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Autore: Laylath    22/09/2016    6 recensioni
(Seguito di Un anno per crescere).
Da quel fatidico anno che unì in maniera indissolubile un gruppo di ragazzi così diversi tra di loro, le stagioni sono passate per ben cinque volte.
In quel piccolo angolo di mondo, così come nella grande città, ciascuno prosegue il suo percorso, tra sorprese, difficoltà, semplice vita quotidiana. Si continua a guardare al futuro, con aspettativa, timore, speranza, ma sempre con la certezza di avere il sostegno l'uno dell'altro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 3. Nuova settimana

 


La nuova settimana iniziò con una giovane figura che scendeva dal sentiero proveniente dalla casa dei Fury.
Kain, com’era solito fare, assaporava ogni istante della passeggiata che l’avrebbe condotto a scuola: la natura era sempre sua grande amica ed i suoi vivaci occhi scuri non avevano perso l’abitudine di cogliere ogni singolo dettaglio, ogni foglia che faceva filtrare la luce del sole, ogni piccolo animale che si muoveva nel tranquillo sottobosco che costeggiava il sentiero.
A dire il vero era un po’ strano fare quella passeggiata da solo dopo che per cinque anni c’era stata Riza a tenergli compagnia. Tornare a fare quel percorso in silenzio, senza alcuna chiacchiera o risata, sembrava amplificare i rumori della natura in maniera del tutto nuova.
Tuttavia bastò la vista di uno scoiattolino che si arrampicava velocemente sul tronco di un albero per fargli tornare il buonumore. Se non fosse stato per la scuola si sarebbe fermato per vedere se la sua tana si trovava nelle vicinanze. Ma il giovane studente di seconda superiore – e si sentiva davvero importante per quel grande traguardo – non poteva permettersi di tardare dato che aveva un appuntamento.
Dopo qualche minuto, infatti, arrivò al bivio che collegava il sentiero alla strada principale che portava verso il paese e dovette attendere ben poco prima di vedere la figura snella di Janet che correva verso di lui.
“Buongiorno – la salutò con un sorriso – hai corso fino a qui?”
“Non riuscivo a decidere che vestito mettere – ammise lei col fiatone, chinandosi addirittura per recuperare il respiro – è l’ultimo anno delle elementari, non è mica una cosa da niente”.
“Un traguardo importante senza dubbio” convenne il ragazzo mentre la osservava riacquistare la posizione eretta e sistemarsi meglio le folte trecce bionde. Ora che stavano uno davanti all’altra si notava come, nonostante i cinque anni di differenza, Janet arrivasse già alle spalle dell’amico più grande: non c’era da sorprendersi considerate le famiglie da cui provenivano.
“Allora, che cosa ne pensi? – chiese lei facendo una rapida giravolta per mostrare in tutta la sua grazia il vestito verde chiaro – non è certo come quello che avrà Meg, però gliel’ha comprato sua madre al negozio, me l’ha confidato la scorsa settimana”.
“Trovo che ti stia benissimo – le rispose Kain, mentre si avviavano verso l’ultima parte di tragitto – ma non c’è niente che ti stia male, lo sai”.
“Ho chiesto a mamma se potevo farmi una sola treccia, come le ragazze di scuola media, ma ha detto che devo aspettare almeno i tredici anni. Trovo che sia una cosa davvero stupida!” protestò mettendo uno dei suoi adorabili bronci.
Kain si limitò a ridacchiare, trovando che la sua giovane amica fosse sempre la stessa. In tutti quegli anni che la conosceva aveva sempre dimostrato un pizzico di vanità, ma anche di voglia di dimostrarsi più grande di quanto in realtà non fosse. Probabilmente questo dipendeva dal fatto che, per buona parte del tempo, stava con un gruppo di ragazzi più grande di lei: in questo Kain in parte la capiva.
Ma quella fase ormai era passata e quello strano complesso non esisteva più: non sentiva più l’esigenza di compiacere gli altri per mostrarsi più adulto, per paura di venir estraniato. Ormai era sicuro di quello che era e del fatto che veniva accettato senza alcun compromesso; certo c’era voluto diverso tempo e tanta sofferenza per arrivare a quel momento, ma l’importante era esserci riusciti.
“Comunque fa strano – continuò Janet, prendendogli istintivamente la mano – adesso che anche Riza ha finito le scuole siamo rimasti io e te… e poi le finirai pure tu e io per gli ultimi anni dovrò fare tutta la strada da sola. Già è stato brutto quando Jean ed Heymans hanno terminato”.
