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Autore: Claire77    15/09/2016    1 recensioni
Dopo aver pronunciato quelle parole, Henry si fece di lato, lasciando entrare Jo nel negozio. Chiuse la porta a doppia mandata e appese il cartello con la scritta chiuso. Aveva paura di voltarsi e di incontrare lo sguardo di Jo. Quello che temeva, o che aveva desiderato, a seconda dei punti di vista, per tutto quel tempo, stava per accadere.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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A week after
 
“Che settimana noiosa”. Lucas si abbandonò sulla sedia, picchiettando la penna sul proprio ginocchio, “Solo banalissimi e scontatissimi omicidi. Niente casi strani, niente suicidi camuffati da omicidi, niente morti strambe…”
“Mi dispiace che tu sia deluso, Lucas”, Henry alzò lo sguardo dal rapporto che stava compilando, e nonostante tutto sorrise, “Magari prova a scrivere una lettera al circolo dei criminali di New York, chiedendo loro di essere più creativi, per i prossimi omicidi”.
“Ah ah”, sbuffò Lucas, “Nessuno mi capisce mai”, e accennò una smorfia triste, lanciando la penna in aria e riprendendola al volo.
“Visto che ti annoi, Lucas”, continuò Henry, “Perché non compili qualche rapporto, così, giusto per passare il tempo?”
Lucas stava per replicare, quando in quel momento Jo entrò nel laboratorio. Henry le lanciò un’occhiata, ostentando naturalezza, ma in realtà cercando di carpire i suoi pensieri: era passata una settimana da quel fatidico giorno, e loro due non ne avevano più parlato. Jo si era sempre comportata in maniera “normale”, con lui, ma lo aveva anche evitato più del solito. Henry aveva promesso di darle tempo, e tempo le aveva dato, e non voleva farle nessun tipo di pressione. Però sentiva la mancanza della spontaneità che prima c’era stata tra di loro, e non vedeva l’ora che quella situazione di stallo si risolvesse.
“Ciao”, disse Jo rivolgendosi sia a lui che a Lucas, “Avete il rapporto di quel tizio ucciso con un machete?”
“Sì, è nel mio ufficio”, rispose Henry, e si diresse verso la propria scrivania per prenderlo. Jo avrebbe potuto benissimo aspettarlo lì dov’era, e invece lo seguì, chiudendo la porta di vetro alle sue spalle. Dunque, voleva parlargli. Henry non poté evitare di sentirsi nervoso.
Si voltò, porgendole il rapporto che aveva chiesto. Lei lo prese e se lo mise sotto un braccio. Poi lo fissò, e sembrò quasi fare un sospiro per prendere coraggio prima di chiedergli:
“Stasera…. Ti va di venire a cena? Da me”.
Non era la domanda che Henry si aspettava, e infatti fissò Jo disorientato, incapace di nascondere la propria sorpresa.
“A cena?”, ripeté.
“Sì, a cena”, annuì Jo, arrossendo leggermente, “Sai, ho passato la settimana a riflettere, e… credo di aver finito di… metabolizzare quello che ci siamo detti settimana scorsa. Quindi, se per te va bene, pensavo che potevi venire a cena… così possiamo continuare.”
“Continuare con cosa?”
“Con l’interrogatorio”, Jo gli strizzò l’occhio per fargli capire che stava scherzando.
Henry sospirò, sollevato. Poteva dire che ormai il peggio era passato. Non solo Jo lo aveva accettato, ma voleva saperne di più. D’ora in avanti le cose sarebbero sicuramente andate meglio.
“E io che pensavo che le domande fossero finite”, scherzò, sorridendo.
“Stai scherzando, dottor Morgan? Le mie domande sono appena iniziate”, anche Jo sorrise, e il suo viso si illuminò di luce propria, tanto che Henry si ritrovò a fissarla, rapito.
“Che c’è?”, gli chiese Jo dopo qualche secondo di silenzio.
“Niente, niente”, Henry distolse lo sguardo e lo abbassò sulla scrivania, “A che ora?”
“Alle otto può andare?”
“Va bene”, rispose Henry, poi le lanciò un altro sorriso: “Devo portarmi un avvocato?”
Jo scoppiò a ridere.
“Solo se hai fatto qualcosa per cui potrei arrestarti”.
Henry ci pensò un attimo.
