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Autore: Adeia Di Elferas    16/09/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ottaviano si stava annoiando a morte, isolato com'era nel palazzo in cui Ludovico il Moro lo aveva invitato ad aspettarlo.

Le riunioni con i signori della Romagna e non solo occupavano quasi tutta la giornata ed Ercole Este seguiva ogni passo di quel raduno senza posa, seguito quasi sempre dal figlio Alfonso.

Ottaviano non aveva avuto modo di incontrare nemmeno sua zia Anna Maria. Perfino Sfrondati disertava le sue stanze, accampando scuse di ogni genere, prima tra tutte 'un importantissimo colloquio privato con il Duca'.

Solo raramente Ottaviano riusciva a incontrare il Moro, quasi sempre ai pasti, e ogni volta l'unico argomento che l'uomo toccava era Forlì e il suo governo. In particolare, Ludovico insisteva molto sul fatto che un Governatore Generale come Giacomo Feo non fosse più adatto a uno stato come quello di Ottaviano e che ci volesse qualcuno di maggiormente esperto e fedele allo Stato.

“Sarei lieto di mandarvi di persona qualcuno di mia fiducia – disse una sera Ludovico, mentre mangiavano un succulento arrosto – ma dubito che vostra madre accetterebbe pacificamente di deporre il Feo in favore di un milanese.”

Ottaviano aveva silenziosamente assentito, ma si era permesso di sperare in un aiuto da parte del Moro, quando questi aveva buttato lì, apparentemente in modo casuale: “L'unico modo sarebbe far sì che il Governatore Feo debba lasciare per cause di forza maggiore...”

Tuttavia Ludovico non si sbilanciò oltre per tutto il tempo in cui Ottaviano restò suo ospite e così il ragazzino accolse quasi con sollievo l'annuncio di Sfrondati, che un bel mattino gli disse semplicemente: “Fate preparare i vostri bagagli, signor Conte, che prima che sia pomeriggio ripartiremo alla volta di Forlì.”

Poco prima che partissero, Ludovico volle salutare il figlio della nipote, rassicurandolo sul futuro e sul fatto che in Milano avrebbe sempre avuto un alleato.

“Dunque cercate di convincere vostra madre a mettere ragione – fece il Moro, guardando negli occhi il ragazzino – e poi voi siete il figlioccio del papa e il papa si è schierato con noi.” rincarò.

L'uomo era rimasto molto colpito dalla bellezza spiccata del giovane Conte, i cui capelli dai ricci larghi e i cui linearmente decisi, ma aggraziati, gli ricordavano la nipote solo molto lontanamente.

Ricordava molto poco l'aspetto di Girolamo Riario, ma era sicuro, guardando Ottaviano, che non dovesse essere molto diverso, alla medesima età.

Sperò solo che il nuovo Conte potesse essere più affidabile del precedente.

Ottaviano salutò il Moro con deferenza e si affrettò a seguire Sfrondati lungo la via. Il timore di quello che sua madre gli avrebbe detto o fatto al suo ritorno era battuto pienamente in quel momento dal desiderio di allontanarsi dalla barbosissima corte di Ferrara, dove, invece di partecipare attivamente alle riunioni come aveva sperato, altro non aveva fatto se non aspettare tra quattro mura, fingendo di leggere qualche libro e sbadigliando a ogni piè sospinto.

 

Oliviero Carafa era riuscito a farsi dare l'anello piscatorio di Alessandro VI giusto il tempo per suggellare una breve, da lui stessa scritta, con cui si dava l'autorizzazione papale all'indipendenza del Convento di San Marco in Firenze.

Con quella mossa, Girolamo Savonarola cominciava a coronare il suo sogno. Voleva rendere indipendenti il maggior numero di conventi possibile, rendendoli più soggetti alla sua influenza e più vicini alla riforma che intendeva mettere in atto.

Se all'inizio del suo mandato, Rodrigo Borja era parso a Savonarola un homo novus degno del suo rispetto, più i mesi passavano, più il predicatore si faceva cogliere dai dubbi. Tuttavia, finché lo spagnolo assecondava le sue richieste – seppur sempre lasciando che fossero altri a occuparsene esecutivamente – a Savonarola stava bene, malgrado tutto.

Firenze, dopo quella prima 'liberazione', stava cambiando volto. A ogni angolo si potevano avvistare i Piagnoni che seguivano pedissequamente gli ordini di Savonarola e l'aria che si respirava in città era del tutto diversa da quella che l'aveva animata quando il Magnifico era all'apice della sua potenza.

Non si faceva altro che parlare di elemosine per i poveri, riforme integraliste e rinnovamento dello spirito cristiano dei fiorentini. Tutto era un parlar di Chiesa e ritorno alle origini, di recupero della purezza che l'arte, la letteratura, la musica profana e tutto ciò che non era prettamente religioso, avevano inquinato e corrotto.

