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Autore: Claire77    25/09/2016    2 recensioni
Dopo aver pronunciato quelle parole, Henry si fece di lato, lasciando entrare Jo nel negozio. Chiuse la porta a doppia mandata e appese il cartello con la scritta chiuso. Aveva paura di voltarsi e di incontrare lo sguardo di Jo. Quello che temeva, o che aveva desiderato, a seconda dei punti di vista, per tutto quel tempo, stava per accadere.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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The day after
 
Jo sobbalzò, stordita, svegliata dallo squillare e vibrare del telefono. Lo cercò a tentoni senza riuscire ad aprire bene gli occhi, quando si accorse di essere stesa sul letto al contrario. Si girò e riuscì a raggiungere il comodino, dove il suo telefono continuava a squillare. La sveglia segnava le otto e sette minuti.
“Pronto?”, biascicò, con l’unico desiderio di risprofondare nel letto e tornare a dormire.
“Jo, abbiamo un cadavere”, le disse Hanson dall’altra parte del filo, “È emerso nel fiume, poco distante da Brighton Beach. Vieni?”
“Arrivo”, rispose, faticando a mettere a fuoco i suoi pensieri, “Dammi… dammi mezz’ora e arrivo”.
“Va bene. Ti aspetto sulla scena del crimine”. Hanson stava per mettere giù quando aggiunse: “Vuoi che chiami Henry?”
“No!”, Jo rispose con un tono decisamente più alto del necessario, e cercò di correggersi subito: “Voglio dire, lo chiamo io. Lo passo a prendere venendo lì. Ok?”
“Ok. Va tutto bene, Jo? Hai una voce strana”.
“Va tutto benissimo. Ci vediamo tra mezz’ora”. Jo chiuse la telefonata e si voltò dall’altra parte del letto, accorgendosi che era vuota.
Il panico l’assalì. Temette che Henry avesse dato seguito ai suoi propositi e se ne fosse andato. Magari a quest’ora era giù su un aereo, diretto chissà dove, con un documento falso, irrintracciabile…
Poi sentì dei passi sulle scale ed Henry fece capolino sulla porta, tenendo un vassoio in mano.
“Buongiorno, detective”, le sorrise, e posò il vassoio sulle sue ginocchia. C’erano una confezione di ciambelle zuccherate e un enorme caffè fumante.
“Il mio istinto di medico avrebbe voluto portarti un buon thè e una macedonia di frutta, ma date le tue cattive abitudini, e il tuo probabile bisogno di zuccheri, ho optato per la tipica colazione da poliziotto americano”.
“E dove le avresti prese, le ciambelle?” Jo prese riconoscente il caffè caldo tra le mani, sentendosi una stupida per l’attacco di panico di qualche secondo prima.
“Sono uscito a comprarle. Mentre dormivi.”
“Ma non dovevi. Avrai dormito pochissimo”.
“In realtà non ho dormito affatto.”
“Beh, spero che tu sia comunque riposato”, osservò Jo dopo aver bevuto un sorso di caffè, “Perché abbiamo un cadavere che ci aspetta a Brighton Beach”.
“Il modo migliore per iniziare la giornata”, commentò Henry.
“Il modo migliore sarebbe questo” Jo si sporse verso di lui e lo baciò. Lui rispose posandole una mano sul collo, rischiando di rovesciare il caffè che lei teneva in mano.
“Sarà meglio che ti prepari, detective, o arriveremo in ritardo”, sussurrò Henry, e dopo averle dato un altro bacio si allontanò.
“A proposito, ho detto a Hanson che ti sarei passata a prendere io”, disse Jo, “Così non sembrerà strano, se arriviamo insieme”.
“Mi sembra una scusa logica”.  Henry svanì oltre la porta e Jo si costrinse ad alzarsi, farsi una doccia e vestirsi. Mangiò una ciambella e finì il caffè. Quando scese, Henry era seduto in cucina, con una tazza di thè in mano.
“E dove lo hai trovato, quel thè? Non ne ho in casa”.
“L’ho comprato insieme alle ciambelle”, spiegò lui semplicemente.
“E hai anche lavato i piatti”, aggiunse Jo, accorgendosi che il lavello era vuoto, “Ma non dovevi.”
“Ma come, dopo che avevi passato così tanto tempo a cucinare, mi sembrava il minimo” Le fece l’occhiolino e Jo sorrise.
“Allora… pronto per un’altra giornata di lavoro, dottor Morgan?”
“Prontissimo, detective Martinez. Se vedi che mi sto per addormentare, dammi un calcio”.
 
“Jo, sicura che va tutto bene?”, le chiese per l’ennesima volta Hanson.
“Sì, certo. Perché?” Jo nascose il rossore voltandosi dall’altro lato.
“Hai un’aria strana. Sembra quasi che hai la febbre”.
Jo colse un guizzo nell’espressione di Henry e si rammentò mentalmente di dargli una gomitata, non appena nessuno l’avesse vista. Si concentrò sul cadavere che Henry stava esaminando.
“Causa del decesso?”, chiese, cercando di mantenere un tono il più normale possibile.
“A prima vista ti direi la pallottola”, rispose Henry, inginocchiandosi di fianco alla testa del corpo, “Ma dal gonfiore della gola e dal colore delle labbra sembra che fosse ancora vivo quando l’hanno gettato in acqua. Quindi probabilmente la vera causa della morte è l’annegamento”.
“Di certo la pallottola non l’ha aiutato”, osservò Hanson, picchiettando la penna sul suo taccuino.
“Appena siamo in laboratorio inizio con l’autopsia”, Henry si alzò e iniziò il viavai di tecnici e fotografi intorno al cadavere. Hanson e Jo raccolsero le testimonianze dei presenti prima che Hanson prendesse la propria macchina per tornare al distretto.
