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Autore: _ A r i a    17/09/2016    2 recensioni
{ death!fic } { Kageyama!centric }
“Being brought up one way and trying to see another way is very difficult”
♔ ♔ ♔
Essere costretti a passare buona parte della propria vita – o, in certi casi, addirittura l’intera esistenza – in carcere ti dà un sacco di tempo per poter riflettere sulla tua esistenza, sugli sbagli che hai commesso. Il che, teoricamente, dovrebbe tutelarti, addirittura salvarti, cosicché tu non possa sbagliare ancora, in futuro, quando sarai finalmente libero da lì – se mai un giorno lo sarai.
Tuttavia quello che succede è esattamente l’opposto di ciò che i carcerieri vorrebbero: rinchiudendo qualcuno tra quelle quattro mura, non fai altro che condurlo sulla strada della follia, più rimugina sui propri illeciti e più gli sembra di sprofondare in quel mare di catrame nero che altro non è, se non la sua stessa pazzia.
Non c’è via d’uscita da qui – non l’ho mai cercata, voglio pagare per quello che ho fatto. Il problema è che non c’è via d’uscita neppure dalla mia mente. E quello sì che è il più pericoloso dei labirinti.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jude/Yuuto, Kageyama Reiji
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Avvertenze: durante la lettura si consiglia l’ascolto della canzone “Four Walls (The Ballad Of Perry Smith)” dei Bastille, da cui la fic è ispirata.

{ character’s death }


{ F o u r  W a l l s }



These four walls to keep you
One floor to sleep upon and only
These four walls to keep you
These four walls contain you
Supposed to save you from yourself and
These four walls in Holcomb
To keep you from the sun


La sirena che avvisa che la porta d’ingresso del lungo corridoio è stata aperta emette un ennesimo e monotono segnale, mentre passi svelti si susseguono poco dopo.
Ricordi ancora quando quell’apparecchio ha suonato per la prima volta al tuo passaggio, mentre venivi condotto fino alla tua cella di detenzione, in un’area piuttosto isolata del penitenziario, i pochi averi che ti era stato concesso di portare con te tenuti stretti tra le braccia.
E ora invece sei lì.
In quella che alcuni fanno l’errore di chiamare stanza ma che di essa non ha nient’altro che quelle quattro, maledettissime pareti di cemento che non è stato nemmeno rasato, né intonacato o tinteggiato, spoglie, senza alcun tipo di mobilia presente.
Una piccola asse di ferro sospesa, tenuta ferma da dei montanti attaccati al muro potrebbe essere considerato l’unico arredo, se non fosse che dovrebbe trattarsi di una branda su cui riposare – che è talmente gelida e scomoda che, alla fine, dormire a terra, in compagnia di pidocchi e uno spesso strato di polvere non sembra essere un’alternativa poi così desolante.
L’unica finestra è un minuscolo rettangolo, percorso a intervalli regolari da barre di metallo, che limitano ancor di più la visuale sull’esterno. Le stesse barre di ferro che costituiscono l’entrata alla cella, sempre così tristemente, desolatamente chiusa – salvo rare eccezioni – dal giorno in cui sei giunto lì.
C’è anche una lampadina che pende dal soffitto, i cavi bene in vista – tutto, fuorché a norma. Solo che non si accende mai, nemmeno di notte, quando fuori è buio e non vedi ad un palmo dal tuo naso. Niente acqua corrente, niente elettricità. Niente, niente, niente.
Kageyama Reiji poggia i palmi delle proprie mani sulla parete alle sue spalle, lasciandosi scivolare lungo di essa, perlomeno finché non si ritrova seduto a terra.
Il cemento gli raschia le mani e la schiena, piccoli graffi che prendono subito a sanguinare: non ci fa più nemmeno caso, ormai la forza dell’abitudine ha soppiantato ogni emozione, ogni sensazione, tanto che ormai non sa più se ha ancora una soglia di sopportazione, oppure anche quella l’ha abbandonato, lì dove si è perso e la sua mente con lui.
Pensieri irrazionali, shoccati, sconnessi – frammenti di una memoria spezzata – si susseguono senza un ordine preciso. Che giorno è? Come staranno le persone che ama, fuori da lì? Saranno le cinque o le sei di pomeriggio? Se vuoi piegare un uomo, lascia che la sua mente si spezzi.
Ha poi così importanza, dopotutto? A volte gli sembra di non sapere più niente, d’aver perso la capacità di discernere il giusto dallo sbagliato. È così certo che quello sia il suo nome.
Lo stato predica che quello sia il posto della redenzione, dove ogni reo sconta le proprie colpe, comprendendone le motivazioni, che li porteranno a non ricommettere mai più gli stessi errori. La verità è che non c’è redenzione, per chi ha commesso atti empi come i suoi.
Essere costretti a passare buona parte della propria vita – o, in certi casi, addirittura l’intera esistenza – in carcere ti dà un sacco di tempo per poter riflettere sulla tua esistenza, sugli sbagli che hai commesso. Il che, teoricamente, dovrebbe tutelarti, addirittura salvarti, cosicché tu non possa sbagliare ancora, in futuro, quando sarai finalmente libero da lì – se mai un giorno lo sarai.
Tuttavia quello che succede è esattamente l’opposto di ciò che i carcerieri vorrebbero: rinchiudendo qualcuno tra quelle quattro mura, non fai altro che condurlo sulla strada della follia, più rimugina sui propri illeciti e più gli sembra di sprofondare in quel mare di catrame nero che altro non è, se non la sua stessa pazzia.
Non c’è via d’uscita da qui – non l’ho mai cercata, voglio pagare per quello che ho fatto. Il problema è che non c’è via d’uscita neppure dalla mia mente. E quello sì che è il più pericoloso dei labirinti.
Kageyama punta lo sguardo sulla microscopica fessura che i miscredenti osano chiamare “finestra”, cercando di osservare il mondo all’esterno di lì. Quello che vede, tuttavia, non è che una scheggia di cielo, grigio e nuvoloso, intrappolato come un amo nelle sottilissime maglie di quella trama che compone l’aere.
Ciò che vede gli sembra riflettere esattamente quel che sente d’avere dentro di sé: nubi all’orizzonte, tempo di burrasche minacciose. È tutto in divenire, diceva Eraclito, peccato che nessuno di noi sappia quale sia la destinazione finale.               
 

