Dove ho lasciato la mia vita
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Il diario di Lysa
“ Degradante”,
Definiscono
così la città sotterranea, di conseguenza la
gente che vive là
sotto è “degradata”. Strano, quando ero
una bambina non sapevo
neppure cos'era il degrado; passavo le giornate nella polvere con i
miei coetanei, giocavamo, ci azzuffavamo, ci mordevamo per poi
tornare a casa pieni di lividi. Ammazzavamo il tempo così.
Tornavo
a casa e aspettavo il rientro di mamma, lavorava tanto e io avevo un
sacco di tempo libero così quando non stavo fuori a
rotolarmi nella
polvere, lavavo il piccolo alloggio da cima a fondo. Quando giungeva
a casa, mamma era felice di trovare la catapecchia pulita.
Il
mondo sottoterra è piccolo, cupo, sporco quanto la tana d'un
topo,
ma il mio pianeta iniziava e finiva nella mamma. Era un mondo
caloroso, piccolo ma al contempo immenso. L'affetto che mi donava non
poteva essere quantificato, tuttora non so dargli una
dimensione.
Aspettavo sempre il suo rientro e quando giungeva
scoppiavo di gioia poi ci sedavamo alla tavola apparecchiata per
mangiare.
Mamma mi prometteva che si sarebbe presa un giorno
libero per stare con me perché ero piccola e non dovevo
trascorrere
tutto quel tempo da sola. Non lo faceva mai, il lavoro assorbiva
tutto il suo tempo ma non m'interessava, m'accontentavo della
promessa e sorridevo.
Mi
bastava fermarmi pochi attimi con lei per essere felice.
Il sole
non batteva nella città ma non m'importava un
granché, passavo le
dita tra i capelli biondi, l'abbracciavo e mi sentivo già
riscaldata, chi aveva bisogno del sole quando c'era qualcuno che
t'amava?
Il tutto non m'appariva così degradante.
Trascorsi
così la mia infanzia e mai neppure per una volta ho pensato
d'essere
una persona degradata, ma poi si cresce e io dovetti farlo in fretta.
Successe
un giorno, credo d'aver avuto allora dieci anni e come al solito
mamma tornò a casa. Non sorrise, non si
complimentò per l'odore di
pulito, per l'assenza di polvere in casa. Era strana, sotto gli occhi
s'erano formati due solchi neri quanto le sue pupille. Camminava con
lentezza a schiena incurvata.
<< Mamma, stai bene? >>
domandai con titubanza
<< Sì, sì . Devo solo riposarmi.
Non preoccuparti >> sorrise per poi nascondersi sotto le
coperte. Mi rassicurò più di una volta del suo
stato di salute,
eppure il timore si fece spazio nella mia anima.
Il
timore dopo due giorni si tramutò in terrore
poiché era ufficiale:
la malattia s'era insidiata nella nostra casa.
Da quando s'era
messa a letto non s'era più alzata. Non faceva altro che
dormire, il
suo respiro pesante veniva spezzato da colpi di tosse potenti e io
tremavo. Avevo visto così tante persone scomparire, forse
era giunto
il momento di mamma ma non potevo accettarlo.
Dormiva ma io mi
ostinavo a svegliarla perchè doveva nutrirsi per combattere
la
malattia, lei apriva le palpebre lentamente e mi liquidava con parole
confortevoli del tipo “ non preoccuparti, fra qualche giorno
starò
bene”.
Passò
una settimana e non ero più impaurita ma terrorizzata! Mamma
era
cambiata: le sue guance erano scavate e il colore della sua pelle
aveva assunto sfumature bluastre.
Dovevo fare qualcosa e così
alla mente balenò un'idea: aveva bisogno di un farmaco e
solo chi
vive nella città sotterranea sa quanto è
difficile procurarsene
uno, li vendevano al mercato nero, erano pochi e talmente cari che la
gente s'indebitava per acquistarli. Non era il nostro caso, noi
avevamo dei soldi messi da parte. All'interno dell'armadio c'era una
piccola scatolina di legno colma di banconote stropicciate, ogni
volta che mamma tornava a casa dal lavoro metteva all'interno qualche
soldo.
“ Questi
soldi sono intoccabili Elysa, li useremo per uscire dalla
città
sotterranea” mi disse una volta.
Stando ben attenta a non
produrre alcun rumore, aprii l'armadio, rovistai tra gli ammassi di
stoffa alla ricerca del piccolo tesoro. Quando lo presi tra le mani
un grignolino di gioia mi sfuggì dalle labbra e purtroppo
svegliai
anche mia madre. Venni colta in fragrante: nel momento in cui i
nostri sguardi si scontarono, nascosi dietro la schiena la scatola
rettangolare ma fu inutile poiché mia madre ci vedeva
dannatamente
bene.
<< Rimettilo al suo posto >> la sua voce
era
fioca ma il rimprovero giunse forte e chiaro alle mie orecchie.
<<
No >> dissi guardando le punte delle mie scarpe. Mamma
raramente mi sgridava poiché era una donna affettuosa e ogni
rimprovero era rivestito da un tono vocale morbido sempre
accompagnato da un mezzo sorriso, ma quella volta il suo volto era
spaventoso. La sua voce era flebile e ruvida quanto la carta vetrata,
mille pieghe s'erano formate lungo la fronte.
<< Rimettili
al suo posto >> m'intonò con un velo di
minaccia insito nella
voce.
Scossi la testa senza innalzare gli occhi.
<<
Smettila di fare i capricci e rimetti la scatola al suo posto
… >>
innalzò il tono vocale ma la frase rimase sospesa nell'aria
poiché
fu colta da un ruggente colpo di tosse.
