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Autore: Helmyra    15/09/2016    3 recensioni
“Mi piace la musica,” commentava l’estraneo, nella vita e nel dolore di Elanilde, “e mi serve uno scudiero. Canterai per me di sera, quando i soldati saranno in congedo e noi due soli, in qualsiasi luogo che abbia attorno quattro mura. Ti terrò per questi motivi, e quando non sarai più utile... ti ucciderò”.
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Spin-off di "A wine of character". Nuovi personaggi e nuove situazioni, a parte la presenza di Dorisa e Sanguine.
Elanilde si prepara al suo debutto in società, attendendo l'assenso di Voranil, gentiluomo e mecenate di Cheydinhal.
La guerra è finita, ma le conseguenze del Concordato d'Oro Bianco forniscono ai Thalmor un'occasione di vendetta.
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dovahkiin
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Daedric Maidens'
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Dentro di noi abbiamo un'Ombra: un tipo molto cattivo, molto povero, che dobbiamo accettare.

 

Carl Gustav Jung



Non accade nulla per una vita intera, poi tutto all'improvviso. All'inizio, le visite imposte erano un pretesto per spiare Dorisa, nel timore che potesse deluderla, rompendo la promessa. Le ore scorrevano, gli scambi telepatici divennero confidenze, scherzi tra amiche. Le diffidenze vennero meno, Elanilde abbassò lo scudo e ritrasse gli artigli. Iniziò a respirare il cambiamento, a trovare un posto nel Mundus. Trovò la forza di abbandonarsi alla gioia, di non fingere, assaporò la libertà e si lasciò indietro le macerie del passato. Dorisa non la trattava come un oggetto, sebbene avesse accettato il compito di insegnarle a saziare gli appetiti di Ondolemar. Nei bauli, la sacerdotessa serbava monili d'argento, gocce di cristallo sospese su filigrane tanto leggere da far apparire la collana il getto di una cascata. Nella fucina faceva i conti con le diverse sfaccettature del suo carattere. Le lame, il vorticare delle fiamme attorno all'asta su cui modellava l'acciaio, e i riccioli invitanti incisi su un pendente d'argento, disseminato di lucciole diamantate.

Sì, stava cambiando. Rideva, o almeno provava, espirando aria in brusche emissioni vocali. Per quanto si sforzasse, ancora non parlava. Dava tempo al tempo. Si contentò, quel giorno, di increspare l'organza scintillante dell'abito da cerimonia per i baccanali. Stoffa lucida, cangiante, le elitre di una libellula.

“Prova a metterne uno.”

Rifiutò. Non perché si sentiva indegna, non per vergogna della nudità. La ragione era semplice: quella toga non le apparteneva. Un'armatura l'avrebbe indossata, pure una casacca bordata di pelliccia. Elanil era nato nella guerra, nel fuoco che aveva avvolto Cheydinhal e Riverview tra grida di morte, di giubilo. La vergine di ferro, il gladio. Il bacio della cicogna a tenerla chiusa in un antro, la gabbia sospesa a reclamare il suo corpo, gli strumenti che si era fabbricata.

Viveva nell'ossessione di creare. Di modellare, fondere e torcere. Era convinta di dar vita e far rinascere appelli alla giustizia e pulsioni mortifere. Aveva la vita nelle mani, donava di sua spontanea volontà e non per comando. Non le serviva un grembo per partorire, di figli metallici ne aveva avuti tanti. Sperava che non seminassero discordia per cause ingiuste.

Non sarò e non vorrò mai essere una signora, motivò dopo una lunga insistenza. Tuttavia, Dorisa la conosceva abbastanza per pungolarla nel suo punto debole.

“Nemmeno una volta? Per sapere che effetto ti fa.”

Prima fu pari ad una bestemmia. Man mano che il livore veniva meno, però, cresceva uno strano desiderio, la smania della trasformazione.

Solo una volta, per capire. Per sapere come ci si sente... finché non sopravveniva di nuovo lei, la realtà dei fatti.

Tirò via il cordone della camicia sformata, si abbassò le braghe dal cavallo ampio per rivelare due gambe polpose, i fianchi larghi. Celò il petto con le braccia; era sul punto di rinunciare, però Elanilde ricordò a se stessa che mai le era mancato l'ardore per affrontare un'insidia. Mai si sarebbe mostrata debole, specie per una piccola tribolazione.

Mancò di grazia nel gettarsi addosso la stoffa leggera. Conservava ancora i modi spicci di un garzone ma, quando essa le lambì la pelle, il suo essere brillò. Aveva le labbra umide, gli occhi contornati da ciglia sottili, tante ispide spine. Ammirò se stessa alla luce della candela mentre in silenzio Dorisa assisteva alla nascita di una nuova seduttrice. Dimostravano suppergiù la stessa età, però era come se Elanilde non avesse cognizione di sé, come se si stesse mirando allo specchio per la prima volta.

“Bussano.” Sussurrò Dorisa, invitandola a raggiungere il divisorio.

È Sam? Sperò che la propria ombra non risultasse troppo apparente dietro gli strati di carta sovrapposta.

“Sam entra e basta. Credo che sia... un visitatore.”

