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Autore: Panenutella    01/10/2016    1 recensioni
Sara Vitali è una che scappa: ha lasciato l'Italia, ha cambiato cognome e numero di telefono pur di sfuggire al suo stalker, e si è nascosta a Belfast nella speranza che lui non la trovi mai. Non si fida di nessuno e sente il disperato bisogno di sentirsi al sicuro, protetta e non più sola. E' in questo stato che una sera in un anonimo bar incontra Kit Harington, appena uscito dalla sua relazione con Rose Leslie e nel pieno delle riprese del Trono di Spade. Sara non pensa che da quell'incontro possa cambiare qualcosa, ma scoprirà presto di sbagliarsi.
Nota: il primo capitolo è identico alla prima parte della mia One-Shot "Two stories in the night". Se siete curiosi di leggere anche la seconda, fateci un salto! Grazie in anticipo a chi leggerà.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kit Harington, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’Amore Si Odia
 
Vieni qua, vieni qua,
io ti volevo bene
ma riparlarne è inutile, inutile,
Non ha più senso
Pensarti, capire, provare o sparire.
[…] Ma tu non meriti più
Un battito di questa vita,
per tutto quello che conta,
se conta,
sei come colla sulle dita.
- Noemi, Fiorella Mannoia
 
***
Kit
 
Scosto Rose da una parte e inseguo Sara nel corridoio.
- Fawny, per l’amor di Dio, aspetta!
- Non chiamarmi Fawny, Christopher, non provarci neanche!
“Adesso mi uccide”.
Arriva alla sua stanza e mi sbatte la porta in faccia. La apro ed entro insieme a lei. Sta afferrando freneticamente la giacca di pelle dalla sedia e se la sta infilando con furia.
- Ascoltami, ti prego. Posso spiegare.
- Cosa c’è da spiegare? Tu e Rose eravate mezzi nudi a tanto così da fare sesso di fronte a tutto l’hotel. È tutto chiarissimo. Non c’è niente da spiegare.
È così arrabbiata che le trema la voce, e tutti i miei sforzi per non farmi condizionare e trascinare dalla sua stessa ira stanno rapidamente diventando vani. Le prendo saldamente un polso, costringendola a voltarsi verso di me.
- Potresti fermarti solo un secondo? Ascoltami, porca troia!
- Cosa dovrei ascoltare? Solo banali scuse! – Ribatte liberandosi. Estrae i capelli da sotto la giacca e afferra il manico del trolley, dirigendosi a grandi falcate verso la porta.
Le blocco la strada mettendomi tra lei e l’uscita. Mi incenerisce con lo sguardo.
- Ti fidi di me?
Incrocia le braccia.
- Ti fidi di me? – Ripeto più forte.
- Ciecamente, fino a cinque minuti fa.
- Allora concedimi trenta secondi, e ti spiegherò tutto.
Sbuffa.
- Conosci Rose. Sai che è da quando hai cominciato a lavorare che cerca in tutti i modi di metterci i bastoni tra le ruote, ancora di più da quando ci siamo comportati da coppia, alla festa.
- Quindici secondi.
- Porca puttana, non capisci che tutto quello che fa è solo per mettere zizzania tra noi due? È entrata nella mia stanza, si è spogliata e mi è saltata addosso! Io non c’entro niente! Io volevo solo portarti un dolce!
Da dietro di me, nel corridoio, arriva la risata di Rose. – Dai, Sara, fagli vedere chi sei! – Grida.
Lei esplode in un grido esasperato, mette la testa fuori dalla porta e grida: - FATTI GLI AFFARI TUOI, SGUALDRINA!
Muovo un passo verso Sara e le poso una mano dietro alla nuca, costringendola a guardarmi. Trema leggermente, sotto il mio tocco.
- Scegli a chi vuoi credere: a me, o a una tua supposizione?
- Perché cavolo dovrei crederti, Kit? Come so che in realtà non vai a letto con lei e vuoi solo prenderti gioco di me?
- Perché… - oh, vaffanculo alla sanità mentale! - … Perché sono innamorato di te, razza di testarda italiana!
Spalanca gli occhi e indietreggia, cercando con la mano il manico del trolley e attirandolo a sé come un orsacchiotto di pezza. Avanzo verso di lei.
- Cristo, mi fai diventare matto: sei zuccona, diffidente, non mi dici mai cosa ti preoccupa e non hai neanche un po’ di sale in zucca. Sei avventata, ti prendi tutte le lenzuola, mi rubi sempre le patatine e bevi caffè a litri. Certe volte mi fai imbestialire. Ma sono innamorato di te. È un argomento sufficiente?
L’espressione con cui mi fissa è di assoluta sorpresa. Non appena si riscuote dai suoi pensieri un accenno quasi invisibile di sorriso le piega un angolo della bocca mentre abbassa il capo a guardarsi le scarpe, giocando nervosamente col manico del trolley.
- Hai ragione. – Ammette. – Bisogna essere pazzi per farsi manovrare da Rose.
- Già. Dimmi solo una cosa: ti ho mai dato motivo di non fidarti di me? Sinceramente: dal momento in cui ci siamo conosciuti, ho mai tradito la tua fiducia?
- Ti credo, Kit. Non c’è bisogno di fare il melodrammatico.
“Senti chi parla”. Mi permetto di tirare un sospiro di sollievo. – Baciami.
- No.
- Ti prego.
- No.
Un attimo di sospensione tra noi due, entrambi immobili, gli sguardi inchiodati. Poi sospira.
- Devo prendere un aereo.
Mi sorpassa trascinandosi dietro il trolley, e passandomi accanto sfiora il dorso della mia mano con il suo.
 