Cercava di soffocare il
rumore ponendo la mano sulla bocca, ma la tosse promanante dai
polmoni era talmente rumorosa che mi spaventai. L'avevo fatta agitare
e un malato doveva starsene tranquillo, così rimisi la
scatola al
suo posto e mi affiancai a lei per massaggiarle la schiena.
Quando
finalmente smise di tossire, scostò la mano dalla bocca. Sul
palmo
s'erano deposte gocce di sangue.Guardai il rosso e fui colta da una
disperazione ceca.
<< Mamma, non morire! >> urlai e
lei non si scosse. Si limitò a guardarmi mentre cercavo di
trattenere le lacrime brucianti.
<< Non posso deciderlo io,
ma anche se morissi la vita continua, tu vivrai anche senza di me
…
>>
<< No, no! >> urlai forte ponendo le mani
contro le orecchie. Non volevo sentirla, non poteva arrendersi
perché
non potevo immaginare una vita senza di lei.
<< Elysa … >>
intrappolò la mia testa fra le mani e mi
guardò dritta negli
occhi, aprì le labbra ma io le impedii di parlare
poiché urlai
<<
Abbiamo i soldi! Usiamoli per curarti! >> sbottai, quanta
paura
rivestita di rabbia s'era insinuata nel mio cuore.
Lei incurvò le
labbra verso l'alto rivolgendomi un sorriso forzato.
<< No,
quelli non si possono toccare. Sono per la tua cittadinanza
>>
<<
Non me ne importa nulla! Se tu non ci sarai più che cosa me
ne
faccio della cittadinanza?! >>
<< Per vivere una bella
vita >>
Piansi e l'abbracciai forte. Non le dissi che non
potevo esistere senza di lei, non riuscivo neppure a immaginarmi un
futuro. In fondo ero una mocciosa e nessun moccioso presente al mondo
vuole assistere alla morte del proprio genitore.
Piansi tanto e
lei si limitò ad accarezzarmi la schiena. Non disse nulla
per tutto
il tempo, mi cullò e tra un singhiozzo e l'altro
m'addormentai.
Il
giorno seguente mi risvegliai sola con gli occhi gonfi e brucianti.
Un senso d'affanno mi colse vedendo il lato del letto accanto
vuoto.
“ La
morte se l'è portata via!” pensai, come se un
morto potesse
camminare via così facilmente, quanto ero stupida? I
cadaveri
rimangono immobili a decomporsi, fino a quando non puzzano talmente
tanto che qualche buon samaritano li getta via da qualche
parte.
Difatti la morte non se l'era portata via, mamma rincasò
dopo poche ore. Il mio cuore scoppiò di gioia quando la vidi
estrarre dalla borsa un flacone di vetro. Si trattava del suo
salvavita, noi del ghetto chiamavamo così i farmaci.
Le andai
incontro e l'abbraccia stando attenta a non farle male, diavolo s'era
consumata così tanto nel giro di poche settimane!
<< Hai
utilizzato i soldi della cittadinanza! >> non glielo
domandai,
era un'esclamazione esuberante giacché aveva deciso di non
lasciarsi
morire.
Lei slacciò l'abbraccio e mi rivolse un sorriso strano,
non era malinconico, forse beffardo. Tutt'ora non lo riesco a
interpretare, comunque sia mi disse : << no, quei soldi
non si
toccano >>
Io scrollai le spalle, come si fosse procurata il
denaro non poteva fregarmene un bene amato niente. Ero troppo felice
per preoccuparmene.
Passo
dopo passo, giorno dopo giorno riprese le forze. Certo dormiva molto
e non era nelle condizioni di lavorare perciò il cibo
scarseggiava a
casa, dato che quei dannati soldi non si potevano toccare, mi
dilettai in piccoli furti. Quando mamma dormiva andavo al mercato
nero, mi nascondevo nella baraonda di gente e furtiva allungavo la
mano qua e là rubando il cibo presente sui banchi, tali
volte
riuscivo a prendere anche dei portafogli. Mi procuravo il necessario
per mantenerci in vita.
L'unica cosa che m'importava era che lei
si stava riprendendo: le guance tornavano piene, gli occhi
più
lucidi e la pelle non era più così pallida. Mamma
si stava
rigenerando e la mia vita sarebbero tornate quella di sempre. Io
fuori a giocare con i miei coetanei, poi a casa ad attendere il suo
rientro.
Quel
giorno fu il rumore della serratura a svegliarmi. Mi alzai di scatto
con gli occhi semi chiusi e vidi mamma dinnanzi alla porta.
<<
Esci? >> chiesi stropicciando le palpebre con le dita.
<<
Sì >>
<< Vai a lavorare? >>
Non ripose
subito, ma alla fine annuì, allora rasserenata dalla
conferma mi
sdraiai con la sicurezza che tutto era tornato come prima.
Mia
madre m'impedì di chiudere gli occhi perché si
sedette sull'orlo
del materasso.
<< Elysa? >> alzai gli occhi per
incrociare quelli neri di mamma. Le sue labbra erano incurvate verso
il basso e trovai il fatto alquanto strano. Pensai che doveva
comunicarmi qualcosa d'importante e così mi sforzai di
tenere le
palpebre aperte.
<< Se qualcuno bussa alla porta tu non
aprire, mai, per nessuna ragione, chiaro? >>
Annuì, era una
cosa che mi diceva sempre prima d'uscire
<< Ricordati che i
soldi quelli nascosti nell'armadio, non si toccano. Servono per
comprare la cittadinanza. Quando sarà il momento opportuno,
tu vai
dai gendarmi con i soldi in tasca >>
Annuii di nuovo. Era
una delle tante raccomandazioni.