Aveva impresso nella mente il rumore dei passi, lo scricchiolio del cuoio a ogni movimento. Appestava il vestibolo con la sua tracotanza, Ondolemar, anche lontano dalla vista.

“È qui, vero? La sto cercando.”

“L'avete autorizzata, quindi viene quando vuole.”

“Ho bisogno di lei, adesso.”

La difese con tutte le sue forze, ma non approvò. Si fece avanti, così com'era: l'Inquisitore esaminò prima le bende e gli stracci sul letto, poi il paggio a capo chino, il rossore in viso, i segni delle fasce sul torace. Il respiro gli divenne pesante.

“Copriti e vieni con me.” Tagliò corto. “Lo hanno visto in città. A quanto pare non è ancora scappato, di sicuro avrà riparato in qualche canale prima di raccattare le sue cose e svanire. Occorre agire, adesso o mai più”.

Dorisa avrebbe rinunciato con piacere al dono di Sanguine: fu inondata da una ridda di sentimenti contrastanti, di paure e ansie. Rabbia e risentimento, il sangue di Ogmund e la seta delle lenzuola sulle gambe di Elanilde in una camera lussuosa dell'ambasciata. In entrambi i casi, l'eccitazione alla vista delle ferite, la frusta, le suppliche.

“Vai... è tutto a posto.” La illuse in quel gioco impari, la illuse e si condannò da sola, infliggendo su se stessa il marchio scarlatto del boia. Nessuno aveva il diritto di ordinarle come agire, di estorcerle con l'usura un favore e venire a patti con le sue pretese assurde. Aveva dell'inquietante la furia con cui fustigava lo spettro nella visione, risucchiava in un vortice di sopraffazione chiunque avesse osato illuderlo, deluderlo; venir meno al bisogno di tenerezza e accettazione sfigurato in crudele brutalità.

È davvero questo che vuoi? Non ebbe risposta. Svelta infilò gli stivali, coprì i capelli sciolti con un cappuccio che le arrivava a ridosso delle spalle e si ritrovò sola, a dipendere dalle proprie scelte. Recuperò un grimaldello dal fagotto di Sam, prese le vie di Markarth come se tutto fosse lecito, con un prezzo da pagare.

La tramontana agitò gli orli della cintura, alzò il mento verso il cielo e scorse le lune nembifere, irradiate dal guizzo dei lampi. Un odore di carne arrostita attenuava l'umidità di muschio e calce, proveniva dalla locanda dove si stavano consumando i festeggiamenti di una caccia fortunata. Non bastarono quelle voci allegre a calmarla, sotto i drappi della mantella il cuore batteva incessantemente, era l'acqua viva di un ruscello sotterraneo. Cercò di mettere le cose in prospettiva, per fortuna la casa di Ogmund era a pochi passi dalla residenza dello Jarl.

Si mise perciò all'opera: al tocco del grimaldello, la serratura schioccò immediatamente, permise senza troppa fatica l'accesso nell'alloggio. Neanche il proprietario si aspettava di esser invaso in maniera così meschina, doveva godere di grande rispetto. Bene, un'altra azione ignobile da aggiungere al conto che avrebbe presentato ai Thalmor.

Dorisa esplorò l'ambiente, che accusava le tracce di una forzata assenza. Le braci di un vecchio fuoco in un catino emanavano un leggero sentore di cenere, ginepro e lavanda, i resti di un decotto o incenso artigianale. L'abitato era situato nella parte alta della rocca, eppure poca luce filtrava dalle feritoie nelle pareti. Dorisa provò a far risplendere la stanza, ma non le restava animo per credere, agire, figurarsi evocare un incantesimo che non somigliasse a una pallida fiammella. Il corredo era essenziale, gli arredi esigui. Bastò un giro veloce per individuare un baule, scoperchiarlo con accortezza, trovare ciò che stava cercando. L'atto si consumò allo scandire della campana, le pesava come un calcio nello stomaco. Stava per uscire quando udì un rumore alle sue spalle.

Una botola, nascosta sotto un grosso cesto. Appena svelata, e di fronte a lei Ogmund, il volto calmo, la barba cosparsa di polvere fine. Si striò la pelle con un pigmento scuro, pastoso, ricavato da resina e carbone. Le vesti erano impregnate dell'odore della foresta.

“Finalmente ci incontriamo.” La trattò d'amico. “So perché sei qui, so chi ti ha mandato. Quell'elfo non si lascia sfuggire un affronto, piuttosto venderebbe l'anima ai signori dell'Oblivion. Sono nelle tue mani: verrò dunque giudicato?”

“Non sta a me decidere.” La voce della sacerdotessa tremolò, mentre stringeva più forte la catenina dell'amuleto.

“Sei tu, però, che ho di fronte. La donna che stabilirà il mio destino... spesso le scelte non dipendono da noi, è qualcuno che segue i dettami di un codice o il proprio guadagno a imporcele. Sono anziano, devo dire che la mia vita l'ho vissuta... e l'hai notato, conosco bene come eludere chi m'insegue. È un'arte che ho imparato al Collegio dei Bardi, per seminare le ire di un marito cornuto. Non pensavo di metterla nuovamente a buon uso.”

