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Autore: nainai    06/05/2009    0 recensioni
In Città ci sono solo due colori: nero e rosso. Ed un ragazzo che credeva che non si sarebbe mai arreso a questa evidenza.
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gerard Way, Mikey Way, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Oscar mi aveva avvisato: stai attento, si sono fatti furbi; pur di mettercela a quel posto fanno comunella con quegli stronzi degli sbirri.
“Quindi ci saranno gli sbirri” avevo recepito quietamente. La sicura della pistola era scattata, il colpo in canna, Oscar aveva risposto qualcosa che equivaleva ad un “sì” ma io non lo stavo già più ascoltando.
Sì, ero stato avvisato. Per cui non ero particolarmente sorpreso di ritrovarmi un bel buco in pancia ed un po’ di piombo da smaltire. Di tutti i posti in cui potevo andare a crepare, comunque, il mio cervello scelse inevitabilmente il peggiore, ed invece di strisciare fino alla porta di padre Philip per l’estrema unzione, mi ritrovai a macchiare di sangue il muro di Helena, appendendomi al campanello di casa sua con la disperazione e l’incoscienza di un moribondo. Mentre cadevo lentamente a terra, osservavo la striscia rossa che le mie dita avevano disegnato attorno al nome: Helena era solo Helena anche sul campanello di ottone. Mi aprì in camicia da notte. Era bellissima, bianca ed irreale proprio come devono essere i sogni.
 
Fu il dolore al fianco a farmi rinvenire. Soffocai un urlo che mi strozzò la gola e tossii, mentre il sudore e la febbre tornavano prepotentemente stordendomi i sensi. Helena mi posò delicatamente una mano sulla fronte, spingendo per obbligarmi a stendermi di nuovo ed io affondai nel suo profumo e nella morbidezza delle lenzuola di seta del suo letto.
-…Helena?- la chiamai vedendola impegnata sul mio corpo.
Il dolore tornò a bruciarmi la carne, mi morsi le labbra per non gridare e lei sollevò gli occhi, rivolgendomi un sorriso stanco che non cancellava la preoccupazione dal suo viso.
-Sei stato fortunato,- la sentii dire- la pallottola è entrata ed è uscita senza toccare niente…
-Davvero?- domandai sarcastico.- Sai che non mi ero accorto che fosse anche uscita!- scherzai strappandole una risata smorzata.- Allora…dicevi sul serio quanto al saper ricucire la gente.
Non mi rispose. La vidi posare la pezza con cui aveva pulito la ferita dentro una bacinella già rossa di sangue; accanto a sé, sul comodino, teneva aperta una cassetta del pronto soccorso da cui tirò fuori ago e filo.
-Gerard, - mi avvisò- questo farà un po’ male.
Annuii, deciso a non farle pesare quella cosa più di quanto già non avessi fatto. Serrai le labbra e voltai la testa dall’altro lato, finché alla fine il dolore e la febbre presero il sopravvento ed io svenni di nuovo. Ripresi conoscenza quasi subito, credo, perché Helena stava finendo di bendare la ferita ed io avvertivo il tocco delicato delle sue dita sul fianco e sul costato. Mi voltai lentamente, lo stordimento si faceva più forte man mano che il dolore diventava sordo, affievolendosi, ma costante, come un sottofondo pieno premuto addosso. Respiravo male e faticavo a mettere a fuoco i contorni della stanza; l’unica cosa intorno a me che risaltava su uno sfondo nero ed uniforme era Helena, il suo viso tirato e la piega affaticata della sue labbra. Non avevo mai visto il viso di Helena senza il suo sorriso radioso ad illuminarlo. Allungai una mano, sfiorandole la bocca nel tentativo infantile di piegarne gli angoli all’insù; lei mi guardò.
-Mi spiace…- mormorai a quello sguardo che mi studiava apprensivo.
Helena respirò a fondo, tornando a concentrarsi sul proprio lavoro.
-Non pensarci.- mi ammonì, ma senza forza.- Dormi.
-Ti ho messo nei guai, vero?- insistetti io. Non riuscivo a togliere la mano dalla sua guancia, era fresca e morbida…- Non sarei dovuto venire…
-Gerard!- rimproverò con un suono aspro e gutturale. Fu la sua volta di poggiarmi le dita contro la bocca, lo fece per intimarmi il silenzio che non volevo rispettare.- Ci penseremo domattina.- si sforzò di essere più dolce.- Ora devi riposare.
Sospirò, mettendosi dritta e tirando in grembo le braccia come pesassero. La ferita mandava fitte intermittenti, quasi pulsasse di vita propria e respirasse. Helena si guardò attorno ed, imitandola, lo feci anche io, cercando di riconoscere le forme dei mobili. Quando lei tornò a muoversi, io la seguii con lo sguardo pregando silenziosamente che non mi lasciasse.