“A parte i documenti falsi e la patente scaduta da 37 anni, sono pulito”.
Jo continuò a ridere ancora per qualche momento prima di riuscire a ricomporsi. Si spostò una ciocca di capelli dietro all’orecchio e disse:
“Ok, allora… ti aspetto. Alle otto”.
“Alle otto”, confermò Henry, e rimase a guardare Jo che usciva dall’ufficio e attraversava il laboratorio. Applicando i suoi decenni di pratica, Henry si nascose dietro a un’espressione impassibile e tornò a compilare i suoi rapporti. Dentro, però, stava ribollendo di felicità.
“Che cosa stavate confabulando, voi due?” Lucas fece capolino sulla porta.
“Niente, Lucas. Come ti dicevo, potresti anche compilare qualche rapporto.”
“Niente, eh?” Lucas gli lanciò uno sguardo divertito, e si mise a far rimbalzare da una mano all’altra la sua pallina da baseball che teneva sempre in tasca. “Non è che… non è che sta succedendo qualcosa di cui io dovrei essere a conoscenza?”
“Non sta succedendo niente, Lucas. Potresti per cortesia iniziare a lavorare?” Henry gli lanciò uno dei suoi sguardi di fuoco e Lucas arretrò.
“Ok, ok”, Lucas sollevò le mani in segno di resa, “Comunque sarebbe una figata, se fosse.”
“Se fosse cosa?”
Lucas arretrò ancora.
“Niente, niente! Non ti scaldare. Vado, ok?”
Appena Lucas si voltò, Henry si lasciò scappare un sorriso.
 
Dopo mezz’ora che si era cimentata ai fornelli, Jo era giunta alla conclusione che era meglio chiamare una gastronomia a domicilio. Non che il cibo fosse importante. La serata aveva come principale scopo quello di continuare la conversazione iniziata sette giorni prima. Però del buon cibo e una buona bottiglia di vino non avrebbero guastato, magari…
“Sei una stupida, Martinez”, disse ad alta voce. Si sentiva come un’adolescente al primo appuntamento. Però quello non era un vero appuntamento, era più un incontro di… tra amici. Tra colleghi. No?
Cominciò ad apparecchiare la tavola, ma si rese conto che l’effetto era troppo “appuntamento romantico”, ci mancava solo una candela nel mezzo. Decise allora di apparecchiare il bancone della cucina. Molto meglio, più informale. Ma perché si faceva tutti quei problemi? Era solo Henry.
Il cibo arrivò alle sette e mezza e Jo travasò tutto nelle padelle di casa, per dare l’impressione di aver cucinato lei. Per essere sicura, nascose le confezioni da asporto nella spazzatura e portò la spazzatura sul retro. Passando davanti a uno specchio, si guardò critica e si diede una sistemata ai capelli. Aveva indossato un vestito, e adesso se ne stava pentendo. Perché aveva indossato un vestito? Nero, per giunta. Era troppo elegante. Troppo ricercato. Dopo aver visto che erano le sette e quarantacinque, corse al piano di sopra e in fretta e furia si cambiò, indossando i suoi normali pantaloni e una camicetta di seta bianca. Era l’abbigliamento che portava di solito al lavoro, ma almeno si sentiva più a suo agio. Ma poi, perché era agitata? Era solo Henry.
“Sei una stupida, Martinez”, si ripeté. Le otto e cinquantacinque. Sarebbe arrivato a momenti… in quell’istante, sentì il campanello suonare.
Si precipitò di sotto, si sistemò un’ultima volta i capelli e aprì la porta.
Meno male che si era cambiata. Henry era vestito in modo semplice (anche se era difficile definire il suo “semplice”), pantaloni neri, camicia bianca e giacca nera, la solita sciarpa (grigia) e… una bottiglia di vino. Jo sentì tornare l’agitazione.
“Ero indeciso tra il vino e un mazzo di fiori”, disse Henry, sorridendo, “Ma visto che durante l’interrogatorio potrebbero emergere dei fatti un po’ assurdi, ho pensato che il vino fosse più appropriato”.
“Hai fatto bene”, Jo gli sorrise di rimando e si fece da parte per farlo entrare.
“Vuoi una mano?”, le chiese Henry mentre Jo posava il vino sul tavolo e iniziava a stapparlo.