In un altro momento Dorisa avrebbe riso a crepapelle.

“Per questo verrò giudicato, un amuleto...” Glielo sfilò dalle mani con devozione, non gli negò il gesto. “Una cosa da poco. Non è tanto l'oggetto in sé quanto il simbolo... e a lui ho consacrato l'esistenza. Le sue gesta mi hanno ispirato ballate lodate da nugoli di guerrieri... morti in guerra, nel fiore degli anni. Nella spada spezzata, nel soldato caduto, rivedo Talos. Oggi toccherà a me, non mi dispiace... non rimpiango nulla. È così che lascio tutto... non una morte gloriosa, perché di gloria credo di averne avuta abbastanza in vita.”

“Non potrei essere io a condannarti.” Replicò la dunmer. “Non ne ho i meriti, so come ci si sente. Nel silenzio, ad ascoltare la voce divina nel vento. A interpretare un segno... a credere che qualcuno al di sopra di noi ci prenda per mano e ci guidi, nell'arco di decenni.”

“Ti sono grato.” Ogmund le si avvicinò, l'occhio cieco e la vecchia cicatrice non le incutevano soggezione, le infondevano rispetto. “L'ultima grazia è stata questa, di trovare una donna sensibile, che comprendesse. E lei... come sta?”

“Bene.” Lo rassicurò. Le rughe sul viso s'incrinarono in un sorriso affabile.

“Dille che le ho insegnato tutto ciò che so perché in lei ho trovato un'erede. Dille di non soffrire la mia assenza, se Talos me lo concederà, tornerò a farle visita.”

“Sarebbe un suicidio!” Obiettò, rivelando le sue vere intenzioni.

“Un bardo è la memoria di Skyrim: la conosce quanto le linee sul palmo della mano. Ora devo andare, o sarai tu a trovarti in difficoltà. Il Grande Re è infallibile... durante la lettura delle rune, ha predetto che un folle mi avrebbe concesso il senno, che avrei trovato un alleato nel mio nemico.”

“Non riuscirei a cavare un ragno dal buco da un responso tanto astruso.”

“Ci sfidano coi misteri.” Ogmund le rivolse un ultimo, potente monito. “Per capire bisogna vivere e aver fede. Spesso, solo credere... e gli ho creduto abbastanza per rendere una figlia dei Nove felice, anche nei giorni a venire. L'amuleto... puoi tenerlo. Raccontale la verità e fa' in modo che ognuno abbia ciò che cerca, non ne ho più bisogno.”

“Aspetta.” Lo trattenne con un cenno della mano, riducendo poi le distanze con deferenza. “Ero un sicario, ora ti sono amica e debitrice. Il folle, però? Cosa ha fatto, in che modo ti ha salvato?”

“Semplice.” Sogghignò il vecchio Skald, lisciando i baffi radi. “Prima di sparire ho avuto il tempo necessario per guardarmi in giro e onorare Markarth con un ultimo saluto. Avevo l'animo addolorato, fintanto che è apparso un beone dagli abiti variopinti. Le grida, gli insulti... per delle canzonacce da bettola, nulla in confronto alle goliardie del Collegio. La gente dell'ovest si offende per un nonnulla... il giullare barcollava. Era tanto inebriato dalle gioie del vino da non badare a dove mettesse i piedi. Be', ha inciampato sul bordo di un canale scosceso ed è rimasto lì per un pezzo a sguazzare, coi mercanti che si godevano lo spettacolo e il piacere della rivincita. Ho ricordato di avere anch'io una scappatoia, la botola è uno degli ingressi alle gallerie sotterranee. Se non l'avessi visto cadere, probabilmente ne avrei fatta una questione d'onore e sarei rimasto. Continuare a divertire... talvolta è più importante dell'orgoglio.”

“Il mio padrone ne sarebbe lieto.”

“Non lo metto in dubbio.”

La fiammella si estinse, tornò ad opprimerla il buio, non l'incertezza. Ovunque avesse deciso di andare sperava che fosse lontano a sufficienza da poter ricevere le nuove di Markarth e osservare la vita altrui scorrergli davanti, all'ombra degli alberi. Non li avrebbe abbandonati, era la sua presunta mancanza di fede a spiazzarla. Sam si era prodigato sin da subito, utilizzando il tempo che passava con Elanilde per tessere le sue trame. Del resto, non era stato lui a far dono a Mephala di oggetti preziosi con cui spargere invidia e dissidio? Pensò alla Rosa, gelosamente custodita tra una girandola di rovi, in modo da averla sempre sigillata nel corpo, nell'anima. Quando voleva ci sapeva fare, creava delle opere dalla bellezza inaudita. Magari aveva preso in simpatia Elanilde perché era capace di forgiare dal nulla, come lui.

Aspetta che ti metta le mani addosso, azzardò, ficcando l'amuleto in tasca. Avrebbe accampato una scusa con l'Inquisitore, ma col Padrone non avrebbe funzionato. Era sempre lui ad avere l'ultima parola.