And now we’re faced with two wrongs
Now we’re faced with two wrongs
I don’t know, oh, I don’t know
Now we’re faced with two wrongs
Now we’re faced with two wrongs
I don’t know, oh, I don’t know


Le giornate trascorrono, rapide e crudeli, senza nemmeno dare il tempo necessario per comprendere dove ci si trovi – che giorno sia, in che settimana, in che mese ci si trovi.
Ti svegli e non sai nemmeno più che giorno sia, né tantomeno se è giorno, sera o notte.
Il punto è che non conta.
Quando vivi per inerzia e tutto sembra perdere senso, arrivi a chiederti per quale ragione tu stia continuando ad andare avanti.
Semplicemente lo fai perché ormai, da fin troppo tempo, sei entrato in quella spirale senza vie d’uscita, quel circolo vizioso dal quale è impossibile sfuggire.
C’è la sveglia di prima mattina, le guardie che vengono a prendere i detenuti e li scortano fino in mensa per la prima colazione, per poi accompagnare i più fortunati in vari dislocamenti, a seconda del lavoro socialmente utile che è stato loro affidato, mentre riconducono chi invece non ha avuto lo stesso privilegio di nuovo in cella d’isolamento. Stessa procedura per il pranzo, mentre a metà pomeriggio viene concessa a pressoché tutti – fatta esclusione per i detenuti che risiedono nella zona di massima sicurezza del carcere – l’ora d’aria obbligatoria. Dopodiché, di nuovo tutti in cella o al lavoro. Per la cena vige lo stesso procedimento degli altri due pasti della giornata, pertanto quando anche questo è giunto alla sua conclusione, tutti i carcerati vengono ricondotti nelle loro celle, come bestie nelle stalle, per poter finalmente andare a dormire, considerando che il coprifuoco è stato stabilito in un orario della sera piuttosto presto.
È una vita talmente monotona e noiosa che già questa potrebbe essere considerata la più grande tortura di quel luogo.
Che poi, chi è che si addormenta alle dieci di sera? Per quanto possano essere faticosi i lavori forzati, non saranno mai equiparabili a qualsiasi attività si svolge all’esterno del penitenziario – d’altronde, non possono sottoporre i detenuti a qualcosa di eccessivamente duro, poiché se morissero rischierebbero di incorrere in un processo per aver condotto alla morte svariate persone.
Persone, poi… come se chi viva in carcere possa ancora essere considerata una ‘persona’.
Ti tolgono ogni diritto, arrivando a sottrarti perfino la tua identità – un po’ come succedeva alle persone che venivano rinchiuse nei campi di concentramento o di sterminio durante la seconda guerra mondiale, d’altronde.
In fondo, finisce per non esserci più nessuna differenza tra te e un animale.
Quando non dormi – ti tolgono l’identità, il sonno e lentamente quel lento logorio della mente lo priverà anche della ragione, ne è assolutamente certo – hai un’infinità di tempo e i pensieri malvagiamente, intenzionalmente giungono sempre alla stessa meta: il luogo in cui ora ti trovi.
Tra le tante cose che gli è capitato di valutare, Kageyama ben presto si è tristemente reso conto, con gli ultimi sprazzi di lucidità che ogni tanto lo graziano con la loro improvvisa comparsa, che non è lui, non sono tutti loro detenuti di quella struttura, gli unici ad aver commesso degli errori.
Per quanti sbagli possa infatti aver commesso un essere umano durante la sua esistenza, mai saranno sufficienti per poter legittimare la scelta di rinchiuderli in quelle celle microscopiche, trattati ed ammassati come belve, senza alcun genere di diritto legale e civile. Chiunque merita di preservare la propria identità, nonostante tutto il male che possa aver fatto in passato.
Questo porta Kageyama a chiedersi se i detenuti siano gli unici colpevoli e non ci sia invece una parte di responsabilità che ricada anche su chi li ha mandati lì, a vivere – o forse morire – come bestie da macello.
Così Reiji riflette, sono queste le argomentazioni che lo hanno condannato alla veglia, fin dalla prima notte in cui è giunto lì – più o meno come tutti i suoi compagni di reclusione.
E non sa davvero più quale sia la verità.            
 

We could be born to anything and now, and now

What you have done is terrible
And now you, and now you
Now you carry it with you
You carry it with you
You carry it with you


