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Autore: nainai    17/05/2009    1 recensioni
In Città ci sono solo due colori: nero e rosso. Ed un ragazzo che credeva che non si sarebbe mai arreso a questa evidenza.
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gerard Way, Mikey Way, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Gerard rimase in uno stato di torpore confuso per giorni. Io gettai la prudenza alle ortiche quando mi resi conto che non riuscivo a stargli lontana; ero certa che se fossi rimasta con lui la prima volta – o fossi almeno tornata, come gli avevo promesso – Gerard non si sarebbe mai ridotto in fin di vita. Quando mi costringevo a lasciare il suo letto per tornare a casa, vivevo aspettandomi che lui suonasse alla mia porta ancora una volta e che mi crollasse tra le braccia, stavolta per sempre. Non successe; tutto ciò che dovetti affrontare in quei giorni furono i tranelli che dovevo architettare per uscire di casa senza essere seguita dalla polizia. Di Ricky non mi preoccupavo: ero consapevole che lui sapeva esattamente dove fossi e con chi, inutile tentare di nascondermi. Il fatto, poi, che non mi avesse più cercata dal giorno in cui Oscar aveva aiutato me e Gerard a fuggire, era solo la conferma di quello che pensavo. Questi pensieri erano il tarlo con cui convivevo la notte, stesa al fianco di Gerard ascoltando il suo respiro ogni giorno più leggero e sicuro. Non riuscivo a dormire, vivevo in uno stato di veglia sempre più stanca e drogata, in cui studiavo quel respiro per accertarmi che fosse tutto a posto e, poi, quando ero sicura, ricominciavo a sentirmi addosso il peso delle fughe dalla polizia e del controllo di Ricky.
Non mi ci voleva molto per dare un nome a ciò che provavo. Poteva essere la prima volta per me – ma mi ricordavo di un ragazzino, in Ospedale, per cui una volta era successo che volassi via dal mio corpo, solo per poterlo guardare dormire proprio come stavo facendo ora con Gerard – ma, davvero, non era difficile dirmi che lo amavo. Ed era rincuorante, qualcosa a cui aggrapparsi quando la paura era troppa e di notte ero sola a combattere i fantasmi di entrambi. Qualcosa a cui aggrapparsi, come la mano di Gerard che cercavo nel buio e stringevo forte tra le mie.
Però  lo sapevo che non sarebbe bastato.
 
A quasi una settimana di distanza dal giorno in cui avevo portato Gerard da padre Philip, lui si riprese abbastanza da lasciare il letto e vagare per la Chiesa e la canonica come un’anima in pena. Io lo osservavo da lontano, quando era suo fratello a prendere il mio posto al suo fianco e a passare ore parlandogli, sorridendogli o semplicemente rimanendo con lui. In quei momenti Gerard era diventato completamente assente a sé stesso ed al mondo che lo circondava, spostava gli occhi spenti da Mikey alle mura spoglie del cortiletto dietro la canonica e viveva come imprigionato tra la vita e la morte a cui lo avevamo strappato per sbaglio. C’era un solo modo per ridare colore al suo viso ed era che fossi io a sedermi accanto a lui; battevo una pacca leggera sulla spalla di Mikey, a cui lui rispondeva rivolgendo a me lo stesso sorriso che aveva solo per suo fratello, forse appena più stanco e triste, poi si alzava in silenzio ed io lo sostituivo. Era un incantesimo, un rito magico a cui Gerard reagiva voltandosi e guardandomi, guardandomi davvero, per poi illuminarsi tutto di una luce calda che riempiva il suo viso sorridente.
Ero l’unica cosa che lo teneva in vita. Lo ancoravo al terreno con la mia presenza. Lui non me lo diceva, mi parlava poco in generale e preferiva ascoltarmi in silenzio, come se di cose importanti da dire non ne avesse proprio e basta. Io però gli leggevo in faccia con una facilità che mi terrorizzava sempre di più. Nell’apatia colpevole di Gerard c’era il segno evidente della sua sconfitta, si era arreso ed ora aspettava: che qualcuno lo salvasse – io – o meglio ancora che qualcuno lo finisse. Per quel che lo riguardava, lui non era disposto neppure a concedersi il lusso di scegliere da sé.