 

Giunse un calesse da Solitude quella mattina. Da pochi giorni Elanilde aveva ripreso il suo posto in officina e con solerzia passò in rassegna le spade, gli arnesi, le lamine d'acciaio fuse e appena abbozzate. Moth-Gro Bagol piegò la testa in un fugace saluto, stava molando uno spadone e non amava perdere la concentrazione per evitare di livellare troppo la superficie e raschiare più metallo di quanto fosse necessario. Vide le guardie alternarsi per il cambio, un'ora era andata senza che l'uno o l'altro, di propria iniziativa, avesse rotto il silenzio. Lui per orgoglio, lei per l'imbarazzo.

Affondò le tenaglie nel forno dove prendeva forma un nuovo pugnale, mancò la stretta, e il cilindro incandescente rotolò verso l'incudine. L'orco si piegò per recuperarlo e metterlo in sesto, non nascondendo un'imprecazione.

“Come devo fare con te, ragazzo? Con voi elfi?” Berciò, non per rabbia. Era esasperato, allo stremo. “Viene quel muso storto del tuo padrone, sparisci all'improvviso e non ti fai più vedere. Per dieci giorni... fosse il lavoro arretrato il problema, no. Ti batto sul tempo ancora di parecchio. Immaginavo di cavare i denti a quel viscido altezzoso quando stringevo le pinze, di sfondargli a calci il nobile deretano. Mi chiedevo cosa avessi fatto per meritare una punizione, poi sbuchi all'improvviso e vedo che sei tutto intero. Tanto ho capito... non me lo racconteresti mai, nemmeno se potessi parlare. Ci sono i legionari in città, andrò a mettere una buona parola se ti ha recluso qui dentro, ma dipende da te. Dimostrami che non tollererai ad oltranza e ti farò entrare nella legione. Non ammetto che passi un giorno in più da schiavo, più di quanto tu ne sia cosciente. Se non puoi parlare, fammi capire. Dimostramelo.”

Elanilde piegò le braccia in grembo, lungo i fianchi, a disagio. Era uno dei pochi a preoccuparsi per lei, eppure rimase immobile in un'ingrata segretezza.

“E va bene, vuoi fare il duro.” Commentò il mastro fabbro, colpendo più rapido. “C'è un caporeparto in città, sta attaccando questi. Ha il permesso dello Jarl, ma qualcuno non è d'accordo e li sta facendo sparire, quindi sbrigati. Ecco, leggi.”

Una domanda di reclutamento. Nelle lande non ribelli, la Legione cercava braccia robuste o lavoratori volenterosi per ingrandire gli schieramenti. La forza dell'Impero è il tuo impegno, il tuo cuore. A Cyrodiil avevano sempre saputo come comprare al miglior prezzo. Certi nord avrebbero riso perché il motto suonava ridicolo, lo avrebbero sbeffeggiato in taverna per intere serate.

Sebbene apparisse ruffiano e sentimentale, colpiva nel vivo. Il suo cuore.

“Sapevo che l'idea non ti era indifferente.” Ridacchiò, scoprendo le zanne. “Sei fortunato, incontra lo Jarl ogni sera, s'appartano e discutono. La trattativa va per le lunghe, Igmund promette e nega, e quello se ne va via con un pugno di mosche. C'è un grosso affare in ballo, altrimenti non se la menerebbe tanto... qualcosa che rischia di compromettere Markarth, di certo non è un nuovo filone d'argento nella miniera, avrebbe già radunato i suoi uomini. Per fortuna c'è quel giullare a fargli fare il giro turistico, semmai fallisse potrà raccontare in giro che effetto fa dormire in una camera dove, secoli addietro, viveva un tizio che è svanito nel nulla con tutta la sua schiatta. Bah.”

Non le sarebbe dispiaciuto sparire, trasferirsi in un mondo sconosciuto o una dimensione parallela. Di sicuro avrebbe trovato pace, accoglienza; oppure gli stessi mali del presente. Ad ogni modo, avrebbe deciso da sola la propria vita.

“Cerca di non metterci un'eternità.” Era proprio determinato a farle da consigliere. A coprirla a tutti i costi. Elanilde piegò il foglietto e lo spinse dietro l'orlo della tasca. “Ti procurerò un'armatura decente e una spada affidabile, non parlo a vanvera. Sono un veterano, ma mi è rimasto abbastanza ardore da scagliarmi contro il nemico e cercare una morte onorevole. A meno che non siano quei petulanti Thamor ad uscirne col collo spezzato”.

Aveva smesso di picchiare, il metallo si era indurito, ma non era quello il motivo. Il garzone gli si avvicinò, quatto, e gli aveva posato la mano sulla spalla: un gesto fine, a tal punto da provocare in lui un dubbio atroce. Era sempre troppo vestito, ben rasato, non dormiva coi soldati e nemmeno coi domestici. Molti dettagli stridevano, Elanil appariva e scompariva su ordine del padrone che, di persona, lo cercava, lo rimproverava. Gli schiavi che aveva liberato non ricevevano altrettante attenzioni: non può essere, pensò. Una risposta ambigua contro un riscontro palese: era uno sventurato, un prigioniero di guerra, la stessa che aveva combattuto. Perché badarci, allora?