Però, in un certo qual senso, Kageyama è quasi lieto di trovarsi in quel luogo.
Sa infatti di essere giunto al capolinea della sua vita. Troppi gli sbagli compiuti, troppo tardi è invece giunta la redenzione per potergli garantire di sottrarsi a quella nuova svolta del suo crudele destino.
Marchiato a vita, un criminale senza via di scampo, la lettera scarlatta d’infamia impressa per sempre su di sé, ferri caldi che hanno baciato la sua carne.
Eppure, nonostante tutto, Reiji continua a sentirsi sollevato in quella situazione.
Immagina infatti che, se si fosse trovato ancora a piede libero, sarebbe stato ben più in pericolo: in molti avrebbero voluto il suo cadavere, disposti a pagare qualsiasi prezzo purché il killer da loro assoldato fosse stato il primo a farlo fuori – perché mai una volta che siano loro in prima persona a sporcarsi le mani.
Dopotutto, che ci guadagnerebbero?  
Con le prove guise sarebbero proprio loro i primi a finire in carcere senza passare dal via e questo non gioverebbe di certo alle loro persone.
Così ingaggiano professionisti della morte, in modo che nessuno possa mai risalire a loro, mentre la coscienza di questi ultimi si macchia di sangue ancora una volta.
Kageyama fa richiamo alle sue buone conoscenze – anni ed anni di studi hanno dato pur sempre i loro frutti – e riporta alla mente un passo del Macbeth di Shakespeare, in cui il protagonista dice di continuare a sentire le proprie mani sporche di sangue dopo aver ucciso il re Duncan, nonostante nel frattempo sia passato del tempo e i suoi palmi siano tornati ad essere puliti.
Quando ci si macchia di una colpa è impossibile ripulirsene, al di là dell’impietoso scorrere dei giorni, mesi, secoli o di quante buone azioni si compiano per mondarsi la coscienza – anche se lo stesso Macbeth finisce poi per cadere in un circolo di turpitudini sempre più ampio.
Perciò accetta il peso che sa di dover adesso portar con sé: se fosse sfuggito ancora una volta al suo destino e non avesse fatto i conti con le sue colpe e con la giustizia, probabilmente avrebbe finito per andare incontro a conseguenze ancor più catastrofiche.
Gli uomini saggi si prendono le responsabilità dei propri sbagli, quando ne commettono, per poi pagarne il prezzo, com’è giusto che sia.
E così Kageyama ha deciso di fare: addossarsi il peso degli errori e portarlo con sé, almeno fino a che dovrà farlo – anche per tutta la vita, se sarà necessario.
I suoi avvocati stanno avviando delle trattative per ridurre il tempo della condanna, favoriti anche dalla buona condotta.
Reiji non sa ancora se lo sconto di pena gli verrà concesso o meno, nel frattempo non gli rimane nient’altro che stare lì ad aspettare, mantenendosi in vita con quel poco che gli viene dato.
E sperare.


These four walls will keep you
Until you face the rope
You’ve only these four walls before they, in cold blood, hang you up


È successa una cosa strana, Kageyama non fa che pensarci da quelli che ormai sono diventati giorni interi.
Il pensiero di quanto è accaduto non fa che perseguitarlo, giorno e notte, in ogni momento della sua giornata, sottraendogli sempre di più preziose ore di sonno e di vita.
Era in sala mensa, all’ora di pranzo, quando d’improvviso ha sentito qualcosa urtare la sua scarpa.
Quando ha abbassato lo sguardo, ha notato la presenza di una corda, ai piedi della propria sedia.
Non ha la più pallida idea di come quella cosa sia arrivata lì.
Ha tirato subito il capo nuovamente su, alla ricerca dei responsabili di quello che, a suo dire, appariva come uno scherzo di pessimo gusto.
È incappato quasi subito in un gruppetto di detenuti, seduti ad un tavolo dalla parte opposta della mensa.
Avevano un’aria stranamente familiare, a dir la verità. Peccato che Kageyama abbia capito troppo tardi il perché gli sembrasse di averli già rivisti.
Uno di loro, che evidentemente doveva essere il capo di una qualche gang – basso, tarchiato, la pelle dello stesso colore del caffè – si era passato l’unghia del pollice lungo il collo, fissando Reiji dritto negli occhi, in un gesto abbastanza eloquente.
Fai quello che vogliamo, oppure ti tagliamo la gola.
Negli anni Kageyama aveva avuto a che fare con svariati tra i delinquenti della peggior specie, appartenenti letteralmente alla feccia del genere, pertanto aveva imparato a saper riconoscere vari gesti ed espressioni, gergali o meno che fossero.
Ad ogni modo, per carpire un messaggio del genere non serviva certo una grande intelligenza.
Reiji aveva preso la corda in mano, riprendendo a guardarsi attentamente intorno. Alcune risate roche e profonde, in sottofondo, avevano accompagnato quel suo gesto.
Gli occhi piccoli e neri dell’uomo, da dietro le sottili lenti scure, si erano posate sulla figura della guardia penitenziaria, ferma immobile all’ingresso della stanza, che si sarebbe dovuta trovare lì per vigilare che i detenuti mantenessero un comportamento adeguato nella mensa.
Stava guardando in un’altra direzione, non sembrava essersi accorto minimamente di quello che era successo.
Ed era stato allora che Kageyama aveva capito.
Uno di quei detenuti doveva aver lasciato cadere la corda accanto a lui, mentre gli passava vicino. Quanto alla guardia… beh, non che corrompere un piantone fosse poi così difficile.
Era abbastanza chiaro che quei detenuti volevano che si togliesse la vita e Kageyama temeva di sapere perché.
Quando era uscito dalla stanza, con in mano la corda, ha avuto la conferma che la guardia fosse stata pagata per tacere sulla vicenda, visto che non gli aveva rivolto una parola, non si era neanche voltato a guardarlo – era vietato portare qualcosa fuori dalla mensa, specie se si trattava di oggetti con i quali i detenuti potevano potenzialmente farsi del male.
Ora era lì, di nuovo nella sua cella.
Da più giorni ormai tiene nascosta quella corda sotto il suo durissimo cuscino, un fardello che mano a mano col passare del tempo diviene sempre più pesante da sopportare.
Quando uno di quei detenuti passa davanti alla sua cella non si trattiene dal fare commenti come “Non sei ancora morto?”, con prepotente tono di scherno, senza tuttavia che nessuna delle guardie presenti lo riprenda per questo.
Il che conferma a Kageyama, ancora una volta, quanto là dentro si siano oramai tutti coalizzati per firmare la sua definitiva condanna a morte.
Sii tu ad ucciderti, altrimenti saremmo noi a doverlo fare.
E Reiji sa perfettamente quello che lo aspetta.              


