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Autore: _ A r i a    27/09/2016    2 recensioni
♟ Storia ad OC | Iscrizioni chiuse ♟
È piuttosto singolare trovare una piccola stradina secondaria, nella Londra moderna, peraltro dove l’invadente asfalto non sia arrivato e dei ciottoli irregolari premano sotto le suole delle scarpe.
Eppure, a quanto pare, è proprio così.
Amelia ricontrolla l’indirizzo, segnato su un pezzo di carta piccolo e vecchio, piuttosto sgualcito.
L’inchiostro nero è un po’ sbiadito, non si meraviglierebbe di essere nel posto sbagliato… in effetti ha paura che qualche strano individuo sbuchi fuori dal nulla da un momento all’altro.
Se non fosse per la piccola bottega di legno che si trova ora davanti agli occhi.
È un posto piuttosto particolare, con tutte le pareti di legno e una vetrata all’ingresso, piccoli quadrati trasparenti ricoperti da uno spesso strato di polvere divisi tra loro da piccole strisce di mogano non esattamente definibile “in ottimo stato”.
C’è anche un’insegna, solo che è parecchio in alto e Amelia decide di non tentare la fortuna e le sue – scarse – abilità di equilibrista nell’arrampicarsi su delle casse malridotte lì al lato per controllare il nome di quel posto.
Genere: Azione, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Jude/Yuuto, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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« Non è vero che abbiamo poco tempo:
la verità è che ne perdiamo molto »    
– Seneca –
 