Il ragazzo annuì, col mento un po' inclinato. Un cortese, discreto ringraziamento... e un implicito invito a tenersi in disparte. Moth-Gro Bagol faticava a intuire chi stesse realmente proteggendo l'altro, tra i due. Alimentò il fuoco, arroventò l'acciaio ancora grezzo assieme ai sospetti. Rabbia e distacco, caldo e freddo.

“Non metterci un'eternità.” Ripeté, rivolto a se stesso. Un'ammaccatura era comparsa al centro della lama, di questo passo si chiedeva cosa ne sarebbe stato di essa dopo la tempra. Farfugliò frasi indistinte e riprese a battere, mantenendo la calma.

 

La forgia richiama uomini e donne che non disprezzano la solitudine, e Moth-Gro Bagol non faceva eccezione. Avere attorno l'apprendista imperiale di Ghorza lo ispirava a ideare nuove e ardite imprecazioni, e quando non poteva fare a meno d'assistenza prediligeva braccia su cui realmente contare. Aveva accettato Elanil per una fortuita coincidenza, possedeva due doti inestimabili: agiva secondo ordini precisi e parlava poco, al contrario di Tacitus. Anzi, era meglio dire che non parlava affatto.

Ciò era allo stesso tempo fonte di calma e frustrazione. Elanilde aveva costruito attorno a sé un eremo che attirava e atterriva. Come individuo ispirava comprensione, fiducia... era sicura che Lampo si lasciasse accarezzare da lei perché era una dei pochi a non urlargli contro. Qualunque segreto custodisse, non avrebbe mai più visto la luce del giorno. Eppure si sentiva un fantasma, quando versava il vino ai banchetti di Elenwen. Mutismo e tacito assenso: aveva imparato ad ascoltare e ancor di più a fingere. S'inchinava distinta, sorrideva beatamente come un povero imbecille. Lo spettacolo convinceva, attirava gli sguardi delle apprendiste, figlie di nobiluomini che avevano donato sangue e futuro ai Thalmor. A riservarle maggiori attenzioni, però, erano i potenti comandanti rimasti misteriosamente scapoli. Ondolemar assisteva alla commedia, nutrendo un'ilarità maligna. Gli sciocchi s'illudevano, perché fraintendevano la realtà. In fin dei conti, era una causa persa.

In fin dei conti, lei gli apparteneva.

Le campane annunciavano il tramonto, la chiusura dei negozi e una fila di figure sbiadite far capolino dalle miniere. Il vapore alimentava il cuore di Markarth, le torce lungo i pendii delle mensole i tanti occhi con cui s'insidiava nel privato dei cittadini. Spaventavano più delle storie divulgate dalle vecchie, specie degli aneddoti sui Rinnegati, che avevano contagiato anime pure negli anni bui del dominio infame...

Elanilde conosceva molti racconti del terrore, ma pochi eguagliavano in oscenità quelli ambientati nell'antica rocca.

Preferiva letture migliori, preferiva la forgia e il sacco a pelo. Aveva solo voglia di gettarsi sul giaciglio, ignorare che tipo di premi sarebbero stati elargiti a nuovi e vecchi amici. Lo trovò fuori posto, arrotolato in un angolo del corridoio. Un trio di soldati scelti si erano ridotti a trasportare arredi come facchini: l'ultimo della giornata era una sedia intarsiata con decori in ottone. Entrò nella stanza che fino ad allora le era stata familiare: un materasso di lana era stato deposto sul letto in pietra, costretto a fargli da sostegno. Facevano subito seguito un'elegante scrivania dai mille cassetti, in sosta accanto all'entrata per la sala da bagno, e pannelli divisori dipinti ad olio da disporre al suo interno. Arazzi Thalmor coprivano il vuoto sui muri, e per scongiurare il grigiore dwemer vi erano cuscini, cuscini ovunque.

“Lì, per favore.” Ondolemar tamburellò le dita su un basso comò, animato dall'immancabile astro di Auri-el. Portò le mani ai fianchi e ammirò il nuovo museo della tenuta con gli occhi di un bambino. I soldati abbandonarono lo studio, sigillarono l'entrata: rimasero soli.

“Sei tornata.” Impiegò parecchio a notare la sua presenza. “Ti piace? Dopo le buone notizie che ho comunicato, l'Ambasciatrice ha pensato d'inviare qualche comodità dalle isole, per rendere meno disagevole la restante permanenza. Ho programmi per te, dopo aver arrestato il bardo potremmo considerare la missione quasi al termine. Rimarremo il necessario per far intendere a questi nord che non devono alzare la cresta. Nel frattempo, partirai per un breve viaggio in barca, una piccola crociera. Apri l'armadio.”

Elanilde s'inchinò, riluttante, e obbedì com'era solita fare. Socchiuse le ante per procurargli una veste da camera, invece trovò toghe scollate in finissima stoffa e ricche cinture d'oro acciambellate, che la intimorirono coi loro occhi da serpente.

“Non ho saputo resistere.” Spiegò, accarezzandola con la voce. “Non so come ti abbia convinta, ma... vederti con quegli abiti mi ha stregato. Ancora pochi giorni, Elan... manca poco.”

