ogni traccia di sangue dal mio collo, dal volto, dalle braccia. Indossai degli indumenti puliti, che avevo preparato sulla sedia
Ignorai il cadavere e per evitare d'essere vista da Lukro e dalle restanti donne, mi buttai giù dalla finestra. Era al secondo piano perciò riusci a cadere sui miei piedi senza procurarmi alcun dolore.
Non mi voltai, neppure per dare una fugace occhiata alla struttura. Il bordello, le persone conosciute fino a quel momento appartenevano già al passato. C'ero solamente io, la mia angoscia e il mondo fuori stante.


Quando tornai a casa afferrai una sacca, ci buttai dentro i soldi e qualche indumento. Il minimo indispensabile. Non volevo macchiare il mio futuro con qualche oggetto del passato.
Uscii senza voltarmi, a passo spedito mi recai dinnanzi alla gradinata, quella che conduceva verso l'esterno. Un gendardo allampanato dal volto allungato si parò davanti.
<< Voglio comprare la cittadinanza >> allungai immediatamente il plico di soldi.
Lui mi scrutò da capo a piede arricciando il naso. Le afferrò e le contò il denaro, quando arrivò alla cifra desiderata, s'intascò il compenso e tirò fuori un quaderno e una penna.
<< Dimmi il tuo cognome >> ordinò asettico
<< Non ce l'ho >> dissi spontaneamente.
<< Puoi anche inventartelo >>
<< No >> dissi secca. Che senso poteva mai avere? Il cognome designa la famiglia d'appartenenza dell'individuo e dato che mia madre era la figlia di nessuno, il cognome non ce lo avevo. Se mi fossi informata sull'identità di mio padre avrei potuto accontentare il Gendarmo irritato. Quest'ultimo difatti sbuffò chiaramente scocciato dalla situazione.
<< Il nome, quello ce l'hai? >>
<< Lysa >> prima di rispondere riflettei e in un battito di ciglia decisi di lasciare giù nella terra sotterranea la E, la vocale che stava ad Erika. Elysa non esisteva più.
Il soldato compì un giro attorno a me, mi ispezionò controllando che addosso non avessi armi.
<< Non sei armata, hai i soldi e non sembri malata . Manderò la richiesta al registro anagrafe e se tutto fila liscio ti consegnerò i documenti fra breve>>


Attesi sulle gradinate un'intera giornata, non sarei tornata a casa per nessuno ragione al mondo. Non temevo più il mondo esterno, bensì quello che m'ero lasciata dietro. Un terribile ammasso di violenza, sangue, fame e ricordi, alcuni dolci, altri brutali. Era strano, ma quelli che facevano più male erano momenti addolciti dalle carezze di mamma, quelli pieni di risate poiché sapevo che là fuori non avrei mai trovato lo stesso calore che mamma m'aveva trasmesso durante gli anni. Avevo perso qualcosa di così grande e lo sentivo, nel mio petto s'era formata una voragine che niente e nessuno avrebbe più potuto colmare.



L'ingresso nel nuovo mondo fu ceco.
Non vidi nulla, fui letteralmente accecata dal sole. La luce m'arrivava dritta in faccia producendo lunghe e dolorose fitte alla testa.
Camminai a lungo su passi incerti, tenevo la testa bassa per controllare i miei piedi dato che non riuscivo a rizzare la schiena che un raggio solare mi colpiva e la vista diveniva tutta cosparsa di macchie e lustrini.
Ceca camminai a lungo fino a quando non sbattei contro il petto d'un ragazzo, non domandai scusa e quest'ultimo mi inseguì. Convinta che volesse mollarmi una ceffone per l'offesa arrecata, strinsi il pugno pronta per difendermi.
Ma non fu così, mi sbagliai di grosso. Non potendolo vedere in volto a causa della cecità, mi limitai ad ascoltarlo e capii che si trattava d'un giovane come me, lui però era gentile.
Non ricordo il motivo, ma ci sedemmo su una panca e lui cominciò a narrare il fatto che si stava addestrando per arruolarsi nella legione esplorativa, mi raccontò dei giganti, di quanto fossero misteriosi e spaventosi. Mi parlò della libertà e mi spiegò il motivo per cui eravamo obbligati a combatterli.
Il giovane si scusò perché s'era messo a blaterare senza neppure presentarsi così a lungo che difatti il sole era calato dietro le mura. Finalmente potei alzare gli occhi senza essere ferita dal sole. Vidi il suo sorriso, era sincero, liscio si distendeva lungo il volto.
<< Il mio nome è Trevis, tu come ti chiami? >>
<< Lysa >> risposi, infine stringemmo la mano.