Ci fu un momento di silenzio,
durò qualche istante e vidi gli occhi di mamma diventare
liquidi
come inchiostro. Non mi diede il tempo di preoccuparmi di tale cosa
perché le sue labbra s'incurvarono verso l'alto e mi
regalò un
sorriso stupendo, uno di quelli capaci di dissipare ogni dubbio,
d'eliminare ogni incertezza.
<< Ricordati che ti amo >>
mi accarezzò la guancia e sorrisi. Anche quella era una
delle tante
cose che mi diceva.
Mi addormentai immediatamente, con la
certezza che sarebbe tornata per ridirmelo.
Mamma
non tornò.
Nessuno bussò alla porta.
Non so quanto tempo
trascorsi chiusa in casa, fatto stava che alla fine uscii per
cercarla tra le strade. Ovviamente non la trovai.
Erapassata una settimana, la trascorsi in solitudine, tali volte uscivo per cercarla ma poi tornavo sempre a casa. Per non pensare, per non annegare nella preoccupazione, pulivo. Ogni angolo, ogni mobile, ogni crepa, io la rendevo immacolata così che quando mamma sarebbe tornata a casa … che gioia! Quella casa doveva risplendere a tutti costi
I
giorni passavano e qualcuno bussò alla porta
<<
Erika? Sei in casa? >> con insistenza continuò
a bussare. Era
una voce femminile e non pareva affatto minacciosa così
decisi
d'infrangere il comando di mamma e con titubanza aprii l'uscio. Mi
ritrovai dinnanzi a una donna alta con il volto pieno di lentiggini e
una testa colma di ricci focosi.
<<
Tu sei la figlia di Erika, giusto? >>
<<
Sì , tu chi sei? >>
<<
Sono adriana, una collega di lavoro di Erika. Dov'è tua
madre? Non
si fa viva da giorni >>
<<
Non lo so. >>
<<
Davvero? >> disse sbarrando le palpebre senza celare la
preoccupazione, la stessa che mi stava divorando da giorni.
<<
allora chiederò in giro dove si è cacciata
…. >>
La donna sparì per poi ripresentarsi qualche giorno più in la. Mi disse che mia madre pareva essere scomparsa nel nulla, nessuno sapeva dove s'era cacciata e così mi propose d'andare a vivere con lei ma declinai l'offerta. Quella poveretta aveva già cinque figli da tirare su e poi io ce l'avevo già una mamma, non volevo sostituirla. Non era né morta né scomparsa, sarebbe tornata, ne ero certa. Non avrebbe mai osato lasciarmi sola.
Lei
era il mio mondo nonché il terreno sul quale poggiavo i
piedi, dove
sarei mai potuta andare? Senza il mio suolo sarei precipitata punto e
basta. Con questa convinzione lavai da cima fondo casa, andai persino
a pulire gli angoli spigoli, mi arrampicavo sui mobili alti
perchè
volevo eliminare qualsiasi granello di polvere. Serrai la porta,
chiusi le finestre, perchè la casa era immacolata e l'aria
malsana
della città non doveva contaminarla. Trascinai il materasso
nell'ingresso, sotto alla porta così quando mamma sarebbe
tornata a
casa l'avrei accolta a braccia spalancate, e lei sarebbe stata tanto
felice di trovare la casa immacolata.
Tutto
sarebe tornato come prima. Mamma, io, la casa pulita, mi bastava
questo per essere felice.
I
giorni passarono e mamma non tornò, io non volevo uscire ma
le
scorte di cibo erano terminate, i soldi c'erano ma quelli erano
intoccabili così andai a bussare alla porta di Arianna
<<
Dove lavorava mamma? >> gli chiesi, avevo deciso di
cercare un
lavoro e magari potevo sostituirla ma di fatto non sapevo che
mestiere praticasse, neppure l'ubicazione del luogo.
La
rossa storse il naso << se tua madre non te l'ha detto ci
sarà
un perchè >>
<<
Non m'importa, portami nel luogo in cui guadagnava il pane
perché
anche io devo mangiare >>
<<
No, sei troppo piccola! >> sbottò lei irritata
ma io me ne
infischiai, insistetti così tanto che alla fine decise
d'accompagnarmi. La strada non fu lunga, qualche isolato ed Arianna
mi indicò una grande case marrone incastonata tra le
catapecchie
laterali. Non cadeva a pezzi come la maggior parte delle costruzioni
della città sotterranea. Era alta, dotata di sei piani.
M'incamminai
verso il porticato dove stavano delle donne agghindate, non udendo il
rumore dei passi di Arianna mi arrestai per domandarle
<<
Tu non vieni? Non lavori anche tu qua? >>
<<
Oggi è il mio giorno libero e non voglio sprecarlo
lì dentro >>
Scrollai
le spalle per marciare verso la casa colossale
<<
Aspetta >> esclamò la rossa e io mi voltai
<< Tua
madre faceva la donna delle pulizie, domanda per questo lavoro, se
Lukro ti vuole affidare un'altra mansione non accettarla, capito?
>>
le pronunciò con una serietà unica
così annuì per accontentarla,
solo in seguito capii il senso delle sue parole e oggi la ringrazio
per averle pronunciate: il vecchio proprietario disse che le mie mani
erano troppo belle per essere immerse nel detersivo, io non gli
credetti e alla fine diventai la bimba delle pulizie del bordello.
Non
sapevo che mestiere praticasse la mamma, lavorava tanto
perché
s'assentava anche per giorni da casa ma io non ero curiosa, non
m'interessava come si procurava il necessario per vivere. in fondo
ero una bambina, mi bastava che tornasse a casa e il resto non era
rilevante..