“Inizio la seconda superiore, c’è ancora del tempo per pensare a questo – il ragazzo cercò di cambiare argomento – allora, che cosa hai portato per merenda? Sai, mia madre ha preparato anche la torta stamattina: ne ho portato una fetta anche per te”.
“Davvero? Splendido! Allora io ti darò una delle mie pastine alla marmellata”.
Stavano proseguendo nella loro allegra chiacchierata quando videro una giovane donna avanzare verso di loro a grandi passi. Non ci volle molto per riconoscere la figura sorridente e gaia di Rebecca.
“Buongiorno, ragazzi. Primo giorno di scuola, eh?”
“Stai andando da mio fratello? – chiese Janet, incuriosita – Non sei mai venuta all’emporio così presto”.
“Del resto è presto che si inizia a lavorare, no? – rispose Rebecca spavalda, mettendosi a braccia conserte e annuendo con aria di chi la sa lunga – Il mattino ha l’oro in bocca”.
“Ma tu sei quella che si lamentava sempre perché le lezioni iniziavano troppo presto impedendoti di dormire” osservò Kain, per il quale Rebecca restava sempre una creatura abbastanza incomprensibile.
“La scuola è una cosa, il lavoro è un’altra. Vi auguro un buon inizio di scuola, adesso devo proprio andare o farò tardi il mio primo giorno! Non sarebbe per niente bello. Ci si vede”.
Kain e Janet si scambiarono un’occhiata stranita mentre osservavano l’amica affrettarsi in direzione opposta alla loro.
“Ha detto lavoro?” chiese il ragazzo, sistemandosi meglio gli occhiali sul naso.
“Mh – annuì Janet – ma non so proprio di cosa stesse parlando”.
Kain per qualche secondo rifletté sul fatto che Riza, se fosse stata lì, sicuramente avrebbe dato una spiegazione logica sul comportamento della sua amica.
Tuttavia la campana della scuola poco distante lo fece desistere da simili pensieri e, scambiatosi un cenno d’intesa con Janet, iniziarono a correre verso la loro destinazione.
 
Poco lontano, a casa Fury, la cucina ferveva d’attività.
Come aveva detto Kain, Ellie quella mattina si era data davvero da fare per rendere la colazione speciale. A dire il vero era un rituale che veniva fatto ogni primo giorno di scuola, quasi fosse d’augurio per un buon anno scolastico: si svegliava la mattina presto e preparava le cose preferite dai ragazzi in modo che trovassero la tavola imbandita.
In quel momento era intenta a sistemare i resti di quel banchetto a cui aveva partecipato tutta la famiglia, rendendosi conto con orgoglio e piacere che ben pochi erano gli avanzi da conservare: come sempre si era superata nella preparazione dei dolci preferiti da Kain e Riza.
Sebbene quest’anno abbia dimenticato che lei non andava a scuola.
Posando i piatti sul lavabo si girò a guardare Riza che, dopo averla sbattuta in cortile, sistemava la tovaglia nel tavolo. Notò con una nota d’orgoglio la disinvoltura che aveva acquisito in quei meccanismi domestici: era così diversa da quella ragazzina che faceva tutto con esitazione quasi fosse timorosa di venire sgridata per una posata messa male.
Persino all’osservatore più disattento sarebbe saltato all’occhio che tra di loro non c’era alcun legame di parentela. Crescendo Riza era diventata alta e robusta e ora superava di diversi centimetri la madre adottiva; laddove il viso di Ellie era delicato ed infantile, quello della ragazza era più morbido e deciso e lo stesso si poteva dire del corpo molto più sviluppato.
Semplicemente erano due tipi di bellezze diverse: Ellie in quei cinque anni trascorsi non era cambiata di una virgola, mantenendo il suo viso da eterna ragazzina che, tutt’ora, la faceva considerare una delle donne più belle del paese. Riza era proprio sbocciata, ma proprio questo aveva accentuato le caratteristiche che le provenivano dai suoi veri genitori.
Tuttavia, sempre l’ipotetico osservatore, non avrebbe potuto fare a meno di notare la grande sintonia che intercorreva tra di loro, chiaro indice di un legame veramente forte.
“Ammetto che è stato strano non vederti uscire di casa assieme a Kain”.
“Almeno ti posso dare una mano a rimettere a posto questo disastro”.
“Bazzecole, non è niente in confronto a quello che sarà il disastro quando, la settimana prossima, ci sarà il suo compleanno”.
