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Autore: heather16    25/09/2016    1 recensioni
"La stanza vuota, la luce bianca, il tavolo spoglio. Sulla sedia, in divisa arancione, un uomo. Le spaventose testate su quel folle terrorista erano apparse sui giornali per mesi interi. Il viso, iconico per quella densa crema bianca che lo ricopriva, era struccato e pulito. I capelli, sporchi, ricadevano sugli occhi. Il capo era reclinato verso il basso."
ecco il prequel della mia storia "Midnight in Gotham"... spero vi piaccia!
Genere: Dark, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Harley Quinn, Joker
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Joker'
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-Vorrei delle spiegazioni sulla scelta di sedare il mio paziente.- Harleen, rossa in viso,  tentava di mantenere un atteggiamento professionale.
Il dottor Arkham sedeva di fronte a lei. Si sistemò gli occhiali sul naso, passò la sua grande mano magra sul lucido cranio rasato. –Dottoressa Quinzel… il nostro, il suo paziente, è un caso molto difficile, come lei avrà di certo notato. Nei primi tempi non veniva sedato, ma ci sono state delle complicazioni. Ha convinto le guardie a lasciarlo uscire per ben due volte; e la cosa più scomoda per noi dell’Arkham Asylum, è stata il fatto che LUI non se ne è banalmente andato via, anzi, non ha nemmeno lasciato l’edificio. Semplicemente si è recato nella sala controlli, e ha aperto le celle di tutti i detenuti. Poi, mentre gli agenti di sicurezza tentavano di bloccare le uscite, lui è sparito. Quando siamo riusciti a ripristinare l’ordine, ci siamo resi conto della sua mancanza. Lo abbiamo trovato negli spogliatoi dei dottori. Aveva rubato dei trucchi da una borsetta e si era mascherato da clown. Ci sono voluti quattro uomini per riportarlo… al sicuro nella sua area di detenzione. È finito in massima sicurezza per un paio di settimane, poi ci siamo resi conto che dava problemi anche lì. Finiva sempre per assalire gli inservienti che gli consegnavano i pasti. Abbiamo pensato che fargli cominciare delle sessioni di terapia, impiegando un dottore dopo l’altro, sarebbe potuta essere la soluzione. Durante le sedure ha ripetuto soltanto, fino allo sfinimento “gondolieri”. Abbiamo capito il suo ultimatum, voleva tornare in minima sicurezza. Lo abbiamo accontentato, ma non potevamo avere gli stessi problemi dell’inizio. Sedarlo è stata l’unica scelta possibile.-
-Le sembra etico, dottor Arkham?-
Il direttore sospirò. Si tolse gli occhiali, li piegò, li poggiò sul tavolo. Incrociò le mani, poi si rivolse ad Harleen con un tono sinceramente formale. –Ascolti Harleen. Io ho sempre avuto un obbiettivo, sin da quando ero piccolo. Volevo dirigere l’Arkham Asylum, perché speravo e spero ancora che grazie alle nostre cure i pazienti possano un giorno… guarire, inserirsi nuovamente nella società. Ma il Joker…. Mi creda, io ci ho provato. Sono stato io il suo dottore, per le prime sedute. Quello che ho visto, o meglio quello che non ho visto, mi ha lasciato scioccato. In quell’essere non c’è nulla di umano, di curabile. Non uno spiraglio di sentimenti, nulla. È qualcosa che io non ho mai riscontrato in nessun paziente. Potrei stare ore ad elencarle le patologie di questo detenuto, e lei potrebbe fare lo stesso, ma al termine di questa lunga lista entrambi  arriveremmo alla conclusione che tutto ciò che abbiamo potuto riscontrare di sbagliato in lui è assolutamente inutile per aprire uno spiraglio nel processo di terapia. Io le ho voluto dare questo paziente perché… lei è giovane, una ventata di aria fresca per quest’ospedale, e ancora nutro dei buoni presentimenti riguardo al suo arrivo qui ad Arkham, ma forse nemmeno Lei è ingradodi aiutarlo. In tutta franchezza, se lei volesse lasciar perdere con questa terapia, io la appoggerei totalmente, e  la sua carriera non ne sarebbe compromessa.-
