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Autore: Laylath    14/09/2016    5 recensioni
(Seguito di Un anno per crescere).
Da quel fatidico anno che unì in maniera indissolubile un gruppo di ragazzi così diversi tra di loro, le stagioni sono passate per ben cinque volte.
In quel piccolo angolo di mondo, così come nella grande città, ciascuno prosegue il suo percorso, tra sorprese, difficoltà, semplice vita quotidiana. Si continua a guardare al futuro, con aspettativa, timore, speranza, ma sempre con la certezza di avere il sostegno l'uno dell'altro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2. Partenze e arrivi

 


Quel giorno, primo settembre, il cielo era terso e pulito, con solo qualche filo bianco a disturbare quella che altrimenti sarebbe stata una perfetta distesa azzurra. Nell’aria si sentiva ancora il profumo delle pietanze che avevano costituito il pranzo e c’era un’atmosfera così calma e placida da invitare ogni persona a stendersi sul divano a riposare per godersi fino all’ultimo il pasto.
Jean Havoc aveva accolto a braccia aperte questo invito dopo una pesante mattinata di lavoro al magazzino dell’emporio di famiglia e così, dopo l’abbondante ed ottimo pranzo preparato da sua madre, si era disteso in tutto il suo metro e settantotto di altezza sul divano, chiudendo pigramente gli occhi e godendosi il fresco dell’ambiente arieggiato. Da bravo lavoratore quale era riteneva che questi momenti dovessero venir goduti appieno, anche per rendere omaggio alla cucina materna e…
“Fratellone!”
La voce acuta di Janet gli penetrò nell’orecchio come il più fastidioso dei rumori, peggio della forchetta fatta graffiare sul piatto.
“Sparisci – le disse, senza nemmeno aprire gli occhi, limitandosi a fare un vago cenno con la mano – prima delle tre io non esisto, lo sai bene”.
Possibile che ad undici anni non avesse ancora recepito quelle semplici e fondamentali regole di convivenza? Eppure si doveva rendere conto che c’era una bella differenza tra frequentare le elementari e lavorare duramente all’emporio. Forse doveva farle provare l’ebbrezza di una mattinata passata a…
“Fratellone, te ne sei dimenticato? – questa volta la voce aveva una sfumatura d’impazienza – Guarda che vado da sola a salutare Heymans”.
Gli occhi azzurri di Jean si spalancarono per trovarsi davanti quelli del medesimo colore della sorellina. Janet indossava già la piccola tracolla e sulla testa aveva premuto il cappello di paglia che metteva in risalto le sue trecce bionde ed il suo viso infantile abbronzato.
“Merda! Me n’ero completamente dimenticato! – sibilò il giovane, alzandosi di scatto e rischiando di dare un calcio alla ragazzina – Che ore sono?”
“L’una e mezza passate – dichiarò lei, iniziando ad avviarsi verso la porta – è da dieci minuti buoni che ti chiamo dalla mia stanza, ma non hai risposto manco una volta. Io vado, tu raggiungimi!”
“E aspetta!” la richiamò Jean, ma ormai era troppo tardi: la figuretta snella era già scomparsa fuori dalla porta d’ingresso della casa, chiudendola sdegnosamente alle proprie spalle.
Dannata sorella minore – sbottò Jean, decidendo che non era il caso di andare in bagno a lavarsi la faccia: avrebbe perso troppo tempo – bel rispetto per il suo fratellone.
“Ti eri addormentato della grossa, eh?” lo prese in giro Angela, comparendo dalla cucina con un canovaccio in mano.
“Ti ci devi mettere pure tu? Io vado!”
“Salutami tanto Heymans e Roy: dì loro di comportarsi bene in città e che li aspettiamo presto”.
“Sì, sì, le solite cose – borbottò Jean, uscendo di corsa dalla casa. Calcolò mentalmente la distanza ed il tempo trascorso e si convinse che, nell’arco di nemmeno due minuti, avrebbe raggiunto Janet – Mi vuoi proprio distanziare con le tue gambette da mocciosa? Povera illusa!”