And now you’re faced with two wrongs
Now we’re faced with two wrongs
I don’t know, oh, I don’t know
Now we’re faced with two wrongs
Now we’re faced with two wrongs
I don’t know, oh, I don’t know


Negli ultimi giorni della sua esistenza, a Kageyama Reiji viene da pensare ad una delle poche cose buone che abbia mai fatto in vita sua.
Ovviamente, la mente scatta e vola veloce verso la persona di Kidou Yuuto.
Chissà dove sarà adesso il suo ragazzo, come starà, cosa starà facendo…
Vorrebbe così disperatamente avercelo vicino, potergli parlare, almeno per un’ultima volta, avere la possibilità di spiegargli quello che gli sta succedendo.
Sarebbe davvero un privilegio, per lui, poterlo vedere almeno ancora prima che tutto ciò abbia fine.
È certo che il suo ragazzo sarebbe in grado di comprendere il fardello che grava ora su di lui, anche senza bisogno di parole.
Ricorda a se stesso tuttavia che Yuuto non è a conoscenza del fatto che lui sia ancora in vita, pertanto la sua condanna sembra ormai essere definitiva.
Kidou gli manca da morire. Ohh, ci sono così tante cose che vorrebbe dirgli.

Mi dispiace, Kidou. Ho rovinato tutto, lo so. E sono perfettamente conscio del fatto che uno ‘scusa’ mormorato a mezza voce non risolverebbe niente né servirebbe a qualcosa, adesso.

Però hai detto di avermi perdonato, Yuuto – che quelle fossero le tue ultime parole ad un uomo ormai non più libero adesso non ha più rilevanza.
Ascoltami, ragazzo mio. La verità è che abbiamo entrambi commesso degli errori: io conosco bene le mie colpe ma non voglio che tu ti senta responsabile per ciò che sta per accadermi.
Non lo potevi sapere, addirittura ho preferito che mi credessi morto, pensando che almeno così ti avrei tenuto al sicuro.
Mi dispiace, Kidou, mi dispiace davvero tanto, al punto che ormai vivo nel rimorso di non averti detto tutta la verità. Abbiamo sbagliato entrambi – un tempo ti rimproveravo di essertene andato da me, adesso so invece che è stata la scelta migliore per te, per il tuo futuro, per la persona che sei e per come sei cresciuto. Quello per cui vorrei riprenderti adesso è il fatto che non riesci ad andare avanti come vorresti – come dovresti – dopo quanto è successo.
Non chiederti come sia possibile una cosa del genere, io lo so e basta. D’altronde, sono una delle persone che meglio ti conosce al mondo.
Forse pecco di superbia nel credere una cosa del genere, non è tuttavia lo stesso sbaglio che ho compiuto nel credere che stessi commettendo un errore andandotene via e rivolendoti a tutti i costi con me?
Ad ogni modo, immagino – o forse, egoisticamente, quasi me lo auguro – che la mia morte abbia in qualche modo condizionato la tua vita. Ecco, io vorrei chiederti di andare avanti, di non lasciarti influenzare in alcun modo dalla mia perdita.
Stavolta sono arrivato al capolinea sul serio, ragazzo. Ad ogni modo, non importa. Se vuoi saperlo, credo di meritarmi tutto ciò.
Perciò, non piangere quando ti arriverà questa notizia – so che non lo farai, sei troppo forte per questo – né soffrirne. Era il destino che mi meritavo.
E soprattutto, scusa se non riesco a dirti queste parole di persona ma le sto solo pensando dentro di me, il problema è che sono un vigliacco e questo lo sai meglio di me, l’idea di affrontare con te un discorso del genere mi spaventa da morire.

Kageyama sospira, osservando un punto imprecisato della sua cella.


Andrà tutto bene, Yuuto. Te lo prometto.     



We could be born to anything and now, and now,
What you’ve done is terrible
And now, and now
Now you carry it with you
You carry it with you
You carry it with you
(Now you carry it with you
You carry it whit you
You carry it with you)


Kageyama vive ormai con la consapevolezza di dover morire. Ha i giorni contati, lo sa.
Sente l’ombra della morte gravare pesantemente su di sé ogni momento che passa, qualsiasi cosa faccia: mentre legge un libro, nel cupo silenzio della sua cella d’isolamento, durante i pasti in mensa, in cortile nell’ora d’aria o sotto la doccia, gocce d’acqua che impietose colpiscono la pelle che pare essere scolpita nella roccia, quell’alito funereo è sempre lì, pronto a premere sul suo collo.
Però anche stavolta si è arreso all’evidenza, accettando la realtà dei fatti – è diventato incredibilmente condiscendente, da quando è finito in prigione; allora forse è vero che stare dietro le sbarre, almeno un po’, ti cambia.
Si sveglia spesso la notte, avvertendo la pressione della corda sotto la propria testa, come se stesse lì apposta, a volergli ricordare quale sarà il suo destino finale.
Ucciditi tu, o saremo noi a doverlo fare.
In realtà non è neanche un fardello così pesante da portarsi dietro, basta farci l’abitudine, poi il resto lo fa l’arrendevolezza.
Reiji avrebbe voluto più tempo per provare a migliorare, per redimersi di tutti i suoi peccati ma a quanto pare il futuro aveva in mente piani ben diversi – e crudeli – per lui.
Rimane una vita appesa ad un filo, la sua, quando ormai non può far altro che dondolarsi in quella straziante attesa, tra tutti i se e i ma del caso.
Se fosse sopravvissuto, avrebbe mai ottenuto lo sconto di pena? Avrebbe rivisto il suo amato Kidou, col trascorrere dei mesi.
Spiegargli che il suo Comandante non era mai morto non sarebbe stata certo un’impresa facile. Non che Kidou fosse uno sciocco, ci mancherebbe altro – è senza dubbio la persona più intelligente che conosce – quanto piuttosto perché sa che per Yuuto accettare una realtà del genere sia estremamente difficile.
Anche cedendo ai non troppo velati suggerimenti dei suoi compagni di reclusione non avrebbe fatto certo qualcosa di particolarmente piacevole per il suo ragazzo, tuttavia forse sarebbe stata la scelta più facile da accettare per entrambi. Si sarebbe potuto quasi dire che ormai Kidou ci avesse preso l’abitudine, a veder Kageyama morire.
Inoltre, se avesse accettato il proprio destino senza troppe resistenze, avrebbe protetto proprio Yuuto, visto che temeva che, qualora non fosse morto, qualcuno avrebbe potuto avere la pessima idea di prendersela con il ragazzo – che chiaramente in tutta quella vicenda non c’entrava un bel niente – pur di convincerlo a togliersi la vita.
Tranquilli, non c’è bisogno di arrivare a tanto. Farò tutto ciò che volete, pur di tutelare la persona che più amo al mondo.   