Riza ridacchiò e rimise a posto il vaso di fiori che fungeva da centrotavola. Sistemò con attenzione alcuni fiori, levando poi una foglia che rischiava di cadere e, nel farlo, il suo viso divenne pensieroso, tanto che si sedette e rimase a contemplare la decorazione della ceramica bianca.
Ellie non ebbe difficoltà a capire che la figlia si voleva confidare su qualcosa che la turbava da qualche giorno. Riza per lei era come un libro aperto, a dire il vero a volte le capitava di capire meglio lei rispetto a Kain. Per quanto fosse rimasta una ragazza molto riservata, inconsapevolmente faceva in modo di mandare chiari segnali in modo che qualcuno giungesse in suo aiuto… rimanere a fissare il paesaggio dalla finestra, stare per dieci minuti sulla stessa pagina di un libro, cercare la compagnia materna più spesso del solito, senza però dire niente. Era come se non volesse creare problemi e dunque aspettasse che gli altri prendessero l’iniziativa.
Nei primi tempi in cui era entrata a far parte della loro famiglia, Ellie, assieme al marito, si era domandata se fosse un atteggiamento dovuto alla timidezza e all’ambiente nuovo. Si erano chiesti se era il caso di spronarla a non aver paura, a confidarsi per qualsiasi problema, tuttavia poi avevano capito che era un atteggiamento naturale per quella ragazzina che aveva vissuto per tanto tempo una situazione difficile.
E così avevano lasciato che Riza si adattasse a loro in tutta naturalezza, senza imporle niente.
“Allora, che cosa ti preoccupa da qualche giorno a questa parte?” chiese Ellie, asciugandosi le mani con un canovaccio e andando a sedersi davanti a lei.
Come al solito Riza non rimase per niente sorpresa da quella domanda, anzi i suoi occhi la fissarono con gratitudine per qualche secondo prima di tornare sul vaso di fiori.
“A dire la verità sono un po’ confusa su di me e sul mio futuro…” ammise con voce sommessa e leggermente vergognosa. Abbassò ulteriormente la testa, tanto che ciocche bionde scesero ancora di più nascondendole gli occhi in maniera affascinante, ricordando tantissimo la foto della sua defunta madre.
“Quest’estate la questione non sembrava preoccuparti molto”.
“Forse ho sbagliato – scosse il capo la ragazza – ho pensato solo alla relazione tra me e Roy, rimandando tutto al momento in cui finirà l’Accademia e avvierà la sua carriera nell’esercito. Tuttavia non ho pensato a niente per me stessa… nessun progetto personale. E questo non va bene”.
“Intendi dire che vorresti trovarti un lavoro? - Ellie posò il mento sulla mano e fissò la figlia adottiva con attenzione. Quell’idea non le dispiaceva per niente: per quanto Riza fosse un aiuto prezioso a casa, sapeva bene che poteva fare ben altro nella sua vita, sebbene non avesse ancora ben chiaro cosa. Era pronta ad imparare, volenterosa, intelligente, le mancava solo quell’ambizione personale che le avrebbe fatto spiccare il volo - Sai che io volevo fare la maestra o diventare scrittrice, no? Però poi i miei progetti sono ben cambiati… evidentemente a te non è ancora arrivata l’ispirazione giusta”.
“E’ che mi fa strano. Sai, le mie amiche più care hanno trovato la loro strada… ieri Elisa non solo mi ha detto del fidanzamento con Vato, ma anche che proprio oggi aveva intenzione di andare dal dottor Lewis per chiedergli di poterlo affiancare alle sue visite”.
“E’ fantastico! – annuì Ellie, sinceramente fiera della carriera che aveva intrapreso quella caparbia fanciulla – mi riprometto già di rivolgermi a lei ogni volta che ci sarà bisogno. Avrà bisogno di sostegno in questi primi tempi, ho questo vago sospetto”.
“A guardare lei l’idea di stare ad aspettare il ritorno di Roy mi sembra così inutile”.
“Ehi, non è mai inutile pensare al grande amore – strizzò l’occhio la donna – non dovresti dire simili cose ad un’inguaribile romantica come me. Comunque ribadisco il concetto: il fatto che le tue amiche abbiano trovato la loro strada non ti deve preoccupare; a te serve maggior tempo, tutto qui. Questo non ti deve far sentire inutile, cara, non farti venire in testa strane idee. Guardati attorno, riflettici bene e se vedi qualcosa che desideri davvero fare non esitare a parlarne: io e tuo padre vedremo come aiutarti”.