 
Al contrario di quanto era appena successo a Jean, Heymans Breda aveva ben altro a cui pensare, nonostante il pranzo che aveva da poco mangiato fosse stato più che eccellente. La sua attenzione era rivolta alla valigia che stava sul letto alla quale stava dando gli ultimi tocchi prima di chiuderla definitivamente e potersi così dichiarare pronto per la partenza.
Guardando con aria pensosa i libri disposti in bell’ordine sulla mensola sopra la scrivania, il robusto ragazzo dalla chioma rossa si decise infine a prenderne due e a metterli sopra tutto il suo bagaglio, chiudendo così la valigia.
Quindi andò davanti al piccolo specchio che stava appeso alla parete e si guardò con aria critica la camicia, sistemando il colletto e sbottonando il primo bottone per far fronte alla calura di quell’ora. Si passò una mano tra i folti capelli rossi, osservandone compiaciuto l’effetto leggermente spettinato: assieme al colore degli occhi erano l’aspetto che maggiormente preferiva della sua persona, ossia quello che non ricordava suo padre. Ormai si era accettato completamente nel suo aspetto robusto, con quel viso dai lineamenti decisi e dal taglio degli occhi leggermente infossato: sapeva che non sarebbe mai stato bello come Jean o Roy, ma questo non aveva minimamente intaccato la sua autostima.
I suoi pensieri in quel momento erano rivolti all’inizio del suo secondo anno di Università: una parte di lui non vedeva l’ora di arrivare ad East City, sistemarsi nella sua stanza al solito pensionato e poter finalmente tornare in quelle aule dove stava dando prova di essere un eccellente studente.
Tutto l’ultimo anno delle superiori era stato tormentato dal decidere cosa fare una volta terminata la scuola, ma alla fine si era giustamente concesso di realizzare una sua ambizione nascosta e così si era iscritto all’Università, forte anche del sostegno della sua famiglia. A posteriori era stata la scelta migliore: in città e nell’ateneo, la sua mente brillante aveva scoperto un ambiente molto più stimolante rispetto a quello più placido del paese. Aveva deciso di diventare avvocato e sembrava che la città fosse pronta ad offrirgli tutto quello di cui aveva bisogno.
A conti fatti si sarebbe trasferito senza pensarci due volte per poi tornare in paese solo in determinate occasioni, tuttavia c’erano dei motivi importanti per non rendere definitiva una simile decisione. Per esempio in fatto che in quell’ameno e sperduto angolo di mondo c’erano la sua famiglia ed i suoi affetti più cari, un qualcosa che la grande città non era in grado di sostituire.
“Tutto pronto, Heymans?” chiese Henry entrando nella stanza e sedendosi nel letto accanto alla valigia.
“Tutto pronto – confermò il maggiore – la mamma?”
“Ancora un paio di minuti e credo che potrai scendere senza trovarla nel mezzo di una crisi emotiva – sogghignò amabilmente il ragazzo – sai bene che bisogna darle tempo”.
Heymans sogghignò di rimando e pensò che, al contrario di lui, Henry prometteva di diventare un giovane davvero affascinante. Non c’era minima traccia paterna nel suo aspetto: aveva preso tutto dal ramo degli Hevans, a partire dalla corporatura snella. Era alto, tra breve l’avrebbe raggiunto, armonioso, con un viso decisamente accattivante persino nella spruzzata di efelidi identica a quella materna.
Se non fosse stato per i colori simili sarebbe stato difficile poterli definire fratelli.
“Mi raccomando di scrivermi se ci sono problemi – si riscosse con una scrollata di spalle – per qualsiasi cosa rivolgetevi ad Andrew Fury o al capitano Falman, intesi?”
“Mi prenderò cura della mamma come al solito, stai tranquillo – annuì Henry – e, prima che tu me lo dica, mi farò onore a scuola pure quest’anno”.
“Seconda superiore… non è mica uno scherzo. Ormai ti stai facendo grande”.