Chapter six
Resistance

♟» Londra, Regno Unito, 2059

Amos si appoggia al muro di mattoni alle sue spalle, gli occhi chiusi e la fronte imperlata di sudore, mentre prende ampie boccate d’ossigeno, cercando di scacciare la sensazione di nausea.
È incredibile come l’inizio di tutti i suoi guai sia esattamente riconducibile al momento in cui si è imbattuto in quell’Orologio. Maledizione a lui e alla sua passione per l’antichità, insomma.
Quello stano oggetto ancora arde e pulsa di energia pura, sotto i vari strati di vestiti che quel giorno indossa. È dicembre inoltrato, il clima ucraino è rigido e impietoso come al solito.
O meglio, lui si è preparato in modo consono a trascorrere un’ennesima giornata esposto al gelo invernale delle pianure della sua terra, anche se è abbastanza certo che ora non si trovi più presso le sue regioni natie.
All’improvviso l’Orologio si è acceso di un’intensa luce grigiastra, assumendo un calore ben poco rassicurante. Col passare dei minuti, né la temperatura né il bagliore avevano dato segni di diminuzione, al contrario continuando ad aumentare sempre di più, fino a quando entrambe erano culminate in una sorta di esplosione intensa.
Un attimo prima era assolutamente certo di trovarsi in Ucraina… e quello dopo eccolo lì, in una stradina laterale. Di che città, esattamente?
Due anziane passano lì accanto, mormorando qualcosa di ben poco rassicurante in un inglese rapidissimo e fluido, mentre continuano a tirare dritto lungo la via principale, fissando Amos con sguardi di biasimo.
Il ragazzo corruga la fronte: non credeva di aver commesso qualcosa di tanto sbagliato. Beh, suvvia, da quando in qua apparire dal nulla nel bel mezzo di una città era vietato? Specie se tutto ciò – chiaramente – accadeva contro la propria volontà.
Perché, va specificato, Amos non ha fatto proprio un bel niente per cacciarsi in quel danno, giacché, a quanto gli risulta, essere affascinati da un orologio notato per caso in un negozio di antiquariato non è ancora un reato. Stava camminando tranquillamente e civilmente, quando è successo… beh, tutto.
Sposta lo sguardo di lato, concordando con il proprio inconscio che la cosa migliore da fare in quel momento sia cercare di capire dove si trovi, così da poter chiedere aiuto ed eventualmente trovare il modo per tornare a casa, qualora non ci si trovi – e ad Amos pare essere abbastanza palese che non sia cosi.       
 Il fatto che le due anziane di poco prima parlassero inglese non lo aiuta poi molto, dopotutto l’inglese è la lingua più parlata del mondo, anche se crede che se fosse stato ancora in Ucraina due signore di quell’età avrebbero parlato la loro lingua, non certo l’inglese.
Lo scorcio che i suoi occhi catturano è quello di un ampio viale, le strade asfaltate costellate di platani, scivolano via leggere, mentre la luce grigiastra del mattino accompagna il placido scorrere di un fiume, poco distante da lì.
«È il Tamigi» sente affermare qualcuno alle sue spalle, la voce roca e affaticata.
Amos si volta, in un impeto di curiosità, forse con troppa avventatezza. La testa gli vortica nuovamente, attentando alla sua già precaria situazione eretta.
Si ritrova a fissare un ragazzo – avrà all’incirca la sua età – dai lunghi capelli neri raccolti in una coda e la pelle ambrata, che sembra aver assunto una colorazione malaticcia.
Niente a che vedere con la sua carnagione pallida e la zazzera di capelli castani, tenuti sempre rigorosamente ordinati sulla testa.
«Uhm, okay» commenta Amos, sistemandosi gli occhiali con un gesto quasi meccanico «il punto è che sarebbe carino capire come io ci sia arrivato qui, visto che sono piuttosto certo sul fatto che, fino a pochi istanti fa, mi trovassi a—»
Non fa in tempo a finire la frase, perché – da dietro le lenti d’occhiale – i suoi occhi hanno appena notato un particolare non irrilevante: il ragazzo davanti a sé, infatti, ha un orologio proprio come il suo, che pende dal collo, in parte nascosto tra la sciarpa di seta verdina e la giacca di pelle da esploratore.
«M-ma quello è…» tenta di esclamare Amos, tuttavia è fin troppo sbigottito per riuscire a terminare la frase, così si limita a puntare l’indice verso l’orologio dell’altro.
Il tizio davanti a lui sposta lo sguardo sul proprio orologio, per poi portarlo nuovamente su quello strano ragazzo, ripetendo l’azione diverse volte.
Lui, l’altro, lui, l’altro, lui, l’altro.
Il giovane dalla pelle ambrata si lascia sfuggire una risatina leggermente nervosa, passandosi una mano tra i capelli.
«Ma che razza di storia è mai questa?» domanda, inarcando le sopracciglia.
«Credimi, vorrei saperlo anch’io» ammette Amos, sfoggiando un perfetto inglese «un momento prima stavo camminando per andare al lavoro, verso il ristorante dove mi hanno assunto come cameriere, e quello dopo eccomi qui, a… Londra? Come diavolo ci sono finito, qui? Io vivo in Ucraina».
«Non dirlo a me» il giovane scuote la testa, incredulo «un attimo fa stavo facendo colazione con dei pancake, comodamente seduto nella cucina di un appartamento qui sul lungofiume».
«Aspetta, tu vivi qui?» Amos è sempre più esterrefatto, deve sbattere le palpebre un paio di volte prima di rendersi conto che non sta sognando.
«Sì, anche se al momento ero a casa di un amico. Comunque, questo adesso non importa» replica prontamente l’altro ragazzo, affrettandosi a cambiare argomento.
«Ad ogni modo, tu chi sei?» le parole sgorgano fuori dalle labbra di Amos prima che lui se ne possa rendere conto, non ha il tempo materiale per poterle fermare.
Il giovane dalla pelle ambrata sospira pesantemente prima di rispondere:«Mi chiamo Atemu McKinley, sono nato in Egitto ma vivo ormai a Londra da parecchi anni. E si dà il caso che potrei farti esattamente la stessa domanda».
«Amos Akolzin, piacere» si presenta in fretta il nuovo arrivato, allungando la mano verso Atemu.
In un primo momento l’inglese sembra indugiare, poco dopo però stringe lo stesso la mano di Amos, non senza un certo cipiglio dubbioso ben visibile sul volto.
«E così sei ucraino, mh?» Atemu si concentra sul colore della pelle delle loro mani stette, il suo caffelatte contro l’alabastro del nuovo venuto.
«Già, una roba da non crederci» Amos sembra scalpitare sul posto, per quanto quella situazione gli suona così nuova e strana, piena zeppa di nuovi dettagli tutti da scoprire «ti dispiace se do un’occhiata a quello? Non ne avevo mai visto un altro».
«Sì, certo» Atemu osserva confuso il nuovo ragazzo, mentre lo sente armeggiare con il suo Orologio.
Amos lascia scorrere le dita lungo la superficie levigata dal tempo di quel manufatto, perdendosi nei dettagli d’ottone. A quanto pare, anche stavolta la sua fascinazione per l’antichità non stenta a farsi sentire.
«È diverso dal mio» esclama di lì a poco il giovane ucraino, i suoi polpastrelli esperti che hanno già scoperto l’arcano.
«In che senso?» gli domanda Atemu, anche lui ormai non riesce più a tenere a freno la curiosità.
Subito Amos volta i loro due Orologi, mostrandone il retro al ragazzo appena conosciuto.
«Vedi?» lo interroga l’ucraino, certo di avere assolutamente ragione «sul mio ci sono delle ruote dentate, mentre sul tuo la rappresentazione del mondo – che, a proposito, è proprio una gran figata. Però si vede che a realizzarli è stato lo stesso artigiano, perché i dettagli, le tacche, i tratti incisi a mano sono stati visibilmente realizzati dalla stessa persona, lo stile è proprio quello!»   
«L’hai trovato in un negozio d’antiquariato come me?» si sente domandare ancora subito dopo, un fiume di parole che per un momento fa temere ad Atemu di finire del tutto in confusione.
«No» riesce a rispondere infine, una volta riacquisito un minimo di polso fermo necessario «a dir la verità è stato mio padre a consegnarmelo, conoscendo la mia passione per gli orologi…»
«Io invece sì» sentono invece ribattere da una terza voce, proveniente dalle loro spalle.
Subito i due ragazzi si voltano, ritrovandosi ad osservare la figura di una giovane, tutta intenta a spolverarsi la gonna – probabilmente dopo essere caduta a terra.
«Mon dieu» borbotta la ragazza, con un palese accento francese «nemmeno un secondo prima stavo passeggiando nel centro di Nizza, mangiucchiando un croque-monsieur… et maintenant, dove sono?»
«A Londra» rispondono contemporaneamente Amos e Atemu.
La giovane li fissa con aria stralunata, limitandosi a roteare gli occhi.
«Questo dannato coso tout à coup ha iniziato a lampeggiare di un bagliore rose…» spiega lei, con tono concitato, mentre fa dondolare un medaglione davanti a sé «…et voilà, je suis ici».
«È capitato lo stesso anche a noi» ammette Atemu, con un sospiro sconsolato.
«Ah, oui?» s’informa la francese, palesemente incuriosita «je suis désolé, mon ami».
Amos fa fatica a star dietro alla rapida e perfetta parlantina francese della ragazza, tuttavia cerca comunque di richiamare la sua attenzione, facendo affidamento su tutte le sue – fiacche – attitudini da chevalier charmant.
«E con chi ho il piacere di parlare, mademoiselle?» le chiede infatti, col tono più mellifluo che, in quella situazione, riesce a tirare fuori.
La ragazza francese lo fissa a lungo, con aria piuttosto stralunata, tanto che per un tempo che gli pare infinito Amos teme di aver fatto uno dei suoi soliti strafalcioni, in una lingua peraltro che non è nemmeno la sua.
«Claudine» risponde infine la ragazza, senza nascondere un certo cipiglio divertito «se dovete rivolgervi a me, allora sappiate che mi chiamo Claudine. E ora scusate, devo mettere a posto queste plisses sulla mia gonna».
Ciò detto, una cascata di boccoli biondi si riversa in avanti, mani intente ad assestare colpi precisi al tessuto morbido della gonna mentre una nuova sfilza di insulti in francese si susseguono costantemente, una dietro l’altra.
Amos ed Atemu si fissano dubbiosi, senza tuttavia aggiungere altro – forse perché, sebbene siano in due, avranno capito sì e no la metà delle parole di Claudine, a causa dei termini incomprensibili in francese sparsi un po’ ovunque.
Peccato che i due ragazzi non abbiano neanche il tempo di riprendere fiato che nuovi bagliori di luci colorate ed intense, rumori confusi e una serie di imprecazioni in diverse lingue non tardano ad arrivare.
Una ragazza dai capelli castani e con un grazioso paio di occhiali poggiati sul naso sta probabilmente ringraziando tutti i santi che conosce, perché per soli pochi centimetri non è finita in una botte piena d’acqua – e di chissà quali altre schifezze, ugh.   
Gli altri due sono rispettivamente un ragazzo e una ragazza: il primo ha la schiena appoggiata al muro e sta riprendendo fiato – anche se non sembra essere in uno stato di drastica difficoltà respiratoria, al contrario è forse solo un po’ affaticato – mentre la seconda si sta divertendo a dar sfoggio alle sue abilità di equilibrista, visto che è perfettamente in bilico su una pericolante pila di casse di legno.
«Ehm, uh—» borbotta Amos «questo vicolo sta cominciando a diventare decisamente affollato».
«Non ha tutti i torti» ammette la ragazza appollaiata sulle casse, che proprio in quel momento spicca un balzo leggero, atterrando a terra con eleganza felina.
La giovane in questione si stringe nei propri abiti sbarazzini, fissando tutti i presenti, gli occhi che saettano entusiasti e curiosi su ciascuno di loro, come se d’improvviso si trovasse dinanzi a una nuova scoperta estremamente affascinante.
«Come ti chiami?» le domanda Atemu, in un riflesso incondizionato – e pentendosene subito dopo.
«Margarita» risponde lei, che in un battito di ciglia si è avvicinata al ragazzo ed ora tiene tra le dita il suo medaglione «e ho un Orologio, proprio come te».
«Sì, beh—» comincia Atemu, lievemente a disagio.
Non fa in tempo però a terminare la frase, visto che la sua interlocutrice scompare improvvisamente dal suo campo visivo.
E, con lei, anche il suo Orologio.
Un nuovo rumore improvviso fa voltare ben quattro paia di teste in un’unica direzione, dove in effetti ritrovano Margarita, con tanto di Orologio di Atemu.
«Ehi!» sbotta il ragazzo, leggermente irritato «quello è il mio Orologio».
«Ma certo~» conviene Margarita, che subito glielo rilancia al volo, senza perdere nemmeno per un secondo l’equilibrio.
Già, perché si trova nuovamente su un punto d’appoggio piuttosto instabile, visto che i suoi piedi sono ai lati dell’apertura della botte colma d’acqua.
Se prima c’era il rischio che cadendo potesse farsi male, adesso qualora dovesse perdere l’equilibrio finirebbe inevitabilmente per bagnare la ragazza ancora seduta lì accanto, anche se quest’ultima non sembra essere affatto preoccupata dalla cosa – tanto che è l’unica a non aver spostato lo sguardo verso Margarita.
Nel frattempo Atemu afferra l’Orologio a mezz’aria e Margarita spiega:«Volevo solo mostrare a te e a tutti voi quanto sarebbe facile per me sfilarvi da sotto il naso uno di questi Orologi a cui tenete tanto. Ovviamente però non ho nessun motivo sensato per farlo, visto che anche io ne ho uno tutto mio».
E, ciò detto, non indugia oltre per far dondolare nello spazio davanti a loro il proprio medaglione, con tanto di effige delle maschere del teatro.
Claudine solleva per un istante lo sguardo dalle pieghe della sua gonna, osservando prima l’Orologio di Margarita e poi il proprio, notando quanto i due simboli siano diversi – su quello della giovane francese c’è infatti una libellula.
Atemu reprime una smorfia di fastidio, per poi rinfilarsi l’Orologio. Nel frattempo Amos porge una mano della ragazza ancora seduta a terra, sorridendole incoraggiante.
«Tutto bene?» si affretta a domandarle, cortese.
«Ce la faccio da sola» replica lei, con aria altera, rimettendosi in piedi senza afferrare la mano di Amos – il che lascia il ragazzo abbastanza sorpreso e perplesso, immobile sul posto.
Una volta di nuovo in posizione eretta, non perde occasione per sistemarsi gli occhiali sul naso, quindi recupera un elastico che ha attorcigliato intorno al polso e lo adopera per legarsi i capelli in una comoda coda di cavallo.
Come sua consuetudine, la prima cosa che viene spontanea da fare ad Andrea è quella di analizzare razionalmente l’assurda situazione nella quale ora si ritrova.
Neanche una settimana prima il suo Orologio aveva preso a baluginare in quel modo assurdo, culminando poi in quell’esplosione, nella quale aveva visto apparire il volto di una giovane dai corti capelli corvini.
E adesso, a distanza di nemmeno una settimana, questo.
Certo che, se mai Andrea avesse pensato che ci fosse un limite alle stranezze, di recente purtroppo aveva dovuto tristemente ricredersi.
Come a voler confermare quel suo ultimo pensiero, tuttavia non finisce nemmeno di ideare quelle parole nella sua mente che subito le viene data un’altra riprova.
Un baluginio dalle sfumature aranciate infiamma il vicolo, mentre un gridolino stridulo annuncia l’arrivo di una nuova persona nel vicolo – e per questo Andrea vorrebbe sospirare di esasperazione, tuttavia all’ultimo finisce per trattenersi, interrotta da un urlo più virile e un tonfo sordo a terra.
Stavolta tutti si voltano a guardare Amos – Andrea ne è quasi lieta, considerando che questa volta i suoi occhi non dovranno nemmeno fare molta strada, visto che il ragazzo dai capelli castani è ancora a pochi centimetri di distanza da lei.
Con l’unica differenza che adesso è sdraiato prono a terra, schiacciato sotto il peso di un’ennesima nuova arrivata.
«La mia solita sfortuna» borbotta Amos, accompagnando le sue parole con una serie di brontolii sconnessi.
«Ahh, una pantegana!» grida la ragazza seduta sul dorso dell’ucraino, indicando disgustata un ratto, mentre quest’ultimo si allontana in tutta fretta, spaventato dal baccano del vicolo, infilandosi in un tombino e correndo lungo le tubature, con ogni probabilità verso il fiume.
Amos sospira pesantemente, per poi affermare debolmente:«Ehm… io non vorrei dire niente di male, eh, però mi starebbe sinceramente facendo un attimo male la schiena…»
«Oh, cielo!» la ragazza dai lunghi capelli castani balza immediatamente in piedi, con un’espressione desolata ben dipinta sul suo volto «perdonami, non era mia intenzione—»
«Tranquilla, ormai ci sono abituato» Amos scuote il capo, arrendevolmente «comunque, dall’accento mi è parso di capire che anche tu sei francese».
«Già!» trilla lei, esibendosi in una lieve piroetta e lasciando volteggiare con sé l’abito che indossa, il tessuto dorato e l’ampia gonna che si muovono a tempo con lei «perché, non sono l’unica? Tu di certo non lo sei, non hai per niente l’accento francese».
«Oh, io sono francese~» esclama Claudine, incredibilmente ben lieta di aver trovato una sua connazionale in mezzo a quel trambusto.
«Per favore» Andrea inspira ed espira a fondo per un paio di volte, cercando di mantenere la calma e i nervi saldi che sempre la caratterizzano «possiamo cercare di concentrarci e capire tutti insieme come sia possibile che sette adolescenti siano apparsi di colpo in un vicolo a Londra?»
L’attenzione di tutti si catalizza all’istante sulla giovane italiana, che tuttavia non sembra essere messa affatto in soggezione, mentre continua al contrario ad ostentare calma e lucidità lodabili.
«Non possiamo prima sapere il nome dei nuovi arrivati?» le propone Claudine, in tono lezioso e bonario.
«No» sentenzia Andrea, lapidaria.
Ovviamente, tutti gli altri decidono di ignorarla bellamente.
«Io sono Julie Dupont, piacere» si presenta l’ultima arrivata, stringendo cordialmente la mano a Claudine – a dirla tutta, anche lei è lieta di aver incontrato un’altra francese lì.
«Ohh, Claudine Blanchard, heureuse de faire ta connaissance» conviene l’altra, sorridendo come se si trovasse davanti in una pasticceria, davanti al bancone dei dolciumi.
Margarita, invece, saltella da una parte all’altra della via, fino a raggiungere l’unico ragazzo che, fino a quel momento, è rimasto in silenzio.
«E questo bel tenebroso qui chi è, invece?» gli domanda, non appena ci si ritrova davanti, dondolandosi lievemente avanti e indietro mentre lo osserva attentamente.
«Oh» il giovane in disparte dischiude finalmente gli occhi, osservando attentamente la giovane davanti a sé «chiamami pure Thiago. Tu invece devi essere Margarita, giusto?»
«Esatto!» replica lei, in un trillo divertito, per poi lasciarsi sfuggire una lieve risata cristallina quando il ragazzo più grande le scompiglia appena i capelli.
Andrea è francamente frustrata da quella situazione, tuttavia non è decisamente nelle sue abitudini dare a vedere sensazioni del genere.
Deve trovare un modo di catalizzare l’attenzione di tutti su di sé, adesso.
«Immagino che anche voi siate arrivati qui in seguito all’intensa emissione di luce colorata da parte del vostro Orologio, giusto?» decide di domandare allora, certa che così qualcuno la starà senza dubbio a sentire.
Sei paia di occhi si voltano a guardarla, in men che non si dica, attenti ed incuriositi, mentre nel vicolo torna a calare un’opprimente cappa di silenzio. In questo modo, Andrea è assolutamente certa di aver catturato l’attenzione di tutti.
«Non ci hai ancora detto come ti chiami, però» obietta Claudine, gli occhi che scintillano di mille diverse sfaccettature di colore.
«Oh, quisquilie» sbotta Andrea, accompagnando le parole con un rapido gesto stizzito della mano «francamente, quel che mi preme realmente di sapere adesso è come sia possibile che sette persone siano comparse contemporaneamente nello stesso posto».
Prima che chiunque altro possa provare ad aggiungere qualsiasi cosa, il vicolo è riempito da un rumore, un cigolio profondo.
Tutti e sette i ragazzi si voltano ancora una volta, dividendosi in quelli dallo sguardo particolarmente incuriosito, tra cui Julie, Amos, Margarita e Claudine e gli altri che invece sono più disinteressati al riguardo, in particolare Atemu e Thiago – il primo poiché probabilmente preferirebbe di gran lunga tornare a mangiare pancake nel caldo ed accogliente appartamento del suo amico, l’altro perché invece sembra sapere esattamente quello che sta succedendo. Nel limbo, come al solito, Andrea, che sebbene sia a sua volta incuriosita cerca di non darlo troppo a vedere.
All’apparenza, il rumore ha avuto origine proprio dalla bottega alle loro spalle, infatti osservando meglio i sette si accorgono che la porta, che fino a pochi secondi fa sembrava essere irrimediabilmente chiusa, adesso si è leggermente spalancata, facendo intravedere la figura di una ragazza dai corti capelli corvini che fa capolino da dietro di essa.
«Beh, forse questo posso dirvelo io» ammette la giovane, in tono conciliante.

