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Autore: nikita82roma    17/09/2016    1 recensioni
La storia ricomincia qualche giorno dopo la fine degli eventi di The Memory Remains. Sembrava che l'azione congiunta di Gibbs e di Noah avesse portato tranquillità nella vita di Ziva e Tony ed invece non sarà così. Qualcuno, ancora una volta, tornerà dal passato perchè vuole una cosa che Ziva conosce molto bene: Vendetta. Si salveranno da soli o avranno bisogno di un aiuto inaspettato? Ma nel loro passato ci sono altre cose ancora rimaste in sospeso e arriveranno tutte a turbare una serenità che si illudevano di aver raggiunto, aprendo vecchie ferite e procurandole nuove, ma soprattutto obbligandoli a fare i conti con se stessi e le proprie paure e con la propria capacità di sopportare il dolore fisico e mentale. Long TIVA
Genere: Angst, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Anthony DiNozzo, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Ziva David
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie '3 Years Later'
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So I close my eyes
And the tears will clear
Then I feel no fear
Then I’d feel no way
My paths will remain straight
Home again
Home again

 

Un anno dopo Tel Aviv era sempre uguale. Ero io che ero completamente diversa e la percezione del mondo circostante era frastagliata. Eravamo usciti dall’aeroporto direttamente con una macchina che ci aveva caricato sulla pista, da un’uscita secondaria, senza alcun controllo. Ero un clandestina “approvata” dal Mossad nel mio paese, o almeno quello che doveva esserlo. Faticavo ancora a capire cosa era quel posto per me, ma alcune volte mi sembrava nonostante tutto un cordone troppo difficile da staccare, nonostante fosse nocivo per il mio organismo. 
La temperatura mite ed il vento ancora caldo di fine ottobre era erano l’unica cosa che mi sembrava piacevole.
Nathan, invece, sembrava molto più felice di me. Guardava fuori dal finestrino ritrovando ambienti familiari e poi si voltava verso di me indicandomi questo o quello col sorriso ed io gli sorridevo di rimando nascondendogli la mia preoccupazione. 
“Siamo a casa” mi aveva detto in ebraico appena aveva riconosciuto le familiari strade di Tel Aviv e dovetti spiegargli con molta calma che eravamo lì solo per poco tempo, perché casa nostra era a Washington e mi sforzai per parlargli in inglese, anche se lui si mostrava contrariato a questa cosa.
Non capivo dove stavamo andando nè perché ci eravamo fermati davanti ad una palazzina nella Città Bianca.
- Starete qui - Mi disse Davi aspettando che l’autista venisse ad aprirci lo sportello - È meglio per voi ed è più sicuro. Casa tua non è molto agibile
- Cosa vuoi dire?
- Se vuoi vai tu stessa a vedere. Dopo quanto è accaduto a giugno com quell’esplosione tutta la zona è stata abbandonata. 
Così varcai il portone di quella palazzo della prima metà del secolo scorso dalle linee squadrate e dai muri bianchi. Entrai con Nathan tenuto per mano per frenare la sua corsa. Lui sembrava entusiasta di essere lì, anche se poi mi guardò chiedendomi quando andavamo a casa “nostra nostra” come diceva lui. Spiegargli che non esisteva più non era stato facile e lui comunque non capì. Ma quel posto gli piaceva, forse perchè per lui casa era comunque Tel Aviv e forse lo sarebbe sempre stata. Fu una considerazione amara, molto, troppo. Perchè se mio figlio considerava solo quella come la sua casa e non il luogo dove avremmo sempre dovuto essere, a Washington insieme a suo padre era colpa mia e non potevo che sentire tutto il peso sopra. 
Varcammo la porta di quell’appartamento al primo piano era arredato in modo un po’ asettico, ma sembrava confortevole e dotato di ogni comodità: era solo vuoto di tutto, di noi, del calore e dell’affetto di una casa e di una famiglia, e soprattutto non era casa nostra. Mi sentivo come qualcuno sotto protezione costretto a vivere in appartamenti sfitti fuori mano ed in realtà un po’ lo ero realmente. Mi affacciai fuori dalla finestra e non ci misi molto ad individuare nel palazzo davanti alcuni militari, così come per strada quelli che passeggiavano erano chiaramente alcuni uomini e donne in borghese, ma ad un occhio attento non sfuggivano i rigonfiamenti delle armi sotto giacche non troppo larghe. 
- Non è un po’ troppa gente quella che hai mobilitato qui fuori? - Avevo sentito Davi entrare e fermarsi dietro di di me.
- Qui è sempre così, per questo sei qui. Io abito nell’appartamento davanti al tuo, ai piani superiori abbiamo alcuni uffici. È un posto sicuro.
- C’è qualcuno che può tenere Nathan? Devo fare dei giri… 
- Lo puoi lasciare con mia moglie, abbiamo un bambino della sua età, più o meno. Dimmi dove devi andare e ti farò accompagnare.
- Non c’è bisogno, dammi solo qualcosa per difendermi. 
- Tu lo sai, vero Ziva, che ufficialmente non sei qui e non sei mai entrata? - Mi disse facendomi consegnare da una delle guardie vicino a lui una pistola, che controllai e poi infilai dietro i pantaloni.
- Lo so. Non è una novità questa.