Ancora una volta avevo la vita di tutti e due tra le mani e, nel pesarla, mi resi conto di non potercela fare.
Successe quando tornando a casa trovai un cesto enorme di rose rosse ad aspettarmi ed il biglietto che le accompagnava era appoggiato su una scatola di gioielleria. Il regalo non lo aprii; come era già successo a Gerard, anche io sapevo che Ricky voleva dirmi soltanto che ero sua, mi aveva comprata perché mi ero messa in vendita, lui aveva il diritto di fare di me ciò che voleva. Il biglietto diceva “stasera passo a prenderti, fai in modo da farti trovare”, ed era un avvertimento molto preciso.
Mi feci una doccia, mi misi il mio vestito più bello, mi truccai e mi sedetti ad aspettare. Quella notte non tornai da Gerard; Ricky mi portò a cena fuori con sé, doveva aggiustare alcuni affari ed io assistetti al suo incontro con i Ventimiglia. Anche se non lo fece in quella occasione – gli accordi andavano perfezionati – sapevo che il passo successivo sarebbe stato consegnargli Gerard. Passai la notte con Ricky, feci sesso con lui, gli sorrisi, parlai con lui di qualsiasi argomento volesse, anche dei Ventimiglia. Non mi lasciai scappare una sillaba su Gerard e su quello che era successo ed ancora stava succedendo in quei giorni. Lui finse di non accorgersi che non indossavo il suo regalo.
Il mattino dopo gli preparai la colazione, e lo salutai con un bacio sulla porta. Poi corsi a vestirmi e scappai da Gerard ignorando i due poliziotti di guardia sotto il portone.
Mikey non c’era. Fu l’ultima cosa che pensai quando lo vidi, perché l’istante successivo ero tra le sue braccia e ci stavamo baciando, e quel bacio lo aspettavamo da tanto di quel tempo – dall’unica volta in cui avevamo fatto l’amore – ed era così importante che non c’era altro a cui pensare. E non ci fu neppure dopo, quando le nostre bocche si separarono ma solo per permetterci di restare appiccicati, fronte contro fronte, le mie mani sulle sue guance arrossate, le sue braccia attorno ai miei fianchi. Non pensammo proprio, quindi, lo dicemmo e basta ma sapevamo che era tutto ciò che ci restava.
-Sposami.
-Sì.
Perché il tempo…quello non ce lo avevano proprio lasciato.
***
Non sono più tornato indietro. Non c’era nulla indietro per cui valesse la pena di tornare. Sulla sponda del letto lo gnomo che ruba la vita agli ammalati si mangiò la mia in bocconi lenti; il mio corpo diventò un peso sempre più leggero, non avvertivo il fastidio della febbre, il dolore della ferita, la spossatezza per la perdita di sangue. Gli incubi diventarono cronici, familiari nel buio, così come cronico diventò respirare. Ero morto e sepolto; lo era la mai coscienza e lo era la mia ragione, lo era tutto ciò che ero stato fino al primo sparo, fino alla prima pallottola che, invece di conficcarsi nel cervello della mia vittima, si era piantata nel mio e lo aveva spappolato. Andava bene così. Il corpo di quel morto che portava il mio nome poteva muoversi, avevo scoperto, conservava tutte le funzioni biologiche idonee a farne uno zombie privo di volontà, si alzava dal letto ogni mattina e svolgeva qualsiasi attività che gli fosse indicata come “necessaria” o anche solo “utile”. Una parte di quelle cose gli veniva naturale, come se gli fosse rimasto attaccato alla carne un ricordo di coscienza che faceva affiorare abitudini. L’altra parte gli veniva amorevolmente indicata da mio fratello. Il mio Michael, che sembrava incapace di staccarsi da quel corpo senza vita che mi somigliava e lo accudiva con l’attenzione che da sempre si da alle cose rotte e reincollate, quelle che sono cadute per terra e si sono spaccate per colpa nostra.