Sono costretto ad ammettere con me stesso che, subito dopo la sua partenza, ho del tutto perso la testa: ho bevuto un’intera bottiglia di Jack Daniels giù al bar, spaccato un tavolo e buttato le lenzuola all’aria più di una volta, il tutto per non riversare del tutto la mia rabbia su Rose.
E ora non riesco ad addormentarmi: il letto è tristemente vuoto senza Sara al mio fianco. È viva solo da un paio d’ore ma mi sembra già passata un’eternità. Nel buio e nell’insonnia, i miei pensieri sono prepotenti come un lottatore di wrestling.
Non avrei dovuto lasciarla andar via.
Non avrei dovuto arrabbiarmi.
Non avrei dovuto spaccare un tavolo da duemila dollari.
Dei falsamente misurati colpi alla porta mi risvegliano dalla specie di dormiveglia tormentato in cui ero caduto. Accendo la luce sul comodino e guardo l’orologio: sono le due. Chi potrà mai essere?
- Vattene via, Rose! – Esclamo senza muovermi di un centimetro.
- Sono Kris, scemo.
Mi alzo e vado ad aprire. Kris ha le occhiaie profonde quanto le mie, e i capelli sono scombinati. Ha una giacca di pelle e dei pantaloni neri un po’ sgualciti. Sembra non dorma da giorni. Qualcosa nel suo aspetto mi infonde un senso di profonda inquietudine per sua figlia.
- Kamile sta bene? – Domando, la mano ancora sulla maniglia.
- Sì, sta meglio, è da un po’ che non vomita e oggi ha mangiato. Posso entrare?
- Certo, scusami.
Mi scosto e Kris entra passandosi una mano tra i capelli. Sospira pesantemente.
- Gry e io abbiamo deciso di portarla comunque in ospedale, per ogni evenienza. Il dottor Vazhiri domani la visiterà.
- Capisco. Spero che sia passata, in ogni caso.
- Anche io.
- Siediti, Kris. Che c’è che non va? – Mi appoggio al muro davanti a lui, incrociando le braccia.
- Devo chiederti una cosa che mi preoccupa profondamente.
- Spara.
- Gira voce che Vitali non sia il vero cognome di Sara, che sia scappata dal suo ex ragazzo che la molestava, e che addirittura si sia messi nei guai con la legge. È vero?
Un brivido gelido mi scende lungo la schiena. – Chi te l’ha detto?
- Nessuno in particolare, la voce gira da un po’ di tempo.
Un po’ di tempo. La festa. Rose che fa la sfuggente.
È stata lei, come temevo.
- È la verità? Ha problemi con la legge?
Che cosa devo fare? Dirglielo? Tutti lo sanno, ormai. Rose ha aggiunto la beffa al danno: oltre a sputtanarla in giro l’ha anche dipinta come una fuorilegge e un’imbrogliona. Ci mancava solo questa.
- No, non ha problemi con la legge. Tutto il contrario. È vero che è scappata dal suo ex ma non ha cambiato cognome perché in guai con la legge, l’ha fatto per non farsi trovare da lui.
Kris aggiusta la posizione, a disagio.
- Che cosa le ha fatto? – Chiede in tono quasi impaurito.
- Molto male. Accontentati di questo.
Improvvisamente i lineamenti del suo volto cambiano: da dolci e calmi quali sono sempre, prendono la truce e brutale espressione di un uomo come Tormund. Si alza, molto più imponente di me, e parla con voce minacciosa.
- Vorrei sapere il nome di questo stronzo, per andarlo a cercare e spaccargli la faccia.
Mi avvicino e gli batto una pacca sulla spalla, pensieri di vendetta che salgono come la marea.
- Anch’io, amico mio, anch’io.
 
