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Autore: Pedistalite    03/10/2016    2 recensioni
La fic è ambientata in un alternative universe non meglio precisato, nel quale SPN è uno show ormai concluso e Jared e Jensen hanno smesso di frequentarsi assiduamente.
Un crash test è una forma di test distruttivo di solito eseguito per verificare la sicurezza delle…
Genere: Angst, Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jared Padalecki, Jensen Ackles
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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*** Urto frontale disassato: in cui solo una parte dell'anteriore dell'auto impatta contro una barriera o un veicolo. La loro importanza è dovuta al fatto che le forze d'impatto rimangono approssimativamente le stesse di un urto frontale pieno, ma sono assorbite da una parte più piccola dell'auto (circa il 40%). ***



 

Ti tremano le mani e fatichi ad inserire la card nella serratura magnetica. Al quarto tentativo vorresti bussare, perché Jensen ha chiuso la comunicazione, ma ti sembra di poterlo sentire respirare al di là della parete.

Sai che ti sta aspettando e forse si sta anche prendendo gioco di te. Ma se ha intenzione di puntare alto, farà bene ad avere in mano delle carte per una buona partita.

Non intendi regalargli niente. Nemmeno un punto.

Anzi, sei così confuso e ubriaco e assonnato che tutta la tua frustrazione risale a galla e non t’importa di mantenere la tua equilibrata, sincera, onesta apparenza… l’unica cosa che veramente desideri è impartirgli una lezione, aprirgli le gambe e infilarglielo dentro senza nessuna preparazione.

L’hai già pensato. Lo riconosci.

Ultimamente non riesci ad avere un pensiero originale che sia uno.

 

Un fiotto di bile ti risale in gola, e l’erezione che ti gonfia i pantaloni è inappropriata. Ti fa vergognare. Non sei il tipo che tradisce sua moglie. Non vuoi essere quel tipo. Ti stai sforzando in tutti i modi che conosci per non essere quel tipo. Hai fatto una promessa, la vuoi mantenere.

Scosti la porta, lasci che l’illuminazione del corridoio dell’hotel rischiari l’ingresso della suite.

La tua camera è buia, filtra appena una luce dalla porta socchiusa della camera da letto.

Ovvio.

Segui la luce, come Hansel e Grethel le mollichine di pane, e oltre la soglia c’è un territorio sconosciuto. Spalanchi la porta con più forza del necessario. Fortuna che le stanze sono insonorizzate, il rumore secco del legno contro la parete viene assorbito dalla tappezzeria, dalla moquette, dal tuo battito.

 

Jensen è seduto sul letto.

Emana controllo, quasi una pacata indifferenza. Sembra che vi siate visti solo ieri. No.

Indossa una camicia a quadri, un paio di jeans con più buchi che tessuto, solo le punte delle dita dei piedi nudi gli sbucano dall’orlo.

Inizi a scuotere la testa, perché tutto questo è… tutto questo è…

 

“Te ne starai lì ancora per molto?” ti domanda, ha la voce bassa, non lascia trapelare nessuna particolare emozione.

Oppure tu sei troppo ubriaco, troppo disfatto per capire.

“Dove vuoi che vada?” ribatti, vagamente belligerante, e te ne penti subito. Non vuoi coinvolgere Jensen in uno shouting-match. Vuoi superare indenne l’incontro. Vuoi che se ne vada. Vuoi strappargli i pantaloni, e fargli capire che questo genere di sorprese si pagano. Vuoi… Ondeggi, fatichi a mantenere l’equilibrio. Svuoti il contenuto delle tue tasche sul tavolo e ti passi una mano sulla fronte sudata.

“Sei ubriaco,” nota, incrocia le caviglie sul letto, viene avanti col busto e ti osserva meglio, curioso: “Perché?”

 

Non sai che dirgli, e poi che domanda ridicola…

Ti pareva una buona idea qualche ora fa, ma non ne sei più così convinto: quando non sei completamente in controllo delle tue azioni, dei tuoi pensieri, è più difficile mantenere la maschera. E Jensen sa come spingere tutti i tuoi bottoni. Conosce tutte le tue debolezze. Ha sempre saputo come prenderti...