Bussai alla porta davanti a quella della mia nuova sistemazione. Non volevo chiamarla casa. Casa è una parola che implica un senso affettivo e lì non c’era nè ci sarebbe mai dovuto essere. Mi aprì una ragazza che sembrava molto più giovane di quello che doveva essere, occhi chiari, capelli cerulei. Era la moglie di Davi e subito tra le sue gambe appartve un piccolo biondissimo dell’età di Nathan ed i due cominciarono a guardarsi e studiarsi fino a quando il piccolo Yzak non gli porse una delle sue macchinine e lui mi guardò chiedendomi il permesso di prenderla e seguirlo. Fu più facile del previsto. Ruth sapeva già tutto, non fece altre domande. Mi disse di non preoccuparmi e di fare tutto quello che dovevo con tranquillità. Salutai Nathan ed uscii.
Fuori dal portone uno degli uomini di guardia mi diede un mazzo di chiavi e mi indicò una berlina dell’altro lato della strada. Mi misi al volante e guidai sicura vero la mia meta.

La porta di casa non era nemmeno chiusa e la polvere portata dal vento aveva ricoperto ogni cosa. C’erano i fogli di sparsi di quell’ultimo lavoro mai completato e chiudendo gli occhi rivivevo nitido il momento in cui quel mazzo di fiori cambiò il corso di quella che credevo sarebbe stata sempre la mia vita, la nuova vita scelta con fatica e non senza rinunce e senza snaturare il mio essere in nome di non so ancora ben quale bene supremo.
C’era ancora qualcuno di quei fiori secchi buttati qua e là dal vento, il segno alle pareti dei quadri che Tony aveva preso, le cornici che avevo svuotato frettolosamente solo un anno prima.
Entrai in camera e mi sedetti sul bordo del letto. Tony era stato lì a prendere le mie cose, forse si era seduto nello stesso punto. Frugai tra le poche cose di Nathan rimaste, presi solo un paio di pupazzi impolverati. Vidi tutti quei vestiti che non gli sarebbero più entrati ma scavando nell’armadio trovai quella scatola con le sue cose di quando era appena nato che non avevo fatto in tempo a prendere. Era sempre lì, nascosta tra le cose inutili. 

