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Autore: Claire77    09/10/2016    1 recensioni
Dopo aver pronunciato quelle parole, Henry si fece di lato, lasciando entrare Jo nel negozio. Chiuse la porta a doppia mandata e appese il cartello con la scritta chiuso. Aveva paura di voltarsi e di incontrare lo sguardo di Jo. Quello che temeva, o che aveva desiderato, a seconda dei punti di vista, per tutto quel tempo, stava per accadere.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Six months later

 
“Jo, ti devo parlare un minuto”. Il capitano le tenne la porta aperta perché lei potesse entrare nel suo ufficio. Jo ubbidì, e una volta entrata restò in piedi di fronte alla scrivania. Ebbe un momento di timore. Alla fine, i buoni propositi suoi e di Henry di rivelare la loro relazione erano slittati di giorno in giorno, fino a diventare mesi. La verità era che Jo non trovava alcuna ragione per mettere a rischio la loro posizione. Dopo i primi giorni di imbarazzo, Jo si era rilassata, e, al lavoro, si comportava con Henry esattamente come prima. Lui, neanche a dirlo, era una maschera di impassibilità. Lucas si era dimostrato un confidente inespugnabile. Sì, ogni tanto si lasciava sfuggire qualche frecciata nella loro direzione, ma sempre e solo se erano da soli. Di fronte agli altri, non mostrava nei loro confronti nessun atteggiamento particolare. E alla fine le settimane erano passate, e anche il momento giusto per dirlo al capitano, o a Hanson. Paradossalmente, più il tempo passava, più la rivelazione diventava difficile, perché significava anche ammettere di aver tenuto la relazione nascosta. Nel dubbio, Jo aveva adottato la tecnica di Henry: silenzio e basso profilo. Solo che adesso temeva che il capitano avesse scoperto qualcosa.
“Siediti pure, Jo”, le disse il capitano indicandole una sedia. Jo fece un cenno di diniego con il capo.
“Preferisco stare in piedi, se per lei è lo stesso”.
Fu il capitano allora a sedersi, e poi accennò, con la testa, a una pila di fascicoli impilati sulla sua scrivania.
“Sai cosa sono questi, Jo?”
Jo scosse la testa.
“Sono tutti i casi che hai risolto negli ultimi mesi. Superano di gran lunga la media di qualunque altro distretto”.
Jo tirò un impercettibile sospiro di sollievo, accorgendosi che il discorso non c’entrava nulla con lei e Henry. Ma allora, di che stavano parlando?
“Fra due settimane ci sarà la cena di gala della polizia”, proseguì il capitano, “E io ho intenzione di proporre al capo della tua polizia la tua candidatura per una promozione”.
Jo si ritrovò a bocca aperta.
“Promozione?”, ripeté, incredula, “Promozione… a cosa?”
“Tenente”, le rispose il capitano, e le rivolse un sorriso di incoraggiamento. Vedendo che però Jo era immobile, come scioccata, alzò le sopracciglia, perplessa.
“Non ne sei felice, Jo?”
“Io… no, cioè sì”, balbettò Jo, ancora confusa, “Solo che non… non me lo aspettavo.”
“Avresti dovuto, invece”, continuò il capitano, “Come ti dicevo, la media dei tuoi casi risolti è spettacolare. Sei sempre stata un’ottima detective, ma in questi mesi hai superato te stessa.”
“Non è stato tutto merito mio”, ribatté Jo. Ed era sincera. Da quando sapeva la verità su Henry, lui non doveva più nascondere la fonte delle sue intuizioni o conoscenze. Se sapeva qualcosa perché ne aveva avuto esperienza diretta nel suo passato, semplicemente gliela diceva. Henry era letteralmente un’enciclopedia ambulante su qualsiasi cosa, ancor più di quanto lei credesse. Avevano risolto il caso di un truffatore che vendeva lettere antiche false perché Henry si ricordava perfettamente che l’autore delle lettere, che era stato un suo paziente, era morto tre mesi prima della data riportata sulle presunte lettere originali.
“Ti riferisci al dottor Morgan?”, chiese il capitano alzando nuovamente le sopracciglia.
“Sì. Quei casi li abbiamo risolti insieme” Jo fece un respiro profondo per impedirsi di arrossire.
“Lo so. Mi congratulerò anche con lui, ovviamente, ma ciò non cambia la mia intenzione di proporre una tua promozione, se tu sei d’accordo”.