Helena mi sentì… girò attorno al letto ed il suo peso piegò l’altro lato del materasso, al mio fianco. Voltai la testa sul cuscino finché i nostri visi furono uno di fronte all’altro: aveva già chiuso gli occhi ed il suo respiro regolare mi accarezzava la fronte ed il naso.
Mentre la guardavo dormire, pensavo che no…non volevo davvero morire.
G.
***
Non ero una sciocca. Avevo imparato da tempo l’unica regola fondamentale in Città: non ficcare il naso negli affari degli altri se non sei costretta a farlo. Una regola che, nei fatti, avevo infranto la stessa sera in cui ero andata a casa sua per la prima volta. Gerard era uno degli uomini di Ricky. Io ero la donna di Ricky. L’unica relazione possibile tra noi era quella che ci aveva fatti conoscere: un incontro casuale sulle scale di casa di chi tirava i fili delle nostre vite.
Ed invece no. io non mi ero accontentata; non mi ero accontentata nemmeno dell’unica sera al bar di Dan, quando mi ero offerta, più o meno consapevolmente, per ascoltare le parole di Gerard. Non sapevo niente di lui allora, ed, in realtà, nemmeno a distanza di quei mesi in cui eravamo diventati amici - … ma stavo mentendo a me stessa chiamandoci “amici” – ero riuscita a capire chi fosse e cosa nascondesse.
Trovarlo quasi morto davanti la porta di casa, per assurdo, era il più grosso indizio che Gerard mi avesse mai dato fino a quel momento. Ne sapevo abbastanza, a quel punto, per capire quanto grande potesse essere il guaio in cui mi ero cacciata. Il fatto che questo non fosse stato sufficiente a lasciare chiusa la porta ed a chiamare un’ambulanza perché se lo portasse via e fosse qualcun altro ad occuparsi di lui, mi dava il senso di quanto stavo mentendo a me stessa nel chiamarci “amici”.
Non avevo voluto dare un nome ai miei sospetti neanche allora: avevo raccolto Gerard fuori la porta e lo avevo curato senza farmi domande che andassero oltre l’evidenza dei fatti. Questo me lo aveva insegnato Ricky. Tolsi la pistola dalle dita intorpidite di Gerard, la chiusi in un cassetto in camera da letto, medicai le sue ferite e mi assicurai che dormisse e riprendesse le forze. Non dovevo farepensare altro.
 
Almeno fino al mattino dopo.
Il campanello suonò di seguito un paio di volte nell’arco di tempo, breve, che ci misi a lasciare la cucina e raggiungere la porta. Chiusi la vestaglia stringendo in vita la cinta e feci scattare la serratura, lasciando il chiavistello e socchiudendo il battente per vedere i due uomini fuori la porta. Il più anziano mi rivolse un “buongiorno” educato e mostrò il distintivo, quello più giovane portò le dita al cappello quando aprii la porta per farli entrare.
-Sono l’ispettore Percival Bishop, signorina.- si presentò il primo.- Lui è il mio collega Usher Stoner.- indicò poi il ragazzo.
Mi misi tra loro ed il corridoio che portava alla camera da letto. L’ispettore Bishop interpretò quel gesto ma non parlò, vide la porta della cucina e puntò da quella parte.
-Ha qualche minuto di tempo per noi, signorina?- mi domandò mentre si muoveva, seguito dall’altro.
Se pure non lo avessi avuto avrei dovuto trovarlo, quindi andai loro dietro chiudendo la fila.
-Certo, ispettore.- mentii cordialmente.- Caffè?- offrii, avvicinandomi al bricco sul ripiano della cucina.
Non riuscivo davvero ad essere gentile come avrei voluto. Ero fredda, distaccata e per certi versi scostante, lo ero perché il mio unico pensiero era per Gerard, steso sul mio letto e pallido come un fantasma per tutto il sangue che aveva perso la notte prima. Servendo il caffè sul tavolo, mi complimentai con me stessa per la prontezza con cui mi ero alzata all’alba per pulire il pianerottolo ed il muro fuori la porta.
-Grazie.- mi sorrise l’ispettore Bishop.
Ricambiai incolore e mi sedetti nella sedia libera all’altro capo del tavolo.
-Signorina Helena,- esordì l’ispettore in tono professionale. La nota amichevole, complice che gli dava era il suo tocco personale, quello con cui recitava la parte del poliziotto buono. Ma io ero una puttana, i poliziotti, buoni o cattivi, li conoscevo.- si tratta di questo. Abbiamo motivo di credere che stanotte un individuo sospettato di omicidio si sia introdotto in casa sua…o abbia cercato di farlo – corresse.- per sfuggire alla cattura dopo uno scontro a fuoco con i miei uomini.