Piero Medici, il Fatuo, con i suoi anelli e le sue collane, non riconosceva più quella città invasa da gente il cui unico orpello era una ciotola per il cibo e l'elemosina. La sua acconciatura ricercata non aveva più nulla a che fare con le teste arruffate dei poveri e quelle rasate dei Piagnoni. I suoi abiti soffici e ricamati erano uno schiaffo agli stracci indossati dalla maggior parte dei cittadini che avevano abbracciato appieno la causa del Savonarola.

Dalle campagne vicine a Firenze, poi, si alzavano focolai di rivolta dalla matrice molto più vaga, ma forse più sentita dai contadini e dai mandriani.

A guidare e indirizzare gli scontenti, era soprattutto Lorenzo il Popolano, che, con la moglie Semiramide Appiano, riusciva a far pressioni al Fatuo senza nemmeno dover andare fino a Firenze.

Il fratello, Giovanni, aveva ottenuto il suo medesimo appellativo per similitudine, anche se non era ritenuto ancora così tanto addentro alla rivolta. Se Lorenzo, infatti, era sempre nel mezzo delle folle da fomentare, Giovanni era più adatto a organizzare strategicamente gli incontri e a mantenere il più possibile aperti i loro sbocchi d'alleanza con i nobili di Firenze che avrebbero presto dovuto scegliere tra loro e Piero.

 

Caterina aveva atteso con ansia crescente il ritorno del figlio e dell'ambasciatore milanese.

Non aveva fatto una colpa a nessuno dell'uscita non autorizzata di Ottaviano, nemmeno con le balie che teoricamente avrebbero dovuto tenerlo d'occhio, perché sapeva che la prima a essere stata manchevole in quel frangente era stata proprio lei.

Giacomo l'aveva pregata di essere dura con Ottaviano, e di capire se aver incontrato il Moro avesse acuito in lui il desiderio di rivalsa.

“Sicuro come è vero Dio – aveva detto Giacomo, con un tono che non ammetteva repliche – quel piccolo delinquente è andato a Ferrara solo per cercare qualcuno che mi levi di mezzo!”

La Contessa aveva finto di dargli retta, ma l'unica cosa che le premeva sapere da Ottaviano era se avesse anche solo lontanamente accennato la possibilità di un'alleanza al Moro.

Quando Ottaviano varcò le porte di Ravaldino, lasciato solo anche da Sfrondati, che si era fermato al suo palazzotto, senza avere il fegato necessario per mostrarsi alla Contessa dopo la sua improvvisa partenza, Caterina lo stava aspettando nello studiolo del castellano.

Il giovane Conte era stato terrorizzato per buon parte del viaggio al pensiero che sua madre lo avrebbe ripreso e messo in ridicolo davanti a tutti, perciò quando seppe che voleva incontrarlo in privato, già si sentì parecchio sollevato.

Non appena fu nello studiolo, il ragazzino si accorse che quello che avrebbe desiderato di più, sarebbe stato un abbraccio di sua madre, o almeno una parola dolce, il segno del suo interesse. Sarebbe andato bene anche solo un semplice: “Com'è stato il viaggio?”

Invece la Contessa era seduta dietro alla scrivania, il volto scuro e le mani giunte in grembo. Fissava Ottaviano senza parlare e pareva, dalla ruga che le si era formata a lato delle labbra, che si stesse trattenendo per non esplodere.

Tanto bastò per far vergognare Ottaviano per i suoi sentimenti e il suo desiderio di sentirsi accettato. Era stato un illuso, come sempre, e il prezzo che stava pagando era il dolore che provava nel profondo del suo animo.

“Madre, io...” cominciò il ragazzo, mentre sentiva le orecchie e il collo arrossarsi: “Ecco, io...”

“Ludovico ha spiegato perché non mi ha voluta alla riunione della Lega?” domandò Caterina a bruciapelo, frenando subito il farfugliare sconnesso del figlio.

Ottaviano allacciò le mani dietro la schiena, guardando in terra e ammise: “No, non l'ha detto.”

“E tu non l'hai chiesto, immagino.” commentò la donna, con durezza.

Il Conte schiuse le labbra per aggiungere qualcosa per discolparsi, ma la madre stava andando avanti imperterrita: “Cosa è stato detto durante le riunioni? Quali sono le linee che la Lega ha deciso di seguire?”

“Ecco, io veramente... Non... Ludovico non mi ha permesso di...” Ottaviano si sentiva ridicolo, in fallo e del tutto inadeguato.

Si vergognava a dover ammettere che il Moro non gli aveva permesso di assistere nemmeno a una delle mille e interminabili riunioni a cui avevano partecipato anche giovani poco più vecchi di lui e dal titolo meno importante.