Jo ed Henry si misero in viaggio sulla macchina di Jo.
“Se hai la febbre, detective, posso darti un’aspirina”, scherzò Henry mentre erano fermi in coda a un semaforo.
“Ah ah”, Jo avrebbe voluto arrabbiarsi per quella battuta ma invece si ritrovò a ridere, “Non tutti hanno la tua esperienza decennale nella dissimulazione.”
“Oserei dire centenaria”, la corresse lui, poi il suo tono si fece serio: “Sono serio adesso, però. A parte la mia… chiamiamola condizione, che deve rimanere segreta e su questo credo non ci sia bisogno di discutere… per quanto riguarda il resto, lo vuoi tenere nascosto?”
“Per resto intendi relazione?” Anche Jo si fece seria anche se sentì uno strano groppo allo stomaco a pronunciare la parola relazione, “Sì, se sei d’accordo. Voglio dire, è la cosa migliore. Non credo che il dipartimento incoraggi le relazioni tra colleghi, e noi lavoriamo troppo bene insieme per rischiare che ci trasferiscano in due dipartimenti diversi. E poi… siamo appena agli inizi. Magari più avanti potremmo dirlo al capitano, ma solo dopo averle dimostrato che il nostro rapporto non influisce in nessun modo sul nostro lavoro.”
“Mi sembra un piano logico”, assentì Henry, “Io non ho problemi a tenere nascoste le cose, come ben sai. Mi preoccupavo più che altro per te. Non vorrei che ti sentissi… a disagio, a mentire ai tuoi colleghi.”
“Beh, non è che tengo nascosto qualcosa di grave. Prendiamola come un’applicazione molto severa della legge sulla privacy”.
“Come vuoi, detective”.
Henry si mise ad osservare il traffico e Jo si ritrovò a riflettere sul futuro che li attendeva. Henry aveva ragione, in effetti poteva trovarsi a disagio a mentire ai suoi colleghi. Si conosceva troppo bene per mentire a sé stessa. Magari potevano dirlo a Hanson e Lucas. Cominciare a smuovere le acque con discrezione. Però Lucas non era proprio un modello di discrezione…
“Potremmo accennare la cosa almeno a Lucas… e Hanson”, le disse Henry all’improvviso.
Jo sorrise.
“Henry, ma come diavolo fai a sapere sempre quello che sto pensando? Ero appena arrivata alla tua stessa conclusione. Però Lucas…”
“… non è certo una botte di ferro, in caso di segreti, ma credo che in questo caso sarà felice di stare al gioco”, completò Henry.
“Credo di sì. Anzi, lui sarebbe felice, me lo ha detto”.
Henry la fissò con uno sguardo stupito.
“Ti ha detto cosa? Quando?”
“Quando sei…” Jo si interruppe, rendendosi conto che il caso della scomparsa dell’infermiera, che stava per nominare, non era nient’altro che il caso della scomparsa di sua moglie. Si morse un labbro, imbarazzata. Era il caso di sollevare l’argomento in quel momento? Ora si rendeva perfettamente conto della sua ossessione per quel caso. Scoprire e fare l’autopsia del cadavere della propria moglie… Jo raggelò, colpita da un altro ricordo che fino a quel momento aveva sepolto: l’infermiera Sylvia, alias Abigail, era morta perché si era tagliata la gola. Abigail si era suicidata. Per quale motivo? Henry non le aveva detto che lei gli aveva scritto che voleva tornare a casa?
“Quando sono cosa?”, la incitò Henry, e Jo rispose cautamente, cercando di nominare Abigail il meno possibile:
“Quando sei andato con Abe alla ricerca di sua madre. Era il giorno subito dopo la mia… insomma, il giorno dopo il mancato viaggio a Parigi. Ti ho cercato per mettere in chiaro le cose, e Lucas sul momento si era rifiutato di dirmi il motivo per cui non c’eri, e allora mi sono un attimo preoccupata, pensavo che te ne fossi andato per causa mia, e Lucas in quel momento mi ha chiesto se per caso io e te… se, insomma, c’era qualcosa tra noi due”.
“E tu?”
“Ho risposto di no, ovviamente, e lui mi ha detto che era un peccato, perché saremmo stati senza dubbio la sua coppia preferita. Insomma, hai capito no? Una delle classiche uscite di Lucas”.
Jo si concentrò sulla guida, ma non riusciva a smettere di pensare ad Abigail. Sperò che Henry non si accorgesse della sua curiosità.
“Jo”, erano quasi ormai arrivati al distretto, “Se stai pensando quello che io credo tu stia pensando, ti risparmio la fatica e la pena del chiedermelo. Abigail si è suicidata per causa mia”.
Jo quasi inchiodò per fermarsi a un semaforo rosso.
“In che senso, per causa tua?”
“Per proteggermi”, spiegò lui, voltando la testa verso il finestrino perché lei non lo vedesse in faccia, “Ti ricordi che il giudice e la sua ragazza avevano investito un motociclista? Quel motociclista era Adam. Era ridotto malissimo, ma sarebbe sopravvissuto, cosa che ovviamente lui non voleva. Così in un momento di disperazione chiese all’infermiera di ucciderlo, perché tanto sarebbe tornato come nuovo. E incredibilmente l’infermiera gli credette. È stato così che lui ha capito che dovevano essercene altri. Dopo essere morto, è tornato a cercare Abigail, perché voleva sapere il nome dell’altro… dell’altro immortale. Lei si è rifiutata. Lui l’ha costretta a salire in macchina e lei è volontariamente uscita di strada. Ma non è servito. Adam era ancora vivo e l’ha minacciata. Così lei si è uccisa per non rivelare il mio nome.”
Jo parcheggiò la macchina davanti al distretto, raggelata. Pensava di aver già sentito tutto quanto di tragico potesse essere successo nella vita di Henry (cosa poteva esserci peggio di Nora?), ma a quanto pareva si era sbagliata.