“A sedici anni direi che un po’ di fiducia la merito. Del resto stai partendo per il secondo anno d’Università: durante il primo è andato tutto alla perfezione. A partire dal fatto che sono in grado di consolare la mamma come tu uscirai da qui tra pochi minuti”.
Heymans non seppe che dire davanti a quell’aria da uomo di casa di cui si stava fregiando il fratello: da un lato se ne sentiva estremamente fiero, ma dall’altro un po’ se ne sentiva in colpa. Henry avrebbe dovuto pensare solo allo studio e allo svago, non prendersi a carico la casa mentre lui era via.
Ma dai, scemo, che vai a pensare? – si rimproverò – non c’è niente di cui preoccuparsi.
Ormai da diversi anni le cose si erano messe bene per la famiglia Breda: il paese aveva ormai accettato lo status di donna separata di Laura, così come aveva assimilato l’idea che lei lavorasse come sarta. Anche per i due fratelli era terminato il periodo d’ostracismo che avevano subito durante i fatti di quell’intenso 1897, subito dopo l’incidente di Kain e tutto quello che ne era conseguito. Sembrava tutto un brutto ricordo a cui ormai si aggrappavano solo poche maligne persone che, tuttavia, restavano prudentemente nell’ombra, senza attacchi plateali alla famiglia Breda.
“… mi porterai qualcosa anche questa volta?” chiese Henry, distogliendolo da quei pensieri.
L’aria era tornata quella di un ragazzo sedicenne il cui unico desiderio era quello di godersi la sua età, i suoi amici, la scuola e tutto quello che la vita gli offriva. L’atteggiamento da uomo di casa era svanito con quella richiesta sotto un certo punto di vista infantile.
No, Henry non era ancora pronto per prendere in mano le redini della famiglia. L’ultima cosa che Heymans voleva era caricarlo di un peso non necessario, preferendo tenere tutto sulle sue robuste spalle, come del resto faceva da diversi anni.
Lasciare definitivamente il paese? No, nemmeno a pensarci.
“Certo che ti porterò un regalo – annuì con una strizzata d’occhio – Bene, direi che la mamma ha avuto il tempo di ricomporsi: possiamo scendere”.
 
Circa venti minuti dopo, un gruppetto di giovani si trovava davanti al locale di Madame Christmas, attendendo che due ritardatari arrivassero.
“Che si sbrighino – mormorò Roy, guardando al suo orologio da polso – rischiamo di perdere il treno”.
“Mi pare di sentire trambusto all’ingresso del paese – lo avvisò Riza, accennando con un sorriso alla strada principale – ed infatti eccoli”.
Tutto il gruppo si girò a guardare le due figure bionde che si avvicinavano sempre di più.
“Scusate, scusate! – ansimò Jean, chinandosi sulle ginocchia per riprendere fiato – ma non eravamo pronti e si è fatto più tardi del previsto”.
“Io ero prontissima – si offese Janet, lanciando un’occhiata cattiva al fratello maggiore – sei tu che ti sei mezzo appisolato nel divano dopo pranzo”.
“A prescindere dalla colpa direi che è il caso di avviarci – propose Vato – possiamo ancora mantenere un passo tranquillo senza correre il rischio di mancare il treno”.
“Possiamo andare, non sono per niente stanca – annuì vivacemente la ragazzina, ritrovando il buonumore e accostandosi subito ad Heymans – ti dispiace se cammino accanto a te?”
“Sei sempre una compagnia gradita, ragazzina” sorrise di rimando il rosso, spettinandole la frangetta e sistemandole meglio il cappello di paglia sulla chioma dorata.
Il gruppetto di amici si avviò lungo il sentiero di campagna che portava alla poco distante stazione ferroviaria. Automaticamente Riza e Roy vennero lasciati leggermente indietro, quasi gli altri volessero concedere loro quegli ultimi minuti in relativa intimità, del resto loro stessi non facevano nulla per raggiungere i compagni, anzi tenevano un passo deliberatamente più tranquillo.
In ogni caso le chiacchiere presero ben presto il sopravvento e Jean si trovò affiancato al suo miglior amico, con Janet corsa in avanti per accodarsi a Kain e Vato.