“Io… sì. Cioè, ne vorrei parlare con…” Stava per dire ne vorrei parlare con Henry, prima, ma si trattenne in tempo, “Cioè, ci vorrei pensare un po’ su, se è possibile”.
Al capitano non era sfuggito quel vorrei parlarne con, ma per il momento soprassedette.
“La cena di gala è tra due settimane. Pensaci, e comunicami la tua decisione entro quel giorno.” Il capitano si interruppe per qualche secondo, scrutandola. Poi continuò: “Ti ho osservata, sai, Jo, in questi mesi. Sembri diversa. Più… attiva. Entusiasta. E il risultato si è visto nel tuo lavoro”.
Jo abbassò lo sguardo, imbarazzata, senza sapere come rispondere.
“Ho saputo che il signor Monroe è uno dei maggiori finanziatori del gala, quest’anno”, aggiunse il capitano continuando a osservarla.
“Isaac?”, chiese Jo, interrogativa.
“Già. È stato molto generoso. Deve avere dei buoni motivi, per amare così la polizia.”
Ah. Jo capì dove voleva arrivare. Il capitano era convinta che lei e Isaac si fossero rimessi insieme, e che fosse per quel motivo che Isaac finanziava la cena di gala, e che lei era così… come aveva detto? Entusiasta. Jo accennò un sorriso e si spostò da un piede all’altro, senza confermare né smentire. Se il capitano credeva che lei stava con Isaac, meglio così. Però perché Isaac finanziava la cena? Forse non aveva niente a che fare con lei. Anzi, sicuramente. In fondo, Isaac era un imprenditore. Avrà avuto i suoi motivi.
Uscita dall’ufficio del capitano, fece finta di tornare alla scrivania, ma appena sentì di non essere osservata da nessuno si avviò all’ascensore e scese in laboratorio. Henry e Lucas stavano svolgendo un’autopsia, ed erano soli.
“Henry!”, esclamò Jo, che dopo alcuni minuti di metabolizzazione della notizia datale dal capitano ora si sentiva stranamente agitata, “Posso parlarti un secondo?”
Henry posò il coltello e alzò gli occhi protettivi sopra la fronte.
“Certo. Va… va tutto bene?”
Anche Lucas alzò gli occhiali protettivi e si voltò a guardarla.
“Sì. Solo… ho appena avuto una notizia e ho bisogno di parlartene.”
“Va bene. Andiamo nel mio ufficio. Lucas, prosegui tu?”
Lucas annuì e si rimise al lavoro senza discutere.
Jo seguì Henry nel suo ufficio e si chiuse la porta alle spalle. Henry si appoggiò alla scrivania e la guardò interrogativo.
“Jo, tutto ok? Mi sembri agitata.”
“Sì. Solo che… ho appena parlato con il capitano. No, non si tratta di quello”, aggiunse subito, notando che Henry si era irrigidito al pensiero che lei fosse finita nei guai a causa della loro relazione, “Mi ha detto che negli ultimi mesi ho risolto più casi della media e che quindi vuole… insomma, vorrebbe propormi come candidata al ruolo di tenente.”
“Tenente?”, Henry sorrise e allungò una mano per toccarle la spalla, ma poi si ricordò che erano pur sempre sul luogo di lavoro e ritornò con le braccia abbandonate lungo i fianchi, “Ma è una splendida notizia, Jo!”
“Tu dici?”, chiese Jo, non convinta.
“Ma certo!”, confermò Henry, “Perché, non è una cosa positiva?”
“A dire il vero non lo so”, ammise Jo, sentendosi assalita dai dubbi, “Voglio dire, è un grosso cambiamento. Significherebbe più burocrazia e meno lavoro sul campo. E poi… c’è il rischio che mi trasferiscano. E io non voglio”.
“Se anche ti trasferissero, Jo, sai che verrei con te. Per me non ci sarebbe problema.”
“Ma il negozio? Abe?”
“Il negozio lo posso riaprire in qualunque altra città. Abe può scegliere se rimanere o venire con noi. Lo facciamo da sempre, ogni dieci anni. Si tratterebbe solo di anticipare la solita data di un paio d’anni.” Henry si interruppe, consapevole di non avere mai parlato a Jo della sua ruotine di spostamento ogni decennio. Jo però era assorbita da altri pensieri e non se n’era accorta.