La
consapevolezza del mestiere che le donne praticavano arrivò
gradualmente a passo scalzo. Non sapevo cosa fosse il sesso fino a
quando non lo vidi, sì lo vidi con i miei occhi. Stavo
pulendo il
corridoio del piano superiore, una delle tante porte era socchiusa e
da questa giungevano rumori soffocati che non parevano appartenere a
bestie. Spinta da una curiosità timorosa, mi accostai alla
porta e
sbirciai, quello che vidi mi sconvolse: due corpi nudi, la donna
stava sotto a gambe aperte, invece il maschio si dimenava con
ferocia.
Scottata
dalla scena mi allontanai immediatamente, afferrai la scopa e
ricomincia a pulire con energia, cercai d'ignorare i suoni disgustosi
provenienti dalla stanza.
Ero
una sciocca sconvolta, cosa potevano mai fare delle donne chiuse in
quelle stanze? Perchè arrivavano solamente uomini in quella
grande
casa? La risposta era talmente ovvia, ce l'avevo lì sotto al
naso
eppure ci arrivai solamente quando la vidi con i miei stessi
occhi.
Poi arrivò anche la consapevolezza che mamma non era la
donna delle pulizie, ma solamente una prostituta, una delle tante. Lo
dimostrava la paga settimanale, con quella che ricevevo riuscivo a
malapena a procurarmi il cibo, invece con le monete che portava a
casa mamma potevamo permetterci di soddisfare qualche sfizio.
Eppure
mamma non era come le prostitute situate nella casa, queste si
distinguevano in due categorie: alcune erano rabbiose, suscettibile e
bastava una mezza parola per farle arrabbiare e m'arrivava uno
schiaffo sui denti, altre invece parevano amebe prive di carattere.
Si movimentavano, parlavano con una strana lentezza. A dire il vero
parevano sorde e ceche.
Mamma non era così, lei era energica,
rideva, mai neppure per scherzo ho pensato che fosse una persona
triste, forse all'interno del bordello soffocava se stessa e si
trasportava con la mente in un altro posto durante le degradanti ore
lavorative.
E allora in quel tumulto di amebe finsi anche io
d'essere sorda e ceca.
Tra
la puzza di fumo, incenso e detersivo, divenni un adolescente senza
neppure accorgermene. Fu Arianna a farmelo notare
<<
Hey tu! >>
Mi girai per ritrovarmi dinnanzi a una donna dai
lunghi capelli ricci e focosi
<< Che cosa diamine stai a
fare qua? >> chiese lei con severità, dato che
ero muta le
mostrai lo spazzettone e il secchio colmo d'acqua acquitrina. Era
ovvio il mio mestiere.
<< Non intendevo questo. Ti sei
guardata allo specchio? Hai visto come ti guardano i clienti?
>>
accennai un no col capo dal momento che non guardavo mai
il mio riflesso, ci vedevo spesso la mamma e la cosa m'infastidiva.
Stavo sempre con la schiena piegata sul pavimento alla caccia di
macchie e sporcizia.
Uno sbuffo esasperato uscì dalla sua bocca,
si avvicinò e con poca grazia pose la mano sul mio seno.
Scandalizzata scattai all'indietro urlando << “
che cazzo
fai?! >>
<< Che cazzo fai tu? Non lo capisci? Ti sta
crescendo il seno, ti stanno venendo fuori i fianchi, stai diventando
una donna appetibile, credi veramente che potrai continuare a pulire
i cessi d'un bordello? >>
<< Perchè, dove sta il
problema? >>
<< Sei davvero così ingenua? >>
Arianna alzò gli occhi verso il soffitto per poi proseguire
con una
certa noia << tra le gambe hai una piccola miniera d'ora
e ben
presto il proprietario ti costringerà ad usarla, a nessun
cliente
importa che il luogo sia profumato. >>
Sconvolta sbarrai le
palpebre, qualcuno poteva veramente costringermi a prostituirmi?
<<
Vattene via finché sei in tempo, altrimenti farai la mia
fine e
quella di tua madre. >>
Quelle parole bruciarono come fuoco,
avrei fatto la fine di mia madre? Ma quale era stata la sua fine? Non
sarebbe mai più tornata, oramai era divenuto un fatto chiaro
e
cristallino dato che non l'avevo mai più incrociata neppure
per
caso. Ma che fine aveva fatto?
Certo, da quello che avevo capito
aveva trascorso gli anni lì dentro, s'era lasciata possedere
da
uomini schifosi in cambio di denaro che io stessa avevo utilizzato
per sopravvivere all'interno della città. Anche io avrei
percorso i
suoi stessi passi?
Abbandonai la scopa per chiudermi all'interno
d'una delle camere vuote del bordello. Mi spoglia dinnanzi allo
specchio, scostai la lunga frangia dal viso e mi guardai con un certo
distacco, come se il riflesso non rispecchiasse me stessa
bensì
un'altra persona. Era una ragazza così magra, le scapole
erano
talmente pronunciate che parevano voler schizzare fuori dalla
pelle.
Corse giù lo sguardo e vidi due piccole coppe morbide e
pallide, scesi ancora di più e dalle costole sbucavano due
curve
aguzze.
Arianna
aveva ragione, stavo diventando una creatura simile a tutte le donne
presenti nel bordello. Avevo due scelte: diventare una prostituta per
poi consumarmi fino a morire, oppure andare via verso un mondo che
non conoscevo e tentare di vivere.
Mentre
mi rivestivo promisi a me stessa che me ne sarei andata.
Ogni
giorno rimandavo la dipartita dal mondo sotterraneo, la vita che
stavo vivendo era degradante e il futuro si prospettava peggiore del
presente stesso, eppure qualcosa mi tratteneva. Probabilmente era la
paura, già avevo paura d'andare via da sola. Il mondo
sotterraneo
faceva schifo, ma almeno lo conoscevo. Il mondo sovrastante invece
era una incognita, chi poteva mai assicurarmi che sotto un cielo blu
avrei vissuto una vita migliore?