“E così ci lasci per un altro paio di mesi – commentò pacatamente il biondo, prendendo una margherita dal bordo della strada e mettendosela pigramente in bocca – un giorno dovrò venire a vedere com’è la città”.
“Lo dici da tempo – lo prese in giro Heymans – ma credo proprio che non lo farai mai, amico mio. Le tue radici sono troppo profonde anche solo per farti prendere il treno”.
“Mi sottovaluti?”
“Ti conosco bene, piuttosto: tu sei come la campagna, non hai bisogno di venire in città. E’ un mondo che non fa per te, non ti ci troveresti”.
“Tu ti ci trovi fin troppo bene a quanto pare…”
Jean quasi desiderò mordersi la lingua dopo aver pronunciato quella frase.
Si era ripromesso da diverso tempo di non far mai capire al suo miglior amico quanto sentisse la sua mancanza nei mesi in cui stava ad East City. Lo trovava un atteggiamento immaturo e irrispettoso nei confronti di Heymans che di certo non andava lì per divertirsi ma per studiare.
Eppure non poteva fare a meno di sentirsi a disagio senza quel sostegno solido nella sua quotidianità. Non aveva mai pensato, lo scorso anno, di provare un senso di vuoto simile, di ricercare una figura che improvvisamente non c’era più. Per quanto razionalmente la situazione era più che accettabile, emotivamente era molto più difficile. Heymans era stato per troppo tempo la sua quotidianità, la sua certezza, la persona da trovare al bivio ogni mattina per la maggior parte della sua vita scolastica. Avevano vissuto assieme le tappe più importanti della loro giovane vita e ora il biondo si sentiva in qualche modo lasciato indietro.
E lo sguardo penetrante degli occhi grigi del rosso gli fece capire che i suoi pensieri erano fin troppo chiari.
“Dai – cercò di sdrammatizzare Heymans – ti assicuro che nessuno dei miei colleghi di Università è fuori di testa come te”.
“Che discorsi patetici – si imbarazzò il biondo, passandosi una mano sugli arruffati capelli biondi – manco fossimo come i due fidanzatini dietro di noi”.
“Ecco, pensala in positivo: avrai molto più tempo da dedicare a Rebecca. Santa ragazza, ancora non so come fa a stare ancora con te dopo cinque anni”.
“Già già – Jean morsicò con forza lo stelo della margherita, rompendolo e trovandosi costretto a sputarlo al lato del sentiero – quest’anno non va più a scuola, è una bella rogna”.
“Dovresti esserne felice, no? O volevi che la situazione restasse sempre la stessa?”
“Con Reby qualsiasi cambiamento è pericoloso, lo sai bene”.
“Ah, i tormenti dell’amore! – Heymans sogghignò, sollevando ulteriormente la valigia e portandola con una torsione dietro le robuste spalle – Sono proprio curioso di vedere chi sarà il prossimo a cascarci”.
“Toccherebbe a te – ammise l’altro, guardandolo di sbieco – Kain è ancora un ragazzino e ho il sospetto che non abbia la minima idea di come funzionino certe cose. Tu invece…”
“Ho ben altro a che pensare, credimi”.
“Ehi, senti, se ad East City trovi qualche ragazza carina non vedo niente di male a farci due chiacchiere o ad uscire: fa parte della natura… ecco”.
“Perché adesso inizi a fare discorsi in stile tuo padre?” lo fissò di sbieco l’amico.
“E’ che… non mi dici molto riguardo i tuoi compagni d’Università – ammise Jean dopo qualche secondo di silenzio – e iniziavo a pensare che magari per certe cose io non…” arrossì, sentendosi veramente un idiota per tutti i giri mentali che si stava facendo. E ancora di più per esternarli in maniera simile al diretto interessato.
“Il fatto che io non sputtani le cose, e scusa la finezza, come invece fai tu, non vuol dire assolutamente che non ne parlerò con te se e quando ci sarà qualcosa di cui parlare – il rosso scosse il capo con esasperazione – Sei un testone, Jean: se non ti racconto molto è perché sto sempre a seguire le lezioni o a studiare al pensionato. Non credo che tu sia molto interessato nel sapere le varie dottrine del diritto, vero?”