Avrei voluto ringraziarlo, in qualche modo ero ferito da suo senso di colpa; ed allo stesso tempo avrei voluto dirgli che quel corpo con cui condividevo il nome gli era riconoscente per la sua gentilezza. Il problema era che non riuscivo proprio a trovare in me un motivo concreto per tornare indietro.
Era allora che Helena compariva. Un attimo prima il mio corpo sedeva accanto a Mikey, avvertiva sulla mano il calore confortante delle sue dita. L’attimo dopo la freschezza liquida di Helena prendeva il suo posto ed era come se il vento mi schiaffeggiasse il viso, io mi voltavo e trovavo i suoi occhi ed il suo sorriso pronti ad accogliere il mio ritorno a casa. Così tornavo. Helena non mi chiedeva nulla in cambio. Mi regalava se stessa, parlandomi fino a che entrambi eravamo ubriachi del suono della sua voce, e poi parlandomi ancora perché ovunque io fossi non rischiassi di perdermi nel niente ed avessi qualcosa a guidarmi. Tutti e due rimanevamo storditi allo stesso modo da quelle parole, confusi ci guardavamo senza fare nulla, dialogando in silenzio al di sopra ed al di là di quei suoi monologhi. Io non avevo nulla da opporre loro.
Avrei voluto dirle che mi sarebbe piaciuto ricominciare a dipingere, ma ricordavo la sua paura quando a casa aveva visto i miei quadri. E poi davvero, ogni volta che chiudevo gli occhi e cercavo l’immagine da fissare sulla tela, trovavo solo un vuoto nero e rosso che faceva orrore a me per primo. Pensai anche di dirle di Mikey, così che mi aiutasse lei a dirgli “grazie” visto che io non ricordavo come si facesse. Ma c’erano troppe cose tra me e mio fratello ed io mi rendevo conto che ad Helena le avevo solo accennate e spiegarle mi sembrava impossibile. Tutto era talmente lontano da essere irrecuperabile, e l’unica cosa davvero vicina era Helena.
Respira…per Helena.
 
E poi lei sparì di nuovo. Non so quanto sia stata via stavolta, da morti il tempo scorre in modo diverso: sei sospeso per i piedi, guardi giù e vedi il mondo. Il mio corpo non percepiva la sua assenza ma solo la sua presenza, per cui non era in grado di capire quanto tempo fosse passato. Dovetti notarlo per forza io e poi farglielo capire, farglielo sentire come un’urgenza nuova, un bisogno fisiologico non soddisfatto. Si trasformò in un dolore sordo e costante localizzato da qualche parte nello sterno, forse tra i polmoni perché mi mancò il fiato. Soffocai proprio, con un suono aspro e raschiante nella gola, quando provai a tirare su l’aria, strabuzzai gli occhi e tossii. Mikey mi battè sulla schiena, allarmato, credendo che mi sentissi male.
-Gerard?!- mi chiamò.
Mi voltai, vedendolo davvero per la prima volta da giorni.
-Dov’è Helena?- soffiai fuori.
E mi resi conto di essere nuovamente vivo.
…resuscitato…
Helena non era lì. Mikey prima e poi padre Philip mi raccontarono in tono via via più concitato quello che era successo dalla sera della sparatoria a quel giorno. Sembravano stupiti di dovermi riassumere la mia vita. Io non lo ero, non m’importava come non m’importavano le cose che dicevano. Helena era il solo fulcro di tutto il discorso.
Helena che mi amava – “Ti amo”, “torno presto” – Helena che io avevo messo in pericolo e continuavo a farlo; Helena che era mia e non avrebbe dovuto esserlo – “facciamo che questa cosa tu non l’hai mai detta”.