. ***
<< Ce
l'ho un padre? >>
lo chiesi un bel giorno spinta da una
curiosità innata che tutti i bambini sprovvisti d'un
genitore
possiedono.
Mamma
mi prese in braccio e seduta sulle sue ginocchia cominciò a
raccontare: disse che mio padre era un'eroe che era sceso a patti con
se stesso ma nonostante tutto credeva nella libertà ma non
la
processava poiché lui era un uomo dall'animo gentile, non
avrebbe
mai osato opporre una propria convinzione nelle teste altrui. Era un
uomo che non si piegava allo squallore, alla vigliaccheria, al
malessere generale. Lui era l'uomo che aspirava alla
libertà, un
piccolo eroe che combatteva contro se stesso e il mondo circostante,
che non si piegava dinnanzi a nessuno e che un giorno l'avrei
incontrato lassù, nel mondo sovrastante perché
nelle mie vene
scorreva il suo sangue, per tal motivo dovevo seguire le sue
orme.
Non mi disse il suo nome poiché non glielo chiesi, allora
non m'interessava, mi bastava sapere d'essere stata generata da un
padre.
Lavorando nel bordello mi resi conto che m'aveva raccontato
una bella quanto finta fiaba.
Mia
madre lavorava nel bordello da anni, ancora prima che nascessi
perciò
l'uomo che aveva contribuito alla mia nascita non poteva trattarsi
d'un eroe ma d'un lurido cliente.
Li vedevo come i clienti
trattavano le donne: le prendevano con violenza, le piacchiavano
scaricavano addosso lo squallore della loro stessa vita. Certo,
alcuni erano gentili, così si potevano definire coloro che
s'accontentavano dell'ebbrezza del coito sacrificando qualche
moneta.
Mio padre non era un eroe, era uno schifoso puttaniere che
aveva ingravidato mia madre costringendola a quella miserabile vita.
Già, avevo riflettuto a lungo ed ero giunta a una
convinzione: se
mia madre non fosse rimasta incinta, lei se ne sarebbe andata dal
bordello dopo aver racimolato i soldi necessari per la cittadinanza e
invece sono capitata io. Mio padre ed io siamo stati la sua rovina,
il suo cancro che l'ha costretta a rimanere immobile lì, a
consumarsi giorno dopo giorno per mantenere una figlia nata dalla
violenza e dal soldo.
Avevo contribuito alla scomparsa di mia
madre.
Non
volevo conoscere mio padre ma un giorno accadde.
Era una giornata
tranquilla, non c'erano clienti nella hall così mi misi a
pulire il
grande spiazzo sotto l'occhio vigile di Lukro, quello se ne stava a
sedere beatamente dietro al bancone. Mi guardava e poi leggeva il
registro contabile tra una boccata di pipa e l'altra.
L'uscio si
aprì, in genere non guardavo mai i clienti che entravano, ma
di
sottecchi sbirciai. Era vestito in modo elegante, portava una camicia
e una giacca nera di velluto. Dietro gli abiti perfettamente stirati
si nascondeva una grossa e disgustosa pancia, ricordo che bottone
della giacca a stento rimaneva fermo sul punto vita.
Era un grasso
porco, come tanti, ma quello che catturò la mia attenzione
furono i
suoi capelli: dal cappello a cilindro scendeva una capigliatura
liscia e scura quanto le ombre della città. Quella
tonalità così
nera l'avevo vista solamente addosso a me stessa.
Non fu solo
questo ad attirare la mia attenzione. Il grasso porco si
fermò e i
nostri sguardi si incrociarono e li vidi, sotto le soffuse luci del
locale vidi brillare due piccoli occhietti cerei. Si infossavano tra
le pieghe del suo volto ma ne ero certa, quegli occhi erano grigi
come i miei, come l'acqua sporca raccolta all'interno del secchio
sotto stante ai miei piedi.
Ci scrutammo a lungo, ci studiammo e
sentii qualcosa movimentarsi nel mio petto, era animalesco e
rabbioso.
Alla fine camminò via verso Lukro e io continuai a
spazzare il pavimento con una certa foga. In me s'era accesa la
rabbia, una miccia pericolosa che non portava a nulla di buono.
Non c'erano dubbi. Quello era mio padre e non vedevo l'ora di ucciderlo.
. *** .
“ Quell'uomo è interessato a te, che dici? Vuoi fare un po' di soldi?” mi disse Lukro e io ovviamente accettai, potevo rimanere sola con quel porco e così colsi l'occasione .
Il
giorno seguente mi ritrovai distesa sul letto di una delle tante
camere che avevo pulito da cima a fondo.
Addosso avevo un lunga e
setosa camicia da notte, l'aveva comprato l'uomo per farmela
indossare.
I lunghi capelli erano racchiusi in una treccia che
cadeva sulla spalla destra, mi aveva pettinato con cura una
prostituta del posto.
Lo attendevo con impazienza. Toccai la punta
del pugnale posta sotto al cuscino e il cuore cominciò a
battere
frenetico, gli occhi balenavano lungo la stanza e il fiato diveniva
sempre più corto. Ero eccittata, tale stato fisico non
scaturiva
dalla prospettiva del sesso, bensì dalla vendetta: non
vedevo l'ora
d'immergermi nel sangue del porco, berlo per poi invocare la
giustizia.
Arrivò senza bussare, rimasi immobile mentre chiuse la
porta. Lo guardai spogliarsi per porre le vesti sulla sedia. Era
disgustoso, la pelle sbilenca cascava verso il basso, ogni movimento
era accompagnato da un tremore del suo corpo. Non m'importava, mi
bastava porre il pollice sulla lama del coltello nascosto e il
disgusto calava giù nello stomaco.