“Proprio no! – inorridì lui – tredici anni sui banchi mi sono bastati”.
“Ecco, vedi? Al di fuori di quello non c’è molto altro nella mia vita cittadina”.
“E’ che Roy racconta ben altro quando rientra – ammise Jean, accennando con un gesto al moro che camminava ad una decina di metri dietro di loro – pare tutt’altro mondo”.
“Ma lui è Roy Mustang, mica me. Sai bene quanto questo posto gli sia sempre andato stretto: non aspettava altro che andare in città”.
“E tu che cosa aspetti dopo l’Università?” chiese ancora il biondo.
“Di proseguire la mia vita che ha buona parte delle sue radici qui – rispose Heymans dopo qualche minuto passato a riflettere – dove c’è la mia famiglia ed il mio miglior amico”.
“In paese non è che ci sia bisogno di un avvocato…”
“Dici? – sogghignò con malignità il rosso – cinque anni fa sarei stato più che felice di averne uno a portata di mano. Forse mi sarei risparmiato un po’ di rogne”.


~


In quei cinque anni alcune cose erano cambiate anche in quel piccolo angolo di mondo e ormai le comunicazioni ferroviarie erano più frequenti: adesso il treno con quattro vagoni, che si vantava anche di una locomotiva di nuovo modello, passava ogni due giorni e non più ogni tre. Sembrava ben poca cosa rispetto al traffico delle stazioni cittadine, ma per un posto come il paese erano degli avvenimenti quasi epocali. Più frequenza e anche meno ore di viaggio: la tecnologia avanzava e così, al posto delle oltre sei ore che ci si impiegava anni prima, adesso si poteva raggiungere East City in meno di cinque.
Tutte cose prevedibili ed inevitabili, se così si vogliono definire, ma che nella vita quotidiana aiutano a far sentire le persone meno distanti tra di loro. Ai giovani tutti quei traguardi moderni sembravano quasi delle ulteriori spinte per prendere in mano il loro destino, alla faccia di quello che era stato il passato.
Era quello che pensava una giovane donna, appena ventunenne, il giorno successivo la partenza dei due amici. Anche lei stava su un treno, ma il viaggio era in senso contrario dato che stava tornando in paese.
Stava seduta composta, perfettamente a suo agio nel fresco vestito grigio chiaro di taglio moderno.
Non passava inosservata con quel viso fresco e luminoso, incorniciato da mossi capelli castani tenuti da un fermaglio sulla nuca: in lei c’era la forza e la vitalità della giovinezza, la sicurezza di chi vuole prendere la propria vita in mano e proseguire per la strada scelta.
Tuttavia quello che avrebbe colpito maggiormente l’osservatore sarebbero stati i grandi occhi verdi, dalle lunga ciglia chiare, che continuavano a guardare dal finestrino: in essi c’era un forte sentimento di riconoscimento, nostalgia, amore nei confronti delle semplici campagne che passavano sotto i suoi occhi.
Era lo sguardo felice di chi stava tornando a casa dopo tanto tempo, riappropriandosi di quello che era il suo vero mondo.
Elisa Meril in quel momento si sentiva rinascere, come se i suoi polmoni stessero per la prima volta, dopo tanto tempo, respirando veramente. Sentiva il suo giovane corpo carico di una nuova energia, alla faccia di tutti gli stimoli che aveva avuto ad East City: niente per lei era paragonabile a quelle campagne.
Eppure, allo stesso tempo, si sentiva una pioniera carica di buona volontà ed entusiasmo, pronta a cambiare il mondo: solo poche ragazze si potevano fregiare del titolo di dottoressa. La preziosa pergamena che teneva dentro la sua valigia, custodita in modo da non venir schiacciata, era il suo vanto ed il suo orgoglio: testimoniava che aveva seguito con successo i corsi all’Università e prestato un duro tirocinio presso uno degli ospedali della città, guadagnandosi appieno quel titolo.