Spalanco la porta con un calcio e accendo la luce. Rose, sepolta dalle lenzuola, balza a sedere sul letto con un grido di spavento.
- KIT, SEI FUORI DI TESTA?
Mi avvicino al suo letto a grandi passi e mi chino su di lei, puntandole un dito al viso.
- Ringrazio Dio che domani girerai la tua ultima scena in questo show. Non solo eri contenta di far rompere me e Sara, ma hai anche sparso in giro voci false. Complimenti davvero. Non voglio vederti mai più, Rose. Devi lasciare Sara e me a vivere le nostre vite in santa pace. Con te ho chiuso del tutto.
Da domani non voglio vederti mai più.
- Cos- quali… quali voci?
- Fai anche la finta tonta? Pensavo già che tu andassi in giro a dire che Sara ha cambiato cognome e che è stata molestata dal suo ex e stasera ne ho avuto la conferma. Non ti vergogni, Rose?
- Di cosa dovrei vergognarmi?
- Di essere la persona più meschina e manipolatrice che sia mai esistita!
Stiamo urlando entrambi a pieni polmoni.
- Un attimo, non sono stata io!
- Non sei stata tu a fare cosa? A essere una manipolatrice o a mettere zizzania tra me e Sara saltandomi addosso?
- A mettere in giro la voce di Matteo!
Silenzio.
Raddrizzo la schiena, e scoppio in una risata piena di risentimento.
- Solo io e Sara sapevamo il nome del suo ex e non l’abbiamo mai detto a nessuno. Brava, Rose, ti sei tradita con un dettaglio così insignificante!
Mi guarda sconcertata.
- Rinnovo il mio invito a non farti più vedere. Ti odio, Rose, come non avrei mai pensato di poter fare. Non pensavo di essere capace di odiare, me l’hai fatto scoprire. Grazie.
Le volto le spalle e mi incammino per uscire.
- Kit, aspetta!
La sua voce mi raggiunge quando ormai sono sulla soglia. Mi volto e la vedo ancora seduta nel letto a osservarmi con lo sguardo spento, triste, quasi pentito dell’imputato che ormai ha ricevuto la sentenza della pena di morte e si rende conto, un attimo dopo, di aver commesso il peggior errore della sua vita.
- Mi dispiace, Kit, davvero. Ho… ho sbagliato. Ti chiedo scusa. Volevo solo riconquistarti.
- Prima di tutto, non dovresti chiedere scusa a me ma a Sara; secondo, è troppo tardi per chiedere scusa.
 