Riza annuì con un sorriso rinfrancato, chiaramente felice di aver ricevuto simili rassicurazioni.
A dire il vero Ellie non sapeva ancora quale via avrebbe intrapreso la sua giovane protetta. Mentre per Kain era chiaro che il futuro sarebbe stato nell’elettronica e nelle radio, per quella ragazza bionda e discreta ancora non appariva chiaro cosa riservasse la vita.
“Vorrei solo che ti fosse chiara una cosa – sorrise, mentre si alzava per andare a terminare di lavare le stoviglie – quello che sono io, o Rosie non è roba da poco. Certo, forse non lavoreremo come Angela o come Laura, ma questo non vuol dire che non siamo felici e realizzate: portare avanti una famiglia non è uno scherzo”.
“Mai pensato questo – rispose prontamente Riza, alzandosi per abbracciarla – ti considero la donna più meravigliosa di tutto il mondo, mamma. Sei il mio esempio più importante”.
“Ehi, quanta considerazione – la prese in giro Ellie – a proposito… mi dicevi che le tue più care amiche hanno deciso cosa fare. Di Elisa lo so bene, ma Rebecca? Non sapevo avesse iniziato a lavorare pure lei…”
“Oh – sospirò la ragazza – beh, oramai non è più il caso di tenerlo segreto… è che… credo che all’emporio di Jean la situazione stamattina sia parecchio movimentata…”
 
“… ma sei seria?”
“Mai stata più seria in vita mia: da oggi lavoro all’emporio. Allora, che cosa posso fare?”
Jean si passò una mano tra i folti capelli biondi, osservando la fidanzata con aria stranita e preoccupata.
Tutto si era aspettato quella mattina, meno di vederla piombare all’emporio così presto e sentirla fare una simile proposta. Lavorare lì? Gli sembrava una cosa fuori dal mondo, a partire dal fatto che la conosceva fin troppo bene e non la vedeva proprio a destreggiarsi tra le merci del magazzino.
Forse al bancone se la poteva cavare meglio… ma non era questo il punto.
Jean in quegli anni di fidanzamento era arrivato alla conclusione che, fino all’eventuale matrimonio, una salutare separazione per buona parte della giornata fosse necessaria. Non che non gli piacesse passare del tempo con lei, tutt’altro, ma il carattere focoso di Rebecca tendeva ad esplodere fin troppo in fretta, specie in situazioni stressanti come potevano essere, per esempio, il riordino e l’archiviazione delle merci.
“… ecco io – Jean cercò di prendere tempo, non sapendo come fare per rifiutare quella richiesta con diplomazia – a dire il vero non so se…”
“Ah, ovviamente, dato che sono la tua fidanzata pretenderò solo un piccolo compenso piuttosto che uno stipendio vero e proprio. Sono romantica: per me l’importante è stare assieme a te, tesoruccio!”
“E non chiamarmi così! – arrossì il biondo, respingendo quel tentativo di abbraccio che aveva la chiara intenzione di metterlo in trappola – Senti, non sono io il capo dell’emporio… per le assunzioni devi chiedere a mio padre e non so se…”
“Quanta formalità! – sbuffò lei – Ma in fondo è giusto: non voglio che si parli di favoritismi… signor James! Signor James! Le devo assolutamente parlare, è importante!”
“No, Reby, aspetta! – cercò di bloccarla Jean, mentre lei superava il bancone e correva verso il magazzino – Ehi, dietro il bancone ci vanno solo i dipendenti”.
“Non essere scemo… conosco bene il magazzino – strizzò l’occhio lei – lo sai benissimo!”
Jean divenne paonazzo nel pensare alle diverse volte in cui avevano amoreggiato tra gli scaffali, anche durante i suoi turni di lavoro. Alla luce dei nuovi eventi quelle scappatelle passate gli sembravano un errore madornale.
“Ehilà, ciao Rebecca – salutò James, mentre sollevava con noncuranza cinque casse di conserve – è sempre un piacere vederti qui. Però fai attenzione che siamo in una fase un po’ caotica, forse conviene che aspetti in cucina… c’è Angela che sta finendo di… ehi, ma che fai?”
“Mi lasci aiutare – sorrise Rebecca, andandogli incontro e prendendo due cassette dalla pila che l’uomo teneva – sono sicura che…oddio!”