Aspettai che finisse bevendo il mio caffè, poi alzai un sopracciglio con aria scettica.
-Davvero?- domandai posando la tazza sul piano.- E di chi stiamo parlando?
Sospirò, sfilando da dentro l’impermeabile beige da sbirro fuori moda un plico di fogli piegati frettolosamente. Li aprì davanti a me e tra un mucchio di foto di “scene del delitto” ne riconobbi una sola: il portone del palazzo dove Gerard viveva e lui, Gerard, che usciva quasi di corsa, occhiali scuri ed aria cattiva.
Bishop dispose una ad una le foto, in una rosa di sangue e cadaveri al cui centro mise Gerard, battendoci su con un dito.
-Lei conosce quest’uomo, signorina?
Loro sapevano che lo conoscevo.
-Sì.- risposi senza esitare.
-Il Sig. Way- mi spiegò l’ispettore studiando con attenzione le mie reazioni- è sospettato dell’omicidio di cinque persone, l’ultima delle quali è stata ammazzata stanotte, sotto gli occhi dei miei agenti.
-Che hanno problemi di vista, a quanto pare.- commentai incolore.
Bishop trasalì leggermente, io continuai a guardarlo dritto negli occhi senza fare una piega.
-…prego?- borbottò lui rudemente.
-Devono averli se dicono di aver visto Gerard sparare a qualcuno stanotte.- Prima che mi interrompesse lo precedetti, dandogli ciò che cercava.- Ispettore, Gerard non può avere ammazzato nessuno stanotte: ieri sera abbiamo cenato assieme qui da me e lui…ha passato la notte con me.- dissi in modo che il concetto fosse ben chiaro- Quindi, di sicuro non può aver commesso l’omicidio di cui lo accusa,- proseguii con la stessa calma e sicurezza. Raccolsi dal piano la foto di Gerard soppesandola tra le dita, quanto poteva essere pesante la sua anima?- ed io, a questo punto, mi porrei dei dubbi anche sugli altri quattro.- conclusi aspra, rigettandogli di malagrazia la foto davanti. Quando sollevai di nuovo il viso su di lui, sorridevo.- C’è altro?- mi informai tranquillamente.
-No, chiaramente.- rispose l’ispettore.
-In questo caso, vi accompagnerei alla porta. E prima che lei me lo chieda, no, non la farò parlare con Gerard. Sta dormendo ed io non intendo svegliarlo.
Bishop annuì ed io gli ricambiai il gesto: ognuno di noi rimaneva sulle proprie posizioni.
-Mi procurerò un mandato, signorina, e lei rischia di essere accusata di complicità in omicidio.- mi avvisò cortesemente mentre si alzava.
-Bene. Allora la aspetto.- risposi io allo stesso modo, accompagnandoli alla porta.
Tornai in camera da letto quasi di corsa. Gerard era in piedi, sentì i miei passi nel corridoio e si voltò nel momento in cui mi fermai sulla soglia, spostando lo sguardo da lui – era pallido e si reggeva in piedi a stento, appoggiato con il fianco contro la cassettiera – alla pistola che teneva in mano, tra l’indice ed il pollice, quasi in bilico, come fosse qualcosa che lo disgustasse dover toccare. Respirai e presi atto del fatto che si fosse rivestito ed infilato le scarpe. Lui sospirò, togliendo uno sguardo colpevole  dalla mia faccia.
-Devo andare, Helena.- mormorò cupamente fissando con insistenza il pavimento.- Anzi, non dovrei proprio essere qui…
-Dov’è che vorresti andare?- sbottai, muovendomi all’interno della camera.- Ti reggi in piedi per miracolo, Gerard.- gli rinfacciai asciutta.
Lui si spostò. Forse pensava di smentirmi ostentando una certa sicurezza, finì solo per metterci troppa foga, inciampando su se stesso e quasi cadendo nel tempo che mi servì per raggiungerlo e sostituirmi al mobile, offrendogli il mio sostegno. Gerard represse un lamento, soffocandolo in un suono strozzato, chiuse forte gli occhi e quasi si appese alla mia spalla, senza pensare che non sarei riuscita a reggerlo nemmeno volendo. Ma non mi lasciai atterrare.
-Visto?- sbuffai con un sorriso che cercò di essere tenero.
Lui si voltò a guardarmi, riaprendomi in faccia due occhi sofferenti e spaventati.
-Ti sto mettendo in pericolo, Helena!- esclamò disperatamente, e per un momento provai l’impulso di abbracciarlo e cullarlo come avevo fatto per mesi.- Non volevo che tu fossi coinvolta in questa storia!- continuò lui sciogliendosi dalla mia stretta ed allontanandomi di forza. Incespicò, cadde all’indietro a sedere sul letto prima che potessi afferrarlo di nuovo. A quel punto rimasi ferma, guardandolo mentre girava attorno lo sguardo come se non capisse dove si trovasse.- La polizia mi cerca e sa che sono qui,- iniziò in tono basso ed affrettato.- anche Ricky saprà che sono qui. Tu sei in pericolo e la colpa è solo mia, non sarei dovuto venire! Non sarei mai dovuto venire da te! Non volevo coinvolgerti in questa storia!