 ***
Sara
 
L’aereo che da Londra mi sta riportando a Linate atterra alle tre del pomeriggio. Il sobbalzo del velivolo e l’immancabile applauso dei passeggeri italiani mi risvegliano dal dormiveglia in cui ero riuscita a cadere nell’ultima mezz’ora di volo. La visione di Kit e Rose appiccicati l’uno all’altra come cozze mi si è parata davanti agli occhi tutta la notte e mi ha impedito di dormire. Ho pianto per un bel po’ di tempo, dopo essermi allontanata da Kit.
Come ha potuto fare quello che ha fatto?
E quale strano meccanismo nella mia testa mi ha spinto a perdonare Kit e a continuare a fidarmi di lui?
Non lo so, ma non ha importanza ora: ci penserò domani. Ora ho cose più importanti a cui pensare.
Sto per rivedere i miei genitori, dopo undici mesi di lontananza.
La solita ressa per scendere dall’aereo, la fila e l’attesa per prendere i bagagli scorrono come un sogno davanti alla mia mente annebbiata.
Solo quando afferro il manico del trolley e me lo trascino dietro di risveglio veramente: dietro alle porte opache scorrevoli in fondo al corridoio ci sarà una folla, e in mezzo a quella folla ci saranno i miei genitori.
Quasi senza accorgermene accelero il passo. Le porte scorrevoli si aprono e io passo dall’altra parte, cercando freneticamente tra i volti dei presenti.
Ed eccoli lì.
Angela e Maurizio Cerbiatto sono leggermente invecchiati dall’ultima volta che li ho visti: mia madre, alta e bruna con gli occhi ambrati, adesso ha delle linee che le solcano la fronte; i capelli ramati di mio padre, la copia italiana di Hugh Laurie, mostrano qualche parvenza di grigio e una lunga cicatrice rosa gli solca un sopracciglio.
Nel momento stesso in cui li vedo di nuovo realizzo quanto mi siano mancati.
Ancora prima di accorgermene ho lasciato il trolley e mi sono buttata fra le loro braccia. I miei mi abbracciano, e non ci lasciamo più andare.
Finalmente, finalmente sono con i miei genitori.
 
La macchina sfreccia veloce sull’autostrada destreggiandosi tra lumache e pirati della strada.
L’essersi ritrovati dopo tanto tempo ha cancellato l’atmosfera di malinconia che ha avvelenato la mia famiglia per i due anni che ho passato prima con Matteo e poi lontana da loro, restaurando l’aria chiassosa e casinista che c’era fra noi prima che tutto avesse inizio. Il processo di domani sembra non esistere nella gioia del momento, come anche il fantasma di Matteo.
Papà tiene le mani sul volante e gli occhi incollati alla strada sgranocchiando le Pringles comprate in autogrill mentre io e mia madre ci raccontiamo ogni cosa sull’Irlanda, su Kit e sull’Islanda – tranne di Rose – e la pianura padana scorre fuori dai finestrini. La musica di Billy Joel viene riprodotta a palla dallo stereo.
- Sara, dovresti anche spiegarmi questo!
Angela mi lancia il numero di una rivista della settimana scorsa aperto su una pagina più o meno a metà.
Le foto della festa del cast riempiono entrambe le pagine, e fra di esse ce n’è una circolare al centro ritrae me e Kit che ci baciamo. O meglio, Kit e un insieme di capelli scuri come i miei si baciano.
- Sbaglio, o quella è la tua testa?
Mi metto a ridere. – Sì, lo ammetto, sono io.
- E brava la nostra ragazza! – Ride mamma. – Dopotutto, leggi cosa c’è scritto lì a fianco.
- “Dopo le voci che sono girate nei mesi scorsi, ora sappiamo che la nuova fiamma di Kit Harington si chiama Sara e che lavora nella crew dello show”. Beh, il minimo indispensabile!
- Quindi ti ha esplicitamente chiesto di essere la sua ragazza? – Domanda Maurizio prendendo un’altra patatina dal tubo di alluminio.
- Sì – sorrido, ma la visione di Kit e Rose mi passa davanti agli occhi e lo spegne rapidamente. – Stiamo insieme da più o meno due settimane.
- E come mai non è venuto anche lui?
- Deve lavorare, papà.
- Giusto.
I cartelli autostradali “Genova” cominciano ad apparire mentre ci avviciniamo sempre di più alla mia città. La frenesia che c’è in me dal momento in cui l’aereo è atterrato si accentua mettendomi voglia di arrivare al più presto.
 