Prese posto sulla sedia dall'alto schienale, un piccolo trono per chi si riteneva il vero sovrano di Markarth. Intrecciò le dita e si morse il labbro, incapace di contenere la frenesia.

“Leggi tu stessa.” Un altro foglio, obbedì nuovamente. “L'ambasciatrice, con il potere a lei conferito dall'Ordine Supremo e alla luce dei progressi avvenuti nella zona posta a sovrintendenza, dichiara che l'eresia è stata annichilita, i suoi fedeli puniti e debellati. Concede, dunque, ad Ondolemar – Inquisitore Capo a Skyrim e Agente di Markarth – il privilegio di poter onorare i Thalmor ed Alinor nella vita privata, e il tempo necessario a far in modo che ciò avvenga nella maniera più consona agli usi e costumi degli Altmer. Sai che significa?”

Ipocrisia, pomposità. Risposte scontate dietro giri di parole inutili. Dopo tre mesi dall'incidente al tempio, ritrovò il coraggio per non vergognarsi di piangere.

“Posso scegliere una compagna.” Braccò l'elfa con poche, veloci falcate. Le sollevò il mento con l'indice destro, mentre le dita dell'altra mano erano impegnate a mietere lacrime. “Non pensare al bardo, al passato... ma al nostro futuro. Potremo mettere in discussione tutto, ripartire da zero. Provare a conoscerci realmente perché io non so chi sei, Elan... e tu ignori quanto abbia voluto mostrarti quella parte di me stesso che continua a sperare.”

Il sogno testimoniava la sua innocenza, smentendo ogni accusa d'imbroglio. Come se si trattasse di una prova attendibile... volle crederci, fidarsi sino alla fine.

“La verità è che non sono chi hai di fronte. Ho imparato a fare bene quello che mi hanno insegnato, perché non ho avuto alternative. Detesti le frasi che recito: 'Salvezza dei Mer', 'Veri vincitori della Grande Guerra'. Non sono diverso dal centurione dwemer che difende un angolo remoto di queste rovine, ignaro del destino dei suoi creatori... ti prego, credimi. Sono un essere irrecuperabile, ma se ci sei tu, forse posso sopportarlo... Ti prego!”

L'elfa chiuse gli occhi e poggiò la testa sul suo petto. Sfiorò col naso gli alamari della palandrana, mentre i polsi sottili s'avventuravano sotto il cuoio, a ridosso della casacca. Stupida, a farsi raggirare con trucchetti meschini: non avrebbe ceduto l'incolumità di Ogmund in cambio di docili moine. E nonostante tutto, lo strinse tra le sue braccia come se nulla contasse, provando a restituire al ragazzino timido della visione parte della vita che gli era stata negata.

Elanilde, mia gioia. Veniva allo scoperto, con le lacrime e la sua lingua natale, oltre la vergogna e il rimpianto. Se fosse stato indulgente, avrebbe imparato ad amare se stesso e perdonato gli sbagli di chi l'aveva rovinato per troppa premura, troppo vanto. Divorava e torturava le labbra dell'amata nel bisogno viscerale di averla accanto e non separarsene mai e poi mai.

L'elfa sussultò, la porta vibrava restituendo battiti intermittenti. Prese le distanze mostrando lo strascico dell'uniforme, dimenticò l'apparente debolezza.

“Il nome, la ragione per cui mi cercate.” Sospirò, sfibrato. “E se ho motivo di ricevervi, prego, entrate.”

“La sacerdotessa desidera parlarvi.” Udì la voce gracchiante del buffone, spazientito. “E voi piano, miserevoli tirapiedi. È qui per onorare un accordo, mica per mangiarlo!”

“Avanti.” Ordinò, riprendendo l'usuale simulazione. “Vi attendevo con ansia.”

“Ho qui quello che avevate chiesto.” Tagliò corto, facendo tintinnare l'amuleto sul tavolo di pietra sguarnito. “Una prova materiale per l'interrogatorio. L'ho recuperato quel giorno stesso, ma sapete... una donna come me ha bisogno di tempo, tempo per adorare il suo Padrone.”

Elanilde la odiò. Di rimando, Dorisa le rivolse uno sguardo supplichevole, invocava pazienza.

“Proprio quando era necessario per stabilire i termini dell'interrogatorio? L'ambasciatrice attende un rapporto, le ho annunciato che il fascicolo completo perverrà entro sette lune. Rimedierò, ora veniamo al dunque. Lui dov'è?”

L'ho visto, sta bene. Il pensiero scosse Elanilde, le infuse fiducia. Erano ancora tante le preoccupazioni: il luogo, le modalità della fuga. Domande a cui Dorisa non seppe rispondere, nemmeno a monosillabi. Si pentì d'aver accusato l'amica, di aver involontariamente imitato Ondolemar nella foga, negli intenti.

“Vi ho consegnato l'amuleto, ho trovato la casa vuota. Avrà intuito che stavate per agire contro di lui, specie se vi ha fatto torto, quindi non so.”

“Fuggito, allora.” Scaraventò a terra i calici appena traslati da un bauletto allo scaffale, il cristallo si volatilizzò in una miriade di frammenti appuntiti. “Non è potente, il vostro Padrone? In cosa ha mancato, per guidarvi tanto maldestramente? Cosa gli sfugge all'intelletto? Visioni, prodigi, sussurri dall'Oblivion... nulla di più terreno dell'inettitudine, piuttosto.”