“Però non si tratta solo del trasferimento, vero?”, chiese, scrutandola, “Che cosa ti preoccupa, Jo? Sai che mi puoi dire tutto”.
“Non lo so nemmeno io, che cosa mi preoccupa”, Jo si morse un labbro, indecisa, “Solo che… questi mesi sono stati così… perfetti. Io e te sul campo, una squadra perfetta. E ho paura di perdere tutto questo. Ho paura di venire relegata a una scrivania, di essere sepolta dalla burocrazia, di dover cominciare a preoccuparmi della politica, e delle apparenze, e… insomma, non lo so.”
“Puoi sempre dire di no, Jo”, osservò Henry.
“Lo so. Però al pensiero di rifiutare mi sento in colpa… è una grande occasione, un innalzamento di carriera e di stipendio, e… mi sembra di essere un’ingrata, a rifiutare. Che casino”, concluse, e si passò una mano sulla fronte.
“Jo, posso darti un consiglio?”, chiese Henry dopo averle lasciato qualche secondo per riflettere.
“Sono qui apposta, maestro Morgan”, Jo sorrise, nervosa, ondeggiando sui piedi, “Ho bisogno di un po’ di saggezza centenaria”.
“Non pensare in base a quello che gli altri si aspettano che tu pensi”. Jo lo guardò smarrita per qualche istante, cercando di afferrare la logica di quella frase apparentemente contorta. Henry proseguì: “Voglio dire, i soldi, la carriera, sono solo illusioni di cui di volta in volta gli uomini si dotano, per avere un obiettivo nella vita. Cent’anni fa il tuo scopo principale sarebbe stato sposare un buon partito e avere tanti figli. Adesso c’è il sogno della donna in carriera. Ma sono solo delle credenze vuote. L’unica cosa che conta è fare ciò che ti rende felice. E se sei felice a bere caffè davanti a un cadavere la domenica mattina, e a passare le giornate a indagare con un povero vecchio, allora questo deve essere lo scopo della tua vita. Quello che gli altri si aspettano da te, o che credono che tu debba aspettarti, non conta”.
Jo sorrise di nuovo, questa volta di serenità. Era esattamente quello che voleva sentirsi dire, e il modo in cui Henry lo aveva detto aveva lenito il suo nervosismo.
“Mi sembra un ragionamento saggio, Henry”, disse, facendo un passo verso di lui, e al diavolo se erano sul luogo di lavoro, “L’unica cosa che non ho capito è chi è il povero vecchio a cui facevi riferimento”. E gli fece l’occhiolino.
“Bah, un signore di mia conoscenza, un vecchio nostalgico, che a volte scrive ancora con inchiostro e pennino e ascolta il giradischi”, scherzò Henry, e non si oppose quando lei si sporse verso di lui e gli lasciò un leggero bacio sulle labbra.
“Grazie, Henry”, gli disse poi, “Sto meglio, adesso. Mi ero agitata per nulla”.
“Dirai di no, allora?”, le chiese lui, ritornando a una distanza di sicurezza.
“Probabilmente sì, ma non è detto. Ci penserò ancora un po’ su. In caso di bisogno, conosco una persona molto saggia a cui chiedere consiglio.”
“Per quando devi dare la risposta?”
“Entro due settimane. A proposito, c’è la cena di gala della polizia”, aggiunse Jo, e il pensiero di Isaac le fece tornate per un istante il nervosismo, “Il capitano mi ha detto che Isaac è uno dei finanziatori”.
“Isaac?”, chiese Henry alzando le sopracciglia.
“Sì. Credo che il capitano me lo abbia detto perché ha dei sospetti”.
“Sospetti?”
“Sì. Credo che lei creda che io e lui stiamo di nuovo insieme”.
“Tu e Isaac?” Henry provò una piccola e fulminea fitta di gelosia, che si affrettò a nascondere dietro a un tono diplomatico, “Beh, sì, capisco il suo ragionamento. Immagino che per comodità tu non l’abbia smentita”.
“No”, confermò Jo, “Però non ha detto niente di esplicito. È stata solo una mia sensazione”.
“Le tue sensazioni di solito sono corrette”, osservò Henry, prima di aggiungere, sempre l’immagine della diplomazia: “Ti crea disagio, il fatto che ci sarà anche Isaac?”
Jo ci rifletté per qualche istante.
“Credo di poterlo gestire”, rispose alla fine, “In fondo, ci sarai tu al mio fianco, no?”
“Io? Non credo di essere invitato. Non faccio parte della polizia”.