“Non è stata colpa tua”, riuscì a dire dopo alcuni secondi di silenzio, “È stata colpa di Adam.”
“Sì che è stata colpa mia”, ribatté Henry, sempre rifiutandosi di guardarla, “Se non ci fossimo mai incontrati… niente di tutto questo sarebbe successo. Potrebbe essere ancora viva, ora”.
“Sei ingiusto, Henry”, ribatté Jo con foga, consapevole di dove Henry volesse andare a parare, “Non puoi ragionare così! Abigail ha avuto una vita felice. Ne sono certa. Ti ha scelto consapevolmente e avete avuto una famiglia felice, insieme. Se non ci fossi stato tu probabilmente non ci sarebbe stato neanche Abe. Che ne sai? Sarebbe potuta morire in qualsiasi altro modo, in qualsiasi altro momento. E se stai cercando di allontanarmi, con questo discorso, sappi che stai ottenendo l’effetto contrario.”
Jo si slacciò la cintura di sicurezza e scese dalla macchina sbattendo un po’ troppo forte la portiera.
“Andiamo”, lo incitò, “Abbiamo del lavoro da fare”.
 
Alla fine della giornata, Jo entrò in laboratorio, decisa a rintracciare Henry prima che tornasse a casa. Lucas era al suo tavolo con addosso un paio di cuffie. Lei si diresse decisa verso Henry, seduto alla scrivania nel suo ufficio, tenendo in mano un finto rapporto che aveva pronto come scusa.
“Ehi”, lo salutò, quando lui alzò lo sguardo verso di lei.
“Ehi”, rispose lui con un sorriso tiepido.
“Ascolta, Henry”, iniziò Jo finché era fresca dei buoni propositi maturati durante il giorno, “Mi dispiace per oggi. So che sono incredibilmente impicciona…”
“No, Jo, scusa tu”, la interruppe Henry, “Ma quando si tratta di Abigail… non riesco a liberarmi del senso di colpa. Forse tra un paio di secoli… ma sono passati solo trent’anni. È una ferita ancora troppo recente.”
Jo pensò a come era cambiato il modo di Henry di parlarle da quando aveva scoperto la verità su di lui. Faceva riferimento a sé stesso e al suo segreto in un modo così spontaneo che sembrava che lei ne fosse stata a conoscenza da anni.
“Mi devo ancora abituare alla tua concezione del tempo, dottor Morgan” Jo cercò di sdrammatizzare, “Per il resto degli esseri umani trent’anni sono una bella dose di tempo”.
Henry sorrise e sospirò.
“Lo so, Jo, te l’ho detto che sono un caso complicato. Tra parentesi, c’è Lucas che ci fissa”, aggiunse con uno sguardo rivolto oltre il vetro dell’ufficio.
“Ancora dell’idea di dirlo a lui e Hanson?”
“La decisione la lascio a te, Jo. Come ti ho già detto, io non ho problemi a mentire.”
Jo rifletté per qualche secondo.
“Glielo diremo”, concluse, “Ma fra un po’, non subito”.
“Come desideri”.
Jo fece per uscire, ma sulla porta di voltò.
“Certo sarebbe divertente, baciarci mentre Lucas ci guarda.”
“Sarebbe divertente se tu avessi una telecamera in mano”, disse Henry, “E riprendessi la sua faccia.”
“Potremmo anche farlo… più avanti”, rise Jo, ed evitando lo sguardo indagatore di Lucas attraversò il laboratorio e uscì.
 
Arrivata a casa, Jo si pentì di non aver chiesto a Henry di passare. O forse stava correndo troppo? In camera da letto si cambiò, indossando i pantaloni della tuta e una t-shirt della polizia. Poi scese in cucina e pensando con nostalgia alla cena della sera prima mise un piatto di noodles pronti nel microonde. In quel momento suonarono alla porta.
Jo sentì il cuore fare un sobbalzo. Quando aprì la porta, Henry era sulla soglia, con un sacchetto della spesa in mano.
“Non potevo sopportare l’idea che tu stessi mangiando del cibo riscaldato al microonde”, disse lui con un sorriso, mostrandole il sacchetto.
“Non lo stavo facendo”, mentì lei. Un secondo dopo il bip del microonde risuonò, traditore, in tutta la cucina, fino all’ingresso. Jo non disse nulla e si fece semplicemente da parte per lasciarlo passare.
“No, infatti”, disse Henry, e posò il sacchetto sul bancone della cucina, “Ti avevo detto che avrei cucinato io, no? Tu mettiti comoda.”
Jo ubbidì, e si sedette a osservarlo mentre si muoveva con sicurezza nella sua cucina come se conoscesse esattamente dove si trovavano tutte le stoviglie.
“Ma che hai fatto, hai studiato una mappa della cucina, stanotte?”, lo prese in giro Jo.
“Ho una buona memoria”, rispose lui, “È necessario quando cresci in un posto dove non c’è nessun calcolatore a ricordarsi le cose al posto tuo”.
Jo meditò di ricominciare a fare domande. Picchiettò pensosa un dito sul proprio ginocchio, pentendosi di essersi cambiata e messa in tuta, e subito dopo pentendosi di farsi prendere da simili pensieri adolescenziali. Cercò di buttarla sul ridere:
“Mi è permesso continuare l’interrogatorio?”
“Oh, oggi mi chiedi anche il permesso? Gentile da parte tua.” Henry le pose davanti un piatto di carne profumata e un bicchiere di vino.
“Facciamo così”, le propose, “Se la cena non ti piace, ti autorizzo a farmi domande”.
“Non mi sembra una proposta conveniente”, osservò Jo, “Sono certa che la cena sarà ottima, quindi se accetto mi frego da sola.” A dimostrazione di ciò, assaggiò un boccone, e come pensava, era buonissimo. “Facciamo che ti faccio domande quando voglio e come voglio e risolviamo il problema”.