La consapevolezza ti congela. Sorprendentemente ti aiuta a mettere i pensieri in fila.

“Io sono ubriaco, e tu sei qui. La seconda è più difficile da spiegare,” commenti.

Se questo è il gioco, se vince chi rivela di meno all’altro, allora terrai la bocca chiusa come una cassaforte, come le cosce di una novizia. Sai giocare finalmente anche tu. Stai imparando.

 

Jensen allunga le gambe oltre il bordo del letto, si distende, fa scricchiolare sottilmente le giunture. “Ho saputo da Mike Rosenbaum che eri a Malibù. Da solo. Volevo vederti. È da un po’ che non ci parliamo.” Sembra a suo agio, è economico nella scelta delle risposte, ritmico nel come le pronuncia.

Non ti riesci a trattenere. Sbuffi. È la cazzata più assurda che potesse raccontarti.

Da un po che non ci parliamo… Beh, può rigirarsela come vuole, ma è ben più che un pò. Non vi vedete dall’ultima convention per celebrare la chiusura della serie, non vi parlate dalla fine delle riprese, e a dirla tutta non avete una qualche conversazione che possa avere un valore da… Non sai più da quanto.

Jensen lo sa benissimo e si dà una scrollata di spalle. Mente. E non gliene importa niente.

“La settimana prossima ti sposi, mi pare. Perciò che fai qui Jen?” gli domandi. Sei stanco, il peso della serata, delle tue scelte, delle loro stesse conseguenze, ti crolla sulla schiena come una tonnellata di mattoni.

 

Si alza, è sinuoso come un gatto. Ed è un concetto che non ti sei mai spiegato. Tu pesi cento chili di muscoli e sei alto come un grattacielo, non sei mai stato aggraziato, hai imparato con il tempo a muoverti nel modo consono alla tua stazza, con efficienza ed attenzione. Ma Jensen, che non è un uomo di piccole dimensioni sotto alcun punto di vista, è consapevole del suo corpo, si muove con armonia, equilibrio, senza sforzo. Jensen sembra sempre in posa, sempre elegante, sempre perfetto. Se tu non fossi certo che gli viene naturale, lo riterresti insopportabile.

 

“Appunto, la settimana prossima mi sposo. Perciò voglio che mi fotti, Jared. Voglio che mi scopi stanotte. E domani. E fino a quando non torna tua moglie. Fino a quando le lenzuola non saranno fradice di noi.”

 

Dà una cadenza ritmata alle sue parole, ha la postura rilassata di un uomo in controllo.

L’aria fuoriesce dai tuoi polmoni come se ti avessero preso a pugni.

Jensen, quando vuole, non si perde in tanti giri di parole.

Lo odi. Vorresti strappargli i vestiti di dosso. Lo vuoi.

No.

Quello è un pezzo della tua vita che ti sei lasciato alle spalle, non vuoi finirci dentro di nuovo. Hai deciso di fare ordine nella tua vita quando hai sposato Genevieve. Hai deciso che avresti avuto la moglie, e i figli, e i cani, e la staccionata bianca. Hai fatto una promessa di esserle fedele sempre.

 

Jensen ti passa una mano attorno al collo. È il primo contatto fisico che c’è tra di voi, contatto intimo, da settimane, mesi. Reprimi un brivido, ma non riesci a impedirti di chiudere gli occhi, mostrare il piacere che ti pervade all’idea dell’incontro di pelle che prelude quello di lingue, di carne, di sudore, di sperma. La tua erezione è sempre più pressante, ma ti senti talmente male che  sei certo di non poter eseguire una buona performance.

 

“Stai pensando troppo. Stai pensando a come dirmi di no…” bisbiglia, con la bocca vicino al tuo orecchio, una mano che si avvicina al bottone del tuo jeans, si insinua nel cavallo dei pantaloni, dentro i tuoi boxer.

Non te ne accorgi nemmeno, ti fermi solo quando lo senti gemere: se aumentassi di più la presa potresti spezzargli il polso. E quel suo spasmo, quel rumore di gola appannato e ferito arriva direttamente al tuo uccello e pensi che se solo potessi toccarti, verresti come un fuoco d’artificio del quattro di luglio. E ti sale la nausea. Bravo, che coerenza!

