Note dell'autore: Questa storia nasce diversi anni fa sotto forma di sceneggiatura. A distanza di anni ho voluto riadattarla, ricominciando a scrivere dopo un lungo periodo di fermo per un blocco psicologico dovuto ad una serie di eventi piombati nella mia vita tra capo e collo. Insomma, con questa storia ricomincio a scrivere dopo tanto tempo. Con queste premesse, spero che possiate essere numerosi a recensire e a consigliarmi per farmi riprendere la mano. Buona lettura! =)
Vi
è mai capitato di ricominciare
da capo la vostra vita? Poter costruire una nuova immagine, poter
rinascere? In
fondo si tratta solo di lasciare la vecchia esistenza alle spalle e
intraprenderne una nuova, cercando di far vedere la parte migliore di
te, o
forse la peggiore, a tua scelta, sì.
Lascio andare lo scatolone che
ho in mano appena varcata la porta della nuova casa. Ho le braccia
doloranti e
le mani arrossate, troppo fragili per tenere buste e scatoloni troppo a
lungo.
Mi guardo intorno: il corridoio all’ingresso è
luminoso e ospita una lunga
scala di legno scricchiolante, che porta alla zona notte, sulla destra
la
cucina, sulla sinistra camera da pranzo e salone. Una casa bella, a cui
potrebbe essere facile affezionarsi, se solo non sapessi che quella
sarà solo
l’ennesima casa in cui ci trasferiremo.
“Rimangono ancora pochi
scatoloni” dice mia madre affannata, mentre anche lei entra
con una pila di
cose in braccio, diretta verso la cucina. “Lili, spostati che
non riesco a
passare!”.
Riprendo controvoglia lo
scatolone e mi dirigo ai piani superiori. Le scale sotto di me iniziano
ad ogni
mio passo una musica degna dei migliori film horror. Apro la porta
della mia camera:
è decorata con carta da parati fiorata e colorata, quella
che la vostra zia
inglese sicuramente sceglierebbe per il suo salone pieno di ceramiche e
oggettini in vetro. Sbuffo contrariata e mi dirigo verso la finestra
per aprire
le tende in tessuto pesante. Oggi è una di quelle rarissime
giornate in cui Dio
si ricorda di regalare un po’ di sole
all’Inghilterra...il mio amato sole,
sotto cui amavo stare in Italia...
Un urlo da sotto mi riporta al
presente: “ANDIAMO! GLI SCATOLONI NON SI PORTANO DA
SOLI!”.
Insomma, eccomi qui, una
sedicenne che di corsa si appresta a scendere le scale, pronta ad
iniziare la
sua terza nuova vita.
Fu
un shock per me sapere la
prima volta che a causa del lavoro di mio padre ci saremmo dovuti
trasferire da
Roma a Londra. Insomma, doveva esserci per forza qualcosa che avremmo
potuto
fare per rimanere a casa, in Italia. Non ci furono storie: la decisione
era
stata presa e in fretta e furia dovetti dare l’addio a tutti
i miei più cari
amici. Neanche una lacrima riuscii a versare perché nella
mente avevo talmente
tante paure da lasciarmi imbambolata come un burattino:
l’inglese da imparare
tanto bene da poterlo parlare fluidamente, i compagni nuovi con cui
fare
amicizia, le nuove abitudini che avremmo avuto, la nuova cultura che
avremmo
dovuto far entrare a casa nostra...
Fu così che in un attimo ci
ritrovammo sballottati da un lato all’altro
dell’Europa, pronti a quella nuova
avventura. A Londra rimanemmo due anni e poi di nuovo altri amici da
salutare e
infine piombare qui, in questo paesello inglese abbandonato
dall’uomo e da Dio.
Nonostante ciò, adesso come
adesso non tornerei mai in Italia perché non riesco
più a vederla come il mio
paese natale, bensì il paese che mi ha cacciato senza
ritegno, che non aveva
spazio per me, una madre che si è scordata di sua figlia.
Mamma
entra in camera mia senza bussare e si affaccia: “Sono
arrivati gli zii con le
piccole. Vieni?”. Un sorriso mi si stampa in faccia: se
c’è una cosa che adoro
è stare con la mia famiglia e finalmente, dopo tanti mesi,
ci stavamo per
rivedere.
Scendo veloce le scale e mi
butto addosso all’omaccione che mi aspetta alla fine della
rampa.
“Eccola la scimmietta!” ride
mentre mi abbraccia.