                                                              ~~

All’invito della ragazza dai capelli corvini, tutti e otto scivolano insieme all’interno della piccola bottega, sistemandosi alla bell’e meglio nei pochi posti liberi che trovano in giro, sparsi qua e là all’interno del locale.

Non appena entra, per poco Claudine non cade a terra, incespicando sui gradini – e lanciandosi diversi improperi per questo. Fortunatamente, Thiago l’afferra al volo per un braccio, assicurandola per bene in piedi e permettendole così di continuare a scendere in tutta tranquillità.
«Merci» lo ringrazia lei, a mezza voce.
Lui si limita a scrollare le spalle, al momento concentrato su ben altro.
Ha sentito a lungo parlare della bottega di Joshua Parrish, l’alchimista che ha incantato il suo Orologio, donandogli così la capacità di viaggiare attraverso il reticolo dello spazio e del tempo.
Come fa ad essere così sicuro di trovarsi nel luogo giusto? Beh, facile: insieme a lui ci sono ben altre sette persone e tutte loro possiedono un Orologio simile al suo ma non uguale.
Già, simile: come ben sa, ogni Orologio porta la rappresentazione del carattere di chi lo porta e come lui possiede il simbolo del ragno, in quella stanza c’è anche chi ha una libellula, o un pavone, addirittura perfino un dettaglio così minimale quale una scheggia di vetro.
Se il ragno è l’emblema dell’operosità – Thiago sta ancora ringraziando il cielo che non gli sia capitata un’ape, sarebbe stata abbastanza ridicola come effige altrimenti – allora tutti gli altri simboli devono essere indizi sui possessori dei rispettivi Orologi.
Thiago sta quasi per mettersi a lavorare sulle varie congetture che al momento gli ronzano per la testa, quando una nuova voce lo distoglie dai suoi pensieri.
«E così sei… uhm, spagnolo?» si sente infatti domandare da una voce, a pochi passi da sé.
«Portoghese» la corregge automaticamente lui, voltandosi lentamente verso la sua interlocutrice.
«Figo~» commenta Margarita, balzando agilmente a sedere su uno dei tavoli da lavoro del laboratorio artigianale «devo ammettere che sei un tipo piuttosto affascinante».
«È un modo carino per dirmi che ti piaccio?» commenta lui, ammiccando lievemente nella sua direzione.
«È un modo carino per dire che emani charme da ogni poro del tuo corpo» replica lei, facendo schioccare la lingua contro il palato «tuttavia mi spiace dover deludere il tuo smisurato ed incommensurabile ego ma ahimè devo dirti che no, non mi piaci affatto. Soddisfatto?»
«Però!» commenta lui, con uno sguardo divertito «A quanto pare tu invece sei un tipetto piuttosto complicato con cui avere a che fare, eh?»
«Così mi dicono» si limita a convenire la ragazza, mettendosi a giocherellare con alcuni trucioli di legno che trova sul ripiano.
Andrea, invece, sembra essersi persa nell’osservazione di quel luogo tutto nuovo, mentre la sua memoria fotografica non smette di lavorare un momento, saettando da una parte all’altra del locale, imprimendo a fuoco nella sua mente istantanee della bottega.
Gli spessi stati di polvere che avevano invaso prepotentemente ogni centimetro del pavimento, lavorazioni in legno iniziate e mai concluse, ampie finestre in vetro piombato, che probabilmente un tempo donavano luce ed ariosità a quell’ambiente ristretto – rendendolo forse anche più ampio agli occhi degli inesperti visitatori – tuttavia ora sono orrendamente sporche, ben lontane dal lustro di un tempo e anche la luce filtra col contagocce.
Sembra terribilmente concentrata, come se niente al mondo possa distrarla, in quel momento.
Non è detto tutto tuttavia che qualcuno non possa farlo.
«Non mi hai ancora detto come ti chiami» chiosa infatti Claudine, alle sue spalle, con voce angelica.
Andrea deve sforzarsi per non trasalire, di certo non si aspettava un agguato del genere.
«Senti» sospira Andrea, esasperata «possibile che il mio nome sia così importante per te? Cosa ti cambia saperlo o meno? Di certo non ti è indispensabile per la sopravvivenza».
«Ma io sono curiosa!» obietta Claudine, in uno strepitio lieve, un cinguettio che suona piuttosto come un uggiolato.
«Oh, e va bene» le concede infine la giovane italiana, assecondandola, mentre sulle labbra di Claudine sboccia un sorriso raggiante «il mio nome è—».
Non fa tuttavia in tempo a terminare la frase che una nuova voce sta già sovrastando la sua, riempiendo completamente tutta la stanza – seppur con un tono di voce basso, soffice, lieve.
«Posso avere la vostra attenzione?» domanda infatti la giovane dai gradini, in piedi ancora sui gradini d’ingresso, così da occupare una posizione sopraelevata rispetto a tutti gli altri.
La sua voce non ha niente di particolare, non è estremamente carismatica o evocatoria, non è carica di pathos o chissà cos’altro, eppure attraverso quelle semplicissime parole riesce ad attirare su di sé la mente e lo sguardo di tutti i ragazzi.
È come se, per loro, possedesse una qualche magia, un magnetismo che attira la concentrazione di ciascuno di loro verso la sua figura minuta, come falene attratte inevitabilmente dalla luce, senza possibilità alcuna di sottrarsi.
Per Amelia quella è una sensazione stranissima e del tutto nuova. Non le piace essere al centro dell’attenzione, la infastidisce notevolmente e le regala uno sgraditissimo formicolio sottocute, come se tutti i nervi del suo corpo si tendessero all’unisono. Orrendo.
Però comprende anche lo smarrimento di quei ragazzi e sa perfettamente di dover loro delle spiegazioni.
«Io… io ti conosco» mormora all’improvviso Andrea, lasciando di stucco ben sei ragazzi nel laboratorio.
Amelia invece non sembra essere particolarmente colpita, quasi come se si aspettasse un’affermazione del genere. Inclina il capo di lato, con una guancia riesce quasi a sfiorarsi la spalla, tuttavia non aggiunge altro: resta lì, impassibile, un lieve sorriso dipinto sulle labbra e fissa attentamente la ragazza davanti a sé, come se fosse in attesa di qualcosa.
Andrea non sa bene cosa stia aspettando quella misteriosa ragazza, tuttavia ora che ha iniziato a parlare sembra non riuscire più a smettere – stranamente per lei, che è sempre così lapidaria ed incisiva – le parole che scivolano fuori dalle sue labbra una dietro l’altra, come un fiume in piena.
«Mi chiamo Andrea Cervini» esordisce – e a quelle parole Claudine sorride di sottecchi, con un grande sospiro, finalmente soddisfatta «e sono originaria dell’Italia. Per la precisione, vengo da Milano. Prima della grande esplosione di stamattina, che mi ha condotta fino a qui, il mio Orologio aveva emesso luce violentemente già un’altra volta, un paio di settimane fa. Ebbene, quando il bagliore era giunto al suo culmine, per un momento mi era sembrato di vedere il volto di una giovane dai capelli corvini riflessa sulla superficie del mio Orologio. Fino ad ora non avevo la più pallida idea di chi potesse essere… poi però ora ti ho vista e ho capito: quella ragazza eri tu».
Nel locale cala nuovamente il silenzio per diversi, interminabili secondi, seguito poi da un brusio sempre crescente. I ragazzi parlottano tra loro, confrontandosi con chi hanno vicino, chiedendosi quale sia il senso di tutti quegli strani avvenimenti e perché stiano capitando proprio a loro e in quel determinato momento.
Amos sta giustappunto valutando con Atemu che deve trattarsi della sua solita sfortuna che, come al solito, lo perseguita, quando la ragazza dai capelli corvini prende di nuovo parola.
«Oh, beh» commenta infatti, estraendo da sotto la camicetta bianca decorata da fini linee blu una collana piuttosto lunga, la catenina sottile di metallo da cui pende un altro Orologio «in effetti è successa anche a me una cosa del genere».
Esclamazioni di stupore si susseguono lungo tutta la stanza, mentre i sette osservano con aria esterrefatta l’Orologio della ragazza, il corvo raffigurato sul retro che li occhieggia con un’espressione vagamente arcigna.
«Ma tu… chi sei?» domanda d’impulso Amos, rendendosi conto solo dopo delle parole che ha pronunciato – e desiderando ardentemente seppellirsi per questo.
«Domanda lecita» concede la giovane, smorzando almeno in parte l’imbarazzo generale che adesso è inesorabilmente calato tra tutti i presenti «vedete, il mio nome è Amelia. Vivo qui a Londra fin dalla nascita. Anche io sono dentro questa storia tanto quanto voi, fin sopra la testa. Mi scuso se i vostri Orologi in queste settimane hanno avuto qualche anomalia – degli sfarfallii luminosi sporadici – ma di questi non sono responsabile, ne sono capitati alcuni anche a me. Tuttavia, a convocarvi tutti qui oggi sono stata proprio io».
«Come?!» strepitano all’unisono Julie, Amos e Claudine, a dir poco sbalorditi. Gli occhi di Margarita continuano a rimbalzare curiosi da una persona ad un’altra, mentre Thiago è rimasto immobile al suo fianco, mentre scruta imperturbabile la situazione, nascondendo perfettamente l’interesse dietro una maschera di apparente indifferenza, o perlomeno d’indolenza. La verità è che è forse il più informato sul funzionamento degli Orologi tra tutti i presenti, perciò al momento non sta sentendo niente di particolarmente nuovo.
Anche Atemu è terribilmente affascinato da tutta quella faccenda, sebbene stia cercando di conservare almeno un vago sentore di decoro, poiché non ci tiene affatto ad apparire ridicolo agli occhi di sette perfetti sconosciuti. Andrea infine è totalmente concentrata, la mente che scatta a valutare ogni possibile scenario, desiderando non apparire impreparata qualsiasi occorrenza debba fronteggiare.
«Così» replica Amelia, scendendo gli scalini e cominciando a camminare tra i lunghi tavoli da lavoro. I ragazzi la seguono con lo sguardo mentre sfila davanti a loro, per poi affrettarsi a seguirla – Thiago che è il primo a partire, seguito subito da Andrea e da Amos, mentre tutti gli altri sono giusto qualche passo dietro di loro.
La giovane londinese si arresta più o meno a metà della stanza, accostandosi ad un tavolo alla sua destra. I crononauti fanno un piccolo capannello intorno a lei, cercando di vedere e riuscendoci all’incirca tutti, chi più e chi meno, quelli alti sbirciando da sopra le spalle del compagno che hanno davanti, i bassi invece devono ahimè farsi spazio cercando di svicolare tra i vari corpi ammassati.
«Ecco» inizia a spiegare Amelia, lasciando srotolare il lungo foglio di un progetto davanti a sé «questo è il foglio con tutte le rappresentazioni degli Orologi. C’è il mio, quello con il corvo e poi un sacco di altri tipi, che suppongo siano i vostri. La cosa strana è che alcuni dei disegni mi sono cambiati davanti agli occhi, mentre osservavo il foglio…»
«Beh, in realtà non è poi così strano» s’intromette Thiago, appoggiandosi sensualmente con entrambi i palmi delle mani al bancone sotto di sé «i simboli degli Orologi sono indici del carattere del crononauta che li possiede, quindi se cambia il possessore, cambia anche il simbolo».