“No, no, è già tutto pronto. Siediti pure”. Jo indicò con un cenno uno dei due sgabelli.
“Hai cucinato tu?” Henry si tolse la giacca e la appese all’attaccapanni.
“Sì”, rispose sul momento, voltandosi per gettare via il tappo della bottiglia, “No”, ammise, qualche secondo dopo. “Sono una pessima cuoca. Ho ordinato del cibo pronto.”
“Non dovevi”, le disse Henry, “La prossima volta cucino io. Potresti addirittura smettere di mangiare quegli orribili sandwich da distributore”.
Jo rise, e versò il vino nei bicchieri.
“No, quello mai, mi dispiace. E non rinuncio nemmeno alle ciambelle.”
Entrambi bevvero un sorso di vino e su di loro calò il silenzio. Si guardarono di sottecchi per qualche istante prima che Henry esordisse:
“Allora, vuoi iniziare la carneficina subito, o preferisci mangiare, prima?”
“Mah, a dire il vero volevo farti godere l’antipasto, almeno” Jo sorrise, ringraziandolo silenziosamente per la sua capacità di farla sempre sentire a suo agio. Avendo ormai ammesso di aver comprato del cibo pronto, senza troppo cerimonie mise due piatti nel microonde.
Henry la guardò alzando le sopracciglia.
“Jo, c’è una cosa che devi sapere di me”, iniziò serissimo. Jo si bloccò, temendo una rivelazione sconvolgente, come quando aveva scoperto che Abe era suo figlio.
“Sono fermamente contrario all’uso del microonde.”
Jo scoppiò a ridere, e dopo qualche istante Henry la imitò.
“Guarda che sono serio”, ridacchiò Henry, “Il microonde fa malissimo! Quasi quanto il cellulare.”
“Ecco spiegato perché a casa non hai né un microonde né un cellulare”.
“Questo progresso! È già tanto se ho un telefono. Si stava così bene, quando si mandavano i messaggi con le staffette.”
Jo capì quello che Henry stava facendo. Stava volutamente esagerando le sue particolarità, forse per allentare la tensione, e lei gli fu grata di questo suo modo di affrontare la situazione. Il microonde suonò e lei prelevò i piatti, ponendoli di fronte a loro.
“A dire il vero mi ero fatta una lista”, ammise, infilzando un boccone con la forchetta.
“Una lista di cosa?”, chiese Henry.
“Di domande. Me ne venivano in mente in continuazione, e allora per non dimenticarmele me le sono scritte.”
Henry abbassò lo sguardo, improvvisamente a disagio. Jo lo notò e si preoccupò di aver detto qualcosa di sbagliato.
“Jo… è tutto ok tra noi, vero?”, le chiese poco dopo, imbarazzato.
“In che senso?”
“Nel senso… non mi vedi in modo diverso, adesso?”
“Certo che ti vedo in modo diverso, Henry”, disse Jo, e si stupì che lui fosse così agitato riguardo alla sua opinione, “Ti vedo in modo migliore, se possibile”.
“Migliore?”, ripeté lui, sorpreso.
“Certo”, confermò Jo, e per annegare l’imbarazzo che sapeva la stava per cogliere bevve un sorso di vino. “Allora, visto che l’antipasto l’hai finito… posso cominciare con la tortura.”
“Senza lista?”, le domandò Henry ironico.
“Senza lista. Sono pur sempre una detective, sai? Partiamo da Adam.”
“Accidenti. Parti proprio dal più bello”.
“Mi conosci, mi piace andare al punto. Quando è iniziata? Voglio dire, quando si è messo in contatto con te la prima volta?”
“Non ci crederai, ma è stato proprio il giorno che ci siamo conosciuti. In laboratorio. Eri addirittura presente.”
“Davvero?” Jo spinse indietro i ricordi a quel giorno. Non era molto in forma, quella mattina. Aveva bevuto molto la sera prima e la notte… l’aveva passata in compagnia. Chi era più il tizio? Non se lo ricordava. Ricordava però la sensazione che aveva avuto la prima volta che aveva visto Henry. Questo è uno strambo, aveva pensato. In tre secondi aveva trasformato il suo incidente in un caso di omicidio. In cinque secondi le aveva fatto un profilo, aveva capito che suo marito era morto e che lei era depressa. Poi era squillato il telefono, e Lucas aveva detto una cosa che fino ad allora lei aveva rimosso: è una cosa strana. Lui non ha amici. Ovviamente, ora che sapeva la verità, tutti i pezzi tornavano.