Harleen guardava con occhi sbarrati il direttore. Una parte di lei, nonostante le parole dell’uomo fossero tutt’altro che critiche, vedeva l’intervento di Jeremiah Arkham come un affronto alla sua intelligenza. E quel pensiero, Harleen non riuscì proprio ad ignorarlo. Sul collo le comparve una vena pulsante. La sua voce era decisa, brillante di arroganza. –Io credo invece che la mia terapia curerà il paziente. Ho colto tante sfaccettature del suo carattere, sfaccettature non da poco. Dottor Arkham, esistono dei sistemi creati da professori, da geni, che danno esiti soddisfacenti a livello matematico. La mente è scienza, e la scienza non ammette interpretazioni. Per quanto danneggiato, alterato, il suo cervello è un organo assolutamente normale, conosciuto e studiato nei minimi dettagli da chirurghi, neuropsichiatri, studiosi. Le chiedo soltanto del tempo.-
-Dottoressa Quinzel…-
-E di leggere più informazioni su di lui. Sento che non mi è stato detto tutto. La prego, direttore! Il mio unico scopo è quello di guarire questo paziente!-
il vero obbiettivo della dottoressa era in realtà quello di dimostrare, provare a quell’essere che lei sarebbe riuscirla a piegarlo, a capirlo, che la medicina avrebbe vinto sulla mente, che lei avrebbe vinto su di lui! Ma questo il direttore non lo sapeva. E in fondo, non lo sapeva neanche Harleen.
L’uomo sospirò.
-Bene, Le lascerò ancora questo paziente.-
-Elimini la sedazione.
-D’accordo.-
-E vorrei un’autorizzazione per visitaregli archivi della polizia.-
-Lei gioca con il fuoco, dottoressa.-
-La vera abilità non sta nel giocare con il fuoco, ma nel riuscire a non scottarsi.- “Ma cosa dico?” Harleen rimase stupita da se stessa. Aveva appena detto una di quelle frasi brillanti che non riusciva mai ad usare per rispondere a tono a chi se lo meritava. E ora lo aveva appena fatto, con il suo datore di lavoro. Ma il signor Arkham era un uomo buono, paziente. Non disse nulla. Sorrise, si congedò dalla dottoressa.
Quando Harleen uscì dall’ingresso dell’ospedale un freddo vento invernale le schiaffeggiò il viso. Era stanca, e non aveva mangiato nulla per pranzo, ma non voleva andare a casa. “Voglio quelle cartelle della polizia. Voglio parlare con chi lo ricercava.”
Salì in macchina. Il caldo elettrico del riscaldamento la avvolse in un abbraccio. Si tolse la sciarpa arancione, appoggiandola sul sedile del passeggero. Pulì il vetro appannato con il gomito della giacca. Sotto indossava ancora il camice. Si diresse alla stazione di polizia. I corridoi erano freddi, spogli alle pareti, illuminati da una triste luce bianca e pieni di gente. Uomini seduti su scomode sedie di legno, prostitute scortate malamente da un agente, persino un uomo in manette.
-Posso aiutarla?- dall’altra parte del vetro dell’ufficio un ragazzo. Magrissimo, i capelli a spazzola.
-Vorrei accedere agli archivi. Sono una psichiatra, ho in cura un soggetto di cui sicuramente avete qualcosa.-
-Senza un’autorizzazione non posso consegnarle materiale dello stato, mi disp…-
-Io ho un’autorizzazione... La avrò! Domani il mio capo chiamerà chi di dovere, e sarà tutto a posto. Ma io ne ho bisogno ora, di quei fascicoli!-
-Signorina, le ripeto che purtroppo non è possibile.-
-Il Joker! È lui il paziente che ho in cura! È più importante rispettare una sciocca formalità o guarire un pazzo criminale?-
-Mi dispiace, non le faccio io le regole qui.-
 Harleen si allontanò a passi veloci e pesanti.