«E tu questo come fai a saperlo?» domanda Julie, osservando il ragazzo con uno strano cipiglio incuriosito a segnarle il volto.
«Per anni ho fatto ricerche sugli Orologi» ammette Thiago, con una vigorosa scrollata di spalle «pare che l’artigiano che lavorava in questa bottega, un certo Joshua Parrish, fosse in realtà un alchimista ed avesse incantato gli ingranaggi degli Orologi con un po’ del suo potere, ecco perché possono viaggiare nello spazio e nel tempo».
Gli occhi di Amelia saettano da una parte all’altra della stanza, inquieti. Continua ad avere l’allarmante percezione di essere osservata e convincersi che siano gli occhi dei sette crononauti a trafiggergli la schiena gli risulta davvero impossibile. No, c’è qualcosa che non va, se lo sente.
«Ad ogni modo» riprende Amelia, cercando di recuperare il bandolo della matassa «mentre stavo osservando il foglio, ho tenuto inavvertitamente premuto il pulsante sopra il mio Orologio e… non so, di colpo si è sprigionata tutta quella luce e l’attimo dopo ho sentito il trambusto qua fuori. Mi sono affacciata un momento e c’eravate voi. Mi dispiace, non era mia intenzione trasportarvi qui. Ora che ci siamo, tuttavia, credo che per correttezza dovremmo almeno cercare di capire quello che ci sta succedendo. Lo dobbiamo a noi stessi, così come a tutti gli altri che sono coinvolti. Dopotutto, è il minimo che possa fare, dopo avervi richiamati qui».
«Aspetta, aspetta» prorompe Julie, la testa appoggiata alla spalla di Claudine – che non sembra essere estremamente lieta di questo «tu come hai fatto ad avere quell’Orologio? E che vorrebbe dire che ci hai ‘richiamati qui’?»
Amelia sospira lievemente mentre spiega:«L’Orologio… beh, mi è stato lasciato in eredità da mia madre, che è venuta a mancare pochi mesi fa. Quanto al ‘richiamo’, è scritto qui, in una nota a piè di pagina. Vedete?»
Mentre parla di sua madre, gli occhi di Amelia si velano di lacrime e subito Thiago ha la premura di accarezzare lentamente la schiena della ragazza, cercando di rincuorarla almeno in quel modo. Per quanto possa essere ambizioso e spesso disposto a passare sopra i sentimenti della gente pur di raggiungere i suoi scopi, riconosce che il dolore per la perdita di un genitore è immenso, non lo augurerebbe mai a nessuna persona al mondo.
Nel frattempo, Amelia indica una scritta in fondo al foglio del progetto, dove viene in effetti spiegato il funzionamento del ‘richiamo degli Orologi’.
«C’è scritto che è un procedimento che tutti i possessori di Orologi possono adottare» spiega Andrea, che è già china a leggere sul progetto «e che gli Orologi vengono attratti naturalmente verso chi li richiama solo nel momento del bisogno. Quindi probabilmente adesso, per quanto strano ci possa apparire, siamo nel posto giusto al momento giusto».
Tutti gli altri si chinano ad osservare le parole scrutate da Andrea, sussurrando parole di assenso tra loro, mentre la giovane ti tiene gli occhiali ben fermi pinzati sul naso.
«Però ci sono anche altri simboli» obietta Atemu, perplesso.
La risposta ai suoi dilemmi giunge poco dopo, da parte di Thiago.
«Certo» spiega infatti, scrupoloso «Joshua aveva realizzato ben dodici Orologi, otto dei quali sono oggi qui, nelle nostre mani. Tutti gli artefatti sono andati dispersi in giro per il mondo in seguito alla morte dell’alchimista, avvenuta in circostanze misteriose e piuttosto sospette. Probabilmente i quattro Orologi che mancano ancora all’appello sono ancora dispersi, in qualche remota parte del mondo. Quello che non capisco è come mai qui siano rappresentati sedici Orologi, anziché dodici. Che in giro per il globo ci siano altri—»
Il giovane portoghese non fa in tempo a concludere in suo discorso che un rumore improvviso lo interrompe, come di cianfrusaglie che franano rovinosamente a terra. Ne segue un borbottio incomprensibile, probabilmente improperi, mentre le teste degli otto crononauti si voltano in direzione della fonte di quella confusione.
Quello che i loro occhi inquadrano è il corpo di un ragazzo, voltato di spalle e con il cappuccio grigio della felpa che indossa a coprirgli la testa, mentre cerca di sgusciare fuori dal mare di scatoloni che gli è caduto addosso.
«Ehi!» esclamano in coro Amelia e Andrea, seccate.
Per una frazione di secondo il misterioso sconosciuto si volta verso di loro, attento a non mostrare il volto. E in quell’istante sospeso si fissano a vicenda, i crononauti che osservano l’intruso, lo sconosciuto che li scruta di rimando.
Nessuno però fa in tempo a dire qualcosa, neppure un’esclamazione di sorpresa, che il ceffo misterioso è già scattato, prendendo la direzione della porta.
«Sta scappando!» sbotta Amos, indignato, balzando in piedi, mentre lo sgabello sul quale si era accomodato casca al suolo con un ennesimo fragore.
«Ha trafugato un documento» fa notare Andrea, indicando lo scampolo di un foglio che il tipo tiene in mano scomparire oltre la soglia dell’ingresso.
«Non sono arrivata fin qui per farmi sfilare le informazioni da sotto il naso» mormora Amelia, furente, i corti capelli corvini che fluttuano ed ondeggiando insieme a lei mentre il suo corpo si protende in avanti, già pronto e partito all’inseguimento dell’oscuro figuro.
I ragazzi restano a fissare la compagna mentre sparisce oltre l’uscita della bottega, per alcuni interminabili secondi incapaci di fare qualsiasi cosa, resi immobili come statue di pietra dallo sgomento.
Il primo a riprendersi rispetto agli altri è Thiago che, dopo aver scosso con vigore la testa, si avvia subito verso la porta.
«Che diavolo stiamo facendo ancora qui?» domanda, esterrefatto «Forza, muoviamoci! Andiamo a darle una mano».
Ciò detto, anche lui si fionda fuori dal locale.
Con la scomparsa di Thiago, anche i sei crononauti, ora rimasti soli, si decidono a partire a razzo, tutti alla rincorsa del ladro.
Intanto, Amelia è già più avanti rispetto a tutti gli altri. I suoi piedi battono veloci sul selciato, mentre la giovane maledice i suoi scarponcini da trekking, che per quanto possano essere decisamente adatti alla corsa, non sono il massimo in quanto ad attutimento dei colpi presi, tanto che deve stringere i denti per non mettersi ad urlare, visto quant’è lancinante il dolore che di riflesso avverte alle piante dei piedi.
Sente l’adrenalina pulsargli dentro, il sangue che viene spinto in circolo nelle vene ad una velocità sempre più forte mentre i polpacci tirano per lo sforzo, acido lattico in circolo e il sudore algido dell’emozione che si forma sulla sua pelle, piccole gocce che le imperlano la fronte e le fanno rimanere i capelli attaccati al volto.
Non può perdere di vista quel tipo, non deve, non se lo concede. Sua madre è morta perché era in possesso di quell’Orologio, adesso non permetterà a nessuno di trafugare dei documenti che potrebbero aiutarla a non deluderla, ovunque si trovi…
Sente dei passi dietro di sé e lanciando un rapido sguardo alle sue spalle nota che alcuni dei ragazzi di poco prima l’hanno raggiunta: il giovane ed avvenente uomo dai tratti ispanici e l’italiana che aveva intravisto nel proprio medaglione, tempo prima. Sembrano essere molto meno affaticati di lei, mentre invece Amelia avverte già l’inesorabile avvento del fiato corto calare sempre più rapidamente su di sé. Non per questo, tuttavia, è meno motivata degli altri a riacciuffare il fuggitivo, anzi, tra tutti è senza dubbio la più determinata.
«Ci sono anche gli altri, dietro» le comunica ad alta voce Andrea, mentre cercano di farsi spazio e procedere agilmente tra i marciapiedi fin troppo affollati – come al solito, d’altronde – di Londra «non lo lasceremo scappare, vedrai».
La ragazza con gli occhiali rivolge un sorriso incoraggiante ad Amelia; quest’ultima cerca di ricambiare, tuttavia il meglio che riesce a tirar fuori è un’espressione contorta. Ora come ora, impegnata nell’inseguimento com’è, questo è davvero il massimo che possa riuscire a fare.
Subito i tre si rituffano al massimo delle loro capacità nella corsa, corpi sempre più affaticati mentre fanno slalom tra la gente, distribuendo centinaia di ‘scusi’ mentre avanzano nel loro percorso e per sbaglio incappano in qualche passante, schiacciando un piede o due, costringendo qualche anziana signora a piroettare su se stessa per non cadere rovinosamente a terra.
Qualcuno lancia anche contro di loro diversi improperi, tuttavia i ragazzi nemmeno se ne preoccupano più di tanto, considerando che l’obiettivo che si sono prefissati di raggiungere è ben altro.
Intanto la strada di ciottoli della zona antica e borghese di Londra ha lasciato il posto a lastre di basalto lisce e morbide e a colate di cemento armato, eleganti, lussuosi e ben rasati. Il che è decisamente un sollievo per i piedi ormai martoriati di Amelia, sebbene anche adesso qualche brutto contraccolpo sia costretta a subirlo.
Quando capisce tuttavia verso quale zona della città si stiano dirigendo è ormai troppo tardi.
«Il fiume» grida, così che Thiago e Andrea possano sentirla nitidamente «si sta dirigendo verso il fiume!»
Per un attimo i ragazzi sembrano non comprenderla, quando però spostando il loro sguardo e da Amelia tornano a fissare davanti a sé, tutto si fa improvvisamente molto più chiaro per loro.
Sono infatti ormai giunti nei pressi di Tower Bridge, tant’è che l’imponente costruzione si erge ora in tutta la sua magnificenza davanti ai loro occhi. Le nuvole sembrano essersi addensate sopra le teste dei londinesi ancor più di prima, cupe e bigie minacciano pioggia da un momento all’altro.
«Guardate!» Thiago richiama l’attenzione delle due ragazze, indicando una nave che si sta avvicinando sempre di più al ponte.
«Tra poco tireranno su le sponde del ponte» spiega Amelia, l’angoscia nella voce «e questo vuol dire che se non ci sbrighiamo potremmo anche perdere il nostro fuggitivo».
«Allora ci toccherà sbrigarci» annuncia Andrea, funerea «perché in effetti stanno proprio cominciando a sollevarlo».
A quelle parole, i tre ragazzi aumentano ancor di più la velocità della loro corsa, ormai allo strenuo delle forze, dando ciascuno il proprio massimo.
Il traffico viene bloccato, le auto non passano più mentre i pedoni affollano in maniera insolitamente ricca strade e marciapiedi, rendendo difficoltoso ai ragazzi il proseguimento dell’inseguimento.
Il ceffo misterioso, nel frattempo, si sta arrampicando con un’agilità a dir poco sorprendente su uno dei due bracci del ponte, ormai terribilmente inclinato in un’angolatura impossibile da scalare per qualsiasi essere umano che si rispetti. Proprio quando è ormai giunto nel punto più alto, spicca un balzo fenomenale e, accompagnato da uno scuro bagliore color fango, scompare nel nulla, con un altro baluginio.
Non ne è certa, eppure, per un istante ad Amelia è quasi sembrato di aver visto ciondolare un Orologio al collo del ragazzo.
Ed è così che il loro inseguimento fallisce miseramente.
 