Helena.
-Sto bene.- risposi secco e conciso al termine del racconto, quando Mikey e padre Philip passarono alle domande di rito, quelle a cui lo zombie non aveva potuto rispondere nei giorni precedenti.
Li lasciai lì ed uscii da solo nel cortile interno alla canonica, sedetti sulla solita panca di legno rovinato e guardai lo stesso muro di tutti quei giorni.
Helena se la sarebbero portata via. Nella migliore delle ipotesi con la mia vita – ciò che ne restava – forse anche con la sua. Non c’era futuro e non c’era tempo davanti a noi. Non c’era nulla che non fosse il vuoto nero e rosso dei miei incubi. Tutto l’inchiostro di Dio si sarebbe ingoiato la mia Helena e di noi non sarebbe rimasto niente.
Per questo quando la vidi pensai che no, non glielo avrei permesso. E quando le andai incontro e la baciai, mi dissi che no, non sarebbe successo. E mentre respiravo il suo profumo, occhi chiusi e pelle contro pelle i nostri visi vicini, giurai che no, non gliela avrei lasciata.
-Sposami.
-Sì.
Se era mia lo sarebbe rimasta. A qualunque prezzo.
G.
***
Era follia ed inconsciamente pensavo che fosse anche l’ultima follia che avrei fatto. Padre Philip trovò per me un abito da sposa, era di una delle ragazze che lo aiutavano in Chiesa con le sue attività di beneficienza e volontariato. In cambio lui le salvava una vita che lei aveva speso, tutta assieme e troppo in fretta, in un matrimonio fallito con un uomo violento e nella droga. Era carina lei, si chiamava Alicia e da come guardava Mikey mentre con lui mi aiutava a vestirmi, la voglia di ricominciare le era tornata davvero. A vederli scherzare tra loro, sfiorandosi appena e fingendo che fosse per sbaglio, pensai che erano bellissimi e che avrei voluto esserci quando quelle carezze distratte sarebbero diventate un camminare mano nella mano alla luce del giorno. Alicia strinse in vita i nastri del corpetto ed io deglutii il respiro che mi si mozzò in gola. La sposa si sentiva come il condannato alla propria ultima ora.
Pensarlo dopo è facile ma anche allora c’era qualcosa di così definitivo nei gesti che facevamo da farmi credere che stessimo accelerando lo scorrere del tempo – limitato – che era concesso a me e Gerard.
I fiori erano stati una scelta di Mikey, un mazzo di rose rosse che nella penombra della Chiesa risaltavano come in un quadro. Uno dei quadri in cui Gerard aveva ritratto la Morte.
La navata scandiva i miei passi perché non c’era musica a nasconderli ed io fissavo il viso di Gerard, in fondo contro l’altare, ed i suoi occhi mi risucchiavano a lui. Lo avevano fatto dal primo istante…
Mi sorrideva, io posai il palmo nella sua mano rispondendo a quel sorriso di benvenuto. Non c’era stato il tempo per fare prove – “Vuoi tu, Helena…” – non conoscevamo la formula se non dai film o dai ricordi dei matrimoni di qualcun altro – “nella buona e nella cattiva sorte” – ogni parola che padre Philip pronunciava aveva un senso ben preciso.
“Finché morte non vi separi”
-Lo voglio.
 
-Congratulazioni, Helena, lasciami dire che sei una sposa splendida!
Gerard si voltò di scatto. Uno degli uomini che erano con Oscar puntò la pistola contro la testa di Mikey, un altro contro Alicia, il terzo teneva la mira su di noi.
-Questa è la Casa di Dio!- gridò padre Philip facendosi avanti.
-Proprio per questo, padre, speriamo che tutti si comporteranno bene così da evitarci di aprire la testa a qualcuno.- ritorse Oscar, molto ragionevolmente. Bastò a calmare gli animi .- Ottimo.- riprese lui con un sorriso beato stampato in faccia – Ora che siamo più disponibili al dialogo, posso spiegare il motivo della mia visita.