“Mi sono attenuta a quanto ordinato.” Sibilò Dorisa, il suo essere ribolliva in una tempesta di rabbia e lapilli. “E se proprio ci tenete ad esser illuminato sulle vie di Sanguine, vi posso assicurare che, con tutta modestia, l'unica inettitudine è stata fornire ordini vaghi e cantar vittoria troppo presto.”

Gli occhi dell'Inquisitore, prima umidi, si iniettarono di sangue.

“Taci, megera!” L'ira lo trattenne a poche spanne di distanza, anzi, era stata Elanilde a frapporsi tra i due, con le braccia in fuori. Il lupo perde il pelo, ma non il vizio.

“Ora ti ci metti anche tu, sempre a difendere amici discutibili e non la dignità. Sono stato accondiscendente, ma qui si rasenta il limite. Guardie!”

“Cosa?” Vennero a prelevarla gli stessi altmer armati che l'avevano separata da Sam. Le acciuffarono gli avambracci con lunghe, dorate falangi e la trascinarono verso l'anticamera nonostante le proteste, le urla, il fracasso.

“Avevamo un patto, messere.” Intimò la sacerdotessa, a testa alta. “Dimostrate, almeno, di tener fede alla parola data.”

“Elanil, secondo cassetto, primo tomo in fondo.” Sbraitò, indicando la scrivania. “E adesso, abbiate la creanza di lasciarmi solo, dato che non siete stata in grado di esaudire almeno uno dei miei desideri.”

“State commettendo un madornale errore. Non temete, comunque... tornerete molto presto. Avrò la creanza di accogliervi a braccia aperte”.

“Indietro! Dove stai andando?” La serva prese a rincorrerla, agitando un cumulo di pagine rilegato sotto una copertina di cuoio nero.

“Che mi prenda un colpo, vecchio mio!” Sam aveva ripiegato nelle cucine per trafugare dell'arrosto di carne in compagnia di Sevan, divenuto ormai un salvacondotto per l'impunità di fronte allo Jarl. “La mia padrona, trascinata come un sacco per il corridoio e scacciata dalla rocca! Simili affronti non si possono ignorare, facciamo vedere a quei brutti ceffi di cosa siamo capaci!”

“Hai bevuto troppo vino, giullare.” Lo blandì il legionario, dandogli dei colpetti sulla schiena. “E peggiorerai la situazione. Lascia fare a me, nel frattempo riempi lo stomaco.”

Un'altra serata, un altro giro a vuoto. Starsene in disparte con il bretone, rivelatosi poi l'attendente della chiacchierata sacerdotessa degli intrallazzi, era per Sevan un passatempo per leccarsi le ferite e rallegrare l'umore. Doveva ammetterlo: lo aveva conosciuto per caso e all'inizio gli aveva provocato non poche noie, però gli stava già a cuore. Si faceva voler bene, aveva spirito ed era un gran cantastorie, specie quando metteva in note la grandezza di Sanguine...

Avrebbe composto ballate su di lui, su come avesse difeso l'onore della Signora? Così la chiamava, una sorella dunmer dal viso tondo e i capelli scuri. Non gli faceva una buona impressione, non perché fosse poco raccomandabile, no... gli ricordava Varasa, lo zelo con cui lo seguiva, finché giunse quel giorno maledetto.

“Adesso basta. Gli ordini sono ordini, qui però si esagera.” Bene, un conflitto di interessi servito su un piatto d'argento. Al richiamo del legato Telendas, la scorta dell'Inquisitore si fece indietro e lasciò la maga ansante sul lastricato. L'aiutò a rialzarsi, consapevole di averla spuntata per evitare presunte rappresaglie. Era conveniente sbilanciarsi in un atto di forza, intimidire e non passare dalla parte del torto con gesti spropositati. La caccia all'intruso avveniva sempre allo stesso modo: isolare l'elemento singolare, che destabilizza l'equilibrio nel mucchio, per dimostrare di appartenere in un contesto a cui si è altrettanto estranei. Nella sacerdotessa, Sevan vedeva una donna che andava avanti da sola, credendo in un ideale.

Una donna graziosa, che arrossì non appena accettò il suo braccio per muovere qualche passo. Per Azura, cosa doveva fare?

“Lei è mia!” Esclamò Sam, in uno stridulo avvertimento. “Se proprio vuoi darti delle arie, guarda! C'è il servo muto del Thalmor che ti viene dietro... con uno strano libro appresso!”

“Già... il libro! Grazie, Elanil.” Tossì Dorisa, in un veloce elogio.

Dovresti tornare dall'Inquisitore, non aggravare la situazione rimanendo qui. È stato uno scatto d'ira, domani andrà meglio...

Il volantino, non lo aveva dimenticato.

Ho poco tempo e una decisione da prendere. Ondolemar intende allontanarmi da Markarth, ma sarò la prima a farlo. Non c'è rimedio, s'è gettato nello stagno e affonda nel suo stesso fango... non trascinerà anche me lì dentro.