♟» New York, Stati Uniti d’America, 2120


Il New York Hilton Hotel risplende nella notte eterna di quel mondo distorto, al pari della stella polare che nell’antichità guidava i marinai lungo le loro rotte, come una sorta di scherzo del destino.
La facciata frontale è nient’altro che una lunga scia di vetri lustri, bordati dalla struttura esterna in resistente acciaio chiaro e scintillante. Sembra di osservare un gigantesco diamante, perfettamente incastonato nel dedalo di ampie vie e viali della Grande Mela, progettata per quei suoi grandi traffici che la contraddistinguono in tutto il mondo.
In realtà l’edificio sorprende, perché ad un’occhiata superficiale sembrerebbe quasi che – in maniera del tutto atipica – sia sviluppato su un unico piano orizzontale e non si slanci verso il cielo. Tuttavia un buon osservatore saprà certo notare che il palazzo prende ben presto una direzione verticale a partire da quel primo piano dalla pianta rettangolare irregolare, ergendosi con un grattacielo degno delle costruzioni che lo circondano.
Nella parte sviluppata verso l’alto sono stipate le varie, lussuosissime camere del famigerato hotel, mentre al pianterreno una hall di tutto rispetto è stata progettata per accogliere turisti da ogni parte del mondo. In un certo senso ora quel luogo mastodontico quasi spaventa, immerso nell’oscurità senza fine e con nessun passante o yellow cab a girargli intorno. Perfino l’insegna, posta sulla facciata principale e che in origine doveva brillare di un costante azzurro vivido, ora è spenta, i neon abbandonati al loro destino.
Una desolazione del genere scoraggerebbe chiunque dal pensiero di mettere piede là dentro. Tuttavia, a quanto pare, quando si perde la testa certi dogmi pesano meno di una piuma.
«Dici che si aprono?» Jude osserva con cipiglio impensierito le vitree porte scorrevoli che dovrebbero permettere l’accesso alla clientela. Già, dovrebbero, perché in un mondo senza corrente elettrica Jude non si stupirebbe se l’entrata dell’Hilton Hotel decidesse di marciare contro di loro e i loro propositi.
«O si aprono o si aprono» borbotta in fretta Ray, continuando a spingere una delle due ante dalla parte opposta «non ho intenzione di rinunciare, dopo tutta la fatica che ho fatto e che sto facendo, ad entrare qua dentro. Ti sembro il tipo che si arrende davanti ad una sciocchezza del genere, Jude?»
«Touché» replica poco dopo il ragazzo dagli occhi rubizzi. Aiuterebbe ben volentieri il suo ex allenatore, se solo quest’ultimo gli permettesse di farlo. Lui ha anche cercato di chiederglielo, solo che Dark s’è impuntato con fermezza, brontolando che deve riuscirci da solo, perché “voglio dimostrarti che per te posso impegnarmi e riuscire in qualsiasi cosa, Jude”.
Ahh, se solo ogni tanto lasciasse a casa l’orgoglio e si impegnasse affinché tutti e due riescano a stare bene insieme, per una volta…
Finalmente l’anta scorrevole giunge dalla parte opposta, i cardini che si fissano a terra schioccando con un sonoro ‘clack’. Ray non prende in considerazione nemmeno per un momento la possibilità di sfacchinare per la successiva mezz’ora – sempre in relazione al contorto scorrere del tempo di quel luogo, certo – per aprire anche l’altra anta, così senza indugiare oltre prende per mano Jude e lo trascina con se all’interno della lussuosa e affascinante hall dell’hotel.
Jude resta subito colpito e affascinato dall’atrio, soprattutto perché – a differenza di buona parte degli edifici di New York che ha visitato finora – non sembra essere stato soggetto allo scorrere degli anni, senza possedere quindi segni di degrado quali polvere o sporcizia, bensì conservando i fasti splendenti di un tempo.
L’androne è rivestito interamente di pregiati marmi bianchi e lucidi, probabilmente originari di Carrara. Il bancone della reception, invece, è in legno d’acero, solido e resistente. Per un attimo Jude s’immagina quegli ambienti, sotto le luci calde e sfavillanti delle lampade sparse un po’ in ogni dove nella stanza e soprattutto dell’immenso lampadario di cristallo che scende giù dal soffitto e troneggia un po’ tutta la scena. Devono essere stati meravigliosi, senza dubbio.  
Ray si sta già dirigendo proprio verso quest’ultimo, sul suo volto fa di nuovo capolino il sogghigno furbo di quando un’idea geniale ha preso a ronzargli per la mente.
«Buonasera» lo sente introdursi, poco dopo «io e il mio giovane ospite avremmo bisogno di una camera presso la vostra struttura. No, non avevamo prenotato: diciamo che ci piace presentarci di più così, senza preavviso… non lo trova anche lei molto più altolocato e degno delle nostre persone? Quale stanza desideriamo, dice? Oh, ma che domante: la vostra Suite Deluxe sarà perfetta, senza dubbio!»
Ray è così preso nella sua recita che, per una frazione di secondo, Jude non può fare a meno di chiedersi se stia veramente parlando con qualcuno che d’improvviso si è materializzato lì e adesso consegnerà loro le chiavi della più prestigiosa suite di quell’hotel, senza nemmeno pretendere in cambio pagamenti o qualcosa del genere.
“Magari non siamo poi così soli” sussurra speranzoso Jude, dentro di sé.
Poco dopo però si rende conto che chiaramente Ray sta scherzando. È così bravo da riuscire perfino a portare avanti da solo quella farsa e risultare pur sempre convincente. Jude ormai non ha neanche più parole adatte per poterlo descrivere.
Ad ogni modo, non riesce comunque a trattenersi dal chiedergli:«Ma con chi diavolo stai parlando?»
«Da solo, ovviamente» risponde subito Ray, come se fosse la cosa più scontata del mondo «ti sembra che ci sia qualcun altro in circolazione, qui?»
Jude rotea gli occhi, senza aggiungere altro. Certo che non sa proprio risparmiarsi brutte figure, eh?
Ray, nel frattempo, poggia entrambe le mani sul bancone ligneo della reception, balzando agilmente dall’altra parte. E dire che non credeva di avere i riflessi necessari per fare una cosa del genere, alla sua età, specie dopo l’incidente.
Neanche un secondo dopo e le mani dell’uomo sono già intente a frugare in vari cassetti, alla ricerca della tessera elettromagnetica della suite desiderata. Jude nel frattempo si appoggia con i gomiti sul bancone, lo sguardo perso ancora tra quelle mille meraviglie. Ma chi lo segue il bon ton, quando vivi in una dimensione parallela disabitata?
«Trovata ~» gli comunica poco dopo Ray, con tono vagamente lascivo, mentre gli sventola una card turchina sotto gli occhi.
«Uh, bene!» Jude scuote la testa, colto alla sprovvista «E sai anche a che piano dobbiamo salire?»
«Ma certo» Dark si volta alla svelta, ruotando su se stesso di centottanta gradi, fino a ritrovarsi con il volto a pochi centimetri da un foglio di carta bianca e linda, appeso in una piccola bacheca che occupa parte della parete.
Quando Ray si gira di nuovo verso il ragazzo, sembra essere notevolmente sbiancato.
«Non dirmi che è occupata» ironizza Jude, cercando di smorzare la tensione.
«Vuoi davvero sapere a che piano si trova, Jude?» si sente domandare di rimando, con tono mortalmente serio.
«È parecchio in alto, mh?» intuisce il giovane, mentre in volto gli compare un’espressione mesta.
Ray annuisce, e a Jude non rimane che lasciarsi sfuggire un sospiro sconsolato.
«Mi dispiace» si affretta a scusarsi Ray, mortificato «avrei dovuto pensare a qualcosa di più fattibile. Posso provare a cercare una camera al primo piano, volendo…»
«Ma no, ma no… va bene così, sul serio» lo rassicura il ragazzo, sorridendogli lievemente. Non poteva saperlo, in fondo…
Certo che è una scocciatura, vivere in un mondo senza elettricità. Buona parte delle azioni che si compiono abitualmente sono inevitabilmente compromesse, tra cui la possibilità di prendere un ascensore al posto di farsi tutti quei piani di scale, che per quanti anni di allenamenti sportivi tu possa avere alle spalle non sono certo alla portata di un comune essere umano.
«Aspetta, ho avuto un’idea!» Jude sembra illuminarsi, saltellando appena sul posto.
 «Sarebbe a dire?» s’informa Ray, sporgendosi verso di lui oltre il bancone, tutto incuriosito dall’improvviso cambio di prospettiva.
«Credo che da qualche parte debba esserci un montacarichi, di quelli vecchi a motore, che funzionano anche senza elettricità» spiega il ragazzino, tutto orgoglioso per aver avuto quella trovata geniale «Mi pare che si usino proprio durante i guasti, i blackout o problematiche di questo genere. Almeno, anche se manca la corrente, il mondo non è costretto a fermarsi».
«Mi sembra un’intuizione meravigliosa» si congratula Ray «solo che non potevi averla prima? Magari ci saremmo potuti risparmiare tutte quelle scale, prima, al Rockfeller Center…»
«Ah, era il Rockfeller Center, quello?»
«Già»
«Oh, ma pensa, non lo sapevo…»
«Jude, non cercare di cambiare argomento. Lo sai che con me non funziona, signorino».
«Non sto cercando di cambiare argomento» si affretta ad assicurargli il giovane, con aria scaltra «ci tenevo solo a precisare che non sapevo che quello fosse il Rockfeller Center, sul serio…~»
Ray sospira, stremato. Certo che avrebbe dovuto impartire un po’ meno caparbietà, al suo ragazzo.
«Comunque» riprende Jude, deciso a non mollare la spugna «avresti potuto pensarci benissimo anche tu, caro. Dopotutto, non sei sempre il primo che ci tiene a puntualizzare che tutto quello che so mi è noto solo perché sei stato tu a insegnarmelo?»
«Va bene» acconsente infine Dark, la mente al momento occupata da ben altre preoccupazioni mentre fa il giro per sgusciare finalmente fuori da dietro quel bancone, stavolta senza salti strabilianti o acrobazie del genere – dubita infatti che il suo corpo potrebbe sostenerlo in un salto simile per una seconda volta «Adesso vuoi darmi una mano a cercare questo montacarichi o preferisci rimanertene qua da solo, al buio, in questa hall abbandonata?»
«Opto per la prima» gongola il ragazzo, mettendosi in punta di piedi per potergli scoccare un bacio leggero a fior di labbra.
«Ottimo» sentenzia l’uomo, accarezzandogli i capelli «allora, visto che la mia giovane creazione ha avuto un’idea tanto brillante, a lei toccherà il compito di guidarci verso questo benedetto montacarichi, mh?»
«D’accordo» concede Jude, mettendosi a saltellare attraverso l’elegante hall, dirigendosi strategicamente verso l’area “riservata al personale autorizzato”.
Neanche qualche minuto di traversata lungo gli immensi corridoi dell’hotel che un piccolo montacarichi si para davanti ai loro occhi.
«Non avevi detto che sarebbe stato così piccolo» protesta Ray, imbronciato.
«Beh, se è per questo tu non hai neanche dato segno di volerlo sapere» replica Jude, la solita aria furba ad illuminargli il volto.
Poco dopo, Ray si ritrova ad armeggiare con l’inferriata metallica che ostruisce l’ingresso al montacarichi, il che gli fa sfuggire un grugnito.
“Io ti ho trovato il montacarichi perché l’idea di usarlo è stata mia, adesso però lo metti in funzione te, visto che sei tu quello che è voluto venire qui” gli aveva infatti comunicato Jude qualche minuto prima, non senza una buona dose di sarcasmo.
In fondo, se lo amava così tanto era anche per questo, no?