La sua casa era al terzo piano di una lussuosa palazzina. Aveva cercato di rendere quel posto il più accogliente possibile, voleva poter credere di essere al sicuro. Da piccola suo padre le diceva sempre “niente è bello come tornare a casa propria e lasciarsi i brutti pensieri alle spalle”; ma i brutti pensieri di Harleen erano ben ancorati al suo cervello, e la sua famiglia la faceva sentire tutt’altro che a casa. A quindici anni aveva incominciato a fumare. La madre lo sapeva, e Harleen sapeva che lei sapeva. Nessuno ne parlò mai.
I suoi genitori dicevano un sacco di bugie. Ai parenti, agli amici, ai colleghi di lavoro. Ad Harleen la cosa faceva ridere da bambina, i suoi erano come degli agenti segreti, ma crescendo iniziò a chiedersi se tutte quelle bugie non fossero state raccontate anche a lei. E da allora mamma e papà vestirono per lei le maschere dell’ambiguità, della bugia. L’adolescente bionda così alta rispetto alle altre ragazze iniziò a vivere nell’angoscia, nella paranoia. Di chi fidarsi? E se fossero stati tutti bugiardi? Tutti falsi?
Solo quando il telefono squillò Harleen alzò lo sguardo verso l’orologio. Le nove e un quarto, e non aveva ancora mangiato. Sollevò la cornetta del telefono. La voce squillante di Clare risuonò distorta dalla linea.
-Harl, ti ho chiamato questo pomerggio, dov’eri?-
-Al lavoro, dove vuoi che fossi?-
-Ah giusto, che stupida! Ti va di uscire?-
-Lo sai che non posso! Devo studiare! Ho in caso difficile che davvero non…-
-Sì, come ti pare.-
La bionda sospirò. –Scusami. Lo sai che sono incasinata. Questo lavoro mi sta uccidendo, è come se dovessi  dimostrare ogni giorno di sapere qualcosa di più!-
-Harl, sei tu che te lo immagini, non puoi fare più di così! Smettila di farti tanti problemi! Comunque dimmi tu quando sei libera, ci dobbiamo vedere!-
-Assolutamente. Ti faccio sapere!- Harleen sperò tanto di non essere come suo padre; si augurò di mantenere la promessa, di non aver detto una bugia.
Andò in cucina, mise nel microonde la tazza di caffè ancora piena che non aveva fatto in tempo a bere quella mattina a colazione. Aprì il frigorifero: prosciutto, pane, un po’ di formaggio. Tanto, tantissimo yogurt.
Per la prima volta Harleen odiò il suo frigorifero. Tutto era così banale. Così… tipico.
“Deve essere pronta a spogliarsi della sua divisa, del suo studio, se vuole sapere cosa sono io! Una rinascita, la regina è morta, ecco la nuova donna!”
Quelle parole frullavano nella sua mente, senza volersene andare via. Il telefono squillò di nuovo.
-Pronto?-
Una voce maschile, allegra, dall’altra parte del telefono. Così familiare che le sembrava di averla già sentita.
-Hai chiesto di mister J. Bambolina!-
Harleen fece per buttare giù la cornetta, ma una strana forza di agghiacciante terrore la costrinse a restare immobile. La voce parlò ancora:-Sono stati cattivi con te alla polizia, non è vero? Sono dei maleducati quelli, lasciali perdere! Ascolta me. Al numero quindici di Wale Avenue. È un bel posticino, ti divertirai. E non dimenticare gli spilli.-
La linea cadde. La voce familiare ed allegra sparì. Harleen rimase immobile per un secondo. Le sue gambe cedettero. Un brivido gelido le corse su per la schiena. La seguivano. Ma chi? Come? Sapevano cosa stava cercando.
E poi, di nuovo quella forza, quell’energia che le tornò in circolo come una botta di adrenalina. Non sapeva nemmeno quel che faceva, ma lo fece. Sollevò la cornetta, compose il numero.
-Pronto?- la voce stupita all’altro capo del telefono.
-Clare, vestiti. Stasera usciamo.-
  
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