Il botto delle cassette e dei relativi barattoli di conserve venne prontamente salvato da Jean che, con una rapida manovra, riuscì a chinarsi giusto in tempo e prendere la cassetta in fondo prima che toccasse terra.
Con un grugnito seccato riguadagnò la posizione eretta, mentre i muscoli delle sue braccia si tendevano per lo sforzo.
“Ma sei scema a prendere delle cose così pesanti tutta da sola? – disse, lanciando un’occhiataccia alla fidanzata – Persino mia madre ne prende una alla volta!”
“Suvvia suvvia, non drammatizziamo – intervenne prontamente James, posando la sua parte di carico e battendo delle pacche affettuose sulle spalle di Rebecca – voleva solo essere gentile, non è il caso di prendersela tanto. Bene, cara, come ti dicevo Angela è in cucina: se aspetti un cinque minuti vi raggiungo e ci beviamo un caffè assieme, che ne dici?”
“Oh bene! – batté le mani la ragazza – effettivamente è meglio parlare della mia assunzione davanti a una buona tazza di caffè, trovo che sia molto più formale che stare in magazzino”.
“Assunzione?” sgranò gli occhi James, con espressione basita incredibilmente simile a quella che il figlio aveva assunto poco prima.
Proprio Jean gli lanciò un’occhiata disperata, ad indicargli che non sapeva proprio come fare davanti a quell’assurda proposta di Rebecca che continuava a sorridere deliziata, sicura di ottenere quanto voleva.
Dannazione – pensò il giovane – ma perché in seconda superiore mi sono lasciato fregare da questa qui?
 
Capitava raramente che la famiglia Havoc si riunisse in gran consiglio a proposito di qualche spinosa questione. In genere si risolveva tutto durante il lavoro, i pasti, normali chiacchierate: era successo pochissime volte che tre membri della famiglia si ritirassero in una stanza per discutere di qualcosa.
Ma a quanto pare quella mattina era necessario che il consiglio di guerra venisse convocato.
“Beh, tutto sommato anche io avevo iniziato a lavorare all’emporio prima di sposarmi…” stava dicendo in quel momento Angela.
“Ma perché la parola matrimonio deve saltare fuori così tante volte? – sbottò Jean, fulminando con lo sguardo la madre – Non è di questo che stiamo parlando!”
“Prima o poi te la vorrai sposare, no? Del resto lei vuole lavorare qui proprio per starti vicino: lo trovo un gesto molto carino. E poi mi piace lo spirito d’iniziativa di quella ragazza, l’ho sempre detto”.
“Ovvio che avresti patteggiato per lei, non avevo dubbi!”
“Ma che c’è di male? – proseguì Angela – e poi una mano in più fa sempre comodo: sappiamo bene che il lavoro non manca mai e dato che io e James non siamo più giovanissimi…”
“… ehi, sono nel pieno delle forze, ragazza!”
“… dico solo che è giusto lasciare spazio alle nuove generazioni”.
“Papà, ti prego, dì qualcosa anche tu – supplicò Jean – non puoi lasciarmi solo in quest’emergenza”.
“Beh,ecco… è vero che tua madre ha iniziato a lavorare qui quando eravamo ancora fidanzati… però è diverso, almeno credo”.
“E in che cosa sarebbe diverso?” intervenne Angela con esasperazione.
“Beh, tu ci sapevi fare, Rebecca non mi sembra molto ferrata per certe cose”.
“Oh che impara! Tutti all’inizio sono un po’ impacciati: che scuse sono ormai queste?”
“Mamma… Rebecca è un disastro! E poi a stretto contatto litigheremmo ogni giorno, me lo sento – sospirò Jean – il nostro rapporto ha avuto una grande distensione nell’ultimo anno, quando io non andavo più a scuola. Le nostre litigate hanno subito un grande calo, come possono confermare anche Heymans e Riza. Non puoi rovinare tutto così!”
“Ah bene! E quando vi sposate come la metterai? – chiese sarcastica Angela mettendosi a braccia conserte – lei starà a casa sua, tu qui e vi incontrerete a metà strada per procreare i figli giusto per non litigare? E poi dove li alleverete? Metà anno a casa di Rebecca e metà anno qui? Jean, sei rincitrullito o cosa?”
“Ancora col matrimonio!? Ci tieni tanto a diventare nonna? Mamma, così ammetti di essere vecchia!”
“Sono ancora abbastanza giovane per riempirti di sberle se non moderi i toni con me, ragazzino!”
“Se possiamo tornare al problema iniziale…” propose James.