Lo spazio all’interno del montacarichi, in effetti, è sorprendentemente ristretto, tanto che per entrarci Jude è costretto a mettersi seduto in un angolo, mentre Ray deve rimanere in piedi, per non occupare troppo spazio.
«Ma non potevi proprio cercare una camera da letto un po’ più alla mano?» obietta Jude, sbuffando sonoramente, mentre il montacarichi comincia a salire.
«No» risponde secco Ray, non senza un sogghigno adatto all’occasione.
Per il resto, il viaggio in montacarichi trascorre abbastanza in silenzio, fatta eccezione per gli sporadici brontolii di lamentela di Jude e le carezze che Ray gli distribuisce di tanto in tanto sul capo, chinandosi su di lui per poterlo rassicurare.
Una volta arrivati al piano giusto, Ray deve far di nuovo pressione affinché la grata si apra e Jude non aspetta neanche che l’altro lo inviti ad uscire per primo con un gesto galante, gettandosi piuttosto in corridoio di sua spontanea volontà, adottando di nuovo il passo saltellato come in precedenza.
Ray sospira, affrettandosi tuttavia a seguirlo.
Man mano che passano lungo il corridoio, percorso da due file parallele e densamente fitte di porte, Jude non perde occasione per bussare a ciascun ingresso, ridacchiando soavemente.
«Jude, smettila di importunare la clientela dell’hotel, per favore» lo riprende Ray, seppur con tono estremamente bonario.
Il ragazzo ride ancor di più a quell’affermazione, voltandosi verso l’altro e mettendosi a camminare all’indietro pur di poterlo osservare in volto nel frattempo.
«Non hai più paura degli zombie affamati di cervelli?» rincara l’uomo «E cammina come si deve, se cadrai non verrò certo a tirarti su».
«Oh, lo farai eccome, invece!» lo sbeffeggia Jude, fingendo di inciampare all’indietro sulla moquette rossa decorata dai simboli di alcuni gigli dorati, venendo prontamente afferrato da Dark «E no, non ho paura di zombie o chissà cosa. Tanto adesso ci sei tu che mi proteggi, no?»
«Ma io ti proteggo sempre, sciocchino ~» lo rimbrotta Ray, carezzandogli suadentemente il mento con due dita, mentre lo aiuta a rimettersi per bene in piedi.
Jude avvampa vistosamente al contatto delle dita di Ray con il suo volto, tuttavia cerca di non farglielo notare, tornando a voltarsi e incamminandosi nuovamente lungo il corridoio.
Ray lo segue pedissequamente, a pochi passi di distanza dalla sua schiena.
Quando arrivano davanti alla suite, per poco Jude crede di esserselo sognato. Stanno camminando da diversi minuti lungo quel corridoio che gli pare infinito, mani rasenti al muro per non perdere l’orientamento in quell’oscurità accecante, rischiarata parzialmente solo dalle rade luci presenti all’esterno, che filtrano nell’hotel attraverso le finestre che di tanto in tanto incrociano sul loro cammino.
«Credo che ci sia un altro problema» annuncia Jude, rimproverandosi per essersene reso conto soltanto adesso.
«Sarebbe a dire?» domanda Ray, perplesso.
«Beh» ammette il ragazzo, con un sospiro affranto «senza corrente elettrica è tecnicamente impossibile che il meccanismo della tessera magnetica funzioni. Servirebbe una chiave o qualcosa del—»
Nemmeno un secondo dopo, Ray sta già facendo dondolare un paio di scintillanti chiavi d’ottone davanti agli occhi meravigliati del ragazzo.
«Diciamo pure che ci avevo già pensato» replica Ray, ghignando soddisfatto.
«E questa cos’è, una sorta di rivincita? Io ho avuto l’idea geniale del montacarichi e tu quella delle chiavi? Oh, okay, va bene» brontola Jude, facendosi prendere da un moto d’irritazione.
«Suvvia, non imbronciarti» Ray lo abbraccia di slancio, mentre sta già infilando la chiave nella serratura «godiamoci questo momento e basta, okay?»
«Mh, okay» concede il ragazzo, strofinando appena il capo contro il petto dell’ex allenatore.
La chiave scatta nella serratura e Ray spinge delicatamente la porta, che si dischiude piano davanti ai loro occhi, rivelando il suo interno con un certo velo ammaliante.
Il buio non permette una visuale completa e certo la fioca luce che entra dalle due finestre non aiuta granché. I tendaggi sono stati lasciati aperti, per quanto però possano essere in alto adesso tutto quello che riescono a scorgere da lì non sono altro che i soliti, monotoni grattacieli – e Jude è abbastanza certo di cominciare ad essere stanco, di quel panorama. A terra c’è una moquette scura, con dei ricami bianchi appena visibili, decisamente moderna rispetto a quella in corridoio; la mobilia in legno d’acero è distribuita un po’ ovunque, a partire dalla scrivania alla destra dell’entrata, con la sedia girevole rivestita con morbidi cuscini, passando per la cassettiera discreta, che ben si fonde con l’ambiente e che ospita un invitante televisore al plasma – che ovviamente non funzionerà, sempre per via dell’assenza di corrente elettrica. Contro la parete opposta spiccano un divano e una poltrona, che devono essere decisamente morbidi, sormontati da un elegante dipinto ad olio. Nella stanza sono inoltre presenti ben cinque lampade, due abat-jour sui rispettivi comodini, posti ai lati del letto e tre paralumi, per illuminare a giorno la camera – ma ahimé, di nuovo, non c’è modo che queste possano funzionare, in quella dimensione distorta.
In fondo c’è una porta bianca, che condurrà senza dubbio alla toilette super equipaggiata, completa di lavabo regale, vasca con idromassaggio e box doccia, oltre a tutti gli altri vari comfort che non possono mai mancare nel bagno di un hotel di lusso. La cabina armadio è immensa ed occupa quasi interamente la parete su cui compare la porta d’ingresso – e peccato non avere dei vestiti da riporvi, insomma.
Il vero e proprio elemento chic della stanza è tuttavia, ovviamente, il letto matrimoniale, che occupa una posizione centrale. Un talamo nuziale in piena regola, lenzuola bianche immacolate in raso, testiera imbottita, cuscini e materasso soffici come piume e una struttura lignea che giunge fino a toccare il soffitto.
Jude è rimasto a bocca aperta, lo sguardo che non smette di saettare da un centimetro all’altro di quella camera dalle pareti tinteggiate di bianco – non un bianco opprimente come quello degli ospedali, quanto piuttosto un panna che rende tutto così incredibilmente accogliente, rassicurante, rilassante – troppo rapito da tutti quei nuovi dettagli.
«Non sarà… troppo, per noi?» si azzarda a domandare, una punta di timore nella voce.
Ray chiude la porta con nonchalance, sorridendo entusiasta nell’avvertire il dubbio e l’incertezza nella voce del suo ragazzo. Sarà un bel gioco, Jude, vedrai…
«Desidero solo il meglio per te, Jude. Dovresti saperlo, ormai, dopotutto ci conosciamo da tanti di quegli anni…» commenta solennemente Dark, incrociando le braccia al petto e restando ad osservare il ragazzo con un cipiglio sorprendentemente interessato.
«E posso fare qualsiasi cosa, adesso che sono qui?»
«Assolutamente, qualsiasi cosa, ragazzo mio»
«Davvero? Qualsiasi qualsiasi?» insiste Jude, sbigottito.
«Qualsiasi qualsiasi» rincara Ray, scompigliandogli appena i capelli.
Ottenuta la conferma desiderata, Jude non indugia oltre prima di lanciarsi sul maestoso letto matrimoniale. Ogni volta che suo padre l’ha portato con sé, in uno dei suoi numerosi viaggi d’affari in giro per il mondo, il ragazzo si era dovuto trattenere da esternazioni di gioia del genere di fronte a un comodo giaciglio d’hotel, certo che l’uomo non avrebbe accettato. Invece con Dark, adesso, la musica è ben diversa: non essendo apparentemente quella la vera New York, non avrebbe comportato danni di alcun genere e nessuno sarebbe andato da lui a contestare per quel che aveva fatto. E poi Ray gliel’avrebbe permesso a prescindere, si vede da chilometri di distanza che è perdutamente innamorato di lui, gli concederebbe di fare qualsiasi cosa.
La cosa buffa è che la sua mente ha dovuto compiere uno sforzo non indifferente per riportare a galla i ricordi di lui e suo padre – anche sommariamente recenti, peraltro – il che è decisamente preoccupante. Forse dovrebbe parlarne con Ray, solo che quel momento è così esaltante che non gli sembra proprio il caso di rovinarlo con le sue solite paranoie.
Jude non si accorge neanche del momento in cui ha cominciato a saltare sul letto, sa solo che un attimo prima non ne era cosciente, occhi chiusi e mente altrove, invece l’istante successivo, non appena solleva nuovamente le palpebre, percepisce lo sguardo stralunato di Ray su di sé, mentre sente il proprio corpo alzarsi di qualche centimetro in aria per poi tornare con i piedi poggiati sul materasso, poi di nuovo su, andando avanti così, di continuo, senza riuscire a fermarsi.
«Oh cielo» borbotta imbarazzatissimo, le guance che hanno ormai preso una poco rassicurante sfumatura purpure «scusa, scusa, scusa, non mi sarei dovuto mettere a saltare così—»
«Ma no, tranquillo» Ray si avvicina al letto, quasi scivolando nelle tenebre della notte «dopotutto, è bello vederti così spensierato. Mi fa scoppiare il cuore di gioia».
Quando l’uomo è ormai giunto ai piedi del talamo, Jude è riuscito finalmente a smettere di saltellare. Anche se adesso è più in alto rispetto all’altro, contando il materasso e tutta la struttura del letto, Ray continua a sovrastarlo, pur con i piedi ancora a terra.
Il ragazzo sente il cuore martellargli nel petto, mentre uno strano rossore gli ha invaso di nuovo le gote. È strano percepire Dark così vicino a sé… a Jude sembra di sentire il suo respiro caldo sfiorare la propria pelle, che invece ora gli pare così incredibilmente fredda.
Non credeva che averlo così vicino lo avrebbe fatto sentire così… così come? Jude non sa nemmeno definire quella nuova sensazione, che d’improvviso lo ha avvolto completamente.
«Ehm, ecco—» cerca di mormorare qualcosa di intelligente – o quantomeno sensato – tuttavia le parole in quel momento sembrano avercela con lui, dato che pare non vogliano uscire fuori dalle sue labbra per nessuna ragione al mondo.
«Non preoccuparti» lo incoraggia Ray, una mano che si perde tra i capelli del ragazzo, mentre l’altra si è già persa lungo la sua schiena candida, sotto strati e stati di vestiti «penso a tutto io adesso, mh?»
«M-ma io—» Jude si morde il labbro inferiore, fino a che non sente il sapore ferroso del sangue sgorgare nella bocca, invadendola del tutto.
«Shh~» Ray continua a riempirgli la schiena di carezze bollenti, che corrono lungo tutta la linea della colonna vertebrale, mentre così facendo lo induce a distendersi sui cuscini morbidi del letto «Devo forse ricordarti che ci troviamo in un paese in cui la maggiore età si raggiunge legalmente a sedici anni e tu ne hai già ben diciotto?»
Il ragazzo sobbalza, il rossore sulle sue guance che sembra aumentare ancora di più, mentre trattiene a stento un gemito quando le labbra dell’uomo si posano sulle sue, languide e possessive.
«Bravo. Lasciati andare. Così» lo esorta ancora, spingendo il proprio petto contro quello del giovane, le mani che hanno già cominciato a slacciare sapientemente la camicia del più piccolo, bottone dopo bottone.
Jude chiude gli occhi, rapito dai fremiti che lo comprendono completamente, come onde che si riversano sugli scogli, in un giorno di alta marea.
E forse è solo allora che comprende cosa voglia dire abbandonarsi davvero alle proprie emozioni.