Fu più forte di me. Lui le ultime parole le aveva ripetute quasi gridando, fissando non me ma un punto alle mie spalle. Io avevo pensato che era molto ingiusto da parte sua parlarmi a quel modo e che, vista tutta la situazione, non ne aveva proprio il diritto. Un attimo dopo gli avevo dato uno schiaffo. Gerard mi guardò spalancando gli occhi e schiudendo la bocca. Come i bambini non era arrabbiato per essere stato punito senza motivo, solo sorpreso che fosse successo così, senza neppure un rimprovero.
Io, invece, ero furiosa.
-Sei un ipocrita ed un bugiardo.- sibilai cattiva.- Come pensi di poter dire che non volevi coinvolgermi in questa storia?!- gridai- Se non avessi voluto coinvolgermi non mi avresti presentato tuo fratello!- iniziai ad elencare spietata.- Se non avessi voluto coinvolgermi non mi avresti dato le chiavi del tuo dannato appartamento! Se non avessi voluto coinvolgermi non avresti accettato il mio aiuto, non mi avresti aperto la porta ogni volta che tornavo da te, non saresti venuto a…crepare! sul mio pianerottolo! Quindi no, non ti credo quando dici che non volevi coinvolgermi, perché invece hai fatto di tutto perché ci cascassi dentro fino a non poterne più uscire!
Mi fermai. Perché mi mancava il fiato, perché Gerard non mi rispondeva e mi guardava ferito, perché la rabbia che provavo non era contro di lui. Era stato un gioco in due, avevo esagerato nel dibattermi attaccata al suo amo, alla fine ero presa. Respirai ancora, serrando forte gli occhi fino a sentirli pulsare.
-Li hai ammazzati davvero quei cinque?- chiesi freddamente.
-Sì.
-Con quella pistola? – non avevo bisogno di indicarla.
-Sì.
-Te l’ha data Ricky?
-Sì.
Mi lasciai scappare una risatina nervosa. Aprii gli occhi.
-Lo ha fatto per incastrarti. Ci si sbarazza sempre dell’arma del delitto.- dissi voltandomi a cercare la mia borsa.- Su una cosa hai ragione,- continuai mentre, trovata la borsa, scavavo alla ricerca del cellulare.- qui non puoi restare. Non è sicuro, quell’ispettore tornerà con un mandato.
-Allora fammi…!- iniziò lui precipitosamente, tirandosi in piedi. La ferita fece il resto e lo punì immediatamente, costringendolo a sedersi di nuovo.
-Ora mi credi se ti dico che non sei in condizioni da andartene da solo?- domandai soltanto.
Gerard non rispose. Io cercai un numero in rubrica e chiamai.
-Oscar.- salutai spiccia. Dall’altro capo mi arrivò un divertito “ehi, dolcezza!” che ignorai.- Ho bisogno che tu mi tolga di torno gli sbirri che sono rimasti sotto il palazzo.
Oscar ridacchiò ma non fece domande.
-Way è con te?- chiese, ma nemmeno quella era una vera domanda ed infatti proseguì.- Si è fatto pizzicare il bamboccio, eh?!
-Se lui finisce in mano alla polizia, dirà tutto quello che sa.- lasciai cadere fingendo indifferenza.
-Bah!- commentò Oscar, lo sentii tirare da una sigaretta.- Ricky lo avrà sicuramente previsto. E non credo che gli farà piacere sapere che Way è rimasto lì con te, stanotte.
-Mi assicuro solo che la “roba” di Ricky non vada in malora per niente.
-Dolcezza,- mi avvisò lui- Way non è roba di Ricky. Tu lo sei. Attenta a non mandarti in malora da sola.
Mi morsi le labbra. Oscar aveva ragione. Oscar aveva ragione. Oscar…
-Me li togli da lì, sì o no?- lo pressai con un’urgenza completamente nuova.
Espirò. Il tacco della scarpa sbatté a terra spegnendo la cicca.
-Aspetta quindici minuti e poi uscite.