Lo lasci andare frettolosamente, ti allontani con rapide, ampie falcate. In un lampo sei dall’altro capo della stanza, la schiena contro il muro, le mani nelle tasche.

Jensen ti osserva, ma ancora con quella sua stramaledetta espressione indecifrabile. E tu non sai più come sopravvivere alle emozioni che ti pervadono: a quella miscela esplosiva di rabbia-confusione-affetto-desiderio-umiliazione-delusione.

Prendi un respiro. Ti gira la testa, in sottofondo il sentore di nausea ti rende insopportabile anche solo respirare la sua colonia. “Non posso fare questo adesso,” ammetti, ma non lo puoi guardare. “Non so cosa ti è successo, non so cosa stai pensando… ma io non posso fare questo adesso.”

È già stato abbastanza difficile la prima volta…

 

Jensen è terribilmente immobile, lucido e sveglio, fermo come una statua illuminata dalle abat jour accanto al letto. Già solo per questo ha vinto la vostra partita stanotte. (Se questo è il gioco, se vince chi rivela di meno all’altro…). E tu non puoi pensarci.

“Allora non fare niente…” ti dice.

Quando riapri gli occhi è lì, davanti a te. E tu, idiota, hai le spalle contro il muro.

Non c’è nessun posto in cui potresti scappare.

“Jen, no. Avanti… andiamo… non…” ti si spezza il fiato in gola.

Jensen ha già chiuso le sue dita contro la tua erezione, il suo palmo, caldo e avvolgente, ti sembra la casa di cui sei alla disperata ricerca.

“N-non facc-ciamoci q-questo…” stringi i denti, mentre un fiotto di sangue diretto al tuo pene che si ingrossa (che ti prende in giro con la sua inappropriata euforia) ti fa girare la testa. “Jen, lo sai, ho una p-promessa da mmm-mantenere…”

 

Jensen non ha intenzione di risparmiarti nulla, a quanto sembra. Stringe le dita in una morsa quasi dolorosa e ti trattiene alla base del pene, per non farti venire (troppo presto… ti domandi) mentre con il pollice ti accarezza la testa, dove perle lattee del tuo sperma iniziano a rapprendersi.

Vorresti che si leccasse le dita. Vorresti che te lo succhiasse (come la prima volta in cui si è abbassato sulle ginocchia. Eri così duro che sei venuto appena ha appoggiato la lingua contro la punta, la ricordi come una delle esperienze più eccitanti e più imbarazzanti della tua vita. Nemmeno da adolescente hai mai fatto di queste figure…).

Vorresti marchiarlo, ricoprirlo col tuo sperma, fondere i vostri odori (come se una doccia non ne potesse cancellare le tracce, come se il legame potesse durare fino a quando potrete finalmente cominciare ad odiarvi per quello che vi state facendo).

Non sai nemmeno quello che stai pensando, non riesci nemmeno a distinguere un’idea dall’altra. Sai solo che: voglio-ora-dentro-ancora-forza-adesso-mai.

 

“Non ti distrarre. Non fantasticare, sei qui con me adesso. Non puoi andare da nessuna parte…” insinua Jensen, bisbiglia, ha la guancia appoggiata alla tua, ti si spinge addosso e la sua mano è intrappolata tra i vostri corpi, insieme alle vostre erezioni.

La sua più grande paura deve essere che tu stia pensando a lei… Non lo sa, non lo immagina che tu pensi a lui (perché non riesci a pensare ad altro, come una fissazione, come una malattia) non sempre (altrimenti saresti solo un figlio di puttana, traditore e bugiardo) ma spesso, quando le entri dentro. Cataloghi similitudini e differenze, odori e sapori, la solidità dei suoi muscoli, le efelidi e le rughe, (il calore che emanava come una fornace quando lo toccavi, quando gli passavi le mani lungo le cosce, gli stringevi i glutei per premerli contro la tua erezione e lui affannava in attesa di aprire…).