“Ho almeno la facoltà di non rispondere?”
“Concessa. Ma solo se domattina mi porti altre ciambelle”.
Henry si sedette di fronte a lei e le lanciò uno dei suoi sguardi che vedevano tutto.
“Se ti dicessi che le ho già comprate?”
Jo sorrise e rispose al suo sguardo.
“Direi che hai fatto una scelta saggia”.
 
 “Come mai tu e tuo padre non andavate d’accordo?”, chiese Jo mentre facevano colazione insieme in cucina.
Henry ci pensò su per un po’, masticando lentamente una fetta di pane tostato.
“Erano tante cose tutte assieme”, rispose alla fine, “Lui era molto… conservatore. Ma le cose peggiorarono quando morì mia madre. Lei era… lei era in gamba. Una persona tosta, nonostante tutto. Era l’unica che riuscisse a tenerlo a bada. Quando morì, lui divenne intrattabile. Si faceva come si diceva lui, altrimenti…”
“Altrimenti?”
“Altrimenti frustate. A volte ci sono andato vicino, ma me la sono sempre cavata.”
Jo fece una smorfia, cercando di immaginare un qualsiasi motivo per cui Henry dovesse venire frustato per punizione, ma non riuscì a trovarne neanche uno.
“Mi viene difficile immaginare una cosa del genere. Non riesco proprio a vederti fare qualcosa di scorretto…”
“Una volta ne ho combinata una grossa. In quel caso, le frustate me le sarei meritate. Però quella volta mio padre reagì quasi in maniera… mite. Forse, in fondo, si era divertito anche lui.”
“Di che stai parlando? Che hai fatto?”
“Uno scherzo. Uno scherzo stupido e inutilmente rischioso. Ma avevo sedici anni e mia madre era morta un paio di anni prima, e mio padre era intrattabile. Avevo fatto amicizia con una ragazza della servitù. Si chiamava Elizabeth. Era una ragazza intelligente ma non sapeva né leggere né scrivere. All’inizio volevo solo darle una mano… le prestai qualche libro e le insegnai a leggere. Di nascosto, ovviamente. Se l’avessero trovata che famigliarizzava con me sarebbe finita nei guai. Poi… non mi ricordo nemmeno di chi dei due fu l’idea… probabilmente mia… la feci passare per mia cugina e la portai a teatro.”
Jo aspettò, credendo che il nocciolo della storia dovesse ancora arrivare, ma Henry la squadrava come aspettandosi una sua reazione.
“Beh… tutto qui?”
Henry scoppiò a ridere.
“Oh, Jo”, sospirò come se dovesse spiegare a un bambino che due più due fa quattro, “All’epoca portare una serva a teatro, spacciandola per una di rango, era una cosa che ti poteva costare una bella punizione, sai? Se non peggio. Ci siamo preparati per quella sera per una settimana. Le avevo insegnato qualche parola di francese, come fare le riverenze, come sedersi, come fare cenni con il capo. Trafugammo un vestito di mia madre. Ci inventammo pure un titolo: lady Elizabeth di Smallwood.” Fece una pausa, perso nei ricordi. “Li abbiamo ingannati tutti. Elizabeth… si è divertita come una pazza. Quando siamo usciti da teatro mi stringeva il braccio per trattenersi dal ridere. Una volta sulla carrozza ha riso così tanto che si è messa a piangere. E aveva pure conquistato il cuore del giovane Thomas, figlio di Rawson Collins, acerrimo concorrente dei Morgan nel commercio della seta. Credo sia stato questo a salvarci da una bruttissima punizione. Mio padre deve essersi divertito un sacco al pensiero che Thomas avesse chiesto a Elizabeth di partecipare al ballo dei Collins e si fosse pure riservato con lei il cotillon”.
Jo sorrise, anche se doveva ammettere che non aveva capito tutto quanto Henry le aveva raccontato. Che cosa diavolo era un cotillon? Il suo sguardo, come al solito, doveva essere stato traditore, perché Henry spiegò:
“È un ballo. Di solito alla fine della serata, e si riserva alla persona a cui tieni di più, o con cui hai più interesse a ballare”.
“E come avete fatto dopo, a non essere smascherati?”
“Mio padre, stranamente, ci ha coperti. Ha sparso la voce che nostra cugina, la fantomatica lady Smallwood, era stata improvvisamente richiamata a casa, in Scozia. Il povero Thomas deve esserci rimasto malissimo. Rawson doveva già avere iniziato a studiare gli alberi genealogici, per capire se ammogliando Thomas con Elizabeth sarebbe riuscito a guadagnarsi una fetta della società dei Morgan. Immagino che mio padre abbia tratto una buona dose di divertimento, a reggerci il gioco”.
Jo sorseggiò un sorso di caffè, cercando di immaginarsi un giovane Henry che si divertiva a ingannare una folla di persone. Sì, in un certo senso, riusciva a farsene un’idea.
“Riuscirò mai a conoscere tutta la storia della tua vita?”, disse a un certo punto, mentre riponeva le tazze sporche nel lavandino.
“Se avrai abbastanza pazienza, Jo, forse in un anno o due potrei riuscire a raccontarti tutto”. Le porse il braccio con fare teatrale, e ridendo uscirono insieme di casa.
 
“Un altro cadavere da Brighton Beach?”, chiese Lucas, “Ne stiamo facendo una collezione, per caso?”
“A quanto pare”, rispose Henry, osservando il cadavere steso sul tavolo d’acciaio: il modus operandi sembrava lo stesso dell’altro caso, cioè un colpo di pistola, e poi annegamento.