Feci alla lettera ciò che aveva detto Oscar: dopo quindici minuti esatti lasciammo la casa; in un borsone nero avevo caricato cibo, vestiti puliti – Ricky ogni tanto lasciava dei vestiti da me, li avrei riportati indietro appena possibile – lenzuola e medicine; trovammo un auto ad aspettarci di sotto, chiavi nel quadro e portiere aperte. Mi assicurai che Gerard fosse a posto quando si abbandonò pesantemente sul sedile e poggiò il capo contro la testiera, chiudendo gli occhi; dopo essermi seduta anch’io rimasi qualche momento a studiare il suo viso stanco e l’abbassarsi ritmico del  petto ai respiri affaticati. Sospirai, girando la chiave nel quadro ed uscendo dal parcheggio. Mentre guidavo piano nel traffico della Città, Gerard si prese il tempo per tirare il fiato e rilassare i muscoli; io ne approfittai per concentrarmi sulla strada, fino a ricordarmela con esattezza e ad allontanare quasi completamente l’ansia impotente che avevo cominciato ad avvertire la notte prima.
-Gerard…- chiamai quando fui certa di potergli parlare in modo “normale”. Lo dissi a bassa voce perché non volevo che si svegliasse nel caso si fosse addormentato; ma non stava dormendo e mugolò un assenso sofferente senza aprire gli occhi- Tu…- iniziai sentendo la voce incrinarsi e spezzarsi subito. Me la schiarii- tu non sei un…assassino.- affermai.
Io per prima mi rendevo conto che, in realtà, era solo una domanda che non avevo il coraggio di fare. La nascondevo dietro una certezza che non era affatto tale e la mia sicurezza fasulla si infranse nell’attimo stesso in cui gli occhi febbricitanti di Gerard si aprirono nei miei, rassegnati e sfiniti come non li avevo mai visti.
-Mio fratello…Mikey spacciava per conto di Rivera- mi raccontò in un sussurro spento che faceva da amplificatore a ciò che leggevo nel suo sguardo.- Ha provato a fregarlo e Rivera se n’è accorto. Ha minacciato di ammazzarlo se non gli davamo i soldi che Mikey gli aveva rubato. Solo che non li avevamo. Così Rivera mi ha offerto di cancellare il debito di Mikey se avessi fatto fuori il procuratore distrettuale.
Non dissi nulla. Mi ero voltata per controllare la strada ed ora rimasi concentrata sulla guida. Lo sentii sbuffare ed immaginai il sorriso cattivo che gli tirava le labbra; si mosse sul sedile, in modo goffo ed impacciato, lasciandosi sfuggire gemiti soffocati quando il dolore era troppo. Mi domandai se fosse tutto lì, ed il silenzio tornò tra noi, rotto nuovamente dal suo respiro profondo.
-È chiaro che dopo il primo omicidio- ricominciò Gerard con voce arrochita dal dolore e dallo sfinimento.- mi aveva in pugno. Ha minacciato di ammazzare comunque Mikey e me ed  io sono stato costretto ad assecondarlo.- …bene. Ora sapevo tutto, no?- Quindi, come vedi Helena, ti sbagli io sono un assassino.
No.
Non ci dicemmo altro fino a che non arrivammo. Parcheggiai sotto un vecchio palazzo in periferia, Gerard sollevò in su lungo i muri crepati un’occhiata interrogativa a cui non risposi. Uscii dall’auto scaricando il borsone e voltandomi verso la facciata dell’edificio; la gran parte delle finestre erano sbarrate, le serrande abbassate, intorno a noi il quartiere era silenzioso e spoglio ed erano solo le dodici del mattino. Ricordai il motivo per cui ero stata felice di lasciare quel posto.
Gerard fu forte un’altra volta, arrancando silenzioso per la scala buia e lasciandosi andare solo quando fummo nell’appartamento e lo aiutai a sedersi su uno dei due divani all’ingresso. Gli lasciai riprendere fiato, alzando le serrande ed aprendo le finestre.
-Dove siamo?- mi domandò fiocamente quando mi vide passare per recuperare il borsone al fianco della porta.
Ne approfittai per far scattare la serratura e tirare il paletto.
-Era il mio vecchio appartamento.- spiegai breve- Vado a rifare il letto.- annunciai poi con le lenzuola in una mano ed il borsone nell’altra.
Quando tornai da lui, Gerard sonnecchiava, sdraiato di traverso sul divano si teneva la pancia con un braccio, proteggendo debolmente il fianco ferito con la mano. Attraverso la fasciatura mi accorsi del sangue fresco, la ferita doveva essersi riaperta. Allungai le dita, sollevando il braccio di Gerard e scostando la maglietta per vedere meglio, lui si svegliò e mormorò qualcosa, calmandosi non appena mi vide. Dovevo cambiare la fasciatura.
-Gee, vieni di là in camera. Ci diamo una pulita e ti cambi.- lo incitai, aiutandolo a sollevarsi.