Zia Francesca lo rimprovera:
“Dalle respiro o finirai per soffocarla: avete 50 kg di
differenza!”. Con un
balzo mi libero dalla presa di zio Marco e schiocco un bacio a mia zia,
mentre
vengo catturata dalle cuginette. Sofia e Alessandra erano piccolissime
quando
abbiamo lasciato l’Italia e adesso sono lì davanti
a me cresciute di almeno un
palmo, che mi guardano con occhi timidi, forse non ricordandosi bene
chi sia
quella cugina che abita così lontano. Ci mettono poco,
tuttavia, a giocare con
Ambra, la mia sorellina, che probabilmente d’aspetto ricorda
ancora quello di
una bambina.
La cena procede tranquilla,
mentre mamma sfila con le tremila portate che ha preparato e che
puntualmente
rimangono come il pranzo e la cena del giorno dopo. Finalmente, dopo
tanto
tempo, mi sento bene e tranquilla, come se non potesse succedermi
niente.
Peccato solo che domani inizia scuola! Di nuovo dovrò fare
uno sforzo per
ambientarmi e forse sarà anche più dura di quello
che ho fatto due anni fa
visto che ero più piccola e forse più aperta a
nuove amicizie.
“E cosa pensa quella testolina
corrucciata?...Liliana?”. Mi riscuoto dai pensieri, alzando
la testa dal pollo
ricoperto di patate al forno.
“Oh...ehm, no, pensavo a
domani...la scuola che ricomincia”.
“E che ti vuoi rovinare questa
cena magnifica? Avrai tempo per preoccuparti dopo”. Zio Marco
si alza veloce
dalla sedia e si avvicina allo stereo del salone, che inizia una
melodia lenta
e dolce, poi viene da me tendendomi la mano e mi chiede:
“Balla con me,
signorina?”.
Mamma e papà mi guardano
divertiti mentre mi alzo e schivo Ambra, Sofia ed Alessandra che si
rincorrono
per casa.
“Vuoi così male ai tuoi piedi,
zio?” chiedo ironica.
“Non potrai mica essere peggio
di tua zia” mi sussurra abbastanza ad alta voce per poter
essere sentito dalla
parte lesa.
“Guarda che ti sento!” esclama
zia, che gli tira il tovagliolo ridendo.
Iniziamo a ballare in maniera
goffa, ciondolando da una parte all’altra. Mi sento come un
palloncino
abbandonato al vento, sono aria, musica, pensieri...
“Oh, per favore, smettetela, i
miei occhi non possono più sopportare!” grida
papà coprendosi il viso
scherzoso.
“Guarda che andavamo
benissimo!” lo rimprovero, mentre cambio stazione radio. Una
musica inglese da
discoteca mai sentita prima si fa spazio prepotentemente nel salone,
cancellando il ricordo della precedente melodia.
“Già va meglio” sospira papà
raggiungendoci ed iniziando a ballare con noi.
“Quelle mosse non le fa più
nessuno!” grida zio sovrastando la musica. Tutti ormai stiamo
ballando come dei
pazzi intorno al tavolino mentre le ragazzine attonite si apprestano ad
imitarci. Tutti i pensieri negativi sembrano cacciati via da quella
danza
scoordinata e dopo tanto tempo mi sento felice.
“Vi
prendo piccole
streghette!”. Corro veloce sul prato davanti casa, cercando
di prendere Sofia
che strilla eccitata e attenta a non farsi acciuffare, mentre il suo
vestito a
fiori si muove scompostamente. Rallento un po’ per darle
vantaggio.
“Ehi, sono qui, prendimi!”.
“Fate piano che cadete!”.
Gli adulti si stanno salutando.
Passerà diverso tempo prima che ci rivedremo e questi sono
gli ultimi attimi da
goderci insieme. Ambra corre in mezzo alla strada deserta, mentre sono
ad un
soffio da lei. C’ero quasi, ma è meglio che dico a
quella stupida di non
correre in mezzo alla strada, non si sa mai. Non faccio in tempo a
pensare a
ciò, che dal dosso alla nostra sinistra spuntano due fari
che ci illuminano i
volti stupiti. La macchina è veloce, non riusciremo mai a
scansarci e anche se
tirasse il freno in quel momento non sarebbe in grado di fermarsi in
tempo
giusto per non prendere i nostri corpi delicati e giovani. Mi tornano
in mente
i compagni di Roma, così addolorati per la nostra partenza,
le risate con le
mie migliori amiche, la casa di Londra, i parenti, gli abbracci dei
miei
genitori. Dio, morirò anche senza mai aver avuto un ragazzo!