«Faresti meglio a riposarti, adesso»
«Cosa? Riposarmi? E io che non vedevo l’ora di ricominciare tutto da capo…»
«Non prendermi in giro, sarai stanco»
«I-io non sono affatto stan—»
Jude non aveva fatto in tempo a terminare la frase che si era addormentato placidamente, il volto premuto appena contro il petto dell’uomo.
Uscendo dalla doccia, Ray non riesce a far a meno di riportare alla mente gli stralci della conversazione – o meglio, di quell’accenno di dialogo – avuti poco prima con Jude, negli istanti che avevano preceduto l’addormentamento del ragazzo.
È stato tutto così… perfetto. Non immaginava neanche lontanamente di poter sfiorare apici di piacere tanto alti… beh, forse se lo sarebbe dovuto aspettare, visto che tra le sue braccia c’era proprio lui.
L’essere perfetto, la prima, meravigliosa creazione.
Ray Dark riemerge dalla toilette, un asciugamano annodato in vita e i capelli tamponati appena con i teli generosamente offerti dall’Hilton Hotel ancora umidi che gocciolano un poco sull’elegante moquette. Lo shampoo gli ha lasciato stille di profumo alla vaniglia, nonostante il sentore di stantio emerso dai flaconi subito dopo averli aperti, per essere rimasti chiusi così a lungo – secoli, letteralmente.
È assurdo che, in un mondo senza elettricità, le docce siano ancora perfettamente funzionanti. Non puoi mangiare cibi freschi né riscaldarli, non hai possibilità di riscaldarti dal gelo ma almeno puoi farti trovare perfettamente pulito e profumato durante l’apocalisse. Certo.
Ovviamente l’acqua calda non si trova neanche a pagarla – senza corrente è impossibile che boiler, scaldabagni e caldaie varie funzionino – ma almeno l’acqua c’è. Che poi a Ray quello sembra un paradosso bello e buono: come fanno ad averla, se le centrali idriche non funzionano? Perché, parliamoci chiaro, è impossibile che si riesca ad ottenere un fabbisogno d’acqua necessario a soddisfare una megalopoli come New York, senza centrali idriche.
Forse il governo americano aveva stipulato un fondo per le emergenze, così che, anche in caso di un blackout generale, l’immensa megalopoli che è New York non rimanesse a corto di un bene tanto prezioso quale l’acqua. Ray s’informerebbe ben volentieri, se solo i computer o la rete wifi funzionassero, peccato che sia di nuovo da capo a dodici – niente elettricità, niente computer e quindi niente accesso ad internet. Avrebbe dovuto pensarci, a quanto sia importante la corrente elettrica nel mondo moderno, perlomeno prima di finire in una dimensione priva di essa.
Anche perché, a quel punto, non dovrebbe esistere un piano d’emergenza nazionale anche per l’elettricità? No, no, questa faccenda continua a non quadrargli.
Ray, in effetti, ha sempre avuto il sospetto che, dietro a quel loro soggiorno lì, ci fosse qualcuno, capace di macchinare e architettare un piano del genere, fornendo loro solo ciò di cui avevano bisogno nel momento esatto in cui ne percepissero la necessità, ovunque si trovassero. Solo che questo a Jude non l’ha mai detto, una prospettiva del genere basta ad inquietare se stesso, meglio non mettere ulteriori pesi sulle spalle del suo adorato ragazzo, soprattutto non dopo tutto quello che ha dovuto soffrire, negli ultimi tempi.
A proposito di Jude, tornando nella camera da letto Ray lo trova ancora profondamente addormentato: è disteso nel letto a pancia in giù, tutto il lato sinistro del volto premuto contro il cuscino, la bocca socchiusa e il corpo abbandonato in una posizione piuttosto innaturale – le braccia aperte, una gamba più sollevata rispetto all’altra. È crollato esattamente così, poco prima.
Ray non fatica a trovarlo adorabile: gli appare estremamente puro, innocente. Quasi si sente in colpa, perché in tutti quegli anni – e soprattutto dopo quello che è successo poco prima – non gli sembra d’aver fatto altro che deturpare l’immacolata perfezione di quel ragazzo.
Adesso, tuttavia, è troppo tardi per essere colti dai rimorsi. Quel che è fatto ormai è fatto, inutile pentirsene.
Inoltre… perché mai pentirsi di cotanta perfezione?
Le dita affusolate di Ray accarezzano quel che il lenzuolo lascia scoperto della schiena di Jude, candida e vellutata: ne percorre la colonna vertebrale, sogghignando di soddisfazione nel constatare che il ragazzo non dà segno di risvegliarsi, nonostante quel contatto.
Non mentirmi, Jude: tu ti fidi ancora di me, nonostante tutto, oltre lo scorrere del tempo che mai è stato clemente con noi.
Con un sospiro stanco, l’uomo lascia il giovane al suo meritato riposo, recuperando i propri vestiti – sparsi alla rinfusa sul materasso – e rivestendosi in tutta calma.
Un velo di pace sembra essersi posato tra di loro, su quella camera, su quell’intera città di fantasmi e Ray si sente finalmente in pace con se stesso, così come non gli capitava da anni.
Magnifico.
Dark è un tutt’uno con le ombre della stanza mentre muove passi felpati su quella moquette morbidissima in direzione di una delle due finestre, che sembra non essere stata minimamente toccata dallo scorrere del tempo.
Il mondo esterno gli appare così come l’ha lasciato, prima di addentrarsi nel nugolo di corridoi dell’Hilton Hotel, insieme al suo adorato Jude: un mondo freddo, arcigno, crudele, abbandonato al degrado della solitudine e al silenzio eterno, immerso in quel mare di tenebre.
In passato, forse, non gli sarebbe nemmeno sembrato un posto tanto inospitale, considerata l’oscurità che albergava – o meglio, quella che voleva che gli altri credessero che albergasse – all’interno del suo cuore. Ora invece, tutto quel buio gli pare così opprimente, tanto che a volte quasi teme di non riuscire più a respirare.
Ray ruota piano la maniglia della finestra, facendo attenzione affinché scattando produca meno rumore possibile – tutto, pur di non turbare in alcun modo la tranquillità del suo ragazzo.
Dischiudendo le ante, ovviamente è ancora una volta il silenzio tombale ad accoglierlo, tanto che Ray non si meraviglierebbe di sentire i grilli cominciare a frinire da un momento all’altro, come nelle sere di tranquillità in campagna.
E in effetti se alza lo sguardo in cielo può facilmente scorgere una notte stellata in piena regola, Orione che gli strizza l’occhiolino con fare insensibile.
Già, come se nemmeno le stelle si curassero del loro dolore – e forse è proprio così.
È una notte senza luna come ogni altro istante che ha trascorso in quell’oscurità senza fine, il che rende tutto ancora più tetro, palazzi perfettamente conservati sembrano ruderi senza porte e finestre, i loro unici inquilini spettri di tenebre, che s’affaccendano mentre aleggiano tra quei corridoi, albergando quelle stanze come nere certezze.
Il paesaggio è ostruito dai grattacieli vuoti e disabitati, la visuale è ampiamente ridotta. Ray è assolutamente certo di essere incapace di vedere pochi metri oltre il suo naso.
Tutto sommato, quella tranquillità – per quanto artificiosa possa essere – è piacevole, immergersi nel silenzio aiuta a sciogliere i nervi, indubbiamente.
Un refolo di vento attraversa silenziosamente l’atmosfera immobile e immutabile, un alito fresco che sfiora la pelle di Ray dopo un tempo che gli è parso infinito.
No, un momento.
In quel mondo che di reale ha ben poco, Ray si rende nitidamente conto che non c’è mai stato un singolo istante, da quando è giunto in quella dimensione distorta, in cui ha sentito il vento soffiare.
E quello, per l’uomo, è un campanello d’allarme fin troppo chiaro.
È un attimo prima che accada l’inevitabile.
Dapprima è un sentore leggero, quasi impossibile da percepire, troppo lontano perché l’orecchio o qualsiasi altro senso umano possa captarlo. Ben presto, tuttavia, quel rumore ovattato si fa sempre più vicino, acquistando nitidezza.
Sembrano pulsazioni ritmiche, quasi come quelle di un cuore. Tu tum, tu tum. Tu tum, tu tum.
La terra trema sotto i suoi piedi, le pareti vibranti sembrano d’improvviso fogli di carta macerati dall’acqua per quanto fragili e impotenti si rivelino alla necessità di proteggerli.
“Il terremoto” è il primo pensiero dell’uomo, nell’avvertire quei rumori sospetti. In tutti quegli anni, Dark non si è mai ritrovato dinanzi ad una prospettiva così tragica, ecco perché all’idea che i suoi sospetti possano essere fondati resta per un attimo eterno impietrito, senza avere la più pallida idea di cosa fare.
Per un attimo Ray crede – anzi, forse addirittura spera – di essersi immaginato tutto, che i quattro interminabili anni trascorsi lì l’abbiano condotto del tutto alla pazzia e che quelle vibrazioni che ha sentito non siano altro che il frutto della sua mente distrutta.
Peccato che dopo tutto il tempo passato in quella riproduzione di New York, in cui è notte in ogni momento della giornata e i secondi di sabbia non scorrono nelle clessidre, ha ormai compreso che dove si trova nulla accade per caso.
I colpi pesanti si rimarcano sul terreno, tanto che Ray sente quasi di riconoscerli con il rumore di passi. Solo che dei normalissimi calpestii non creerebbero tutto quel fragore, lo sa fin troppo bene.
E Ray ne ha la conferma, quando vede la via dell’Hilton Hotel inondarsi di giganti di pietra.