Deve passare un’altra ora e mezza prima che la macchina imbocchi il casello di Genova Est e si ricacci nel caos di Marassi, il quartiere dello stadio, per poi proseguire fino alla foce del fiume che si butta nel mare dal colore indefinito. Mentre passiamo una nave da crociera transita molto vicino alla costa entrando in porto, e io osservo come la città sia cambiata e rimasta la stessa contemporaneamente, affacciata sul mare come se in una fuga rocambolesca dai monti si volesse tuffare in acqua.
Il traffico è sempre lo stesso casino, coi suoi incapaci e i motorini che sorpassano a destra nelle strade contorte e dalla viabilità modificata, i graffiti sono in parte nuovi e in parte cancellati, i cartelloni pubblicitari sono sempre mezzi strappati e gli infiniti cantieri sono sempre quelli.
L’iPhone squilla: è Kit che mi sta chiamando. Butto giù senza rispondere.
Papà parcheggia la macchina al solito posto e io scendo smaniosa guardando il palazzo dalla pittura scrostata, casa mia.
- Dai su su, andiamo! Forza! – Esclamo saltellando in giro mentre Angela apre il bagagliaio e prende la mia valigia.
- Tesoro, ricorda che la tua stanza è un po’ cambiata dall’ultima volta che sei stata.
Oh, sì, adesso ricordo. Matteo è entrato e ha spaccato tutto quanto, compresa la testa di mio padre. Nonostante mi abbia assicurato nei giorni immediatamente successivi all’accaduto di essersi ripreso completamente dalla botta, la cicatrice sul sopracciglio ha comunque un brutto aspetto: a causa delle aderenze che si sono formate nei tessuti sottostanti è rimasta infossata rispetto al resto del viso, ma posso provvedere con poco.
- Papà posso scollarti la cicatrice, se vuoi.
Lui sorride e mi passa un braccio intorno alle spalle. – Come vuoi, fisioterapista!
Arriviamo davanti alla porta del nostro appartamento al primo piano e la prima cosa che mi salta all’occhio è che la serratura è cambiata: ora c’è anche un allarme anti-intrusione. Mio padre infila una piccola chiave elettronica all’interno della cassetta dell’allarme e questa si disattiva, permettendoci di infilare la chiave nella serratura senza che questo si metta a strillare.
- Dovete darmi la chiave nuova.
- Certo, appena ti sarai sistemata.
Entriamo e la giro tutta di corsa, toccando tutto l’arredamento come per sincerarmi di essere davvero lì, a casa.
Il salotto è sempre lo stesso: i divani e le tende pulite, il pavimento a mosaico genovese, le foto alle pareti. La piccola cucina non è cambiata neanche nel più piccolo particolare, col piccolo tavolo e le sedie di legno, e nemmeno il bagno con le sue piastrelle a scacchi, la camera e lo studio dei miei.
Arrivata davanti alla porta chiusa della mia camera, ho un attimo di esitazione.
“Sbrigati, prima di ripensarci”.
Afferro la maniglia e la abbasso.
Qui, invece, è cambiato tutto.
I miei vecchi mobili sono stati rimpiazzati da un nuovo arredamento Ikea, ma gli scaffali e i quadri che prima della mia partenza erano appesi alle pareti sono stati rimossi e hanno lasciato sul muro dei segni irregolari e inconfondibili, più scuri, tracce di distruzione. Gli oggetti e i libri che portavano sono sistemati in alcune scatole, il grande specchio è rotto e nel muro accanto alla finestra campeggia una scritta rossa a caratteri cubitali, coperta malamente da uno strato di vernice bianca.
“TROIA”.
Ecco, ecco le tracce della sua follia. Finora me ero solo immaginate, adesso invece sono qui sotto ai miei occhi, prova del suo passaggio distruttivo.
Solo ora mi accorgo di essere rimasta impalata sulla porta e che i miei sono dietro di me.
Sospiro e mi giro in un mezzo sorriso.
- Beh, papà, un’altra passata di vernice su quel graffito è d’obbligo!
La faccia che fanno i miei genitori in tutta risposta mi lascia un po’ perplessa.
- Che c’è? – Domando quasi timorosa.
Mi abbracciano stretta.
- Sei completamente cambiata dall’ultima volta che ti abbiamo vista. – Spiega papà una volta che sciogliamo l’abbraccio. – Sei… più grande, felice. È come se ti fossi lasciata tutto alle spalle.
- Beh, a quello scopo sono andata a Belfast. Diciamo che Kit mi ha dato una leggera spintarella in quel senso.
Papà sorride. – Spero che sarai così serena anche domani, al processo. Che farai vedere a Matteo di che pasta sei fatta.
- Un attimo. – Rispondo, una strana fitta allo stomaco. – Ci sarà anche lui, domani?
Maurizio si stringe nelle spalle. – Sì, penso che sia la prassi quando vengono sentiti i testimoni in aula.
“Merda”. – Avete consegnato come prova la telefonata con lui che ho registrato, vero?
Annuiscono. – Nell’attimo stesso in cui l’abbiamo ricevuta. L’avvocato Landini dice che giocherà molto a nostro favore. – Spiega mamma.
- Meno male. Beh, al processo e a Matteo penserò domani. Ora voglio godermi il tempo con voi.
 