Spiegò il foglio dritto in faccia al legionario, puntandolo a due dita dal naso, in modo che solo lui potesse leggerlo.

“Ehi, amico, lo riconosco. Questo è uno dei primi volantini, l'inchiostro è meno sbiadito e la carta bianca, non macchiata come quelli che hai sparso in giro oggi. Quella rissa alla locanda è stata fenomenale! Ci farei una breve postilla... La forza dell'Impero è il tuo impegno, il tuo cuore. E anche l'arguzia di schivare un gancio ben assestato e vincere un gruzzoletto niente male, dopo una sonora scazzottata!”

“Soldi che, ovviamente, finiscono nelle mani dello scrivano. Qui a Markarth sono degli imbroglioni, guarda se ti sembra il modo di lavorare! Carta ammuffita, inchiostro vecchio quanto i tempi del Nerevarine. Se mi dicessero che la carta la fabbricano con la pelle avvizzita dei draugr e il resto con la polvere delle loro ossa, ci crederei!”

Elanilde batté i piedi, richiamando l'attenzione su se stessa.

“Sei proprio deciso, vuoi entrare nella Legione? Ci potrai essere utile, sperando che non giocherai a fare la spia.”

“Credo che abbia tutto l'interesse ad esservi fedele, messere.” Commentò Dorisa, perorando la sua causa. “È uno schiavo di guerra, e prima di finire nelle mani dell'Inquisitore, viveva con la famiglia a Cheydinhal. I Thalmor gli hanno portato via tutto e hanno incendiato la città prima del Concordato, quindi è motivato più dalla vendetta che dalla lealtà.”

“Bentornato, allora, ragazzo. Presto avrai compagnia, per ora pochi ma buoni, giusto?” Sembrava che l'elfo avesse dimenticato la diffidenza, in un'esultanza giovanile. “Sam mi ha parlato tanto bene della Signora che, oh, adesso anch'io pendo dalle sue labbra. Cosa sai fare?”

Elanilde imitò i movimenti del fabbro, incudine e martello.

“Perfetto, sarai di grande aiuto al campo. Ah, tanta fatica ma ne è valsa la pena! Ti manderò un mago guerriero, allora, qualcuno che conosce bene l'arte di passare inosservato. Starà a te decidere il momento opportuno, sei d'accordo?”

Annuì. Era fatta: non le importava che Ondolemar, dopo aver sfogato la frustrazione per la mancata cattura, notasse l'assenza e giungesse a recuperarla. Non le importava, perché il foglietto era tornato nel bavero della casacca mentre era lì, a custodire un segreto a due passi dalla libertà. Si era condannato, dando adito ad una distrazione che aveva attirato i Thalmor verso il suo alveare. Con le guardie del corpo a sciamare lontane, l'ape sovversiva poteva tranquillamente ambire al miglior miele.

“Elanil.” Fu turbato alla vista dei tre, percepiva un'aura ostile. L'inquisitore li degnò di un'occhiata fugace, quasi paventasse affrontare i latori della sua presunta disfatta. Non avrebbero mai più messo piede nella dimora dello Jarl, giurò. Gli bastava cambiare le carte in tavola per dare agli intrusi, i veri intrusi, il trattamento meritato.

Elanilde si voltò ancora, all'angolo del corridoio, verso i suoi alleati. Divennero una macchia lontana, un alone fluido al di là del dardeggiare incostante delle fiaccole. Non le importava, non l'addolorava... Era una momentanea tregua prima dell'attacco. Il dominio dell'Inquisitore aveva le ore contate mentre lei si rafforzava, complice un nuovo destino. Custodiva un segreto, e una certezza, che nessuno le avrebbe tolto.


 


 

Non so se ci saranno altri aggiornamenti, questo fine settimana o durante la prossima. Spero solo di finire la storia entro i primi d'ottobre. Il bello è che per scrivere queste pagine ho seguito delle note sgrammaticate che ho appuntato a parte, nello stesso file in cui sto portando avanti il racconto. Se le leggeste vi mettereste le mani nei capelli. :) Interi paragrafi riassunti in una decina di righe dove sono descritti gli eventi, tipo una scaletta. Pensavo che scrivere il capitolo precedente fosse stato difficile, ma per questo ho davvero penato, cercando di legare frasi ed eventi, in modo che ogni cosa avesse una logica... spesso determinata da piccole azioni, come quel “volantino” che Elanilde fa sparire in una tasca e che si rivela poi cruciale. Gli espedienti possono essere discutibili, ho cercato di fare del mio meglio. Se ci sono dei punti rimasti in sospeso, verranno approfonditi prossimamente. Forse pubblicherò altri due capitoli prima dell'epilogo, tutto però dipende da quanto scriverò (non voglio punirvi più di quanto abbia fatto ora). Potrei correggere e modificare qualche frase, per migliorare il testo in generale. Con Ondolemar... non so se ho esagerato. All'inizio il dialogo con Elanilde era più drammatico, poi ho cambiato qualche parola per non sfociare nell'OOC, sempre che non l'abbia fatto, mi rimetto a voi.

Be', a presto. <3

 

  
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