Gerard fremeva, come una corda tesa al massimo; pregai che stesse zitto, e fermo. “Ascoltando” quella preghiera, l’uomo che teneva sotto tiro Mikey alzò il cane della pistola; Gerard rilasciò il respiro, rilassando i muscoli delle spalle e delle braccia. “Fa che si salvino”, pregai un Dio in cui non ricordavo neppure di credere.
-Ricky ci teneva a fare i suoi auguri ai novelli sposi.- stava dicendo intanto Oscar, canzonatorio.- Ed anche a ricordare alla sposa che lei lavora ancora per lui.
Fece una pausa. Ci si aspettava che dicessi qualcosa, che firmassi la condanna a morte di qualcuno: Mikey sarebbe stato il primo.
Deglutii, un sorriso incerto, voltandomi verso Osar.
-Certo che lavoro per lui.- risposi.
Gerard sussultò. Sentii i suoi occhi puntarsi su di me in un’accusa muta. Oscar, invece, sorrise come me.
-Bene.- continuò.- Perché Ricky ha bisogno di vederti, Helena.
Il secondo sarebbe stato inevitabilmente Gerard, perché a vedere suo fratello a terra non avrebbe aspettato un istante per gettarsi contro di loro a testa bassa.
-…se ha bisogno di me…- Soffocai, il bustino del vestito stringeva forte; andai avanti senza fiato.- andrò da lui.
Alicia e padre Philip avrebbero seguito nell’ordine dettato dalle loro reazioni. Chi dei due avrebbe gridato troppo forte o fatto la mossa più avventata, sarebbe morto per primo.
-Sarò felice di accompagnarti.- ghignò Oscar.
Io sarei stata comunque l’ultima. Il viso ed il vestito macchiati di sangue, una Madonna del peccato vestita da sposa impura nella casa di Dio.
Sciolsi le mani da sotto il bouquet, una afferrò la gonna, l’altra stringeva i fiori. Io continuai a guardare Oscar, senza sorridere stavolta.
-Allora andiamo.- acconsentii con voce ferma.
Gerard allungò la mano a stringermi il braccio. Ricambiai i suoi occhi disperati e scossi piano la testa.
-Lasciami andare, amore mio.- sussurrai per lui, implorante.- Fidati di me, ti giuro che tornerò da te.- mentii ancora.
Gerard non mi credette ma mi lasciò. Camminai incontro ad Oscar e fuori la Chiesa senza voltarmi mai indietro; se lo avessi fatto una sola volta, non sarei stata in grado di proseguire.
***
Helena era come un fantasma fatto di ricordi e di sangue. Aveva un abito bianco la cui coda era gialla per il tempo e sporca della polvere raccolta lungo la navata; Alicia le aveva pettinato i capelli come meglio poteva e loro cadevano comunque sfatti, ricci e pesanti, da sotto il velo; teneva il bouquet di rose reggendolo con entrambe le mani, un po’ lungo sul corpo magro, così che quella macchia rossa – che sembrava una rosa anch’essa – si spalancava poco sotto il suo addome, lì dove il bustino a punta scivolava sulla gonna lunga e stretta. Era un fantasma, fuggito al dipinto di una fiaba dell’orrore, con i suoi occhi troppo vivi e la sua bocca come un fiore rosa, aveva la pelle di porcellana trasparente come una bambola vampira, ed il sorriso che mi rivolse nel posare la mano sulla mia era una perla fredda, come la carne attorno a quelle dita sottili…
Mi svegliai.
Helena dormiva al mio fianco, il suo respiro regolare, il peso delle sue braccia sul mio petto cancellarono lentamente i resti del sogno. Senza che me ne accorgessi il battito del mio cuore si sincronizzò al suo ed i nostri polmoni si sollevarono all’unisono. Era viva. Calda e morbida e colorata come la ricordavo dalla sera prima.