   

There’s no view from here, no view from here, no view from here
All you see’s the sky
Cloud passing by, cloud passing by


L’ultimo giorno di Kageyama inizia di soprassalto.
L’uomo infatti si sveglia di colpo, sobbalzando sul metallo freddo della branda mentre si mette a sedere, perle di gelido sudore sono rimaste impigliate tra le rughe d’espressione della sua fronte.
Apprende con malcelato stupore che è ancora notte, l’intero penitenziario avvolto nelle tenebre. Una luna pallida fa capolino da dietro uno spesso banco di nubi scure, che stracciano il cielo e rendono tutta l’atmosfera ancor più cupa.
Ad ogni modo, le sbarre apposte alla piccola finestra della cella impediscono irrimediabilmente la visuale di quel tanto macabro e spettrale quanto affascinante spettacolo, permettendo solo a piccole e sporadiche lacrime di luce di attraversare la fessura e penetrare nella stanza.
Ci sono in effetti piccole chiazze di luce bianca a terra,  tuttavia dalla posizione in cui Reiji adesso si trova è impossibile stabilire se si tratti della candida luna o dei lampioni del penitenziario.
Sa solo che fa un gran freddo e che desidererebbe ardentemente una coperta per potersi riparare dal quel clima gelido che lo tormenta, martellando cieco fin nelle sue ossa.
Si ricorda amaramente che lui è un carcerato e che, pertanto, non ha diritto ad agi di quel genere. Così si limita a stringersi le braccia attorno al torace, sperando – inutilmente – di riuscire a trarre almeno in quel modo un minimo di conforto.
Gli ultimi tempi lì sono stati un inferno – guardie sempre pronte a battere il calcio delle loro pistole sulle sbarre metalliche della sua cella, traendolo via dal sonno quelle poche volte in cui riusciva ancora ad addormentarsi e compagni di prigionia che non perdevano l’occasione di rifilargli forti spintoni, quando se lo ritrovavano vicino in mensa, lasciandogli profondi lividi violacei in giro per tutto il corpo – tanto che ormai riposare era diventata un’impresa impossibile.
Membra emaciate, occhiaie violacee, mente spezzata. Togli ad un uomo ciò che lo rende tale – il cibo, il riposo, la lucidità, la dignità – e ti ritroverai con una crisalide vuota, un corpo senza vita e senza forma.
Ed era esattamente così che si sente ora Kageyama, un essere vivente che di ‘vivo’, a conti fatti, ha ancora poco.
Gli sembra quasi di sentire nella sua testa le risa di tutte le persone che lo hanno condotto fino a quel punto, ove la sua razionalità si è irrimediabilmente spezzata – i vagheggiamenti di una mente stanca.
Ridono, ridono di lui, soddisfatti dello sfacelo che hanno creato. Un mostro, un mostro.
Crede di essere impazzito del tutto, quando sente quella voce cristallina pronunciare ancora una volta, forse per l’ultima, il suo nome.
«Kageyama-san» è un sussurro etereo, un soffio di vento soffice e fresco che gli accarezza la pelle con fare seducente e ristoratore.
Reiji si volta subito verso quel mormorio sommesso, sente il cuore in gola battergli con un ritmo inaudito.
Ed è proprio lì, nell’angolo opposto della cella, quello più oscuro e protetto dalla luce rispetto agli altri. È seduto a terra, le ginocchia strette al petto; però non sembra affatto spaventato, al contrario per quanto quel posto possa essere sporco ed indegno della sua purezza, sembra incredibilmente rilassato, un sorriso lieve che gli illumina il volto.
Kageyama capisce subito che c’è qualcosa che non va, il briciolo di lucidità che gli è rimasto che quasi glielo grida – come potrebbe essere comparso dal nulla? E perché sembrerebbe essere fatto di luce radiosa? – solo che averlo di nuovo lì è talmente meraviglioso che finisce per non porsi quell’interrogativo, dopotutto adesso l’unica cosa che conti davvero è che sia lì, no?
«Yuu— Yuuto…» le parole muoiono nella sua gola, improvvisamente sembra che lasciarle fiorire sulle labbra sia diventato impossibile.
No, è troppo bello, è tutto troppo bello – ed inverosimile – purché sia reale. Però in quel momento Kageyama decide di non preoccuparsene, per quanto possa essere pericoloso dar retta alle visioni allucinate di una mente spezzata lui ora non vuole darci peso, l’importante è che adesso Yuuto sia lì con sé.
E poco importa che sia reale o meno, Reiji decide – pericolosamente – di convincersi che quello davanti a sé sia il vero Yuuto. Oh cielo, il suo ragazzo sa che è vivo!
«Buonasera, Comandante» riprende Kidou, sorridendogli giovialmente. Kageyama sente il cuore esplodergli di gioia, deve fare appello a tutte le poche facoltà mentali che ancora gli rimangono per non correre subito a lanciarsi tra le braccia del suo adorato allievo.
Vederlo lì, davanti a sé è il più grande sollievo che potesse immaginare e adesso riesce a ragionare lucidamente ancor meno di prima.
«C-come sei arrivato qui? Come facevi a sapere che ero vivo o dove mi trovavo? Te l’ha detto qualcuno? Ti prego, Kidou, rispondimi, è importante» le parole adesso rotolano sulla lingua di Kageyama a velocità inesorabile, impossibile rallentare quel fiume in piena.
È importante che lui lo sappia, potrebbero essere in pericolo, dopotutto…
Il ragazzo però non dà cenno di volergli rispondere, limitandosi invece a rimanere in silenzio e continuando a sorridere, gli occhi strizzati in un’espressione d’ilarità.
Kageyama si alza di scatto, andando ad inginocchiarsi accanto al ragazzo. Gli prende il volto tra le mani, stringendolo affettuosamente ma al tempo stesso con una sensazione di pressante necessità addosso, un’ansia opprimente che non fa altro che rimbalzargli nel petto.
«Ti scongiuro, ragazzo mio…» mormora, accarezzandogli lentamente le gote «ho bisogno di saperlo…»
Yuuto continua a sorridergli, gli occhi rossi sono ora di nuovo aperti e lo fissano, ridenti ma stranamente, pericolosamente vitrei.
Il giovane inclina la testa di lato secondo un’angolazione innaturale, dopodiché tenendosi sollevato col busto s’allunga fino a che riesce a posare le proprie labbra su quelle di Kageyama.
Per un momento Reiji rimane immobile, troppo sconvolto per fare qualsiasi cosa. Gli riesce incredibilmente difficile convincersi che Yuuto lo stia baciando—