Il giorno seguente cominciai l'addestramento per divenire soldato


Gli occhi si aprirono piano per incontrare un soffitto grigio.
Si svegliò con la bocca arida, secca e priva di saliva. Masticò a vuoto per scacciare via la secchezza . La sensazione arida venne immediatamente sostituita dal dolore, scaturiva dalla gamba e si propagava lungo tutto il corpo, ogni centimetro di pelle era inquinato, schiacciato da dolorose scosse elettriche.
Si sentiva così male che le pareva d'essere un vaso rotto con i pezzi incollati qua e là.
<< Buongiorno >>
piano girò il collo per trovarsi faccia faccia con un omino sciupato. Indossava il camice bianco così dedusse che si trattava d'un dottore
<< Signorina Lysa, durante la battaglia ha riportato un grave trauma toracico, inoltre la gamba gliela abbiamo dovuta ricostruire in sala operatoria >>
Gettò l'occhio all'ingiù e la vide appesa all'aria. Era ricoperta da un grande e spesso gesso dal quale uscivano due lunghi chiodi.
<< Potrò tornare a combattere >> chiese a voce roca, voleva saperlo immediatamente e difatti fu l'espressione corrucciata del medico prima delle sue parole a confermare il suo timore.
<< Signorina, tutti i partecipanti alla missione sono morti, è un miracolo che sia ancora viva. Si riposi >> si congedò con parole asettiche, come se fosse stata così fortunata da non meritarsi nient'altro che la vita. Certo, era viva, ma che vita le avevano lasciato? Quella di una storpia e i soldati storpi combattevano? Ovviamente no, quelli venivano congedati con una medaglia, il loro futuro era sconosciuto perché sparivano dalla vista di tutti. Forse andavano a rifugiarsi nella città sotterranea ove nessun poteva vederli.
Non ebbe tempo di riflettere su ciò perché le palpebre calarono contro la sua volontà.


I giorni passarono e Lysa aveva perso il senso del tempo. Tali volte riapriva gli occhi che era giorno, altre era notte. Non poteva far altro che chiudere gli occhi e alle sue orecchie arrivavano rumori, voci soffuse e lontane. Le sembrava d'essere racchiusa in una bottiglia di vetro, difatti ogni singola cosa arrivava con una lentezza spossante e spesso non capiva neppure il senso delle frasi, tali volte arrivavano urla, altre volte sentiva qualcuno piangere ma nulla riusciva a riscuoterla da quello strano stato di sonnolenza perenne. Nulla riusciva a penetrare quella gabbia di vetro nel quale giaceva.


Si svegliò, quella volta riuscì a tenere le palpebre aperte. Incredula e stupita del fatto di non essere sprofondata nel tepore del dormiveglia, rizzò un poco il busto per circumnavigare con lo sguardo l'ambiente circostante. Il silenzio dominava nella grande sala cosparsa di letti posti perpendicolarmente e colmi di persone sdraiate. Alcuni dormivano fasciati da capo a piede, altri invece stavano immobili come stoccafissi con lo sguardo rivolto verso l'alto. Parevano involucri vuoti privi di energia. Le uniche forme di vita in quella stanza sembravano essere le infermiere. Queste s'aggiravano tra i feriti a passo felpato con gli occhi altalenanti, pronte a intervenire in caso di bisogno.
Le pupille della ragazza girarono all'impazzata, sapeva chi cercare ma non vide la chioma color grano. Lo sguardo navigò alla ricerca di quel sorriso. Ne sentiva la mancanza

Trevis non c'è, sarà stato ricoverato in un altro ospedale. Devo trovarlo” pensò tra se e sé.

Si sbilanciò di lato pronta per mettere in pratica la ricerca.
<< Cosa sta facendo! >> urlò l'infermiera mettendosi subito al fianco di Lysa per impedirle di scendere dal letto
<< Me ne vado via. Sono viva e mi sento meglio, perciò voglio lasciare questo letto al prossimo ferito che verrà >> disse lei cercando di cacciare via le mani dell'infermiera che la bloccavano.
<< Non può! Ha subito pochi giorni fa un grosso intervento perciò deve riposarsi >>
<< Preferirei riposare a casa, non voglio stare in un ambiente asettico>>
Le mani dell'infermiera non si allontanarono, però la signora chinò il viso per guardarla dritta negli occhi.
<< Immagino che per te sarà più rilassante riposare in un ambiente familiare >>
Lysa guardò il volto rugoso della vecchia infermiera ed annuì con energia, aveva imparato a mentire nel corso degli anni.
<< Capisco. Allora domanderò al medico che ti ha operata se puoi tornare a casa. >> finalmente lasciò le sue braccia e prima d'incamminarsi fuori dalla stanza le intimò
<< Guai a te se scappi >>
Lysa annuì solennemente ma era una brava bugiarda, difatti non attese l'infermiera. Afferrò delle stampelle poste al fianco del letto, camminò via a passo zoppo stando bene attenta a non incrociare infermieri e dottori lungo la via.