Le poggiai le labbra sulla fronte, rimproverandomi distrattamente tra me e me perché sapevo che l’avrei svegliata. I suoi occhi si aprirono riconoscendomi e lei mi sorrise e si rigirò tra le mie braccia.
-Buongiorno.- mi sussurrò sulla bocca.
-Buongiorno.- risposi prima di baciarla. Helena sbuffò divertita contro le mie labbra ed io la guardai perplesso mentre si sollevava sulle braccia per potermi ricambiare lo sguardo- Cosa c’è? - Scosse la testa, i ricci le si arruffavano scomposti intorno al viso.- Sei nervosa? – insinuai ridacchiando anch’io.
-Figurati! Ho solo deciso ed organizzato il mio matrimonio in mezza giornata!- ironizzò.
-Sei nervosa.- conclusi io venendo ripagato con uno schiaffo delicato sul braccio.
Non le diedi retta e la baciai di nuovo per sentirla calmarsi piano piano nel mio abraccio e restare lì, il seno contro il mio petto, i gomiti rannicchiati premuti sulle costole – “No, non mi fai male, tranquilla”- e la guancia sulle mie labbra. Così non posso vedere quello che pensi, Helena.
-…non credevo che sarebbe successo.- mormorò ad un certo punto.- Quelle come me non si sposano.- mi spiegò.- Al massimo un bambino, ed è un incidente che ti cambia la vita in peggio. Ma il matrimonio proprio no.
Mi chiesi se noi avremmo mai avuto il tempo per un bambino. Non credevo di poter essere un padre, meno ancora un buon padre. Provai una nostalgia fortissima quando mi risposi di no. Nessun bambino.
-Ho sognato che eri morta.- le raccontai.
Porta sfortuna dirlo ad una sposa?
 
Helena mi supplicava con gli occhi, la sua pelle sotto la mano era bollente come lava ed allo stesso modo i suoi occhi bruciavano nell’implorarmi di lasciarla andare. Potevo avvertire la sua paura perché era identica alla mia ed entrambi sapevamo che Oscar, ai piedi dell’altare, non avrebbe aspettato per sempre. Nella mia testa, per l’ultima volta, balenò un pensiero stonato: Mikey sarà il primo.
-Lasciami andare, amore mio. Fidati di me, ti giuro che tornerò da te.
La sua menzogna raggiunse il mio braccio, intorpidendolo e lanciando segnali precisi al cervello. La lasciai ma in realtà lei era solo acqua ed aria e non potevo tenerla con me.
Poi successe che la porta si chiuse. Helena non c’era più ma nella mia mente una sposa fantasma, vestita come lei, camminava a ritroso lungo la navata. Ed il suo sorriso freddo sul volto di bambola vampira era troppo lontano per me. Non potevo raggiungerlo, così come non potevo fermare il cadere incessante del petali dei fiori del bouquet, un profluvio rosso, di sangue, che segnava i passi che la sposa fantasma faceva all’indietro, come un gambero, dall’altare.
“Ho sognato che eri morta, amore mio, ma io non posso permetterti di morire.”
Trovai la pistola dove l’avevo lasciata il giorno prima. Non controllai che fosse carica, perché lo era: Oscar mi aveva insegnato a non lasciarla mai scarica. I movimenti con cui la misi sotto gli abiti, nascondendola nelle pieghe della felpa nera, erano automatici. Chiusi il giaccone, tirai su ul cappuccio. Alla Bibbia logora che aveva fatto da cuscino all’arma per un giorno ed una notte non badai. Fuori pioveva, come la notte in cui ero andato a consegnarmi a Ricky; stavolta tra me e la sua porta non c’erano ostacoli se non la distanza. Pensare che per la prima volta non ero nemmeno atteso.
…non come le altre volte almeno, mi dissi ironicamente quando il primo corpo cadde con uno schizzo di acqua e sangue ai miei piedi.