Yuuto lo sta baciando?


Con quell’unica certezza in mente, l’uomo non perde altro tempo e affonda con le labbra su quelle dell’altro, stringendo a sé quel corpo tanto agognato, le mani che corrono lungo la sua schiena, sotto strati e strati di vestiti, artigliando quella pelle candida per poterla sentire più vicina a sé, più sua.

Quel che è strano è che il corpo di Yuuto è incredibilmente freddo. Vorrebbe poterlo scaldare con la propria vicinanza, eppure a quanto pare ogni tentativo risulta essere vano.
«Cosa…» Kageyama si distacca appena da Kidou, con tutte le intenzioni di chiedergli spiegazioni per quella sua temperatura così gelida. Non dovresti essere qui, ragazzo. Sei così freddo, hai bisogno di scaldarti, se non vuoi prenderti un malanno.
Reiji accenna a parlargli ancora, tuttavia non appena ci prova non fa quasi neanche in tempo ad aprire le labbra per potergli rivolgere parola che il corpo etereo di Yuuto ha già preso a svanirgli tra le braccia.
«No!» grida disperatamente, stringendolo più a sé, nella vana speranza che non se ne vada «Ti prego, non andartene, Yuuto…»
Il giovane continua a sorridergli, mentre gli posa una mano algida su una guancia, nel tentativo di rincuorarlo. Reiji non si è nemmeno accorto di quando ha iniziato a piangere, se ne rende conto solo adesso, quando comprende che le dita spettrali di Kidou stanno catturando e cancellando il segno infame delle lacrime che hanno solcato il suo volto.
Che stupido che sei, si riprende, non puoi piangere davanti a lui.
Ma tanto ormai cosa conta?
Prima che possa aggiungere qualsiasi altra cosa Kidou è svanito del tutto, lasciandolo da solo con le sue lacrime e il suo dolore in quella stanza vuota.
Sa che si è trattato di un’illusione, solo che è stata talmente meravigliosa che accettare che sia finita così in fretta sembra quasi improponibile.
Kageyama si volta lentamente, gli occhi che cadono di nuovo sulla sua brandina. Probabilmente adesso dovrà tornare lì e tentare inutilmente di mettersi a dormire, tormentato dai mille incubi che lo inseguono da mesi.
D’improvviso però il suo sguardo cade su una forma indefinita, posta sotto quello che dovrebbe essere il suo giaciglio.
Ed è allora che Kageyama capisce quello che deve fare.         


We could be born to anything and now, and now
What you’ve done is terrible
And now, and now
Now you carry it with you
You carry it with you
You carry it with you
Now you carry it with you
You carry it with you
You carry it with you


Kageyama Reiji non è un vigliacco. Forse lo è stato, in passato, tuttavia non è certo questo ciò che conta, adesso.
Annoda facilmente la corda di canapa attorno ad una scanalatura del soffitto, che non avrebbe mai trovato se non si fosse metto d’impegno lì a cercarla.
Davanti a sé c’è la piccola finestra che, per tutto il tempo della sua permanenza in quel luogo, è stata la sua unica apertura sul resto del mondo. Intravede a malapena la luna velata di nubi e il resto del penitenziario, talmente la visuale è pessima. Forse il suo vero carceriere è stato quel ritaglio sul mondo, una speranza perversa di libertà, che alla fine ha finito per avvelenarlo.
Adesso sa che non tornerà mai più fuori da lì vivo. Il che è certamente una consapevolezza dolorosa, ancora una volta però si ritrova a valutare sul fatto di aver preso la decisione giusta.
Se fossero arrivati a Kidou, sarebbe stato tutto ancor più immensamente doloroso. Sentirlo morire tra le sue braccia, gelido e tremante, così come con lo spettro di poco prima, sarebbe stato insopportabile – se solo fosse successo davvero.
Trovandosi a quel bivio altre cento volte, Kageyama avrebbe scelto sempre quella fine per sé, piuttosto che condannarvi il suo ragazzo.
Oh, Yuuto… la mente di Kageyama giunge con un riflesso quasi automatico a lui, le labbra che per un’ultima volta s’incurvano in un lieve sorriso.