Ho detto che al processo ci penserò domani?
Sto gran cazzo.
È notte fonda e sta andando tutto male.
Mi manca Kit ma sono ancora infuriata con lui, ho rifiutato tutte le sue chiamate di oggi, ho mangiato poco e niente a cena e non riesco a dormire. Non c’è nemmeno Kit a letto, l’ancora a cui posso aggrapparmi per dormire protetta.
E domani sarò a meno di dieci metri da Matteo.
Col cazzo che ci penserò domani, ci sto pensando adesso e a momenti mi sento male.
Sono le tre del mattino. Fra sette ore l’udienza avrà inizio.
Merda.
Solo le cuffiette dell’Ipod mi impediscono di camminare su e giù per la stanza, sparandomi musica a palla nelle orecchie.
Devo trovare il modo di non pensare.
Quando la canzone di Andrew Belle “Oh My Stars” comincia a suonare, una vocina proveniente dall’armadio chiama il mio nome.
Accendo la luce, cercando di ignorare la scritta, e apro l’anta più a sinistra del nuovo armadio Ikea.
Il mio telescopio. Quasi me n’ero dimenticata.
Senza pensarci un attimo lo tiro fuori dalla scatola, prendo le chiavi di casa, esco dalla porta e salgo sul tetto del palazzo.
E lì, nell’immobilità della notte e delle stelle, ritrovo la mia serenità.
 
Il codice di abbigliamento del tribunale non ammette eccezioni: pantaloni lunghi e sobri, anche nel caldo genovese del 3 agosto.
Alla faccia del freddo irlandese e irlandese, qui ci son trenta gradi.
I miei sono già entrati in tribunale assieme all’avvocato Landini. L’udienza sta avendo inizio in questi minuti, ma dal momento che i testimoni possono entrare uno alla volta e solo dopo la loro deposizione possono rimanere in aula, sono rimasta fuori dal tribunale a prendere un po’ d’aria e a bere dell’acqua fresca.
I pantaloni blu del completo mi si stanno appiccicando alle gambe.
Ammazza che caldo.
Poso la bottiglietta ghiacciata sui gradoni di cemento del Palazzo di Giustizia e mi lego nervosamente i capelli in una croccia sulla testa, mentre ogni sorta di pensiero mi transita in testa con l’agitazione di un tornado.
Ho fatto bene a non tingerli di biondo? Non lo so.
Mio Dio, qui fuori si muore.
Devo entrare per forza.
Riprendo la bottiglietta, apro il pesante portone ed entro nell’ampio ingresso di marmo. Lo attraverso facendo caso al tac tac dei tacchi sul pavimento, senza badare agli impiegati che ronzano in giro come uno sciame d’api, salgo le scale tenendomi al corrimano – se ruzzolassi giù non sarebbe la prima volta, e dopo un lungo corridoio svolto l’angolo, arrivando a un altro ambiente arredato come una sala d’attesa dove stanno attendendo i miei genitori e altri testimoni, in piedi al centro della stanza. Gli avvocati, il giudice e, a quanto pare, Matteo sono già dentro all’aula.
Il capannello di persone si dipana appena mi vede, creando uno spazio al centro.
Il cuore mi cade nella pancia con un tonfo, appena lo vedo. Rimango pietrificata, con la bocca aperta come un merluzzo, senza credere a ciò che i miei occhi stanno vedendo.
- …Pinna? – Balbetto sconvolta.
Andrea Pinnarotti, detto Pinna dai tempi dell’asilo… il mio più caro e vecchio amico, il mio partner in tutti gli spettacoli di classica, l’uomo che ho allontanato sotto l’influenza di Matteo e che ero certa di aver perso per sempre, ricambia il mio sguardo con un grande sorriso e corre verso di me, abbracciandomi tanto stretta da sollevandomi da terra.
- Mi sei mancata, Bambi. – Sussurra.
Scoppio in singhiozzi incontrollati, aggrappandomi convulsamente a lui.
- Ti voglio bene, Pinna! Mi dispiace per tutto quello che ti ho fatto.
- Non importa, Bambi, stai tranquilla. Eri già perdonata.
Mi posa a terra e, dopo avermi asciugato le lacrime, mi abbraccia di nuovo.
Alto, dai muscoli tonici, i capelli neri e lisci e gli occhi verde acqua, è sempre sembrato un misto tra Iwan Rheon e Harry Potter. È vestito con un completo molto informale, che stona completamente con la sua personalità.
Non credevo che l’avrei rivisto, e non riesco a staccarmi da lui.
- Che ci fai qui?
- Sono qui a testimoniare per quello che ti ha fatto, Bambi, non lo sapevi?
- Io… io pensavo di averti perso per sempre.
Sciogliamo l’abbraccio, rimanendo legati dalle braccia nella vita dell’altro.
- Che razza di amico sarei? – Mi fa l’occhiolino. – Non ti abbandonerò mai, pirla.
Sorrido. – Meno male che non mi sono truccata.
Sghignazza.
- Andrea Pinnarotti può entrare in aula! – Annuncia il cancelliere mettendo la testa fuori dalla porta.
- Devo entrare, ma ci vediamo fra poco ok?
Con un buffo sulla guancia mi volta le spalle ed entra.
Raggiungo mia madre e lei mi mette un braccio in vita. – Sapevate che sarebbe venuto? – Domando sfregandomi gli occhi.
- Sì, ma ci ha proibito categoricamente di dirtelo. Voleva che fosse una sorpresa.
- Eccome se lo è stato! Rivedere Pinna è da aggiungere alla lista dei miracoli che ho ricevuto e che di sicuro non meritavo.
Un angolo della sua bocca si piega in un sorriso.
 