Cominciò con l’autopsia, mentre Lucas lo assisteva raccontandogli l’ultimo episodio di un telefilm horror di cui si era recentemente invaghito. A un certo punto, però, mentre stava aprendo lo stomaco in due, il bisturi di Henry incontrò una strana resistenza.
“Ma che…?”, borbottò, chinandosi in avanti, “Lucas, sposta quella luce”.
Lucas obbedì e il fascio di luce illuminò una strana protuberanza lucida e viscida, ricoperta di sangue. Henry l’afferrò e l’estrasse dallo stomaco.
“Porca miseria!”, esclamò Lucas, “Ma è un sacchetto di droga!”
“Sarà almeno un chilo”, soppesò Henry, cercando di ripulire la plastica dal sangue per vedere meglio all’interno, “Chiama subito Jo e dille di venire giù…”
Lucas si voltò per dirigersi verso il telefono ed Henry ripose attentamente il sacchetto in una scatola da reperti. Non che si aspettasse di trovarci delle impronte, ma doveva comunque tentare.
“Lucas…?”, chiamò a un certo punto, dopo parecchi secondi di silenzio, in cui si aspettava di sentire la telefonata di Lucas.
“Henry…”, lo sentì rispondere, il tono strozzato e palesemente spaventato.
Henry si girò e si trovò la canna di una pistola puntata contro.
Un uomo massiccio, bianco, pelato, jeans sgualciti e giacca di pelle e sguardo poco rassicurante prese la mira prima contro Lucas e poi di nuovo verso di lui.
“Dammi il sacchetto”, disse con un forte accento russo.
Henry non rispose immediatamente. Valutò velocemente la situazione: nell’obitorio non c’erano telecamere, se non all’ingresso. Il tizio non si era premurato di nascondersi il viso, quindi era improbabile che li lasciasse vivere, con il rischio di essere identificato in seguito. Probabilmente era arrivato fino al laboratorio di medicina legale spacciandosi per un fattorino e nascondendo il viso alle telecamere. In fondo, non c’era molta sorveglianza in quella parte dell’edificio. Chi mai vorrebbe rubare un cadavere?
Lucas stava guardando la pistola, terrorizzato. Henry si accorse di essere in ansia per lui. Non gli importava che quell’uomo sparasse a lui, ovviamente, ma se avesse colpito Lucas… era così giovane, un bravo ragazzo, nonostante le sue stramberie. E aveva ancora un futuro davanti a sé.
“Il sacchetto è in quel contenitore”, rispose lentamente Henry, spostandosi di un passo per avvicinarsi a Lucas, “Sul tavolo, alle mie spalle”.
Per raggiungere quel contenitore Henry doveva spostarsi, e l’uomo armato doveva muoversi in avanti. C’era il cinquanta per cento di possibilità che l’uomo chiedesse a Henry di prendere il sacchetto, nel qual caso il piano di Henry di posizionarsi tra la pistola e Lucas sarebbe fallito prima di cominciare. Henry però fu fortunato. Forse l’uomo temeva che lui potesse armarsi di qualcosa se si fosse avvicinato al tavolo. Gli fece cenno di scostarsi e Henry ne approfittò per posizionarsi davanti a Lucas. Con il pretesto di spingerlo dietro di sé, Henry fece scivolare velocemente la mano nella tasca del camice di Lucas, dove sapeva che lui teneva il cellulare. In quei preziosi secondi in cui l’uomo maneggiò con il contenitore per aprirlo, Henry digitò alla cieca il numero di Jo e fece partire la telefonata, poi rifece cadere il cellulare nella tasca di Lucas. Lucas forse non se n’era nemmeno accorto. Era pietrificato.
Spaziba”, disse l’uomo, con una smorfia che non lasciava presagire nulla di buono. Henry si preparò al colpo, sperando che il primo sparo e la chiamata inoltrata a Jo attirassero i rinforzi prima che l’uomo avesse il tempo di sparare anche a Lucas. Se l’assalitore gli avesse sparato al petto, avrebbe potuto fare da scudo a Lucas ancora per qualche prezioso secondo. Ma se gli avesse sparato alla testa, sarebbe crollato immediatamente a terra, lasciandolo scoperto. Ancora una volta, aveva il cinquanta per cento di possibilità.
Ti prego, fa che Lucas si salvi, pregò silenziosamente, anche se non credeva in Dio, Jo, sbrigati, ti prego
Bang.
Gli aveva sparato al petto. Henry ne aveva subite così tante, di ferite, che riuscì a stringere i denti e restare in piedi, nonostante il dolore. Si spinse contro Lucas cercando di spingerlo verso l’uscita, mentre l’uomo, per nulla soddisfatto del fatto che lui non fosse crollato dopo il primo colpo, faceva di nuovo fuoco.
Bang.
Questa volta Henry non rispondeva più del proprio corpo e vide il pavimento lucido del laboratorio brillare a pochi centimetri dai propri occhi. Doveva essere caduto a terra. Probabilmente sarebbe morto nel giro di pochi secondi.
“Henry!”, sentì gridare, ma non riuscì a distinguere la voce: era stata Jo o Lucas a gridare? I suoi pensieri si fusero in un vortice irriconoscibile di nero e grigio, e poi, un istante dopo, si ritrovò ad annaspare nell’acqua.
 
Lucas aveva sempre avuto una passione per i supereroi. E per le armi. Per i combattimenti. Quante volte aveva sognato di essere una superspia, un artificiere che disinnescava una bomba su un treno in corsa, un agente segreto che si buttava con il paracadute da un aereo in picchiata? Eppure, tutte le sue fantasie erano andate in fumo quando si era ritrovato quella canna di pistola puntata contro. Si era sentito gelare dentro. In quel momento la sua vita era in pericolo. In vero pericolo, non in quel pericolo fittizio di cui lui si immaginava il protagonista. E lui non aveva la più pallida idea di cosa fare.