Per quale ragione siamo venuti al mondo, ragazzo mio? Io, probabilmente, per nessuna in particolare.

Mi sono coperto di empietà e per questo ho deciso di pagare. Credevo di dover portare questo peso con me per sempre, invece adesso, compiendo quest’ennesimo atto indegno, ti sto consegnando questo mio ultimo errore. Non voglio che accada… non voglio che sia tu a sopportare il fardello dei miei errori.
Non preoccuparti. Li porterò con me, fin nella tomba.

Kageyama chiude gli occhi. Sa che quello non è del tutto vero, adesso parte del dolore toccherà anche a Kidou – e quella è l’ultima cosa che vuole, davvero.

Quella non è vigliaccheria, bensì spirito di sacrificio. È giusto che sia lui a rimetterci, non certo il suo adorato ragazzo.
Yuuto è intelligente. Capirà, o almeno questo è ciò che Kageyama si augura      


Now you carry it with you
You carry it with you
You carry it with you


Kageyama sospira. Si sistema per bene il cappio intorno al collo, osservando per l’ultima volta in vita sua l’incantevole candore della luna.
Quando ha legato la corda al soffitto si è procurato un piccolo taglio; col sangue che fuoriusciva dalla ferita ne ha approfittato per scrivere poche parole, semplici ma d’effetto, sul pavimento lurido della stanza.
Mi dispiace, Yuuto.
Spera che, almeno così, le sue parole arrivino al ragazzo. Avrebbe voluto aggiungere un ‘ti amo’, tuttavia temeva di sembrare troppo vanaglorioso. Inoltre, non vorrebbe mai che gli inquirenti lo accusassero di essersi ucciso in preda al rimorso d’aver compiuto atti di pedofilia o chissà cos’altro – Dio, no.
Sa che Yuuto capirà. Quella è l’unica cosa che conta.
È un sollievo immenso, che fa sorridere Kageyama, mentre sta ancora osservando le parole insanguinate. Se ne può andare da quel mondo crudele quasi con sollievo.
Reiji fa cadere a terra il sostegno sul quale si era inerpicato, lasciando che il proprio corpo ricada giù di colpo, pochi spasmi mentre non cerca nemmeno più di dimenarsi o ribellarsi. Presto sarà libero, forse dall’altra parte incontrerà il suo amato Kidou e potranno finalmente essere felici insieme.
Ti amo, Yuuto.
E il corpo di Kageyama diviene senza vita.



This is a collect call from Kansas State Penitentiary:
“Being brought up one way and trying to see another way is very difficult”



«Kageyama Reiji è morto.»
Kidou apprende la notizia con un certo sgomento crescente, inquietudine opprimente nel suo cuore. È verosimile che, davanti agli altri, non abbia avuto inflessioni di alcun genere, solo la sua espressione in volto che è divenuta terrea.
Non ha mai fatto parola con nessuno di come si senta davvero, dentro, né tantomeno sembra essere intenzionato a farlo. Si limita ad essere sempre ben più serio del solito, estremamente taciturno, limitandosi a parlare solo quando gli viene espressamente richiesto.
Se qualcuno gli chiede come sta, evita di rispondere. In fondo, sarebbe sciocco mentire.
La verità è che si sente più morto che vivo. Certamente, nella sua vita non ha avuto un rapporto propriamente idilliaco con Kageyama, tuttavia il ragazzo è cosciente del fatto che non augurerebbe mai la morte a nessuno, neppure al peggior criminale del mondo.
Sarebbe contro natura.
Inoltre, ora che l’uomo aveva finalmente fatto ammenda per tutti i suoi reati e stava finalmente scontando la pena che per essi meritava… doveva proprio andare così? Era giusto che morisse?
No, non lo era. Non sarebbe dovuto morire, non sarebbe dovuta andare così, non sarebbe dovuta finire così… Kageyama era un uomo estremamente intelligente, Yuuto sapeva che se c’era una persona che aveva la possibilità di redimersi e di cambiare, quello era proprio il suo Comandante.
Già, era… perché adesso è morto.
Dicono che quando si nasce e si cresce in un determinato modo, è difficile che poi si cambi prospettiva in ciò che si vede, anche se si ha a disposizione tutto il tempo del mondo. Tuttavia, Yuuto continua a credere che quello stesso discorso non potesse essere applicato a Kageyama. Lui poteva ancora cambiare, ne è assolutamente certo.   
Yuuto non riesce a credere che nessuno si fosse accorto in tempo di quello che stava succedendo, che nessuno fosse riuscito a salvarlo in tempo… oltretutto, Kageyama era un uomo estremamente orgoglioso, perché mai avrebbe dovuto far ricorso ad un atto tanto vile come quello di togliersi la vita?
Non aveva ragioni per farlo… si era ricreduto, gli aveva perfino chiesto scusa…
Yuuto è convinto che qualcuno l’abbia spinto a prendere una decisione del genere – uno dei suoi nemici giurati, con ogni probabilità. Solo che, di fatto, non ha alcuna prova che possa dimostrare la sua teoria, perciò era costretto a restare in un angolo e a tacere.
Piange spesso, quando è da solo e nessuno può vederlo – l’orgoglio è sempre difficile da mettere da parte, perfino in una situazione del genere. La verità è che s’incolpa di tante cose, di non aver capito prima che l’uomo fosse ancora vivo, di non aver compreso quanto potesse essere in pericolo, di non averlo salvato. Certo, quel testardo del suo ex Comandante lo aveva volutamente tenuto fuori da tutta quella vicenda, per non esporlo a chissà quali pericoli, però, se solo l’avesse saputo prima…
Gli manca molto, Kageyama, più di quanto riesca ad ammettere a se stesso. Però ha deciso che sarà forte per lui, che non si lascerà devastare da tutto questo – e da quelle parole di sangue, quel ‘Mi dispiace, Yuuto’ che continua a tormentarlo giorno e notte – bensì che andrà avanti, nonostante quel macigno soffocante che è ora costretto a portarsi sulle spalle, perché è certo che fosse ciò che Kageyama desiderasse per lui.
Che riuscisse ad andare avanti, nonostante tutto.
Yuuto si volta verso il campo, da cui i suoi compagni lo stanno chiamando, attendendolo a braccia aperte. Si affretta dunque a raggiungerli, nascondendo ancora una volta quella nuvola di neri pensieri che ormai da mesi vive con lui.
Non lo dimenticherà mai.