Mi seguì, sempre senza fiatare, sedendosi sul letto fresco di bucato ed ubbidendo quando gli chiesi di togliersi la maglietta. Disfeci la medicazione e ripulii la ferita, aiutandolo poi a sciacquarsi viso e spalle prima di infilare la camicia che gli porsi. Gli feci cenno di non abbottonarla, accatastando bende e disinfettante sul materasso di fianco a noi. Gerard  ubbidiva. C’era una tale rassegnazione  nei suoi movimenti e nel modo in cui lasciava che io lo gestissi da farmi percepire con chiarezza quello che non diceva. Mentre lavoravo nello stesso silenzio che lui aveva imposto ad entrambi, mi resi conto che per la prima volta ogni suo sguardo, ogni suo gesto, ogni parola non detta tra noi due mi erano chiari ed io ne coglievo il senso completamente. Avrei dovuto esserne spaventata, Gerard non era solo un assassino – le mani di Ricky grondavano del sangue di tante di quelle persone…- in lui avevo visto dall’inizio la follia disperata di chi ha perso tutto e può tutto proprio per questo. La sua pazzia avrebbe dovuto spaventarmi, la disperazione…
Posai le mani contro le sue costole, sotto il palmo sentivo il calore della carne, le mie dita erano fredde e gli provocavano brividi sottili che non strappavano alcuna protesta; il cuore batteva costante, anche lui rassegnato, da qualche parte tra le mie mani ed i suoi muscoli.
-Gerard,- lo chiamai con lo stesso tono incerto che avevo usato in macchina e quella che dissi fu esattamente la stessa frase, ma senza pause- tu non sei un assassino.
Provò a contraddirmi di nuovo, immaginavo che per lui quelle cinque vite fossero una verità incontestabile. Lo fermai prima che potesse farlo lui, spingendogli piano contro l’addome per richiamare la sua attenzione, sollevai la testa e gli occhi fino a ritrovare i suoi e ribadii piano.
-Nessun assassino prova quello che provi tu in questo momento, Gerard. Nessuno soffre come stai soffrendo tu o grida di dolore come fanno i tuoi…quadri…- mormorai piano, evitando il suo sguardo mentre esprimevo quell’ultimo concetto: avevo la sensazione di aver appena superato una linea invisibile che segnava un confine ben preciso. Nelle ultime ore ne avevo cancellati così tanti, di confini tra noi, da sapere perfettamente quanto fosse pericoloso quello che stavamo facendo. Gerard, lui non lo sapeva, nei suoi occhi spaventati io vedevo chiaramente l’impossibilità di capire per quale motivo fossi così lontana che allungare la mano non era sufficiente a prendermi. Proprio come dipingere non era sufficiente a cancellare.- Non sei un assassino, gli assassini io li conosco e dormono bene la notte. Non hanno sogni e non hanno incubi…A volte mi chiedo se abbiano un’anima. Quindi non posso crederti quando mi dici di essere un assassino.
Sentii il tocco delle sue mani sul viso. Delicato, ma non per gentilezza, la sua era paura. Paura che io mi allontanassi come avevo fatto ogni volta che lui tentava di cancellare la distanza tra noi due. Peccato per tutti quei confini che erano spariti, gli stessi che avrebbero dovuto rendere il suo gesto nuovamente inutile, facendomi scivolare via ancora. Distante di una distanza di sicurezza…di comodo, che sapevo non esserci proprio più. Sollevai gli occhi a cercare il suo sguardo carico di identica aspettativa.
-…ti stai sbagliando.- mormorò disperato mentre avvicinava il volto al mio.
Le nostre labbra erano così vicine che non dovevo fare nulla, sentivo il suo respiro caldo e lui il mio. Il segno tangibile del nostro essere vivi.
-No.- risposi prima di baciarlo.
***
Non avevo mentito. Si stava sbagliando e neppure lei sapeva quanto.
Non lo sapeva la sua bocca quando si chiuse sulla mia, non lo sapeva il suo corpo quando si aprì tra le mie mani.
Ed amare Helena era esattamente come avevo sempre creduto: era aria e acqua insieme, perché lei era fredda, liquida, trasparente, e scivolava sulla pelle e nelle vene. Sarei voluto morire con la sensazione di lei contro i muscoli, con la sua presenza su di me ed intorno a me, custodito dal suo corpo come le sue braccia cullavano la mia anima. Perché per un momento – mentre la baciavo, la toccavo, venivo dentro di lei – il resto perdeva davvero importanza.
…e poi tornava ad averne.
Si riavvolgeva a spirale nel tempo. Nell’immagine di Helena che si sollevava dal mio fianco – il letto che diventava freddo in fretta – e sulle labbra mi sussurrava un “ti amo” accompagnato da una promessa a cui non credeva. “Torno presto” sa già di abbandono.
Allora ero troppo stanco. Stordito, dolorante, incapace di accettare la sua lontananza e così ferito da non riuscire a fermarla. Da qualche parte dentro casa la porta d’ingresso si chiuse a chiave, imprigionandomi in un sonno che aveva come unica droga il profumo di lei.