Tornai in quell’appartamento con un senso di nausea e di sbagliato addosso. Non dovevo essere lì, non dovevo essere in Israele, non avrei dovuto convincermi che fosse la cosa giusta. Giusta per chi poi? Per me no di certo, per Tony che non sapevo dove fosse e lo avevo praticamente abbandonato al suo destino nelle mani di altri? “Sei incinta” mi dicevano “devi pensare a te ed alla tua bambina” e mi maledicevo per quello, per non riuscire nemmeno ad essere felice per una cosa così importante che vedevo come un’impedimento per riprendermi attivamente la mia vita della quale ero diventata spettatrice impassibile. Poi lei si faceva sentire e reclamava il suo spazio, in tutti i sensi, ed io mi sentivo ancora più in colpa per quei pensieri e sapevo che Tony mi avrebbe odiato se li avesse saputi. Lui era stato il primo entusiasta per quella nuova vita, lui a gioire anche oltre le mie paure, lui che avrebbe voluto viverla come non aveva fatto con Nathan ed ora era di nuovo distante.
Bussai a casa di Davi e sua moglie mi venne ad aprire e in lontananza si sentivano le urla di Nathan e Yzak che giocavano ed il pianto di una bambina più piccola, che a mala pena camminava e gattonando andò verso la madre che la sollevò ed il pianto si trasformò in sorriso. Si chiamava Sarah, anche lei. Rimasi qualche minuti ad osservare i due giocare, Nathan era felice e forse quella era l’unica cosa che contava, anche se il suo sentirsi così a casa mi spaventava. 


—————————

 

Avevo perso il conto dei giorni. Avevo inizialmente provato a tenermi occupato contando i pasti che mi scandivano l’alternarsi giorno/notte, ma poi la mia mente si era rifiutata di continuare a seguire quella routine. Stavo diventando pazzo forse. Passavo le ore, i giorni o le notti, a guardare tutto il grigio che mi circondava e a cercare di capire cosa avrei fatto della mia vita uscito da lì, se fossi mai uscito. Ma il pensiero di Ziva, di Nathan e della piccola in arrivo, era l’unica cosa a cui aggrapparmi. Lei doveva stare al sicuro ma quella non era vita. Avevamo sprecato tempo e forse avremmo continuato a farlo. Era una vita che sprecavamo il nostro tempo, salvo qualche mese di tregua, gli unici che mi sembrava aver mai realmente vissuto nella mia vita, perché mi era chiaro, ormai, che per me vivere voleva dire solo stare con lei. Il resto era un riempitivo. Ma qui ora si presentava una scelta assurda, se mai fossi uscito vivo da questa storia: vivere o pensare alla sua sicurezza? Era chiaro che la sua sicurezza dipendeva anche da me dal mio starle lontano, lo dicevano tutti e me lo hanno detto talmente tante volte da convincermi. Ma ora non sapevo più nulla, cosa era giusto e cosa sbagliato.

- Agente DiNozzo! In ginocchio mani dietro la schiena. - La solita voce che annunciava i miei pasti mi parlò dallo spioncino della porta. Ubbidii ai suoi ordini ed attesi. Entrarono in tre, riconobbi i passi. Mi infilarono a forza un cappuccio e mi ammanettarono. Mi sentii alzare di peso e trascinare fuori da lì, lungo corridoi silenziosi dove l’unico rumore udibile era quello dei nostri passi e del loro parlare in una lingua incomprensibile. Ogni suono rimbombava rendendolo spettrale. Sentii dei rumori come di una grande serratura che veniva aperta, una porta cigolare e poi una sensazione di fresco sul corpo, dal cappuccio filtrava aria pura non condizionata ed il vento che lambiva i miei vestiti. Mi sentii spingere fuori senza troppo riguardo, attraversare quello spazio all’aperto e poi fermarmi davanti a qualcosa che poteva essere un muro. Sentii due mani spingermi contro e agganciare le manette ad una corda che proveniva da lì. Non mi potevo muovere che di qualche centimetro. Li sentii allontanarsi di qualche passo. La mia ora era giunta, pensai. Chiusi gli occhi, tanto vedere era impossibile e tutto quello che nella mia mente si palesò fu il sorriso imbarazzato di Ziva quelle volte che la coglievo a guardarmi di nascosto, quello sincero di Nathan quando la sera mi aspettava buttandomi le braccia al collo, ripensai a quei mesi, al nostro matrimonio, alla scoperta di Sarah e mi ritrovai a piangere perché ancora una volta non ci sarei stato, l’avrei lasciata solo quando le avevo promesso che sarebbe stato diverso. Ed invece tutto sarebbe finito lì, contro quel muro in un luogo imprecisato del mondo.