Si mise sopra di me a
cavalcioni, voleva domarmi e io rimanevo inerme, qualsiasi cosa
poteva farmi poiché sapevo come sarebbe finita quella
vicenda,
ovviamente tutto era a mio beneficio. Dovevo solamente ignorare le
sue mani grassocce e sudate, le labbra bavose e vogliose, l'erezione
schifosamente ritta.
M'aveva
strappato le vesti di dosso e non faceva altro che strusciarsi.
Quando spalancò le mie gambe capii che il momento stava
giungendo.
Io sudavo e ansimavo, forse lui deve averla intesa come una
sottospecie di febbri citazione sessuale, così fu veloce. In
un
colpo solo penetrò.
Strinsi
i denti per soffocare il dolore e lo guardai. Si muoveva dentro di me
con spinte forti, la sua pelle si dimenava e la voglia di sgozzarlo
cresceva sempre di più, ad ogni spinta. Ma dovevo essere
paziente e
così attesi il momento che non tardò ad arrivare.
Lo vidi stringere
forte gli occhietti grigi, emanò un lungo brontolio
gutturale. Era
il momento, era distratto e reso ubriaco dall'orgasmo.
Inclinò
all'indietro la testa mostrandomi la lunghezza della gola e
così lo
feci. Veloce piantai la lama, sprofondò nella carotide.
Mi arrivò
addosso una cascata calda odorante di ruggine, tenni le palpebre
aperte, non distolsi lo sguardo da quegli occhietti stupiti.
Spalancati e inniettati di sangue mi guardava, apriva la bocca per
emanare brontoli sbottanti di sangue.
Mi cascò addosso e il suo
corpo preso dalla convulsioni si muoveva a scatti. Non mi scostai,
rimanevo lì a sentirlo, petto contro petto il suo cuore
scalpitava
come se volesse uscire dalla gola. Rimasi lì, immersa nella
sostanza
vischiosa fino a quando il suo corpo non smise di tremare assieme al
suo cuore.
Rimaneva un'ultima cosa da fare: avevo eliminato il
cancro principale di mia madre, ora rimanevo io. Puntai la lama sulla
carotide pulsante ma ero indecisa. Avevo visto mio padre morire
eppure la cosa non m'aveva recato alcuna gioia, neppure un briciolo
di soddisfazione. Difatti non era cambiato niente: lui era morto ma
la mamma non sarebbe mai più tornata a casa, cosa avevo
risolto? Un
bel niente. Se mi fossi suicidata avrei risolto qualche problema? No,
però avrei smesso di soffrire.
Scostai il cadavere con rabbia,
non lo guardai neppure.
Mi alzai e acchiappai dei vestiti che
infilai in fretta e furia.
Il suicidio non era la risposta,
soltanto soffrendo là fuori avrei estirpato la colpa
d'essere venuta
al mondo.
Ricordo
d'essermi cambiata, d'aver pulito meticolosamente ogni traccia di
sangue dal mio collo, dal volto, dalle braccia. Indossai degli
indumenti puliti, che avevo preparato sulla sedia
Ignorai il
cadavere e per evitare d'essere vista da Lukro e dalle restanti
donne, mi buttai giù dalla finestra. Era al secondo piano
perciò
riusci a cadere sui miei piedi senza procurarmi alcun dolore.
Non
mi voltai, neppure per dare una fugace occhiata alla struttura. Il
bordello, le persone conosciute fino a quel momento appartenevano
già
al passato. C'ero solamente io, la mia angoscia e il mondo fuori
stante.
Quando
tornai a casa afferrai una sacca, ci buttai dentro i soldi e qualche
indumento. Il minimo indispensabile. Non volevo macchiare il mio
futuro con qualche oggetto del passato.
Uscii senza voltarmi, a
passo spedito mi recai dinnanzi alla gradinata, quella che conduceva
verso l'esterno. Un gendardo allampanato dal volto allungato si
parò
davanti.
<< Voglio comprare la cittadinanza >>
allungai immediatamente il plico di soldi.
Lui mi scrutò da capo
a piede arricciando il naso. Le afferrò e le
contò il denaro,
quando arrivò alla cifra desiderata, s'intascò il
compenso e tirò
fuori un quaderno e una penna.
<< Dimmi il tuo cognome >>
ordinò asettico
<< Non ce l'ho >> dissi
spontaneamente.
<< Puoi anche inventartelo >>
<<
No >> dissi secca. Che senso poteva mai avere? Il cognome
designa la famiglia d'appartenenza dell'individuo e dato che mia
madre era la figlia di nessuno, il cognome non ce lo avevo. Se mi
fossi informata sull'identità di mio padre avrei potuto
accontentare
il Gendarmo irritato. Quest'ultimo difatti sbuffò
chiaramente
scocciato dalla situazione.
<< Il nome, quello ce l'hai?
>>
<< Lysa >> prima di rispondere riflettei e
in
un battito di ciglia decisi di lasciare giù nella terra
sotterranea
la E, la vocale che stava ad Erika. Elysa non esisteva più.
Il
soldato compì un giro attorno a me, mi ispezionò
controllando che
addosso non avessi armi.
<< Non sei armata, hai i soldi e
non sembri malata . Manderò la richiesta al registro
anagrafe e se
tutto fila liscio ti consegnerò i documenti fra
breve>>
Attesi
sulle gradinate un'intera giornata, non sarei tornata a casa per
nessuno ragione al mondo. Non temevo più il mondo esterno,
bensì
quello che m'ero lasciata dietro. Un terribile ammasso di violenza,
sangue, fame e ricordi, alcuni dolci, altri brutali. Era strano, ma
quelli che facevano più male erano momenti addolciti dalle
carezze
di mamma, quelli pieni di risate poiché sapevo che
là fuori non
avrei mai trovato lo stesso calore che mamma m'aveva trasmesso
durante gli anni. Avevo perso qualcosa di così grande e lo
sentivo,
nel mio petto s'era formata una voragine che niente e nessuno avrebbe
più potuto colmare.