“Eri strano, al telefono”, ricordò Jo, “Ovvio, non ci diedi peso. Perché mai avrei dovuto? Non ti conoscevo. Ma ora che me lo dici… eri teso. A un certo punto ti sei voltato… immagino per nascondere la tua espressione. Che ti aveva detto, Adam?”
“Mi aveva chiesto, direttamente, perché non ero morto in quell’incidente”, disse Henry, “Io ho negato tutto, ma era chiaro che lui sapeva… di me. E la mia reazione sulla difensiva glielo ha confermato. Da allora è iniziato tutto”.
“Ti chiamava spesso?”
“Si faceva vivo quando gli faceva comodo”. Henry esitò, indeciso se rivelare a Jo un particolare a cui lei non era ancora arrivata. Jo si accorse che lui stava pensando a qualcosa, e lo incitò:
“C’è qualcosa che mi stai nascondendo?”, gli chiese senza mezzi termini.
“Sì”, ammise Henry, “Non so se è il caso di dirtelo. Non vorrei… preoccuparti, anche se a questo punto non ne hai più motivo.”
“Preoccuparmi di cosa?” Jo mise in moto il proprio cervello, scavando nei ricordi e cercando di capire da che cosa Henry la stava tenendo all’oscuro. Poi si ricordò che, quando era in ospedale ed Henry era accanto a lei, aveva ricevuto una telefonata. La voce dall’altra capo del filo era profonda, e calma, e aveva chiesto di Henry, dicendo che era un suo amico. Ma lui non aveva amici, no?
“Ci ho parlato, vero?”, chiese Jo, colpita da quell’improvviso ricordo, “Una volta, ho parlato con Adam senza sapere che fosse lui”.
Henry annuì.
“Ci hai parlato due volte, in realtà. E…”
“E cosa?”, insistette Jo.
“… lo hai anche conosciuto.”
Jo si paralizzò di fronte a quella notizia. Quando? Dove era successo? Aveva conosciuto uno psicopatico assassino senza essersene resa conto?
“Io stesso non sapevo chi fosse, quando lo vidi la prima volta” Henry sospirò, e in gesto nervoso picchiettò la forchetta nel piatto vuoto. “Devo ammettere… devo ammettere che è stato furbo, anzi geniale. Ti ricordi, no, quanto ero nervoso per la faccenda del taxi? Ero quasi al limite, e mi avete mandato da uno psicologo.”
Nel momento in cui nominò lo psicologo, Jo sentì qualcos’altro accendersi nella sua memoria. Velocemente, collegamenti su collegamenti cominciarono a intrecciarsi tra di loro. Se Adam era il vero stalker, non poteva essere quel povero ragazzo che Henry aveva ucciso per autodifesa. Però Henry era convinto che fosse lui, altrimenti non lo avrebbe mai accoltellato. E quale particolare poteva aver spinto Henry a credere che quel ragazzo fosse immortale come lui? È stato arrestato più volte perché nuotava nudo nel fiume, aveva detto lo psicologo… quello che li aveva indirizzati da quel povero pazzo. Quindi… o lui nuotava nudo nel fiume senza alcun motivo, cosa poco probabile, oppure quell’informazione era falsa. Un’informazione falsa costruita ad arte per portare Henry a credere…
“… era lo psicologo, vero?”, constatò Jo ad alta voce, arrivando alla fine del suo ragionamento.
“Acuta come sempre, detective” Henry sollevò il bicchiere in un brindisi in suo onore.
“Che bastardo”, si lasciò sfuggire Jo, “Ci ha ingannati per bene, vero? Ci ha dato delle informazioni per portarci dove voleva lui…”
Mi ha dato, Jo. Ce l’aveva con me, tu non c’entravi niente.”
“… e ha approfittato delle sedute… a cui io ti avevo costretta… per raccogliere informazioni su di te.”
“Tu non c’entravi niente, Jo, davvero”, ripeté Henry per tranquillizzarla.