Finì in fretta: il suo odore ed il mio sonno. Mi svegliai di nuovo vivo, percependo il mio corpo come se mi fosse stato restituito dopo anni: la ferita pulsava e tirava; i muscoli delle braccia e delle gambe erano pesanti, intorpiditi; la testa era come schiacciata da una morsa ed io avevo freddo. E nausea. Ripensai a quello che era successo negli ultimi giorni; le dita della mano destra prudevano ed erano appiccicose, come se qualcosa di vischioso si fosse attaccato ai polpastrelli ed al palmo;  sollevai la mano davanti al viso e sentii odore di sangue, netto e deciso. La pelle era bianca, pulita, girai la mano da un lato e dall’altro e l’odore di sangue restava.
…avevo bisogno di bere.
Mi alzai, la stanza cominciò a ruotare su se stessa ma io avevo freddo e non ci badai. Mi vestii perché ero nudo e non ne ricordavo il motivo. Non conoscevo quel posto, urtai contro i mobili e le pareti nell’uscire per raggiungere la cucina. La casa era vuota, fuori era buio e non c’era alcool da nessuna parte. Quando andai alla porta scoprii che era chiusa a chiave dall’esterno. In cucina, sul tavolo, c’era un biglietto: “Torno presto. Non muoverti, per favore”. La porta era chiusa e fuori dalla finestra c’erano cinque piani di oscurità a separarmi dalla strada: dove sarei potuto andare? Cercai il bagno; quando aprii la porta uno scarafaggio si rifugiò velocemente dentro la doccia, io lo imitai, accucciandomi tra il lavandino ed il gabinetto e chiudendo gli occhi contro le ginocchia, strette al petto. Helena non tornò presto. Quella sera una ragazza bionda, piccola e spaventata, aprì la porta di casa e poi quella del bagno al posto suo. Io ricambiai il suo sguardo di ragazzina prudente e sorpresa e lei aspettò che dicessi qualcosa. Poi, siccome non parlavo e non mi muovevo, mi parlò per prima, mi disse il proprio nome e che Helena le aveva chiesto di passare a vedere come stessi. Mi aveva portato qualcosa da mangiare.
La scena si ripeté uguale il giorno dopo. E quello dopo ancora. Io restavo nel mio angolo, allo scarafaggio del bagno non facevo nemmeno più paura e neanche alla ragazzina bionda, che aveva sostituito uno sguardo preoccupato a quello prudente. Era strano, anche se la vedevo tutti i giorni, ogni volta non ricordavo chi fosse né quello che avrebbe detto: “Gerard”, il mio nome, “non puoi continuare a non mangiare! Dovresti sforzarti!”. Ma se ne andava quando capiva che non l’avrei ascoltata. Alla fine fu la sete – di acqua stavolta – a muovermi da lì. Il freddo non mi aveva mai abbandonato in quei giorni ed io ci avevo fatto l’abitudine. Barcollai per i brividi appena mi tirai in piedi, e poi perché la casa continuava a girare. Stavolta, muovendomi nel buio, mi accorsi che era anche popolata: di spettri e di folletti. I primi si muovevano sempre ai confini del mio campo visivo, scappando via appena mi voltavo a cercarli. Gli altri si mettevano in mezzo ai piedi, facendomi inciampare. In cucina aprii l’acqua e la feci scorrere finché divenne chiara, le tubature erano vecchie e sapeva di ruggine lo stesso. La mandai giù.
In salotto trovai il borsone di Helena – glielo avevo visto in mano quando eravamo arrivati – e dentro c’erano i miei vestiti sporchi di sangue, ci aveva avvolto la pistola. Era tutto nascosto sotto il divano e lo trovai perché inseguivo uno di quei folletti. Non era l’unica cosa nascosta sotto il divano, comunque. Quando mi abbassai lo gnometto storto e cattivo che stavo inseguendo non c’era più, ma c’era un uomo morto, disteso per lungo nonostante fosse molto più alto di quanto il divano avrebbe potuto nascondere, provai a tirarlo fuori ma anche se mi allungavo non riuscivo mai a toccarlo…
Quando si voltò a guardarmi e mi disse di smetterla, urlai.
Di come sia arrivato in bagno non mi ricordo affatto. So che mi sono svegliato e che c’era odore di vomito. Lo scarafaggio stava ancora nel box doccia ed io avevo la faccia premuta contro il muro ed un braccio aggrappato al lavandino. Lo usai per fare forza e tirarmi su dal pavimento, l’odore era disgustoso ed io volevo uscire. Arrancai verso la porta di ingresso, girai la serratura interna ed uscii.
Avevo preso la pistola. Oscar diceva che dovevo tenerla sempre con me.