 

—————————

 

I giorni a Tel Aviv passavano portandosi con loro un senso di consuetudine che trovavo pericoloso. Stava diventando fin troppo facile abituarsi di nuovo a certi ritmi, a certe situazioni. Anche i sapori diventavano di nuovo troppo familiari ed il gusto delle spezie che si mescolava a quello della frutta candita che a Washington era solo un diversivo era di nuovo la quotidianità e la felicità di Nathan che a me spaventava. Lui si sentiva a casa, lo aveva detto e fatto capire più volte e da quando eravamo arrivati aveva anche smesso di chiedere di suo padre ed anche a mostrarsi meno interessato a sua sorella, anche se giorno dopo giorno la sua presenza diventava sempre più evidente ed ingombrante. Per lui era come se fossimo tornati ad un anno prima, soli io e lui e ne sembrava essere felice, come se quei mesi a Washington in cui avevamo vissuto come una famiglia fossero stati solo una parentesi, una parentesi troppo breve della quale non potevo non sentirmi in colpa.
I pomeriggi in spiaggia erano l’unico momento veramente di svago che riuscivo a concedermi. Veder Nathan giocare con la sua palla con gli altri bambini, correre felice saltellando. Lo vedeva libero come a Washington non riusciva ad essere per via degli spazi ma non solo, per quei piccoli rituali che lì ritrovava. 
Una sera mentre eravamo tornati a casa e gli stavo facendo il bagno, però, disse una frase che mi sorprese. Voleva che quando il suo papà lo veniva a trovare, gli portasse una maglia di Messi, perché non l’avevano portata. Era la prima volta che parlava di Tony da quando erano partiti e faticai non poco a trattenere la mia commozione e gli dissi solo di sì, che il suo papà gli avrebbe portato tutto quello che voleva ed ero certa che se avesse potuto, Tony lo avrebbe fatto.

 

—————————

 

Sentii dei passi avvicinarsi di nuovo ed una lama tagliare la corda che mi legava al muro. Ero rimasto lì qualche minuto o forse più, perso nei miei ricordi non ci avevo nemmeno fatto caso. Aspettavo solo di sentire il rumore dei colpi e la fine inevitabile che sarebbe seguita. Ma era solo silenzio e non successe nulla. Entrai in un altra porta lì vicino, furono altri corridoi che si susseguirono, questi però sembravano più animati, ma tutte le voci che sembravano essere lontane si fermavano quando ci avvicinavamo. Poi un’altra porta si aprì e si richiuse alle mie spalle. Sentii qualcosa vicino alle mie gambe e mi premettero sulle spalle obbligandomi a sedermi. Bloccarono le manette questa volta a quella sedia e quando furono sicuri che ero ben fermo, mi tolsero il cappuccio. Era una stanza simile a quella degli interrogatori, con una grande vetrata di lato, dietro la quale sicuramente mi stavano osservando, e davanti a me un muro bianco che fu presto illuminato.
Uno dei miei carcerieri tutto vestito di nero era davanti alla porta con l’arma in mano. Una voce metallica contraffatta si diffuse nella piccola stanza.
- Agente DiNozzo, abbiamo una cosa da mostrarle. Riguarda la sua famiglia.
Sentii il sangue gelarsi nelle vene. Mi aspettavo il peggio, una tortura visiva che mi avrebbe fatto preferire la morte lungo quel muro qualche minuto prima. Niente di tutto questo. Le immagini scorrevano e c’era Ziva in spiaggia con Nathan che giocava felice. Potevo vedere le sue forme ancora più arrotondate e lei che guardava il mare accarezzandosi la pancia dolcemente, sembrava serena anche se nei suoi occhi riuscivo a vedere anche un velo di malinconia. Nathan le correva poi intorno buttandosi tra le sue braccia e facendola finire a terra, e sulla sabbia continuavano a coccolarsi teneramente. Riconoscevo quella spiaggia, sapevo esattamente dove erano. Abbassai lo sguardo. Era tutto troppo chiaro.



NOTE: Eccomi tornata dopo essere stata un po' di tempo dall'altra parte del mondo. Spero che questo capitolo un po' diverso e più introspettivo vi piaccia.

   
 
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