“Mi dispiace Henry”, Jo si sentì improvvisamente abbattuta al pensiero di aver aiutato quel pazzo psicopatico a perseguitare Henry, “Se non avessi insistito con le sedute, se ti avessi dato più fiducia…”
“Jo, tu hai fatto quello che ritenevi necessario in base alle informazioni che avevi a disposizione”, la rassicurò Henry, allungando una mano sulla sua, “E poi avevi ragione, non stavo bene in quel periodo… solo che non sapevi il vero motivo”.
“Mi dispiace”, ripeté Jo.
“Non devi”, replicò Henry, “E poi, quel capitolo è chiuso. Adam è fuori gioco. Quindi possiamo passare al secondo.”
Jo annuì, grata che Henry fosse sempre così gentile nei suoi confronti, e mise altri due piatti nel microonde.   
“La seconda volta che ci ho parlato è stata sulla scena del crimine di Jack lo squartatore, vero?” Jo non riusciva a frenare i suoi pensieri che ripercorrevano il tempo passato assieme. Dietro a ogni angolo, scopriva dei nuovi collegamenti.
“Sì. Ottima memoria, Jo”.
“Beh, per te così asociale, non è difficile ricordarsi delle uniche due volte in cui qualcuno al telefono ha chiesto di te. E poi non sei l’unico a ricordare tutto”.
Una volta che i piatti furono caldi, li sistemò di fronte a loro.
“Quante volte sei stato sposato?”, chiese improvvisamente Jo, nascondendo il viso dietro il bicchiere di vino.
“Apprezzo la logica causale delle tue domande”, la prese in giro Henry. “Per rispondere alla tua domanda… tecnicamente, due volte. Ma per quel che mi riguarda… Abigail è stata la mia unica e vera moglie.”
Jo annuì, non c’era bisogno di nominare Nora per capire che lei era l’altro matrimonio “tecnico”.
“Un solo matrimonio in più di duecento anni”, rifletté Jo ad alta voce, “Sei stato sposato meno volte di un newyorkese medio”.
“Non sono di New York, infatti, sono inglese”, ribatté lui.
“E… la tua famiglia? Non so nulla della tua famiglia. Intendo la tua famiglia… originale”.
“Mia madre è morta quando avevo quattordici anni. Mio padre è morto qualche mese prima che io partissi per l’India. Niente fratelli né sorelle.”
Henry fu molto sbrigativo, e Jo quasi si sentì in colpa a insistere, ma era troppo curiosa, e il vino in corpo le stava infondendo coraggio e una certa dose di sfacciataggine:
“E andavi d’accordo con tuo padre?”
“Per niente”, rispose Henry asciutto, “Litigavamo in continuazione. Non voleva che studiassi medicina, ovviamente, era un lavoro troppo umile per il mio rango. Avrei dovuto rilevare l’impresa di famiglia e mandare avanti gli affari.”
“Impresa di famiglia?” Jo si rese conto di non sapere assolutamente nulla delle origini di Henry. A prescindere dalle vere origini, Henry non aveva mai detto nulla, nemmeno di “falso” o di “copertura”, sul suo passato. Jo aveva sempre avuto il sospetto che Henry fosse molto più benestante di quello che dava a vedere. Insomma, si faceva fare i vestiti a mano da un sarto.
“La Morgan Shipping Company”, spiegò Henry, “All’epoca era parecchio famosa, avevamo navi quasi su ogni rotta. Due residenze, una a Londra e una in campagna, uno stemma, argenteria, insomma tutto il repertorio”.
“Eri un nobile?” Jo non credeva che si sarebbe ancora stupita di qualcosa, ma ogni minuto che passava scopriva cose su Henry che non avrebbe mai creduto possibili.
“Non proprio”, rispose Henry, “La nobiltà è un titolo ereditario, noi non eravamo lord, ma ricchi possidenti. Diciamo che facevamo parte dell’alta borghesia. Ovviamente mio padre aspirava al titolo di lord, per questo era così contrario al mio lavoro in ospedale, avrebbe di gran lunga diminuito le sue possibilità di ottenere un seggio in parlamento”.
“E lo stemma?”, chiese ancora Jo.
“In realtà, lo hai già visto”, disse Henry, e dalla tasca prelevò il suo orologio d’oro, “È inciso nella parte interna.”
Jo lo aprì e nella parte interna vide un’elaborata m in corsivo, circondata da vari ghirigori, e disegnata su una specie di stemma.