-Io l’ho detto, Ispettore, che alla fine inizi ad abituarti e diventa divertente!- ghignai soddisfatto, sollevando l’arma.
E quando il secondo uomo mi venne incontro - quasi di corsa, direttamente in braccio! Attraverso la porta spalancata dell’Inferno…fuori o dentro? – sparai soltanto, chiedendomi distrattamente quando fossi diventato così bravo. Il terzo ed il quarto li trovai fuori lo Studio, per cui compiacermi di me stesso non era più rilevante e li ammazzai senza troppe domande. Abbassai la maniglia, spinsi il battente appoggiandomici contro con la schiena e sparai ad Oscar nello stesso momento in cui lui si voltò ad incrociare il mio sguardo.
-…non eri veloce come credevo.- commentai fissando lui ma alzando il cane contro Ricky.
G.
***
-Eppure lo sapevi che vi avrei ammazzati.
“Oh, sì. Lo sapevo. Dunque, Ricky? Che facciamo?”
-Ti ho sempre detto di non mettere il naso nel mio lavoro, Helena.
-E’ una puttana. Non è nemmeno capace di capire quello che le dici.- sibilò velenosa sua moglie.
La guardai. Per la prima volta da quando ero entrata e Ricky mi aveva tirato un ceffone così forte da spaccarmi il labbro – “Prima di me non parla nessuno, Helena. Se vorrò ascolterò le tue cazzate dopo”- rialzai il viso dal pavimento solo per guardare quella donna…Non sapevo neppure come si chiamasse.
-Sta zitta, Maria.- le intimò lui, secco ed aspro.
Provava una rabbia che non capivo, così come non capivo perché fossi ancora viva. Mi ero aspettata che Oscar mi ammazzasse subito dopo avermi portata fuori dalla Chiesa: Gerard serviva vivo perché faceva parte dell’accordo con i Ventimiglia, ma io ero roba da buttare. Mikey e padre Philip non valevano nemmeno il costo della pallottola e la fatica di sbarazzarsi dei cadaveri, probabilmente.
Lo sperai per loro.
Ero rimasta stupita quando mi ero accorta che la strada che stavamo facendo era proprio quella per la villa di Ricky ed ancora più stupita quando, entrando, avevo trovato anche sua moglie con lui.
-Avresti potuto avere da me qualunque cosa, Helena!- scoccò rapido contro di me.
Ma fu sempre lei – Maria – che guardai. Contrasse il viso, una smorfia di dolore così viva e sentita che provai pena. All’anulare sinistro aveva un diamante, io pensai stupidamente che non c’era stato proprio modo – in un solo giorno – di trovare degli anelli per il matrimonio.
“…però sono sua moglie lo stesso.
Sorrisi. Avrei voluto poter spiegare a Maria perché lo facevo e cancellare dal suo viso l’ira muta con cui ricambiò quel sorriso, dirle che no, non la stavo affatto prendendo in giro solo che io avevo già tutto quello che potevo volere.
Ricky sospirò. Mi voltai a guardarlo per vederlo spostarsi lento e stanco dietro la scrivania, massaggiandosi gli occhi. Sulla poltrona si lasciò cadere come se non fosse più in grado di tenersi in piedi.
-Andrai ad Atlanta.- disse piano. Io non capii.- Starai lì, ho già detto ad uno dei nostri di prenderti a lavorare nel suo locale.
Oscar rise.
Maria mi fissò con uno sguardo cattivo e trionfante.
Io mi morsi le labbra.
-…come?- biascicai.
Ricky mi guardò, ma stavolta fu sua moglie a tirarmi un ceffone e le unghie laccate di rosso mi graffiarono la guancia.
-Tornerai a fare quello per cui sei nata, puttana!- mi insultò.
Spostai terrorizzata lo sguardo su Ricky, senza nemmeno badare a quello che lei mi diceva.