Un’immagine ancora più
straziante mi si para davanti agli occhi, probabilmente ritirata fuori
da
qualche vecchio telegiornale: due genitori piangono davanti a due bare
bianche,
due bare che contengono i corpi dei figli. La madre è
straziata, non si spiega
come quel legno ruvido e asettico possa aver sostituito il suo ventre
morbido e
caldo. Guardo gli occhi di quella signora, ma mi accorgo che non
è una
sconosciuta: mamma si stringe a papà guardando la mia foto e
quella di Ambra
posizionate sopra il legno bianco. Un brivido mi percorre la schiena,
le
pupille mi si dilatano, mentre il cuore batte all’impazzata.
La macchina è vicina,
tremendamente vicina.
Mi tuffo addosso ad Ambra,
spingendoci al lato della strada e nel frattempo prego di aver fatto
abbastanza, sperando di aver messo in salvo anche le gambe. Stringo gli
occhi
con paura. Poi una frenata brusca, la macchina si ferma qualche metro
più
avanti di noi, mia madre urla qualcosa da lontano, mentre tutti
accorrono verso
di noi. Ambra piange con qualche ferita sul posteriore per colpa della
botta
brusca che ha dato sull’asfalto.
La portiera della macchina si
apre, facendo uscire un ragazzo poco più grande di me, di
bell’aspetto e con la
faccia sconvolta.
“Signori, io...io...”. I suoi
occhi sono spalancati dallo spavento e in questo momento nessuno gli
sta dando
attenzioni, più preoccupati di accertarsi di come stiamo noi.
Mi libero dalla presa di papà
per correre verso il ragazzo.
“Tu...emerito...stronzo!” mi
scaglio addosso a lui colpendo ovunque riesca ad arrivare. Sento delle
mani
trattenermi e trascinarmi lontano, ma ancora scalpito, febbricitante.
“Ragazzo, cosa ti è saltato in
mente?” grida zio, che sembra il più lucido tra
noi.
“Scusate, davvero, vi ho visto
all’ultimo... io abito a quella villa
laggiù”dice indicando la villa
sull’altro
lato della strada e circa 100 metri più giù
rispetto alla nostra “Per qualsiasi
problema o danno, mi trovate lì”.
“Basterebbe che stessi più
attento la prossima volta” urla zio mentre il ragazzo si
allontana.
“Lascialo stare, vado a
parlarci io domani” dice mio padre infuriato.
Inizio a tremare e tutta
l’adrenalina che ho in corpo mi abbandona: crollo tremante
sul ciglio della
strada e tutto si fa buio.
“Sei
sicura che vuoi
andare?”chiede per l’ennesima volta mamma, mentre
sono sull’uscio di casa.
“Sì, mamma, sto bene, davvero”.
Mi guarda come se dovesse
trovarmi per forza qualche difetto, poi mi stringe in un abbraccio:
“In bocca
al lupo allora”.
La perdita di coscienza che ho
avuto ieri sera dopo l’incidente ha preoccupato tutti, ma
è stato solo il
seguito di una forte reazione emotiva secondo il dottore.
Cammino verso scuola con gli auricolari
alle orecchie, sperando di scaricare quella nuova tensione che ho alla
bocca
dello stomaco. Il primo giorno di scuola mi ha sempre agitato
parecchio. Sento
un colpo sulla spalla, mi giro e mia madre mi porge la merenda che ho
dimenticato, poi mi dà un altro abbraccio e corre di corsa
verso casa. Fortuna
che questa scena non è avvenuta di fronte scuola se no tutti
avrebbero pensato:
“I soliti Italiani mammoni”! Guardo l’ora
e affretto il passo.
Di nuovo sento un colpo sulla
spalla e mi giro sbuffando: “Che c’è
ancora, mam...?”. Le parole mi si fermano
in gola mentre mi ritrovo di fronte a colui che per poco ieri sera non
mi ha
uccisa.
“Ti stavo chiamando da un po’”.
Guarda le cuffie che adesso ho tolto dalle orecchie. “Ecco
perché non sentivi”.
Lo guardo male e riprendo a
camminare.
“Volevo scusarmi ancora per
quello che è successo ieri
sera...l’incidente”.
“Ma pensa...quasi me ne ero
dimenticata” commento acida.
“Lo so, andavo troppo veloce,
però magari possiamo risolvere le cose. Sei nuova, no? Avere
un amico in questo
paese a te sconosciuto può farti comodo. Sono
William” mi tende la mano che
guardo attonita. Avere un amico può farmi comodo?
“Senti, William, a me non
interessa farmi amici in questo paese sconosciuto e tanto meno mi
interessa
fare amicizia con uno che è quasi riuscito ad uccidermi
all’età di sedici
anni”.
Abbassa gli occhi dispiaciuto,
forse accorgendosi anche dell’inappropriatezza delle sue
parole e io vado
avanti verso il cancello della scuola statale che ormai ho raggiunto.