“Non mi dire che tu difendi questo scellerato!” sibilò Angela.
“No, non è che… beh, per noi è stato diverso, cara. E non è che Rebecca non mi piaccia, tutt’altro, però…”
“Lo vedi che nemmeno tu hai valide argomentazioni? – sorrise amabilmente la donna – sono solo vostre paranoie mentali. Lo so bene che una donna che lavora vi spaventa. Allora è deciso?”
“No!” scosse il capo Jean con orrore.
“Un periodo di prova?” propose James.
“Per farsi le ossa… e comunque trovo giusto che venga pagata – annuì Angela – sono stata una scema a non chiederlo io a mio tempo”.
“Scheggia!” protestò l’uomo.
“Non potete farmi questo… pensate più a lei che a me!” supplicò Jean.
“Finiscila, sto pensando al fatto che devi imparare a gestire il tuo rapporto una volta per tutte – lo liquidò Angela – anzi, dato che ci siamo la aiuterai tu ad imparare il mestiere: sarà istruttivo per entrambi”.
“Papà, sei tu il capo dell’azienda… sei proprio sicuro di quello che ti sta biecamente e palesemente proponendo tua moglie? Ricorda che si chiama emporio Havoc, non Astor…”
James squadrò prima il figlio e poi la moglie, ma poi sospirò e si passò una mano tra i folti capelli biondi con qualche filo di grigio.
“Beh, effettivamente se prima o poi te la sposi… tanto vale che impari a gestire l’emporio. Ma tienila sotto controllo in questi primi giorni”.
“Io, eh…”
“Ottimo, allora andiamo? – batté le mani Angela – quella poverina è rimasta sola fin troppo tempo”.
 
Per una Rebecca che aveva ottenuto più o meno facilmente il lavoro, una trepidante Elisa si stava dirigendo verso la casa del dottor Lewis, cercando di ignorare le occhiate curiose che la gente le guardava. Non che si sentisse un’estranea, ma era come se tutti fossero estremamente incuriositi dal suo vestito sobrio ma elegante, dai suoi capelli tenuti dietro da un fermaglio, come se non riuscissero più a riconoscere la ragazza che qualche anno prima era partita per l’Università.
Tutto questo le procurava un lieve fastidio: non riusciva a capire perché dovessero vedere solo il suo lato cittadino. Era sempre Elisa Meril, la conoscevano tutti da quando era nata: una pettinatura più adulta rispetto ai capelli sciolti ed un abito diverso non dovevano sconvolgerli in un simile modo.
Ma forse è destino che le donne di famiglia diano sempre un po’ di scandalo.
Mentre si preparava aveva confidato a sua madre tutti i suoi timori circa quel colloquio.
Ammirava tantissimo il dottor Lewis e la sua esperienza, sotto un certo punto di vista lo considerava migliore di tutti i medici di East City. Un medico di campagna ai suoi occhi aveva un qualcosa in più, una saggezza popolare che ai luminari di città mancava. Proprio perché lo stimava così tanto aveva paura di un suo rifiuto: del resto era una donna medico, un qualcosa che in paese non si era mai visto… e il dottor Lewis aveva anche una certa età e dunque poteva avere preconcetti un po’ radicati circa il ruolo della donna. Anche se sua moglie era una bravissima levatrice, lei andava a proporsi come medico vero e proprio.
“…ricorda che la tua cara bisnonna era quasi vista come una strega solo perché faceva l’erborista come me…”
Le parole di sua madre le tornarono in mente e le venne da sorridere. Lei una strega? No, non poteva essere così, i tempi erano cambiati e certi pregiudizi non avevano più motivo di esistere.
Arrivò davanti alla casa del dottore, una graziosa villetta poco distante dalla via centrale del paese.
Fermandosi a pochi metri dalla veranda esterna, la ragazza non mancò di notare le deliziose tendine di mussola che si vedevano a tutte le finestre: erano molto simili a quelle di camera sua e questo le diede uno strano senso di sollievo.
Forza e coraggio, Elisa Meril – si disse, tormentandosi le mani dove, all’anulare sinistro, stava l’anello di fidanzamento che le aveva regalato Vato – è quello per cui hai sudato tutti questi anni.
Trasse un profondo respiro e salì i tre gradini che portavano nella veranda, quindi bussò alla porta, contando mentalmente il tempo che avrebbero impiegato ad aprire.