-Ricardo…- mormorai strozzata muovendo un passo solo in avanti.
-Non azzardarti a chiamarlo per nome!- ringhiò la donna alle mie spalle.
Potevo sopportare di morire. Lo avevo già messo in conto: la mia vita per la tua, Gerard, anche se la tua, magari, se la sarebbero presi lo stesso. Ma sopravviverti, sopravvivere a noi due solo per continuare un’esistenza che non aveva colore o sapore prima che t’incontrassi…
-Helena, non te lo sto chiedendo.- mi spiegò calmo Ricky.- Tu lavori per me. I due Way lavorano per me. Perfino padre Philip è sotto la mia autorità, ognugno di voi sa di dover fare esattamente ciò che io gli ordino.
-Sì, ma…- singhiozzai.
-Helena.- scandì lui con precisione. Il mio nome mi si piantò in qualche modo dentro il costato, troppo vicino al cuore perché continuasse a battere. Chiusi gli occhi ed ascoltai il resto trattenendo un respiro che non serviva più a darmi ossigeno.- Tu sai che non ci sono altre possibilità. Per nessuno di voi due.
No, non c’erano davvero. In fondo lo avevo sempre saputo.
Così annuii.
-Partirai stanotte stessa.- mi comunicò Ricky.
Fu allora che Oscar morì.
 
Gli altri spari li aveva coperti la pioggia. I tuoni che infuriavano fuori – ed io nemmeno mi ero accorta che stesse piovendo. Dio sembrava d’accordo con Gerard nel bruciare tutto assieme ciò che restava di lui. Fu proprio perché arrivò in silenzio che il colpo che uccise Oscar fece, invece, un gran baccano.
Mi voltai. Gerard guardava il cadavere come se ci fosse qualcosa che gli sfuggisse, ma fu a Ricky che sparò e senza nemmeno guardarlo in faccia. Magari è per questo che mancò di ammazzarlo subito. Oppure mi sbaglio. Il secondo colpo, comunque, fu fatale.
Maria urlava.
Io no. Io ero congelata. Guardavo Gerard e non capivo, perché quello non era lui. Non poteva essere lui.
Al quarto sparo le grida di Maria cessarono di colpo. La porta secondaria dello studio, invece, si aprì.
Dava all’interno della casa – può non sembrare rilevante, ma lo è – alle camere ed alla biblioteca, alla sala da pranzo interna, quella che usava la famiglia. Io me lo ricordavo perché qualche volta c’ero stata: anche la donna del capo, quella non ufficiale, aveva il diritto di dividere gli spazi che erano della moglie, quella ufficiale.
Un po’ Maria la capivo, per lei non doveva essere facile.
Comunque, la porta si aprì. E c’era un bambino, che io sapevo che si chiamava Cosè perché glielo avevo chiesto una volta che avevamo parlato un po’. Lui mi aveva detto che ero  “una signora molto bella”, ma io non pensai né al suo nome e nemmeno a quella volta che mi aveva detto che ero bella. In realtà pensai solo a Gerard, e ai pezzi della sua anima che mi stavano davanti prendendo la mira. Pensai che, in effetti, non avrei mai potuto sopravvivergli: lui aveva appena scelto coscientemente di uccidere se stesso. Tutto quello che ne restava almeno.
Fu per questo che lo feci. Mi mossi e mi misi in mezzo, tra il suo sguardo, la canna della pistola ed il grido disperato di Cosè. E finì che quella parola, “mamita”, sembrò quasi…ironia! rivolta a me invece che al cadavere della donna scura e bellissima che stava per terra proprio lì vicino.
“Non volevo rubarti anche lui, Maria.”
Poi fu il mio turno di morire.
…pensavo che se fossi scappata via un’altra volta…una sola…fossi fuggita a quel corpo che mi teneva troppo stretta ed inchiodata a terra…sarei rimasta viva. Una volta sola…una volta…
                        …l’ultima…
 
  
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