“Sul tavolo, alle mie spalle”, stava dicendo Henry.
Come in un sogno, in cui gli avvenimenti si susseguono senza averne piena consapevolezza, vide Henry posizionarsi davanti a lui. Lucas avrebbe voluto fare o dire qualcosa, ma aveva la mente completamente svuotata. Henry sembrava calmo. Come faceva a essere così calmo?
Spaziba”. Lucas non capiva, il suo cervello stava lavorando al rallentatore, ma il suo corpo percepì il pericolo e sentì i peli rizzarsi sulle sue braccia.
Bang.
Lucas aprì la bocca per gridare ma non ne uscì alcun suono. Percepì il corpo di Henry, davanti a lui, che sussultava. Era stato colpito? Ma era ancora in piedi, no, forse il tipo aveva sbagliato mira, aveva… Henry non poteva essere stato colpito… non stava succedendo davvero…
Bang.
Sentì un gemito trattenuto da parte di Henry e poi lo vide crollare a terra. Lucas guardò a terra, incapace di mettere a fuoco. Henry… non poteva essere vero… era a terra… scorse del rosso sul pavimento… Lucas alzò lo sguardo e vide la pistola puntata verso di sé.
Bang.
Lucas rimase immobile per un lungo, interminabile istante, in cui si aspettò che arrivasse il dolore. E invece, non arrivò nulla. L’uomo con la pistola, invece, crollò. Solo allora Lucas scorse Jo avanzare con la pistola in mano, girare circospetta attorno ai tavoli dell’autopsia, continuare a tenere sotto tiro l’uomo a terra e intanto gettare un’occhiata a lui e Henry.
“Henry!”, si lasciò sfuggire a quel punto Lucas, come se la presenza di Jo lo avesse sbloccato dal suo stato pietrificato, “Henry! Henry!”
Si chinò su di lui e la vista del sangue che gli sgorgava dal petto lo pietrificò di nuovo.
“Jo!”, urlò, “Jo, chiama qualcuno! Jo!”
Perché Jo non si muoveva? Jo lanciò uno sguardo verso l’ingresso del laboratorio, da cui risuonavano dei passi e delle grida. Poi guardò velocemente Henry, e Lucas. Alla fine disse, con tono fermo ma urgente:
“Lucas, ascoltami bene. Henry non era qui. Mi hai capito? Appena gli altri arriveranno, dovrai dire che eri da solo, qui in laboratorio.”
“Ma che stai dicendo?”, ribatté Lucas con tono disperato, “Jo, devi chiamare un’ambulanza! Presto!”
“No, Lucas”, Jo lo afferrò per il braccio e lo fissò dritto negli occhi, “Non c’è tempo, mi capisci? Devi ascoltarmi. Quello che vedrai ora non è mai successo. Dovrai mentire, e dire che Henry non era qua con te. Dovrai dire che era uscito, mi hai capito bene?”
No, Lucas non aveva capito. Stava per replicare, quando un fascio di luce improvvisa quasi lo accecò. Anche Jo sussultò, ma mantenne saldamente la presa sul suo braccio, come per impedirgli di parlare. La luce svanì, e Lucas si voltò verso il corpo di Henr… immobile, Lucas si ritrovò a bocca aperta, a fissare il pavimento… vuoto. C’era una macchia di sangue sul pavimento, ma per il resto… Henry… non c’era più.
“Lucas!!”, lo richiamò Jo con urgenza, “Il tizio è entrato, tu sei riuscito a chiamarmi, sono arrivata in tempo prima che ti sparasse. Ok? Mi hai capito? Henry non era qui.”
Lucas annuì, come in trance. Jo afferrò un sacco da cadavere e lo gettò in malo modo sulla macchia di sangue sul pavimento. In quel momento Hanson, il capitano e altri cinque agenti fecero irruzione nel laboratorio.
“Che cazzo è successo?”, esclamò Hanson, la pistola sfoderata. Guardò Lucas, pallido e imbambolato, Jo, affannata e con un’espressione grave in volto, il tizio a terra, con la pistola in una mano e il sacchetto di droga nell’altra.
“Questo tizio si è introdotto nel laboratorio e ha cercato di sparare a Lucas”, spiegò Jo lanciando continue occhiate allarmate a Lucas.
“Da dove è spuntato quel sacchetto di droga?”, chiese il capitano chinandosi sul corpo dell’assalitore.
“Io e Henry stavamo facendo l’autopsia e…”, cominciò Lucas, poi si interruppe davanti all’espressione di Jo, che sembrava urlargli silenziosamente: Henry non era qui!
“…. Poi Henry ha ricevuta una telefonata da… Abe. Da Abe. Un’emergenza, non so… è dovuto uscire, e mi ha detto di terminare l’autopsia”. Lucas deglutì, sudando copiosamente a ogni parola falsa che diceva, “… e allora ho aperto lo stomaco, e ho visto il sacchetto di droga. Stavo per chiamare Jo quando il tizio è comparso e mi ha… mi ha minacciato, voleva il sacchetto. Allora io gli ho indicato il sacchetto e… poi mi stava per sparare ma… Jo è arrivata in tempo”, concluse Lucas con un sospiro nervoso.
“Ma come hai fatto, Jo, a capire che c’era qualcosa che non andava?”, chiese Hanson confuso.
“Lucas ha fatto partire una telefonata dal cellulare. Vero, Lucas?”, Jo gli lanciò un’occhiata eloquente, “Sei stato bravissimo”.
“Sì, io, ecco…”, Lucas balbettò e arrossì, “Lui si era girato e… ne ho approfittato…”
“Sei stato in gamba, Lucas”, Hanson gli diede una pacca sulla spalla a mo’ di incoraggiamento.
“Richiamate subito Henry”, ordinò il capitano scrutando l’ambiente con occhi indagatori, “Che scopra chi è quel tizio con la droga nello stomaco. Jo, occupati tu del resto. Lucas, tu puoi andare a casa. Te lo meriti.”