“Almeno hai capito quanti soldati ha a disposizione Milano?” chiese Caterina, capendo quanto il viaggio a Ferrara di Ottaviano fosse stato inutile.

Il ragazzino, in un moto d'orgoglio, tentò di risollevarsi e disse, pensando a un numero che potesse essere realistico e allo stesso tempo impressionante: “Ventimila uomini.”

Caterina, volutamente, assunse un'espressione scettica, per vedere se il figlio stesse parlando con cognizione di causa o meno.

Ottaviano non tardò a tradirsi, correggendosi, con agitazione crescente: “Centomila... No, cinquantamila. Diecimila...?”

La Contessa si massaggiò la fronte e concluse: “Se non lo sai, ti prego di non inventare cifre a caso. Non possiamo permetterci di basare le nostre difese su numeri inventati da un bambino.”

“Non sono un bambino!” scattò Ottaviano, assumendo un'espressione che era stata tipica anche del suo defunto padre.

Questo particolare, sopra ogni altra cosa, perfino sopra al tono irriverente, suscitò la risposta rabbiosa di Caterina, che si alzò in piedi repentinamente e ribatté: “E per ora non sei nemmeno un uomo, quindi non permetterti mai più di agire di tua iniziativa mettendoci tutti quanti in pericolo!”

Ottaviano strinse i pugni e i denti, digrignandoli con tanta forza da farsi quasi male.

“Adesso vattene.” fece Caterina, le mani sulla scrivania, per trattenersi dall'alzarle sul suo primogenito: “E sappi che disapprovo la tua vicinanza all'ambasciatore Sfrondati.”

Ottaviano avrebbe voluto gridarle contro che lui disapprovava la sua vicinanza a Giacomo Feo, ma si rese conto che se solo avesse provato a parlare, sarebbe scoppiato a piangere. Così girò sui tacchi e appena fu fuori dallo studiolo del castellano, cominciò a correre in cerca di un posto riparato dove sfogare tutta la sua collera.

 

Alfonso d'Aragona pareva una bestia feroce impazzita. Non faceva altro che gridare e sbattere ora le mani contro le pareti, ora il piede in terra.

Suo padre, il re Ferrante, stava ancora finendo di leggere la lettera arrivata da Milano, scritta in latino dalla nipote Isabella in persona.

Si trattava né più né meno che di una dichiarazione di guerra che portava come casus belli il trattamento inaudito e inconcepibile di Ludovico Sforza nei confronti della stessa Isabella, di suo marito il Duca di Milano, e del loro innocente figlio Francesco.

Alfonso, non appena aveva rotto la ceralacca e aveva letto le parole della figlia, si era tramutato in una belva, e vaneggiava di cannoni e spade, giurando su se stesso, sulla sua vita e su quella di tutti i suoi familiari a turno che avrebbe ammazzato Ludovico il Moro con le sue stesse mani e che avrebbe raso al suo suolo Milano, fino a ridurla in briciole.

Ferrante stava finendo di vagliare le ultime parole di Isabella, ignorando il figlio che inveiva contro i milanese in un misto di spagnolo e napoletano.

Ciò che la giovane Duchessa di Milano aveva scritto era davvero molto grave. Se quel messaggio fosse stato reso noto – e Ferrante non dubitava che suo figlio avrebbe reso partecipe come minimo tutta la corte del contenuto della lettera – la guerra sarebbe stata davvero inevitabile.

Il Duca di Calabria aveva addirittura estratto la spada dalla fodera, agitandola in aria, come se avesse di fronte degli immaginari nemici e Ferrante dovette richiamarlo all'ordine per dieci minuti buoni, prima di riuscire a farlo tacere.

Quando Alfonso finalmente chiuse la bocca, era sudato e con gli occhi sgranati, la spada ancora in pugno e le labbra sollevate a mostrare i denti come fosse un mastino.

“Per il momento non muoveremo guerra a nessuno!” fece Ferrante, alzando la voce tanto da far sì che nemmeno il suo bellicoso figlio trovasse il coraggio di contraddirlo: “Non siamo pronti per una guerra di questa entità, ci serve ancora del tempo!”

Inoltre, stava pensando Ferrante, dovevano ancora assicurarsi il sostegno del papa. Il suo secondogenito Federico era a Roma ancora in quei giorni, per trattare una fine politica matrimoniale che unisse i Borgia e gli Aragona, ma Alfonso aveva la testa troppo calda e le mani troppo pesanti per capire l'importanza dell'attesa.