L'ingresso
nel nuovo mondo fu ceco.
Non vidi nulla, fui letteralmente
accecata dal sole. La luce m'arrivava dritta in faccia producendo
lunghe e dolorose fitte alla testa.
Camminai a lungo su passi
incerti, tenevo la testa bassa per controllare i miei piedi dato che
non riuscivo a rizzare la schiena che un raggio solare mi colpiva e
la vista diveniva tutta cosparsa di macchie e lustrini.
Ceca
camminai a lungo fino a quando non sbattei contro il petto d'un
ragazzo, non domandai scusa e quest'ultimo mi inseguì.
Convinta che
volesse mollarmi una ceffone per l'offesa arrecata, strinsi il pugno
pronta per difendermi.
Ma non fu così, mi sbagliai di grosso. Non
potendolo vedere in volto a causa della cecità, mi limitai
ad
ascoltarlo e capii che si trattava d'un giovane come me, lui
però
era gentile.
Non ricordo il motivo, ma ci sedemmo su una panca e
lui cominciò a narrare il fatto che si stava addestrando per
arruolarsi nella legione esplorativa, mi raccontò dei
giganti, di
quanto fossero misteriosi e spaventosi. Mi parlò della
libertà e mi
spiegò il motivo per cui eravamo obbligati a combatterli.
Il
giovane si scusò perché s'era messo a blaterare
senza neppure
presentarsi così a lungo che difatti il sole era calato
dietro le
mura. Finalmente potei alzare gli occhi senza essere ferita dal sole.
Vidi il suo
sorriso, era
sincero, liscio si distendeva lungo il volto.
<< Il mio nome
è Trevis, tu come ti chiami? >>
<< Lysa >>
risposi, infine stringemmo la mano.
Il giorno seguente cominciai l'addestramento per divenire soldato
Gli occhi
si aprirono piano per
incontrare un soffitto grigio.
Si
svegliò con la bocca arida, secca e priva di saliva.
Masticò a
vuoto per scacciare via la secchezza . La sensazione arida venne
immediatamente sostituita dal dolore, scaturiva dalla gamba e si
propagava lungo tutto il corpo, ogni centimetro di pelle era
inquinato, schiacciato da dolorose scosse elettriche.
Si
sentiva così male che le pareva d'essere un vaso rotto con i
pezzi
incollati qua e là.
<<
Buongiorno >>
piano
girò il collo per trovarsi faccia faccia con un omino
sciupato.
Indossava il camice bianco così dedusse che si trattava d'un
dottore
<<
Signorina Lysa, durante la battaglia ha riportato un grave trauma
toracico, inoltre la gamba gliela abbiamo dovuta ricostruire in sala
operatoria >>
Gettò
l'occhio all'ingiù e la vide appesa all'aria. Era ricoperta
da un
grande e spesso gesso dal quale uscivano due lunghi chiodi.
<<
Potrò tornare a combattere >> chiese a voce
roca, voleva
saperlo immediatamente e difatti fu l'espressione corrucciata del
medico prima delle sue parole a confermare il suo timore.
<<
Signorina, tutti i partecipanti alla missione sono morti, è
un
miracolo che sia ancora viva. Si riposi >> si
congedò con
parole asettiche, come se fosse stata così fortunata da non
meritarsi nient'altro che la vita. Certo, era viva, ma che vita le
avevano lasciato? Quella di una storpia e i soldati storpi
combattevano? Ovviamente no, quelli venivano congedati con una
medaglia, il loro futuro era sconosciuto perché sparivano
dalla
vista di tutti. Forse andavano a rifugiarsi nella città
sotterranea
ove nessun poteva vederli.
Non
ebbe tempo di riflettere su ciò perché le
palpebre calarono contro
la sua volontà.
I
giorni passarono e Lysa aveva perso il senso del tempo. Tali volte
riapriva gli occhi che era giorno, altre era notte. Non poteva far
altro che chiudere gli occhi e alle sue orecchie arrivavano rumori,
voci soffuse e lontane. Le sembrava d'essere racchiusa in una
bottiglia di vetro, difatti ogni singola cosa arrivava con una
lentezza spossante e spesso non capiva neppure il senso delle frasi,
tali volte arrivavano urla, altre volte sentiva qualcuno piangere ma
nulla riusciva a riscuoterla da quello strano stato di sonnolenza
perenne. Nulla riusciva a penetrare quella gabbia di vetro nel quale
giaceva.
Si
svegliò, quella volta riuscì a tenere le palpebre
aperte. Incredula
e stupita del fatto di non essere sprofondata nel tepore del
dormiveglia, rizzò un poco il busto per circumnavigare con
lo
sguardo l'ambiente circostante. Il silenzio dominava nella grande
sala cosparsa di letti posti perpendicolarmente e colmi di persone
sdraiate. Alcuni dormivano fasciati da capo a piede, altri invece
stavano immobili come stoccafissi con lo sguardo rivolto verso
l'alto. Parevano involucri vuoti privi di energia. Le uniche forme di
vita in quella stanza sembravano essere le infermiere. Queste
s'aggiravano tra i feriti a passo felpato con gli occhi altalenanti,
pronte a intervenire in caso di bisogno.
Le
pupille della ragazza girarono all'impazzata, sapeva chi cercare ma
non vide la chioma color grano. Lo sguardo navigò alla
ricerca di
quel sorriso. Ne sentiva la mancanza
“ Trevis non c'è, sarà stato ricoverato in un altro ospedale. Devo trovarlo” pensò tra se e sé.
Si
sbilanciò di lato pronta per mettere in pratica la ricerca.