“Quindi questo orologio…” All’improvviso Jo si ricordò che Henry le aveva raccontato la storia di quell’orologio, sempre in occasione del loro primo caso. “Ma certo. Apparteneva a un dottore in viaggio su una nave. Me lo avevi anche raccontato.”
“Prima che passasse a me, apparteneva a mio padre. Me lo diede sul letto di morte, credo per farsi perdonare”.
“Farsi perdonare che cosa?”
Henry sospirò e allontanò da sé il piatto ormai vuoto.
“C’è anche il dessert?”, chiese con leggerezza, evitando il suo sguardo.
“Non ne vuoi parlare, eh?”
“Preferirei di no, in effetti”, ammise Henry, “Magari puoi consultare la tua lista e vedere se c’è qualche altra domanda che non includa la mia famiglia”.
Jo annuì e si alzò per prendere i budini, anche quelli comprati in gastronomia. Li mise in due coppette attrezzate con due cucchiaini.
“Allora…”, rifletté, in cerca di una domanda a cui dare la precedenza. “Per quanti anni hai lavorato come medico… medico vero, intendo?”
Henry ci pensò su.
“Praticamente da sempre, da quando ho preso l’abilitazione… avevo ventiquattro anni”.
“Così giovane?”
“All’epoca era diverso. Poi io ho sempre studiato in casa, a parte quando sono andato all’università. Oxford, prima che tu me lo chieda”.
“Immagino che il rapporto originale su Jack lo squartatore fosse il tuo, vero?” Man mano che riaffioravano i ricordi, Jo domandava.
“Quante lingue parli? Sei nato a Londra? Conoscevi Hemingway, davvero? Ora capisco la tua ossessione per quella nave… era vera la storia della luna di miele sull’Orient Express?”
La bottiglia di vino si svuotò, e l’orologio in salotto rintoccò la mezzanotte. Henry rispondeva a tutte le domande con sincerità, come aveva promesso. Jo ascoltava, affascinata. Henry non aveva esagerato: era davvero una lunga storia. Con tutte le sue domande Jo non aveva coperto neanche un quinto della sua vita. Si sarebbero rese necessarie altre cene.
“Beh, non c’è che dire, con te la conversazione non languisce”, osservò Jo verso l’una di notte, dopo che Henry le ebbe raccontato un aneddoto su come il suo vicino di casa si fosse rifugiato da lui dopo che sua moglie gli aveva tirato un vaso in testa.
“Una conversazione presupporrebbe uno scambio equo di informazioni”, la rimproverò Henry scherzosamente, “Qui si è trattato di un interrogatorio vero e proprio”.
“Come il nostro primo caso, dopotutto”, si lasciò sfuggire Jo. Poi, che fosse il vino o l’imbarazzo, si sentì arrossire come una ragazzina.
“Quello in cui mi avevi dato del sociopatico? Ti riferisci a quell’interrogatorio lì?”
Touché. Però sul fatto che fossi l’uomo più strano che avessi mai incontrato ci avevo visto giusto”.
“Se non ricordo male, il termine giusto era raccapricciante”. Henry sorrise, dimostrandole che la stava prendendo in giro, e che era per niente offeso.
Jo, in quell’istante, decise che era il momento di buttarsi. Ebbra di quella serata passata insieme e di tutte le informazioni che aveva ricevuto, nonché dei sentimenti per Henry che aveva appena ammesso con sé stessa di provare, decise di fare il passo decisivo.
“Henry”, disse, sospirando per farsi coraggio, “Tu sei stato completamente sincero con me, e ti ringrazio. Quindi anch’io adesso voglio essere completamente sincera con te”.
“Ti ascolto”, la incoraggiò Henry con un cenno del capo. In uno scatto nervoso, però, raddrizzò la schiena e appoggiò i gomiti sul tavolo. Jo rise tra sé e sé al pensiero che lui avesse ancora paura che lei potesse in qualche modo non credergli.
“Ecco. Ti ricordi di Parigi, no? O meglio, del non-Parigi”, ridacchiò da sola per sdrammatizzare la tensione, “Ti dissi che non volevo andare a Parigi, non con Isaac. Io credo… di essere stata abbastanza esplicita, anche l’altra volta, sul fatto che a Parigi ci volevo andare con te.” Jo si interruppe, aspettandosi una reazione da Henry, ma lui la stava fissando immobile, quindi lei continuò: “Ora, volevo dirti che… insomma… dopo tutto quello che mi hai raccontato, volevo dirti che i miei sentimenti per te non sono cambiati. Anzi, semmai si sono rafforzati. Credo che tu sia una persona straordinaria e… e basta. Sarebbe bello se potessimo essere qualcosa di più”.