*Note dell’autrice*

Sai quando non pubblichi una fanfic su Inazuma Eleven e sai che dovresti postare qualcosa di potenzialmente allegro e pieno di fluff  ma l’unica, deprimente cosa che riesci a tirar fuori dal cilindro magico è una death!fic sulla tua OTP? Sigh, a me la vita è male.
Comunque, buonasera a tutti. So bene che molti di voi speravano che io fossi morta, tuttavia per la vostra immensa gioia, immagino ebbene no, sono ancora viva. Nel frattempo ho passato l’estate a piangermi addosso, ho iniziato il quinto liceo e ho pubblicato una lunghissima one-shot su fandom di Tokyo ghoul che mi ha tenuta impegnata per ber un mese e mezzo. Mi sa che era meglio se morivo, mh.
Comunque… che dire? “Four Walls (The Ballad Of Perry Smith)” è una canzone contenuta nel nuovo album della mia band preferita di sempre, i Bastille, intitolato “Wild World”. La canzone parla di un uomo e della sua vita in prigione, del peso dei suoi errori che è costretto a portare con sé per il resto della propria vita. E beh, pensare a Kageyama mi è pressoché venuto automatico.
Ho adorato questa canzone, sin dal primo istante in cui l’ho ascoltata, infatti ve la consiglio tantissimo – anzi, vi consiglio tutto “Wild World”, che è allo stesso modo interamente meraviglioso. Se ne avete la possibilità, ascoltate la canzone da cui la storia è tratta come sottofondo, mentre leggete la fic. Io l’ho scritta con la song sotto e, credetemi, così rende diecimila volte meglio.
Comunque, non vi nascondo che in alcuni punti mi rivedo molto in Kageyama. Sarà che già quando vedevo l’anime trovavo che fosse il personaggio che caratterialmente più mi assomigliava – in certe azioni siamo letteralmente uguali – poi quando ho ideato la fic, con tanto di finale e relativo suicidio di Kageyama, mi è venuto quasi automatico ripensare a quest’estate, quando sono caduta in depressione e ho tentato anch’io il suicidio.
È stato un periodo estremamente buio della mia vita, fortunatamente adesso tuttavia ne sto uscendo, grazie soprattutto all’aiuto di Ange, Marina e Michy, senza le quali francamente adesso non so dove sarei. Vi voglio bene, ragazze.
Comunque, non l’ho ancora superata del tutto. Si va avanti, ecco. Però è un dolore troppo grande, che non augurerei neppure al peggiore dei miei nemici. Ad ogni modo adesso non mi va di parlare oltre di questa faccenda, sarà meglio cambiare argomento.
Ebbene sì, sono riuscita a buttare uno sprazzo di KageKi anche qui. D’altronde, se non lo avessi fatto non sarei stata io. E mi dispiace aver ucciso Kageyama ma sono convinta che la storia dovesse finire così, soprattutto con il messaggio di speranza lasciato da Yuuto, che riesce ad andare avanti nonostante questa perdita.
Se non si fosse capito, ad istigare Kageyama al suicidio sono stati degli emissari di Garshield, poiché se Reiji avesse parlato sarebbero finiti tutti in carcere, chiaramente. Le guardie sono dalla loro parte perché, oh, sarò pessimista ma sono ormai convinta che corrompere con del denaro un uomo non sia affatto complicato. Quanto all’arrendevolezza di Kageyama di fronte alla prospettiva del suo destino, è chiaro che molto abbia influito l’ambiente in cui si trova, che non gli lascia speranze di salvezza e che, come lui stesso dice ad un certo punto della fic, ha spezzato la sua mente – in alcuni punti la narrazione è volutamente frammentaria e sconnessa, proprio per sottolineare questo stato non lucido di Kageyama.
Reiji infatti non ragiona lucidamente, ecco perché si uccide. Continua ad avere visioni di Kidou e piuttosto che mettere in pericolo il suo ragazzo – perché è di questo che ha paura – preferisce togliersi la vita. Il tutto è ambientato in una What if? post!FFI, in cui Kageyama non è mai morto nell’incidente con il tir ed è invece finito in prigione.
Credo di non aver altro da dire. Ringrazio chiunque abbia letto fin qui e tutte quelle anime pie che inseriranno la storia tra le preferite e/o le ricordate. Se qualcuno dovesse recensire… grazie.


Aria
   
 
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