Così Ferrante lasciò che la sua vena autoritaria placasse da sola l'irruenza del violento figlio: “Scrivere ufficialmente al Moro, intimandogli di cedere in via definitiva il Ducato a Gian Galeazzo Sforza. Gli daremo termini precisi da rispettare. Quando sarà passato il tempo che gli avremo concesso e il nostro esercito sarà davvero pronto, allora vendicheremo Isabella. Per ora, però, dobbiamo stare calmi!”

Alfonso rinfoderò la spada, mentre il suo petto ancora si alzava e abbassava a ritmo irregolare.

Il Re, sentendosi improvvisamente di nuovo il vecchio stanco che era, concluse, a voce appena più bassa: “Dovremo assicurarci anche il sostegno di qualche città della Romagna, o la nostra guerra diventerà un massacro...”

Ad Alfonso non importava nulla delle popolazioni che sarebbero state coinvolte nella guerra. Che bruciassero tutti all'inferno, l'unica cosa che voleva era ristabilire il nome e l'onore di sua figlia.

“Organizzeremo l'esercito – riprese Ferrante, ripiegando con calma la lettera della nipote – e scriveremo subito al Moro. E per ora non fare altro.”

Alfonso si morse la lingua, inchinandosi di fronte a suo padre. Come tutti nel regno, anche lui doveva obbedire al Re, almeno fino a quando non avrebbe preso il suo posto.

 

“Nessuno ti dice com'è, non puoi sapere com'è, fino a che non ci sei in mezzo.” la voce di Bartolomea Orsini risuonava sicura nella stanza enorme e deserta del castello di Bracciano.

Virginio entrò con passo felpato, per non disturbare quello che sembrava un quadretto davvero interessante: la donna teneva un ragazzetto per il bavero e gli parlava standogli a pochi centimetri dal volto. Egli appariva spaventato a morte, ma anche rapito dall'intensità di quelle frasi, perciò Virginio si fece curioso e si mise in ascolto, come le guardie che stavano accanto alla porta.

“Nessuno ti dirà mai che le urla del nemico ti assordano, né che il sole del mezzogiorno ti farà cuocere nell'armatura, né che la neve della notte più gelida dell'inverno ti farà pregare di essere già morto.” proseguiva Bartolomea, gli occhi freddi come punti di spillo incollati a quelli spauriti del giovinetto: “Nessuno ti dice quanti uomini se la fanno addosso mentre li uccidi. Il fracasso, il tanfo, la paura... Sono tutte cose che nelle ballate passano incredibilmente tutte sotto silenzio.”

E con quelle ultime parole, Bartolomea lasciò il giubbetto del ragazzino e concluse, sollevando il mento e incrociandosi le braccia sul petto: “Quindi non credere a quello che dicono i guitti. Credi a quello che ti dicono i soldati. E per ogni cosa che ti dicono, pensala cento volte più terribile e spaventosa.”

Il ragazzo annuì frenetico e si affrettò a riprendere la caraffa che doveva aver appena portato nella stanza e uscì quasi di corsa, la gola secca, incapace anche di ringraziare.

“Il nostro coppiere mi ha chiesto com'è andare in guerra.” spiegò secca Bartolomea, in risposta allo sguardo interrogativo di Virginio.

“Ed era necessario spaventarlo a tal punto?” domandò l'uomo, accettando il calice che sua sorella gli stava offrendo.

Bartolomea fece spallucce: “Ebbene, tanto la guerra ci sarà a breve, quindi meglio che sia pronto.”

Virginio sospirò e scosse il capo, bevendo un sorso: “Non sei l'unica donna guerriera che conosco, ma di certo sei la più brutale.”

“Non possiamo certo essere tutti boccioli di rose come la tua cara Sforza.” lo pungolò Bartolomea, alzando il calice con un sorrisetto: “Piuttosto – riprese, facendosi molto più seria – ho letto anche io il messaggio di Alfonso d'Aragona.”

Virginio riappoggiò il calice quasi intatto al tavolo e si corrucciò: “Secondo me, visto lo stato di salute del re, non passerà un anno, prima dell'inizio della guerra.”

“Ludovico Sforza non cederà?” chiese la donna, apparendo per la prima volta titubante.

Per quanto Bartolomea fosse bellicosa, non era una stupida. Conosceva bene i rischi e le sofferenze di una guerra e in fondo sarebbe stata felice di evitarla, benché da giorni stesse affilando tutte le sue spade.

Virginio fece una risata soffocata: “Il Moro venderebbe la sua anima al diavolo, pur di non rinunciare a Milano.”

Bartolomea si versò ancora un po' da bere e ribatté a tono: “E io venderei la mia anima al diavolo, pur di vederlo bruciare all'inferno.”

Il fratello gonfiò le gote e poi, sbuffando, constatò: “Forse è un bene che nostra sorella Clarice sia già morta. A sentirti parlare così, le sarebbe venuto un colpo e l'avresti avuta sulla coscienza.”

 
   
 
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