Jo sorrise, timida, e si scostò una ciocca di capelli dal viso. Si aspettava che Henry dicesse qualcosa, ma lui era ancora immobile, lo sguardo fisso su di lei. Dopo qualche secondo in cui sentì l’imbarazzo farla arrossire, Jo azzardò:
“Tu non… provi lo stesso per me?”
Ancora qualche secondo di silenzio.
“Sì”, ammise Henry, “Provo lo stesso per te. È proprio questo il problema”.
Il sollievo iniziale di Jo per quel fu subito rimpiazzato dal dubbio.
“In che senso è un problema?”
“Non so come rendere la cosa meno complicata”, Henry si passò una mano sugli occhi in segno di stanchezza, “Quindi continuerò sulla strada della sincerità. Jo, tu sei una persona troppo importante, troppo straordinaria perché sprechi i migliori anni della tua vita con un uomo con cui non potrai avere nessun futuro. Io fra duecento, trecento, mille anni sarò ancora qui, mentre tu hai una vita sola, ed è troppo breve perché tu la sprechi”.
“Tu credi che stare con te sarebbe uno spreco?”, ripeté Jo, incapace di dare un senso a quell’assurdità.
“Ne sono convinto”, rispose Henry, “Perché questi sono gli anni in cui tu dovresti mettere le basi della tua vita, le basi che ti accompagneranno fino alla fine dei tuoi giorni. Trovarti un uomo normale, con cui fare una famiglia e dei figli. Qualcuno… qualcuno come Isaac. Che possa invecchiare al tuo fianco, crescere insieme a te. Con me… non avrai nulla di tutto questo… se non un sacco di problemi. Perché adesso… adesso sembra tutto facile, ma fra dieci, vent’anni, io sarò troppo giovane per stare al tuo fianco, e per te sarà troppo tardi per trovare qualcuno con cui fare una famiglia, una famiglia vera. E per quanto io ti ami, o forse proprio per questo, non posso permettere che tu commetta l’errore più grande della tua vita. Perché io so cosa succederà. L’ho già vissuto, con Abigail. Alla fine lei non ce l’ha più fatta. E non voglio che succeda lo stesso con te.”
Jo, immobile come una statua, aveva sentito un tuffo al cuore quando, in mezzo a tutto quel discorso, aveva udito le parole ti amo. Quelle due semplice parole avevano scacciato via tutto il resto. Sì, aveva capito cosa aveva detto Henry. E sì, capiva il suo ragionamento. Ma come avrebbe mai potuto stare al fianco di chiunque altro, dopo che aveva conosciuto lui?
“Hai ragione”, gli disse, “Hai senz’altro ragione. Ma appunto perché, come hai detto tu, la vita è breve… non voglio sprecarla a viverla a metà. Se questi sono gli anni migliori della mia vita, allora voglio viverli fino in fondo. Come voglio io. Accanto a te.”
“Jo, non sai cosa stai facendo. In che guaio ti stai cacciando”.
“Lo so perfettamente, invece. Non capisco come tu non possa capire che io voglio stare con te.”
“Perché è impossibile”, ed Henry sottolineò quell’impossibile picchiettando un dito sul tavolo, “È impossibile che una persona sana di mente scelga volontariamente di stare al mio fianco sapendo che tipo di vita io ho da offrire.”
“Perché? Non credi che tu ne valga la pena?”
“No, non lo credo”.
Jo rimase a fissarlo con gli occhi spalancati, e si accorse che ad ogni parola che Henry diceva, lo amava ancora di più. Non stava facendo il finto modesto. Era davvero convinto di quello che diceva.
“Sei proprio uno stupido, Henry Morgan”, disse, scuotendo la testa sconsolata, “Per essere così intelligente, sei proprio stupido”. 
“Anche tu sei una stupida, Jo Martinez”, Henry si mise a guardare un punto fisso al di sopra della sua spalla, gli occhi lucidi, “Perché potresti avere chiunque. Sei bella, intelligente, sensibile, forte. Sei una straordinaria detective. Gli uomini farebbero la fila, per te, se solo glielo permettessi…”.