“No!”, esclamò Lucas arrossendo, “Io… io resto. Voglio aspettare… Henry.” Detto questo guardò Jo, come a chiederle conferma, lei che sembrava sapere cose di cui lui era all’oscuro, del fatto che Henry sarebbe tornato. Jo lo rassicurò con un cenno del capo.
Un quarto d’ora dopo, dopo che il cadavere dell’assalitore era stato spostato, e dopo che Jo e Lucas erano riusciti miracolosamente a far sparire la macchia di sangue senza che nessuno se ne accorgesse, Henry fece il suo ingresso in laboratorio. Si era vestito il più possibile in maniera simile a prima, nascondendo le differenze sotto il camice, e aveva assunto una falsa espressione di sorpresa. Jo notò che aveva ancora le punte dei capelli bagnate.
“Lucas! Stai bene?”, gli chiese, “Ho saputo cosa è successo”. Gli ultimi due tecnici rimasti in laboratorio stavano uscendo in quel momento.  
“Henry…?”, balbettò Lucas, sbattendo più volte le palpebre, “Henry, sei tu?”
Appurato che non c’era nessun altro nelle vicinanze, Henry abbandonò il suo atteggiamento faccio-finta-di-niente e si rivolse a Lucas con espressione serissima.
“Lucas”, gli pose una mano sulla spalla come per porre maggiore incisione sulle sue parole, “Quello che hai visto, non lo devi dire a nessuno, capito? A nessuno”.
“Io non… io non so nemmeno che cosa ho visto”, replicò Lucas.
“È una lunga storia”, intervenne Jo, con un occhiolino a beneficio di Henry.
“Ma…. Ma sei davvero tu?”, chiese di nuovo Lucas, “Ma le ferite? Le pallottole?”
Henry aprì il camice e scostò leggermente la camicia, per fargli vedere che era tutto intero. Lucas lo fissava a occhi spalancati.
“Questa cosa, qualunque cosa sia...”, balbettò, “È la cosa più straordinaria che abbia mai visto in tutta la mia vita.” Poi, con una specie di esclamazione borbottata (Gesù Cristo!), Lucas lo abbracciò.
Henry sospirò impercettibilmente di sollievo, Jo anche. Henry non riusciva a credere che dal totale anonimato in cui aveva vissuto per anni, ora ben due persone erano a conoscenza della sua condizione. O almeno, una persona e mezza, dal momento che Lucas non sapeva ancora nulla.
“Lucas… va bene, Lucas, grazie.” Henry lo allontanò, imbarazzato, “Ti spiegherò tutto, però non qui, ok? Passa stasera in negozio, dopo il lavoro”.
“Va bene”, Lucas annuì senza esitare, “Non sai che sollievo vedere che stai bene. Gesù Cristo, sono morto di paura”.  
Henry quasi indietreggiò, di fronte a tutta quella manifestazione di affetto a cui non era abituato. Jo sorrise, commossa.
“Vedrai, Lucas”, gli disse con una pacca sulla spalla, “Sarà la cosa più incredibile della tua vita”.
 
“Gesù Cristo”, continuava a borbottare Lucas, camminando avanti e indietro nel salotto di Henry. Henry e Jo erano seduti sul divano, nello stesso punto in cui Jo aveva sfogliato il famoso album dei ricordi di Henry. Abe era seduto in poltrona. Lucas si era rifiutato di sedersi, e non faceva altro che percorrere a grandi passi la stanza, a volte accennando un saltello per l’entusiasmo. Aveva sfogliato l’album, aveva ascoltato con stupore crescente le parole di Henry, aveva lanciato occhiate esterrefatte a Jo, che annuiva inconsciamente a conferma di quanto detto. Inutile dire che Lucas gli aveva creduto immediatamente, sia per aver assistito dal vivo alla sua scomparsa, sia perché la sua mente piena di fantasia non poteva desiderare storia migliore.
“E tu come lo hai scoperto, Jo? È morto durante una delle vostre indagini?”, chiese Lucas a un certo punto.
“Non proprio. Ho trovato una sua vecchia fotografia”, rispose Jo lanciando un’occhiata interrogativa a Henry, chiedendogli tacitamente il permesso di affrontare la questione Adam. Henry fece un cenno del capo e prese lui in mano il discorso.
“Questa era solo l’introduzione”, disse, “C’è ancora tantissimo da dire, ma ti farò un riassunto”.
Raccontò allora delle persecuzioni di Adam, del tentativo di Henry di fermarlo dandogli il pugnale, dello scontro in metropolitana, della scoperta di Jo.
“Ora capisco la tua ansia per quel pugnale”, annuì Lucas, pensieroso, “E anche perché eri così preso da quel cadavere che abbiamo trovato sulla nave. Voglio dire, è affascinante l’idea di risolvere un omicidio vecchio di due secoli, ma mi sembrava troppo anche per te”.
“Da che pulpito, Lucas”, lo rimproverò Henry scherzosamente, “Proprio tu che ogni tanto ti metti a blaterare di assassini zombie o di guerrieri ninja”.
Jo rise, Lucas incassò il colpo con un sorriso. Poi chiese ancora, rivolto ad Abe:
“E tu, Abe? Tu come lo hai scoperto, da quanto lo sai?”
La questione della paternità di Henry non era ancora spuntata fuori, e Abe ed Henry si lanciarono una delle loro occhiate complici.
“Beh, diciamo che conosco Henry da sempre, quindi era inevitabile che mi accorgessi di qualcosa”, rispose diplomaticamente Abe, poi sembrò riflettere su quale fosse il modo migliore di rivelare la cosa. “Lucas, tu lo sai qual è il mio nome? Voglio dire il mio nome per intero?”