Certo, era strano pensare che fino ad una decina di anni prima l’idea di una donna medico fosse poco meno che assurda, ma una volta che le prime barriere erano state superate, con le prime ragazze entrate in quel corso di studi universitario, la strada si era rivelata più in discesa del previsto. All’Università Elisa aveva trovato delle compagne motivate, dei docenti disponibili con ben pochi pregiudizi a farla da padrone.
Ecco perché tornava in paese con tanto entusiasmo: il suo titolo le permetteva di esercitare ovunque volesse e niente le sorrideva di più di prendere il posto del medico del paese che, ormai, non era più giovanissimo. Poter svolgere il lavoro che amava a casa propria, con la sua famiglia vicino era un qualcosa a cui aveva aspirato da sempre.
Il suo sguardo acuto riconobbe l’ultima curva prima che il treno arrivasse alla piccola stazione ferroviaria e quello le fece emettere un’esclamazione di gioia mentre si alzava in piedi. Con eccitazione raccolse le sue due pesanti valige ed iniziò ad avviarsi verso l’uscita del vagone, rischiando addirittura di inciampare quando il treno iniziò a frenare.
A casa! A casa finalmente!
Non rimase per niente sorpresa quando, appena uscita dal vagone, vide Vato che le veniva incontro con un gran sorriso. Eppure la cosa le provocò al tempo stesso un tuffo al cuore: erano quasi tre mesi che non si vedevano, probabilmente la più lunga separazione che avessero mai sofferto. Avevano conseguito la laurea assieme ad inizio giugno, ma mentre lui era tornato subito a casa, Elisa era rimasta tutta l’estate in città per la sua formazione in ospedale.
E quei quasi tre mesi di separazione erano bastati per rendere il suo fidanzato ancora più bello ai suoi occhi.
Le sembrava più robusto, più forte, come se quell’estate in paese gli avesse giovato in una maniera del tutto speciale, a partire dalla pelle chiara leggermente scottata dal sole sulle braccia scoperte e sul viso. I suoi capelli bicolore le parevano così forti e vivi che impazzì dal desiderio di affondarvi la mano e stringerli, così come aveva fatto centinaia di volte durante tutti quegli anni di fidanzamento.
“Bentornata a casa, dottoressa Meril – la salutò il giovane, stringendola tra le braccia inaspettatamente forti – mi sei mancata, non ne hai idea”.
Forse avrebbe aggiunto altro e forse Elisa avrebbe risposto, ma le loro labbra si erano già incontrate in un bacio appassionato, così diverso rispetto a quelli timidi ed impacciati di quando erano poco più che adolescenti. Loro erano amici, compagni, amanti… senza averlo mai detto l’una all’altro si consideravano un’unione perfetta che niente e nessuno avrebbe mai potuto scalfire: si conoscevano centimetro dopo centimetro, pensiero dopo pensiero, senza che una simile prevedibilità minasse il loro rapporto.
Rimasero fermi in quella posizione per diverso tempo, incuranti del fischio del vecchio capostazione e del rumore del treno che ripartiva.
Alla fine si staccarono l’uno dall’altra, guardandosi intensamente, Vato che prendeva il viso della fidanzata tra le sue mani, e si sorrisero con complicità.
“Scommetto che hai detto ai miei genitori che saresti venuto tu a prendermi”.
“Non avrei potuto condividere il tuo ritorno a casa con nessun altro” confermò il giovane, dandole un bacio sulla fronte, un gesto tenero ed intimo, lo stesso che faceva ogni volta che terminavano di fare l’amore.
Terminato quel rituale, lui prese la più grande delle valigie e le offrì il braccio, incitandola ad avviarsi verso l’uscita del piccolo edificio.
Era una piacevolissima domenica di inizio settembre e sembrava che la campagna festeggiasse il ritorno della sua cara amica. Quel primo pomeriggio era inondato di sole ed i profumi dell’erba incolta lungo il sentiero erano talmente intensi da inebriare la giovane dottoressa.