“Henry”, lo interruppe Jo, cercando in tutti i modi un argomento che lo facesse ragionare, “Quando Abigail se n’è andata… l’ha fatto intenzionata a non tornare più? O voleva solo prendersi una pausa? Sii sincero”.
Henry reagì esattamente come Jo sperava: fece quell’espressione che ormai Jo aveva imparato a riconoscere, quella di chi non vuole rispondere perché sa che la risposta sarebbe controproducente.
“No”, disse alla fine, evitando di guardarla in faccia, “Voleva riflettere. E quando l’abbiamo... ritrovata…”, la sua voce in quel momento si spezzò, “Ho trovato tra le sue cose una lettera. Indirizzata a me.”
“E che cosa diceva la lettera?”, chiese Jo gentilmente.
“Che voleva tornare a casa”. Gli occhi di Henry, sempre fissi nel vuoto, erano diventati lucidi.
“Appunto”, disse Jo, “Appunto. Perché anche Abigail aveva capito qual era la cosa importante. Sei tu che ti rifiuti di vedere”.
Questa volta Henry tornò a guardarla in faccia.
“Mi rifiuto di vedere cosa?”
“Che esisti, ma non vivi. Che senso ha essere come sei, se non puoi vivere?”
Henry sospirò, e appoggiò il volto tra le mani.
“Mi sembra di sentir parlare Abe”, sussurrò.
“Abe è una persona saggia. Ha preso da suo padre. Che è saggio su tutto, tranne quando si tratta di sé stesso”.
“Jo, credimi quando ti dico che non si tratta di me”, continuò Henry, “Si tratta di te. Non voglio vederti soffrire, sapendo che sarei io la causa. Non potrei sopportarlo. Ho già seppellito troppe persone.”
“Io sono adulta e vaccinata”, ribatté Jo, alzandosi e aggirando la penisola per raggiungerlo, “Sono responsabile delle mie scelte. Se tu non mi vuoi, allora è una questione, va bene. Ma se mi vuoi, ma mi tieni lontano perché pensi di farmi un favore… allora non va bene. Io sono responsabile della mia vita. Tu non hai il diritto di scegliere anche per me”.
“No, forse non ne ho il diritto”, concesse Henry, voltando lo sgabello verso di lei, “Ma ne ho il dovere. Tu sei così… sei così giovane! Ingenua. Non sai cosa sia il male.”
“Ingenua?”, ripeté Jo, allibita, “Lavoro per la polizia di New York! Vedo cadaveri e criminali ogni giorno. Vedo il male ogni giorno”.
“No, tu vedi il prodotto del male. Il male vero, quello che ti avvelena da dentro… non lo conosci. E spero che non lo conoscerai mai”.
Si alzò e fece per oltrepassarla, in direzione della porta, ma Jo lo afferrò per il braccio e lo trattenne.
“Jo”, disse Henry senza guardarla in faccia, “Se non mi lasci andare, rischio di non trovare la forza per fare quello che è giusto”.
“Cioè correre a casa, fare le valigie e scomparire?”
Henry non disse nulla, e Jo lo prese come una risposta affermativa.
“Anche tu hai il diritto di essere felice”, gli sussurrò, e gli posò una mano sulla guancia, voltandogli il viso verso di lei.
Si guardarono per un lungo istante. Henry sembrava spezzato in due, Jo glielo leggeva negli occhi: da una parte voleva rimanere, dall’altra scappare. Alla fine Henry l’attirò a sé e la baciò.
Per una frazione di secondo, Jo ripensò a Sean, a come i suoi baci fossero dolci e teneri, un’espressione di affetto e supporto. Isaac… Isaac era stato una ventata di eccitazione, qualcosa di nuovo che aveva stuzzicato il suo ego: un milionario con infinite possibilità che corteggiava lei, una semplice funzionaria statale, e la inebriava di rose, champagne e viaggi a sorpresa. Ma baciare Henry era qualcosa di completamente diverso: era dolore e amore allo stato puro, un coltello di cera conficcato nello stomaco.
L’orologio stava rintoccando le due mentre loro, senza mai staccarsi l’una dall’altra, inciampavano sulle scale, diretti al piano superiore.
   
 
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