Percorse la città. Le viscere dolevano, ogni passo su quelle stampelle e ogni pezzo di pelle tirava così tanto che le ossa perevano voler uscire fuori dalla pelle.
A denti stretti continuava a camminare, vedeva persone correre tra le macerie, scavare tra i sassi, urlare nomi nella speranza che i chiamati rispondessero sotto i pezzi di mura.
Anche Lysa stava cercando qualcuno, ma non lo chiamò dato che gli pareva inutile.

Si recò nel posto dove era rimasta ferita.
Grazie alla presenza di sangue rosso schizzato tra le macerie riuscì a riconoscere il luogo.
Zoppiccò qualche passo non sapendo neppure dove guardare in quello sfacelo. Guardò attentamente e non vide alcun cadavere, neppure qualche pezzo di pelle.
<< Trevis … >> chiamò a bassa voce senza crederci realmente. Non era ingenua, la speranza che fosse sopravvissuto non era altro che una bella balla che si narrava a se stessa. Una dolce bugia come quelle che le raccontava sua madre.
Doveva essere rude con se stessa per scacciare via la splendida illusione
<< Trevis, tu sei morto. Mi hai salvato e sei crepato. Anche il caporale Levi mi ha salvata, chissà se lui è morto … >> disse sottovoce per voltare le spalle alle macerie.
Ogni passo era uno sforzo incredibile, camminava evitando i massi sparsi qua e là fino a quando non fu costretta a fermarsi. Il fiato si era fermato nella gola, la pelle era madida di sudore e i capelli le si appiccicavano alla fronte rendendole impossibile proseguire il cammino.
<< Fanculo >> ringhiò cercando di scostare con una mano i ciuffi appiccicati.

perchè il caporale mi ha salvata? “ pensò tra se e sé con rabbia, come se gli avesse procurato un dispetto enorme lasciandogli quella vita.

Levi lo aveva già visto da qualche parte, non a cavallo mentre si direzionava verso la la guerra, neppure mentre scorrazzava nel cielo come una rondine. L'aveva già incontrato, magari mentre passeggiava in abiti civili, sì doveva essere andata così perché sentiva d'averlo già incontrato, la sensazione era nata nel momento in cui i loro occhi s'erano incrociati all'interno del castello. Quell'espressione strafottente, i capelli neri come l'ebano e poi gli occhi che parevano dello stesso colore della tempesta. Li aveva già incontrati.
Si fermò per prendere fiato, camminare affidandosi a una sola gamba e alle braccia era terribilmente faticoso.
Alzò lo sguardo per incontrare la vetrina impolverata d'un negozio rimasto miracolosamente intatto. Rimase immobile con le palpebre spalancate a scrutarsi perché nel riflesso c'era una persona che non doveva esserci, eppure c'era sempre stata. Il problema è che non l'aveva mai notata.
Scosse la testa con energia per scacciare via il pensiero.
<< Devo riposarmi … >> disse sotto voce.
L'unica casa che l'era rimasta era sotto terra, nel ghetto dove aveva lasciato la sua vita.
Lì andrà per ricomporre i pezzi, i pensieri sbilenchi.


Ciao :)

Mi inchino e chiedo scusa a tutti coloro che seguono la storia perché ho pubblicato con un ritardo spaventoso. Ho dichiarato fin dall'inizio che la storia era già stata scritta ma ahimè, mi sono lasciata trasportare dalle modifiche, dai ripensamenti, così ora mi ritrovo a riscrivere i restanti capitoli.
Tornando al capitolo appena pubblicato, che posso dire? Lo definirei un capitolo doveroso perché ho fatto una volta per tutte luce sul passato di Lysa e devo ammettere che ho provato un po di ansia nel momento in cui l'ho pubblicato dato che il personaggio non ha vissuto una vita molto piacevole, ma in fondo parliamo della città sotterranea e credo che nessun individuo possa condurre una vita adagiata in quel luogo.
Per quanto riguarda la storia ormai siamo agli sgoccioli, ci sono giusto altri due capitoli, forse uno se riesco a narrare tutto.

Che altro posso dire? Niente, lascio a voi l'opinione:D

Spero di sentirvi

un abbraccio

Mistiy

   
 
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