Ci vollero solo quindici secondi prima che ad accoglierla fosse una donna dai folti capelli castani raccolti in una morbida crocchia. Elisa non ci aveva scambiato che poche parole ogni tanto, ma sapeva che era una zia materna di Jean, la levatrice più brava di tutto il paese.
“Buongiorno, signora Lewis – salutò la ragazza, cercando di tenere un tono di voce tranquillo – sono Elisa Meril, io…”
“Quasi non ti riconoscevo! Come sei cambiata dall’ultima volta che ti ho visto al compleanno di Jean! – la donna la prese per mano e la fece accomodare – Pensavamo fossi ancora ad East City”.
“Sono tornata ieri”.
“Ieri? Ah, sembri fresca come una rosa nonostante il viaggio: beata gioventù. A proposito,trovo veramente fantastico che tu sia diventata medico, in paese non si parla d’altro”.
“Davvero?” Elisa si illuminò nello scoprire un simile sostegno morale: il fatto che la moglie del medico fosse dalla sua parte era già un passo in avanti. Ed inoltre quella donna le ricordava nei modi di fare spontanei la madre di Jean e questo contribuiva a farla sentire a suo agio.
“Sul serio, e non farti scoraggiare dalle malelingue, mi raccomando!”
“Piuttosto potrei parlare col dottore? – si fece coraggio Elisa – O è impegnato in visite?”
“Adesso è nel suo studio, vieni pure”.
Tenendola a braccetto la donna la condusse per le stanze di quel villino davvero delizioso, dove tutti i mobili erano eleganti e al tempo stesso semplici. A colpire la ragazza fu la presenza di tanti testi di medicina, disposti in bell’ordine su svariate librerie: le davano un senso di sicurezza che non avrebbe mai immaginato, riportandola ai bei tempi dello studio nella biblioteca universitaria.
“George, caro – la riportò alla realtà la donna, introducendola in uno studio arioso ed ordinato – c’è una visita per te: la signorina Elisa Meril. Accomodati pure, cara, io vado a preparare un caffè”.
Come la porta si chiuse, Elisa rimase ferma, senza farsi avanti per occupare una delle due sedie che stava davanti alla scrivania di legno massiccio. Osservò con attenzione quella superficie di legno lucido ed il suo spartano contenuto: un’agenda al centro, dove il dottore stava scrivendo, alcuni libri di lato, diligentemente impilati, un portapenne e una risma di fogli bianchi dall’altra parte. Essenziale e professionale, proprio come ci si doveva aspettare.
Quanto al dottor Lewis… beh, lo conosceva da sempre: era stato lui a visitarla tutte le volte che stava male. Ma ora era come vederlo per la prima volta e si accorse che le incuteva uno strano timore. Eppure, esperienza a parte, avevano il medesimo titolo.
Era ormai vicino alla sessantina ed il suo viso era segnato dal sole, retaggio di chi è abituato a lunghe passeggiate per la campagna, e da diverse rughe, specie attorno agli occhi. I capelli erano corti e grigi, come grigia era la barba… un grigio ferro appena intaccato da qualche parte più vicina al bianco. Il medico alzò gli occhi su di lei: occhi scuri e penetranti, quelli che l’avevano fissata diverse volte con attenzione mentre giaceva nel suo letto con la febbre o con qualche altra malattia. Occhi che cercavano il sintomo, la soluzione per guarire il paziente… occhi che sapevano ed avevano imparato nel corso degli anni.
“Dottor Lewis…” mormorò.
“Hai qualche problema, signorina? – le chiese lui, alzandosi dalla scrivania e portandosi davanti a lei – Mi pari in perfetta forma, forse solo poco abbronzata… ma è anche vero che eri in città”.
“Sto benissimo, la ringrazio. A dire il vero sono venuta a trovarla per un altro motivo”.
“Sentiamo pure” l’uomo si mise a braccia conserte, squadrandola con attenzione e sospetto, come se sapesse già il motivo per cui era venuta lì. E sembrava che non ne fosse molto entusiasta.
“Ecco, dovrebbe già sapere che ho conseguito la laurea in medicina – iniziò Elisa con timidezza, trovandosi in difficoltà come quando aveva dato il suo primo esame e non sapeva cosa aspettarsi – ho… ho fatto anche il tirocinio presso l’ospedale maggiore di East City e… e ora sono un medico”.
“Un medico… già…”
“Volevo chiederle… dato che avrei intenzione di esercitare qui una volta che lei si ritirerà, se… se posso affiancarla nelle sue visite… darle una mano…”
Dannazione, Elisa, perché hai questa vocina tremante?