Fuori era notte fonda e l’aria era gelida. Camminai senza sapere dove stavo andando finché non trovai un punto di riferimento di qualche tipo, da lì mi mossi inconsapevole, spostandomi lungo le strade con lo sguardo in alto. Incontrai due barboni che pensavano fossi pazzo e mi evitarono, li guardai cambiare strada e camminare veloci in senso opposto al mio fino a sparire dietro l’angolo di un palazzo. Poi riconobbi il palazzo.
Helena aprì la porta. Mi guardò ad occhi sgranati come se non ci credesse nemmeno lei che ero lì. Io le caddi addosso pensando solo che aveva un profumo proprio buono.
 
La terza volta mi svegliai in un letto che non conoscevo affatto ed era scomodo. Gli occhi erano pesanti ed impastati ed avevo addosso una coperta di lana così calda da soffocarmi. Eppure i brividi non passavano. Non riuscivo a muovermi; sulla spalliera del letto lo stesso gnomo cattivo di sotto il divano mi fissava ghignando, mi ricordai di certe leggende del nord Europa – forse me l’aveva raccontate mio padre – in cui uno spirito maligno siede sul letto dell’ammalato e pian piano gli ruba la salute. Davanti la porta un uomo ed una donna parlavano a voce bassissima, lei sembrava spaventata e lui cercava di calmarla.
-In ogni caso ora non possiamo muoverlo, Helena.- stava dicendo. “Helena” era un nome che mi ricordava qualcosa. La nonna. La nonna si chiamava “Elena”.- Se anche la polizia vi ha visto, dobbiamo aspettare. Hai sentito il dottore, Helena, sta male, dovrebbe addirittura andare in ospedale.
Era per metà italiana, ma non è mai stata fuori dalla Città”.
-È stata colpa mia,- mormorava lei strozzata.- non avrei mai dovuto lasciarlo lì da solo!
“Gli unici a piangere al suo funerale eravamo noi”.
-Non essere sciocca! Se non lo avessi fatto, sarebbe stato Ricky a venire a prendervi.
“È un po’ che non vado ad un funerale. Il mio potrebbe essere un’idea”.
-Sì, ma resta il fatto che l’ho quasi ammazzato!
-Smettila!- Lo disse una voce nuova. Più giovane, maschile. Questa la conoscevo…
-…M…Mikey.- Sentii qualcuno fare rumore, nella porta comparve una terza figura, si fece strada tra le altre due e sedette sul letto. Così aveva lo gnomo alle proprie spalle.- Devi stare attento…- gli spiegai indicandoglielo.
Rise, prendendomi la mano tra le sue.
-Ora come ora sei tu quello che deve stare attento, fratellone!- mi riprese piano, fissandomi in un modo intenso e partecipe di cui non capivo la ragione.
-Ho sognato la nonna.- gli raccontai. Avevo le labbra secche, se parlavo si spaccavano  facevano male.- Era dispiaciuta perché papà e mamma non erano al funerale…C’erano, Mikey?
-Sì.
Mi guardai attorno. Lui continuava a stringermi la mano e sulla porta le altre due figure stavano zitte e mi guardavano.
-Helena?- chiamai sorpreso quando misi a fuoco la sua immagine.
La vidi scattare in avanti. Mikey mi lasciò per farle spazio e fu lei a sedermisi accanto prendendo le mie dita tra le proprie. Piangeva senza fare rumore; con l’altra mano le asciugai la guancia.
-Scusami, Gerard.- mormorò piano.- Non volevo lasciarti da solo.
-…quindi ora resti?- le chiesi io.
Lei sbuffò un sorriso tra le lacrime e Mikey, in piedi al suo fianco, ci scherzò su.
-Hai visto che alla fine sei diventata la sua ragazza?!
Helena non gli rispose, mi baciò a stampo le labbra, facevano già meno male. Si avvicinò anche padre Philip, provai a salutarlo ma parlare era un po’ faticoso e finì che rimasi zitto. Nemmeno lui disse nulla, comunque, sembrava commosso.
-Devi riposare, Gerard.- mi consigliò.- Hai una brutta infezione; devi dormire, mangiare e recuperare le forze.
-Ed Helena resta con me?- tornai a chiedere stringendo attorno alle sue dita.
Lei ricambiò la mia stretta, che era in realtà debole e fiacca.
-Tutto il tempo che potrò, Gerard.- mi promise pazientemente.- Ma ti cercano e, se io sparisco, finiranno per cercare anche me e trovarci entrambi.
Sembrava una cosa molto importante da capire. Invece non ci riuscivo; continuavo a pensare che lei avrebbe dovuto stare con me sempre. Volevo addormentarmi solo con la consapevolezza di trovarla al mio risveglio.
Però ero stanco.
Chiusi gli occhi, la mano di Helena era ancora nella mia.
G.

 
  
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