“Abe…”, partì Lucas, ma poi si bloccò, riflettendo, “No, in effetti non lo so. Abe per cosa sta?”
Abe non disse nulla ed estrasse il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, allungando poi a Lucas il proprio passaporto.
Lucas lo aprì e lesse ad alta voce:
“Abraham Morg…”, si interruppe, rileggendo il cognome, “Morgan? Cioè, voi due siete parenti?” Il suo sguardo li scrutò velocemente. “Abe!! Non sarai mica il padre di Henry?”
Abe si lasciò sfuggire una risata, imitato da Jo, ed Henry alzò gli occhi al cielo.
“Lucas, se ti ho detto che sono morto più di duecento anni fa, com’è possibile che Abe sia mio padre?”
“Ah già”. Lucas si grattò il collo, imbarazzato. Poi uno sguardo di comprensione gli illuminò il viso. “Aspettate… aspettate un attimo…non sarà mica il contrario? Cioè… Henry, tu sei il padre di Abe??”
“Bravo, Lucas, ci sei arrivato”, confermò Henry con un cenno.
“Gesù Cristo”. Lucas riprese la sua camminata avanti e indietro. “Abe, quindi quando sei venuto da me a chiedermi aiuto per ritrovare tua madre, in realtà stavi indagando su…”
“… su mia moglie”, completò Henry senza riuscire a nascondere una nota di dolore.
“E non volevi che Henry lo sapesse”, continuò Lucas. “Gesù Cristo”.
“Lucas, se ripeti Gesù Cristo un’altra volta, giuro che ti sparo”, sospirò Jo, appoggiandosi allo schienale del divano.
“Quindi era di questo che continuavate a confabulare voi due, vero? Mi sembravate strani, ultimamente…”
Henry e Jo si scambiarono un’occhiata, attraversati contemporaneamente dallo stesso pensiero. Henry annuì impercettibilmente, ma lasciò a Jo il compito di decidere se parlare o meno.
“In realtà”, cominciò Jo, sentendosi in imbarazzo anche se non ne aveva motivo, “Visto che siamo in tema di rivelazioni, c’è un’altra cosa che dobbiamo dirti”.
Dobbiamo?”, a Lucas non sfuggì il plurale e si bloccò davanti a loro, “Jo, non sarai mica un supereroe anche tu, vero? Non dirmi che sai volare o cose del genere”.
“Mah no, Lucas!”, esclamò Jo alzando gli occhi al cielo, “È una cosa molto più semplice. Insomma, da quando ho scoperto della… situazione di Henry, ecco, da allora…”
Vedendola in difficoltà con le parole, Henry terminò al posto suo:
“… da allora stiamo insieme”.
Lucas spalancò gli occhi e alzò le braccia al cielo in una specie di gesto di vittoria.
Insieme? Cioè insieme nel senso di coppia?” Dopo che sia Henry che Jo annuirono con un cenno del capo, Lucas esclamò: “Lo sapevo! Lo sapevo! Sto male, ragazzi, sto male. Dopo oggi giuro che non mi stupirò più di niente. Siete… siete i miei eroi. Anzi, i miei idoli. Il dottore immortale e la super detective insieme contro il crimine di New York. Sto male”.
“Sono io che sto male”, borbottò Abe alzando le sopracciglia, “Ma è sempre così anche al lavoro?”
“No, a volte è peggio”, rispose Henry.
“Oh, andiamo ragazzi!! Non potete tarparmi le ali in questo modo!! Non con tutte le rivelazioni che mi avete fatto oggi!”
“Rivelazioni che devono rimanere segrete, Lucas, capito?”, lo interruppe Henry con uno sguardo eloquente.
“Compresa la relazione”, aggiunse Jo, “Finché non decidiamo a chi dirlo e come dirlo”.
“Devi esserne felice, Lucas, sei un privilegiato. Sei l’unico che sa tutto”, osservò Henry.
 “Sì, certo, state tranquilli ragazzi, non vi deluderò. Sarò… muto come una tomba”, e fece l’occhiolino a Henry.
“… era una battuta?”, chiese Abe.
“Temo di sì”, risposero Henry e Jo contemporaneamente.
Lucas però sembrava così felice del suo nuovo ruolo di confidente esclusivo che non si accorse della loro battuta a sue spese.
Dopo qualche altro percorso avanti e indietro nella stanza, un paio di Gesù Cristo e anche qualche fantastico, Lucas si fermò e si fece improvvisamente serio.
“Henry, scusa, non ti ho detto la cosa più importante”. Henry si irrigidì di fronte a quel cambiamento repentino nell’atteggiamento di Lucas. Aveva sempre paura di qualche reazione inaspettata nei suoi confronti. Lucas sospirò e disse:
“Grazie. Mi hai salvato la vita, in quel laboratorio. Se non ti fossi messo in mezzo, Jo non sarebbe arrivata in tempo e io a quest’ora sarei su uno dei nostri tavoli, tagliato in due. Quindi… grazie.”
Si sporse verso di lui, seduto sul divano, e lo abbracciò.
Era il secondo abbraccio in una giornata e Henry rimase immobile, imbarazzato.
“Va bene, Lucas, ok”, disse allontanandolo delicatamente, “Ma dopo oggi niente più abbracci, ok?”
“Non è abituato”, scherzò Abe, “Gli uomini del suo secolo mica si abbracciavano, si ammazzavano ai duelli e basta”.
“Non mi dire che sei capace a usare la spada”, la serietà di Lucas svanì, sostituita di nuovo dal suo incontenibile entusiasmo.
“Beh, sono un po’ arrugginito, però era costume che i gentiluomini sapessero tirare di scherma. Mio padre mi prese un precettore quando avevo cinque anni”.
“Gesù Cristo”, esclamò Lucas.
Jo alzò gli occhi al cielo.
   
 
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