Il dottor Lewis continuava a fissarla con attenzione, come se avesse i sintomi di una malattia del tutto nuova e comunque parecchio grave. Rimase così per una decina di secondi prima di tornare a sedersi alla scrivania.
“Questo è davvero il colmo – commentò con voce secca – per questi ultimi anni mi sono sempre preoccupato del fatto che non sembrava esserci nessuno disposto a prendere il mio posto. E ora che è successo scopro che si tratta di te… credevo che restassi in città dopo la laurea”.
“Oh, ma io ho sempre desiderato tornare in paese e lavorarci”.
“Certo, la mancanza di casa si fa sentire… ma forse avresti fatto un grande favore a te stessa”.
“Perché sono donna? Io…”
“Sì, perché sei una donna – disse senza mezzi termini l’uomo – potrai anche avere tutte le competenze del mondo, ma il novanta per cento del paese non vorrà avere a che fare con te in quanto medico. Come levatrice, magari, se ti va bene per problematiche femminili… ma anche in queste cose ci sono massaie e nonnine che ti superano alla grande in quanto a rimedi. Tua madre per esempio… credi che si rivolgeranno a te piuttosto che a lei di cui si fidano da anni?”
Elisa ingoiò il groppo amaro che aveva in bocca: certo si era aspettata una reazione simile, ma le faceva male ugualmente.
“E lei cosa ne pensa di me? Del fatto che sia medico…”
“Mia moglie è una grandiosa levatrice e mi dà un grande aiuto come infermiera quando occorre. Sono perfettamente consapevole delle sue possibilità e del fatto che sarebbe stata una brava dottoressa se ne avesse avuto occasione… ma non funziona proprio così”.
“Beh ormai da qualche anno funziona così – ritorse Elisa – le donne possono accedere agli studi di medicina proprio come gli uomini”.
“Ragazza mia, sei proprio come un medico novellino che arriva dalla città: carico di entusiasmo, ma privo d’esperienza. Non ti hanno insegnato che se il paziente non si fida di te c’è ben poco da fare?”
“Io…”
“Tu hai fatto pratica nelle corsie d’ospedale, in una realtà ben diversa dal paese. Lì sono persone che vedi una volta nella vita e poi passi a dei nuovi pazienti, ma qui non funziona così, assolutamente no. E loro diffidano di te, l’hai già notato pure tu ne sono certo…”
“Loro… loro non capiscono, ma è solo l’inizio…”
“A me ci sono voluti anni prima di guadagnare la loro fiducia, tu sei anche una ragazza… capisci perché sono così perplesso su di te?”
“Mi sta dunque dicendo che non intende accogliere la mia richiesta?” lo disse con voce strozzata, sentendosi veramente una sciocca con quel vestito cittadino e quella pettinatura. Avrebbe preferito di gran lunga avere un vestito di tutti i giorni, forse si sarebbe sentita meno idiota.
“Sarei tentato, ma non c’è nessun altro che possa prendere il mio posto tra qualche anno… e devi ringraziare anche mia moglie che ti ha fatto grande propaganda da quando ha saputo che stavi per tornare”.
“Allora…”
“Allora vedrò di che pasta sei fatta, Elisa Meril, tutto qui: per ora ti farò venire un paio di giorni alla settimana e mi aiuterai in ambulatorio, sperando che la gente non sia così diffidente”.
“Oh, la ringrazio tantissimo, dottore! – esclamò la giovane con gioia – Vedrà, non la deluderò!”
“Già già… inizia a moderare l’entusiasmo, ragazza, non sono io il tuo vero ostacolo”.
Ma Elisa non lo sentiva, presa com’era dalla felicità.






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nda

E con Kain tutti i nostri eroi hanno fatto finalmente la loro comparsa e quindi la storia può iniziare a macinare (ovviamente state notando che anche i vari genitori stanno iniziando a comparire piano piano). Eccetto la scena iniziale, come avete notato è un capitolo quasi tutto al femminile con le tre ragazze che, ciascuna a modo suo, lavora per il proprio futuro.
Riza soprattutto mi piace molto in questo frangente: è un po' una sorta di alternativa what if...? del "se non avesse seguito Roy nell'esercito".
Ah, vi ricordate del dottor Lewis e di Allyson? Compaiono nello spin off degli Havoc, anche se a dire il vero il medico è sempre stato presente in quasi ogni storia... ha fatto nascere sia Heymans che Henry che Kain ^^
Ci vediamo alla prossima.
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