“Non hai idea di quanto mi sia mancata l’estate qui! – ammise infatti Elisa ad un certo punto – c’erano giorni in cui volevo scappare via dall’ospedale e prendere il treno solo per trascorrere qualche giorno in campagna: la vita cittadina sarà anche bella, ma non fa per me. Oh, dai, perché ora mi guardi con quel rossore sulle guance?”
“Perché sei bellissima – rispose con semplicità Vato – ed io mi sento così fortunato ad averti accanto. Sono l’uomo più felice del mondo”.
Elisa arrossì a sua volta, profondamente compiaciuta da quel complimento: aveva voglia di correre, di danzare sui quei prati, baciare il suo fidanzato… esprimere in qualche modo la sua gioia.
“Allora, racconta – disse invece, cercando di contenere la sua esuberanza – come procede il tuo lavoro, signor storiografo: dalla tua ultima lettera si prospettano grandi cose”.
“A breve dovrò iniziare a scrivere diversi articoli per alcuni miei docenti – rispose lui con modestia – niente di particolare, lo ammetto. Però sono già un inizio e verrò pagato”.
“Sul serio? – Elisa lo fissò con ammirazione – Tesoro, è fantastico! E’ il tuo primo stipendio!”
“Non è proprio uno stipendio – la corresse il giovane, scuotendo il capo con lieve imbarazzo – in realtà non è un tipo di lavoro che ha un salario fisso: per quello dovrei tenere dei corsi all’Università, ma non so se avrò mai una simile possibilità”.
“Oh, fidati che arriverà! – lo consolò lei – Non credo che a tutti venga richiesto di collaborare a degli studi appena conseguita la laurea. Vedrai che ti arriveranno proposte su proposte”.
“Già, proposte…” lui si fermò nel mezzo del sentiero, fissando con intensità la terra battuta.
“Che succede? – Elisa si fermò con perplessità – Ho detto qualcosa che non va?”
Si accostò al fidanzato, posando la valigia a terra e notando come invece lui serrasse quella che teneva in mano con forza, tanto che le nocche tremavano visibilmente. Se prima il viso era arrossato adesso il colore vermiglio era ancora più evidente, tanto da essere visibile anche sul collo.
“Eli, senti! – esclamò all’improvviso lui, girandosi di scatto tanto da urtare la valigia posata a terra e farla cadere – Ti devo chiedere una cosa… estremamente importante!”
“Ma certo, amore – annuì la fanciulla con perplessità, osservandolo mollare letteralmente la sua valigia per iniziare a frugarsi nelle tasche, lanciando anche una lieve imprecazione nel non trovare quello che cercava – lo sai che puoi…”
La frase le si mozzò in gola come vide la piccola scatolina che finalmente veniva tirata fuori dalla tasca destra dei pantaloni. Solo uno sciocco non poteva capire cosa c’era dentro quel contenitore e dunque quello che stava per accadere.
Qui? Adesso? – il cuore della fanciulla prese a galoppare nel petto, mentre si guardava attorno con ansia, quasi a credere che tutto svanisse all’improvviso come in un sogno – Ci siamo appena laureati… ci siamo appena laureati…
C’era tempo! Tantissimo tempo! Lei doveva diventare medico a tutti gli effetti, lui aveva appena iniziato a lavorare, avrebbero dovuto prendere del tempo per adattarsi, rifletterci con attenzione… valutare i tempi che ci volevano…
Oh ti prego! – quei pensieri vennero spazzati via come da un uragano quando vide il suo fidanzato inginocchiarsi sul sentiero e mostrarle, con mano tremante, l’anello contenuto nella scatolina – Oh ti prego… non ci posso credere! Sei fantastico!
“Elisa – iniziò lui con voce leggermente acuta ed insicura – so… so che forse avrei dovuto aspettare un’occasione migliore e che… che il galateo non… non funziona proprio così, però…”
Elisa si mise le mani sulle guance, sentendole roventi.