Dieci minuti dopo, la testa del cancelliere fa di nuovo capolino dalla porta.
- Sara Cerbiatto può entrare in aula!
Il cuore comincia istantaneamente a battermi contro lo sterno mentre obbligo le gambe a muoversi.
Tac, tac, tac fanno i tacchi, mentre il turbine nella mia mente improvvisamente tace.
Entro nella stanza chiudendo la porta dietro di me.
L’aula è piccola, ci sono delle sedie messe in fila davanti a una cattedra imponente a cui sta seduto il giudice, tale Riccardo Messina, con indosso una toga nera. Dietro di lui l’ipocrita scritta “La legge è uguale per tutti” appesa al muro. Accanto alla cattedra il banco dei testimoni, con un microfono appoggiato sopra.
Le sedie della prima fila sono occupate dagli avvocati: Carlo Landini, accusa, e Lucia Ranieri, difesa.
Le altre dai testimoni che sono stati già ascoltati.
E in una sedia a parte, dentro una specie di gabbia, sta seduto Matteo.
Il solo rivederlo in faccia mi getta nel panico, ma mi costringo a restare calma. Durerà poco, mi dico.
- Prego, si sieda.
Ordina il giudice indicando il banco dei testimoni con un gesto della mano.
Attraverso l’aula a testa alta, ignorando il panico che mi infuria nel petto, passando obbligatoriamente davanti alla gabbia di Matteo.
Nell’attimo stesso in cui il suo sguardo chiaro e freddo come il ghiaccio incrocia il mio, tutti gli orribili momenti che abbiamo passato insieme mi tornano in testa con la forza di uno tsunami e comincia a correre in giro come impazziti.
E inevitabilmente mi blocco, proprio davanti a lui.
Il suo viso è distorto da un ghigno indecifrabile.
- Ciao, cerbiattina. – Dice a bassa voce.
Il suo viso a poca distanza dal mio mentre mi stupra.
Le sue mani che mi bloccano contro il muro e mi fanno male.
“Non ti meriti di attenzioni, non ti meriti di essere felice, sei soltanto uno schifo”.
Un attimo prima che il giudice mi inciti di nuovo a prendere posto, mi costringo a proseguire. Lo sguardo di Matteo mi brucia tra le scapole.
Riesco a sedermi nervosamente, lo sguardo rassicurante di Pinna che lotta per avere il sopravvento su di me contro quello pieno d’odio del mio ex.
Inizio a giocare nervosamente con le mani.
- Signorina Cerbiatto, prego legga nel microfono la frase scritta davanti a sé – comanda il giudice.
Tremando impercettibilmente, mi avvicino al microfono.
- “Con…” – La voce mi si rompe. Sospiro, e ricomincio. – “Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”.
- Ha compreso cos’ha appena dichiarato?
- Sì, signor giudice.
- Allora possiamo iniziare.
   
 
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