<<
Cosa sta facendo! >> urlò l'infermiera
mettendosi subito al
fianco di Lysa per impedirle di scendere dal letto
<<
Me ne vado via. Sono viva e mi sento meglio, perciò voglio
lasciare
questo letto al prossimo ferito che verrà >>
disse lei
cercando di cacciare via le mani dell'infermiera che la bloccavano.
<<
Non può! Ha subito pochi giorni fa un grosso intervento
perciò deve
riposarsi >>
<<
Preferirei riposare a casa, non voglio stare in un ambiente
asettico>>
Le
mani dell'infermiera non si allontanarono, però la signora
chinò il
viso per guardarla dritta negli occhi.
<<
Immagino che per te sarà più rilassante riposare
in un ambiente
familiare >>
Lysa
guardò il volto rugoso della vecchia infermiera ed
annuì con
energia, aveva imparato a mentire nel corso degli anni.
<<
Capisco. Allora domanderò al medico che ti ha operata se
puoi
tornare a casa. >> finalmente lasciò le sue
braccia e prima
d'incamminarsi fuori dalla stanza le intimò
<<
Guai a te se scappi >>
Lysa
annuì solennemente ma era una brava bugiarda, difatti non
attese
l'infermiera. Afferrò delle stampelle poste al fianco del
letto,
camminò via a passo zoppo stando bene attenta a non
incrociare
infermieri e dottori lungo la via.
Percorse
la città. Le viscere dolevano, ogni passo su quelle
stampelle e ogni
pezzo di pelle tirava così tanto che le ossa perevano voler
uscire
fuori dalla pelle.
A
denti stretti continuava a camminare, vedeva persone correre tra le
macerie, scavare tra i sassi, urlare nomi nella speranza che i
chiamati rispondessero sotto i pezzi di mura.
Anche
Lysa stava cercando qualcuno, ma non lo chiamò dato che gli
pareva
inutile.
Si
recò nel posto dove era rimasta ferita.
Grazie
alla presenza di sangue rosso schizzato tra le macerie
riuscì a
riconoscere il luogo.
Zoppiccò
qualche passo non sapendo neppure dove guardare in quello sfacelo.
Guardò attentamente e non vide alcun cadavere, neppure
qualche pezzo
di pelle.
<<
Trevis … >> chiamò a bassa voce
senza crederci realmente.
Non era ingenua, la speranza che fosse sopravvissuto non era altro
che una bella balla che si narrava a se stessa. Una dolce bugia come
quelle che le raccontava sua madre.
Doveva
essere rude con se stessa per scacciare via la splendida illusione
<<
Trevis, tu sei morto. Mi hai salvato e sei crepato. Anche il caporale
Levi mi ha salvata, chissà se lui è morto
… >> disse
sottovoce per voltare le spalle alle macerie.
Ogni
passo era uno sforzo incredibile, camminava evitando i massi sparsi
qua e là fino a quando non fu costretta a fermarsi. Il fiato
si era
fermato nella gola, la pelle era madida di sudore e i capelli le si
appiccicavano alla fronte rendendole impossibile proseguire il
cammino.
<<
Fanculo >> ringhiò cercando di scostare con
una mano i ciuffi
appiccicati.
“ perchè il caporale mi ha salvata? “ pensò tra se e sé con rabbia, come se gli avesse procurato un dispetto enorme lasciandogli quella vita.
Levi
lo aveva già visto da qualche parte, non a cavallo mentre si
direzionava verso la la guerra, neppure mentre scorrazzava nel cielo
come una rondine. L'aveva già incontrato, magari mentre
passeggiava
in abiti civili, sì doveva essere andata così
perché sentiva
d'averlo già incontrato, la sensazione era nata nel momento
in cui i
loro occhi s'erano incrociati all'interno del castello.
Quell'espressione strafottente, i capelli neri come l'ebano e poi gli
occhi che parevano dello stesso colore della tempesta. Li aveva
già
incontrati.
Si
fermò per prendere fiato, camminare affidandosi a una sola
gamba e
alle braccia era terribilmente faticoso.
Alzò
lo sguardo per incontrare la vetrina impolverata d'un negozio rimasto
miracolosamente intatto. Rimase immobile con le palpebre spalancate a
scrutarsi perché nel riflesso c'era una persona che non
doveva
esserci, eppure c'era sempre stata. Il problema è che non
l'aveva
mai notata.
Scosse
la testa con energia per scacciare via il pensiero.
<<
Devo riposarmi … >> disse sotto voce.
L'unica
casa che l'era rimasta era sotto terra, nel ghetto dove aveva
lasciato la sua vita.
Lì
andrà per ricomporre i pezzi, i pensieri sbilenchi.
Ciao :)
Mi
inchino e chiedo scusa a tutti coloro che seguono la storia
perché
ho pubblicato con un ritardo spaventoso. Ho dichiarato fin
dall'inizio che la storia era già stata scritta ma
ahimè, mi sono
lasciata trasportare dalle modifiche, dai ripensamenti, così
ora mi
ritrovo a riscrivere i restanti capitoli.
Tornando
al capitolo appena pubblicato, che posso dire? Lo definirei un
capitolo doveroso perché ho fatto una volta per tutte luce
sul
passato di Lysa e devo ammettere che ho provato un po di ansia nel
momento in cui l'ho pubblicato dato che il personaggio non ha vissuto
una vita molto piacevole, ma in fondo parliamo della città
sotterranea e credo che nessun individuo possa condurre una vita
adagiata in quel luogo.
Per
quanto riguarda la storia ormai siamo agli sgoccioli, ci sono giusto
altri due capitoli, forse uno se riesco a narrare tutto.
Che altro posso dire? Niente, lascio a voi l'opinione:D
Spero di sentirvi
un abbraccio
Mistiy