                                                                ~~

«Oh, sei tornato, finalmente».
Caleb fa il suo ingresso nella stanza a passo nervoso e spedito, ricordando quasi l’incedere furente di un cavallo al trotto. Getta a terra una felpa grigia dall’aspetto piuttosto malandato mentre tra le mani tiene un lungo foglio, tutto arrotolato su se stesso.
«Sì, beh, bello schifo, insomma» sbotta, le parole che sembrano quasi essere sputate «per poco non mi prendevano, quegli pseudo crononauti. Mi hanno inseguito per mezza Londra e mi sono dovuto inventare l’impossibile per seminarli. Solo trasportarmi via con l’Oro all’ultimo momento, dopo essermi arrampicato fin in cima al Tower Bridge sollevato ha funzionato, pensi un po’…»
«Tutto molto interessante» commenta l’uomo, con un tono che sembra essere tutto, fuorché incuriosito dalle gesta del ragazzo «ma almeno hai recuperato quello che ci serve?»
«Ne dubitava?» Caleb raggiunge il suo interlocutore, in piedi davanti alla vetrata, che dona un’incantevole scorcio sulla città di New York, immersa nel suo buio perenne. Passa il foglio all’uomo, che subito lo srotola, iniziando ad osservarlo attentamente.
«Eccellente» commenta, soddisfatto «ora siamo a conoscenza degli Orologi mancanti. Riposati, figliolo, questa volta hai compiuto il tuo lavoro egregiamente».
«Eh, certo, stavolta. Come no» Caleb sbuffa, irritato «comunque, quanto ai nostri “ospiti”?»
L’uomo si volta, per la prima volta da quando è giunto nella stanza, in direzione del ragazzo, con in volto un’espressione stupita.
«Oh, Jude Sharp e Ray Dark, dici? Non preoccuparti» si passa una mano davanti al volto, ghignando malevolmente «ho preparato una “sorpresa” tutta per loro. Accomodati pure, Caleb: lo spettacolo sta per cominciare».





* Angolo autrice *


Yee, ce l’ho fattaaa! *suona trombetta*

Scusate, sono io stessa la prima ad essere incredula: non credevo che alla fine sarei riuscita a pubblicare oggi, per quanto mi stessi impegnando a finire il capitolo. Ad ogni modo, ce l’ho fatta: siete contenti?
Mi sono tipo slogata un polso per finire di scriverlo tutto, perché – parliamoci chiaro – la parte dei crononauti è lunga sedici pagine e quella ambientata a New York dodici. Voglio troppo morire, ahahah, ventotto pagine, chi me l’ha fatto fare—
In realtà la parte di Amelia (che ebbene sì, è ricomparsa ed è ancora qui tra noi – beh, più o meno), Thiago & co. doveva venire molto più breve, tuttavia alla fine ho deciso di allungarla e di lasciarvi col cliffhanger finale del ladro perché sì. Perché sono una persona malvagia, ecco.
Comunque, per la prima volta in vita mia svelo un cliffhanger nello stesso capitolo in cui compare. Il ladro è ovviamente Caleb, che trafuga le raffigurazioni degli Orologi perché almeno così sarà più facile trovarli. Oh no, i cattivi adesso sono un passo avanti ai nostri eroi. Però dai, diciamoci la verità: a chi piacciono le cose semplici? A me.
Non so se avete notato ma rispetto alla lista dei personaggi che vi avevo lasciato nel capitolo precedente è apparso un nuovo oc che non avevo segnato: ebbene, si tratta di Julie Dupont, oc di Michy_66. Ho scelto di integrare Julie nella trama perché praticamente, se non lo avessi fatto, mi sarebbe rimasto un posto vuoto tra i crononauti, giacché fin dal progetto iniziale dovevano essere otto. A proposito, finalmente i nostri ragazzi si sono incontrati! Che ne dite, li ho fatti interagire bene tra loro?
Qui sotto vi lascio nuovamente la lista degli oc con l’aggiunta di Julie, indicando come al solito colore della luce sprigionata durante i viaggi e simbolo dell’Oro.


Julie Dupont ~ pavone
Atemu McKinley ~ mondo
Amelia Greene ~ corvo
Andrea Cervini ~ scheggia di vetro
Thiago Joel Ferreira dos Reis ~ ragno
Margarita Rimšaitė ~ maschere del teatro classico
Claudine Blanchard ~ rondine
Amos Akolzin ~ ingranaggi


Ad ogni modo, vi lascio una piccola anticipazione sul prossimo capitolo: i nostri ragazzi dovranno andare alla ricerca degli Orologi perduti, quindi inizieranno i primi viaggi in giro per il mondo! Ho già deciso quali saranno le destinazioni in cui si recheranno, perciò, visto che stasera mi sento estremamente magnanima, ho deciso di lasciarvi anche lo schemino delle coppie e di chi andrà con chi. Sono proprio buona oggi, eh?


Andrea/Claudine – Roma, Italia
Atemu/Amos – Città del Capo, Sudafrica
Amelia/Thiago – Ayers Rock, Uluru, Australia (Outback australiano)
Margarita/Julie – Beijing, Cina


Ecco fatto! Vi piacciono le coppie? E le destinazioni?

Bene, con questo credo che per stavolta sia decisamente tutto. Vi lascio l’appuntamento al prossimo mese per il nuovo capitolo (sì, cercherò di aggiornare almeno una volta al mese, sperando di rientrarci con le tempistiche) e spero di sentirvi presto, magari nelle recensioni, chi lo sa!
Ci vediamo domani, con l'ultimo chap di Mar (viva Ange!)


                                                                                                                                                                    Aria


Next stop .:: Chapter seven  —Butterflies and hurricanes
   
 
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