“Jen, non f-facciamoci,” ansimi, perché vedi quasi tutto bianco, e stai per venire, e non c’è niente che tu possa fare, nessun posto in cui tu possa nasconderti, per evitare che accada. “Non facciamoci questo. Ti prego.”

 

Jensen diventa improvvisamente feroce, selvaggio. “Perché? Per la tua promessa da mantenere? Quella di esserle fedele sempre?” ringhia, sei sommerso dal suo odore, dalla sua presenza, dalla sua confusione… E la sua disperazione è tale da tingere di amaro anche il tuo piacere.

Inizia a spingersi su di te, su e giù, con un movimento dei fianchi che sembra automatico, fuori dal suo controllo. È solo frizione da contatto. Con entrambe le mani impegnate a farti un pompino c’è ben poco altro che possa fare.

“N-no,” tiri fuori a fatica le lettere dalla tua gola. Lo guardi perché hai le palpebre aperte, ritratte e incollate, non riesci nemmeno a pensare di muoverti.

“La promessa che ho fatto a te.”

 

Stai ansimando e non hai controllo. Vorresti mordergli la bocca, per fargli male. Non è che un presuntuoso bastardo, che pensa ancora che le sue azioni non abbiano conseguenze, che le tue parole non abbiano un valore.

Stai solo cercando di fare quello che lui ti ha chiesto, fanculo. Quando gli hai detto che la sposavi e lui ti ha guardato da sotto in su, come se fossi un estraneo, con quegli occhi verdi, trasparenti come biglie, e ti ha detto: “Tu la sposi e questo finisce qui.” Sintetico, in carattere. Non lo hai mai sentito parlare di cosa prova. E talvolta, sì, hai pensato che potesse amarti, ma ti è sembrato così strano, e così alieno, che hai tarpato le ali di quella fantasia prima che prendesse il volo.

Quel pomeriggio non te lo ricordi bene, lo hai cancellato, come una videocassetta consumata dalle troppe visioni. Ci hai ripensato talmente tanto, per analizzare ogni sfumatura del vostro scarno dialogo, da perdere la memoria della reale conversazione. Sinceramente non sai più se lui fosse distaccato, o ferito, o arrabbiato, o deluso, o geloso. Sai solo che ti ha guardato in faccia per dirti che tra voi, qualunque cosa ci fosse stato, finiva. E poi ha aggiunto:

“Tu ora mi giuri che qualunque cosa succeda non ci toccheremo mai più.”

 

Quello che hai provato in quel momento te lo ricordi bene.

E ora lui te lo sta ributtando in faccia, come un panno sporco.

Adesso ti senti battere i denti nella bocca, come se avessi una febbre alta, ma non puoi fermarti. Dal basso ventre ti si apre dentro una voragine che rischia di azzerare il tuo intelletto. E sei vicino, sull’orlo. Devi fare in fretta.

Non farmi questo.

Ti prego bastardo.

Non sai se riesci a dirglielo. Jensen ti guarda, è implacabile, ha gli occhi opale accesi di fiammelle.

“Guardami. Sono io che ti sto facendo questo. È per me che tu provi…” si scuote, non può dire di più. “Guardami. E vieni.”

 

Nell’istante successivo il tuo cervello si ferma. Reload.

Mentre senti una macchia di umidità calda che si allarga sui suoi jeans e viene assorbita dalla pelle del tuo stomaco esposto, non puoi che ubbidirgli.

Dieci secondi e un’eternità dopo, ti senti le ginocchia cedere. Finisci accovacciato contro la parete, sostieni tutto il peso di Jensen, che si abbatte nella v delle tue gambe, contro il tuo petto, ansima, sconvolto come se avesse corso la mille miglia, con il volto nell’incavo del tuo collo, il suo fiato caldo che si poggia sulla tua pelle, ti impregna come vapore.

Una delle sue mani si chiude a pugno nella stoffa della tua maglietta, l’altra risale lungo il tuo stomaco, solleticando i tuoi pettorali, fino a fermarsi sulla tua nuca, a stringere i tuoi capelli madidi.

“Jay…”

 

Non piange. Ti dici.

E io non mi sento spezzare in due.

 
   
 
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