“… insomma – continuò Vato, continuando a guardare a terra quasi a trovare il coraggio – è che io ti amo. Ti… ti amo tantissimo, con tutto me stesso: voglio stare con te per tutta la vita. E vorrei… sarei onorato…”
“… onorato…” sorrise lei, davanti a quella parola così cavalleresca.
“… ho messo un po’ di soldi da parte durante l’Università. Anche se non è tantissimo… è un inizio. Vorrei che tu accettassi di… di… di…”
“Sposarti?”
“Sì, sposarti… sposarmi!” lui annuì con forza, tendendo la scatolina verso di lei e alzando finalmente i suoi occhi dal taglio allungato su di lei. Sembrava tornato il ragazzo impacciato che ancora non si decideva a fare il primo passo per superare quel fatidico confine tra amici e fidanzati: ma era questo il bello di lui, quello che lo distingueva da tutto il resto del mondo.
“Sposarti – sospirò felice Elisa, mentre una lacrima le colava sulla guancia destra – certo… certo che lo voglio, Vato Falman”.
Tese la mano tremante e fu veramente difficile indossare quell’anello d’oro con la pietra verde al centro: erano così emozionati che ci vollero una decina di secondi prima di compiere quella piccola impresa.
Vato rimase in ginocchio, prendendo la mano della fidanzata e posandovi sopra il viso, come se fosse incredibilmente esausto dopo quello sforzo. Rimasero così fermi, per almeno un minuto buono, mentre Elisa cercava di diminuire i battiti del suo cuore e recuperare un minimo di calma per entrambi.
“Che ritorno a casa…” disse infine, facendosi aria con la mano libera.
“Scusami… scusami – mormorò Vato – ma… ma non riesco ancora ad alzarmi”.
Con un sospiro la fanciulla si inginocchiò accanto a lui, incurante della terra polverosa che le sporcava il bel vestito. Con il braccio libero cinse le spalle del fidanzato, baciandogli la chioma bicolore con amore.
“Va meglio?”
“Credo di sì” Vato riuscì finalmente a sciogliersi da quella posizione e restituire l’abbraccio.
“L’anello l’hai preso alla gioielleria di East City, quella che vedevamo sempre durante le nostre passeggiate – lei si fissò l’anulare con quel cerchio d’oro così brillante. Ma certo, l’aveva adocchiato subito e le era piaciuto tantissimo, ma non gli aveva mai detto nulla – sei meraviglioso, Vato Falman”.
“Non mi sembra vero di averlo fatto…” ammise lui, quasi con voce colpevole.
“Non potevi regalarmi un ritorno a casa migliore, parola mia”.
Quant’era bello quel sentiero di campagna con l’erba incolta e le cicale che frinivano. Com’era bella l’aria calda di inizio settembre e quel cielo così terso che mai e poi mai era visibile in città.
Com’era bella la vita in quel momento. 



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Eccomi tornata a pieno regime dopo il matrimonio di mio fratello e dopo i colpi di testa del sito.
Purtroppo ho ben quattro recensioni perdute, di cui tre per questa storia: spero che vengano recuperate, mi dispiacerebbe tantissimo che vadano nell'oblio. Speriamo bene: comunque sappiate che le avevo lette tutte e avevo anche risposto, sebbene non sappia se la risposta fosse arrivata o meno.

Ma veniamo a noi!
In questo capitolo ho inserito altri protagonisti: Jean ed Heymans, ma anche Elisa. Come avevo anticipato nei video di anteprima nella mia pagina fb, su di lei ho molte aspettative come autrice in quanto le ho scelto un percorso abbastanza particolare. A partire dal fatto che, tutto sommato, lei è una piccola pioniera con il suo mestiere di medico.
Ovviamente tenente conto che le tempistiche sono differenti rispetto ai giorni nostri e dunque non c'è niente di strano che Elisa così giovane abbia conseguito già il diritto ad esercitare.

A dire il vero non pensavo di fare questa proposta di matrimonio nell'immediato, ma ci sta, decisamente ci sta considerate anche le tempistiche che ho in mente per lo svolgimento dei fatti.

Alla prossima :)

 
  
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