“Come, vuoi lasciarmi andare da sola a una serata di chiffon e champagne costoso? Lo sai che non è per niente il mio genere.”
Henry ci pensò su.
“Non credi che desteremmo sospetti, a venire insieme?”
“Sei pur sempre il mio partner”, rispose Jo, “Se facciamo imbucare anche Lucas, credo che potremmo cavarcela… voglio dire, sembreremmo semplicemente un gruppo di colleghi, no?”. Si interruppe un secondo, ricordandosi dell’imbarazzo che aveva provato all’ultima cena di gala a cui aveva partecipato, parecchi anni prima. Si era sentita un brutto anatroccolo in mezzo allo sfarfallio di abiti firmati e gioielli luccicanti. “Non ho niente da mettere”, si lasciò sfuggire, persa nei suoi pensieri, “L’ultima volta mi sono messa l’unico vestito che avevo, nero al ginocchio, ed ero l’unica che avesse le gambe scoperte. Avevano tutte l’abito lungo”.
Tornò a guardare Henry e si accorse che lui la stava guardando con affetto, trattenendo a stento un sorriso, forse per non offenderla.
“Jo, santo cielo, non ti preoccupare di questo. Starai benissimo con qualunque cosa indosserai, e poi non ti dimenticare che ho una discreta esperienza in fatto di balli e cerimonie.” Le fece un occhiolino, e Jo si sentì subito rilassata.
“Hai ragione. Ogni tanto mi faccio prendere da delle stupide paranoie, eh?”.
“Sarà perché hai la coda di paglia, detective”, scherzò Henry, “Che ne dici di venire a cena da noi, stasera? Abe ha fatto la torta al cioccolato. E possiamo continuare a parlare della promozione, e del ballo”.
“Va bene”. Jo si costrinse a tornare al lavoro, anche se avrebbe voluto restare lì a chiacchierare insieme a Henry, “Ci vediamo stasera”.
 
Lucas si abbandonò contro lo schienale della sedia, sbuffando. Era rimasto solo lui in laboratorio. Henry se n’era andato un paio di ore prima e gli altri avevano già staccato. Lucas, contrariamente alle sue abitudini, era rimasto lì a occuparsi delle scartoffie, anche se in realtà il suo orario di lavoro era terminato. La verità era che non voleva tornare a casa. Era il suo compleanno, quel giorno. Però nessuno se n’era ricordato, e a casa non c’era nessuno ad aspettarlo, né un parente, né una ragazza, nemmeno un cane o un gatto. Solo silenzio e biancheria sporca. Preferiva di gran lunga continuare a compilare rapporti lì, alla stazione di polizia, con la musica che gli pompava nelle orecchie.
A un certo punto sentì il cellulare vibrare nella sua tasca. Quando lo estrasse, vide lampeggiare sullo schermo il numero di Jo.
“Lucas!”, esclamò lei con urgenza, “Meno male che ti ho trovato!! Corri, presto, c’è un’emergenza!”
Lucas saltò su dalla sedia, improvvisamente emozionato.
“Un’emergenza?”, ripeté.
“Sì! Presto! Vieni al negozio! Corri!”
Jo riattaccò senza aggiungere altro. Non aveva specificato cosa intendeva per “negozio”, perché ormai l’unico negozio di cui parlavano e che aveva una qualche importanza era quello di Henry e Abe.
Lucas afferrò la giacca e corse fuori dal laboratorio, lieto che qualcosa avesse scosso quella che si annunciava come una serata solitaria e triste. Arrivò al negozio nel giro di dieci minuti: le luci erano accese, ma all’interno non sembrava esserci nessuno. All’ingresso c’era il cartello chiuso, ma la porta era aperta. Lucas entrò, circospetto.
“Jo? Henry?”, chiamò, guardandosi attorno, “Abe?”
Non vedendo nessuno, Lucas si portò sul retro, iniziando a salire le scale che portavano all’appartamento al piano superiore. Sentì delle voci, e dei passi.
“Jo?”, chiamò ancora.
“Lucas!”, rispose lei con tono urgente, “Corri!”
Lui ubbidì e si affrettò su per le scale, spalancò la porta e…
“Buon compleanno!”, si sentì dire, e Lucas si immobilizzò, basito.
Henry, Jo e Abe erano di fronte a lui, sorridenti. Jo teneva in mano una grossa torta con delle candeline. Alle loro spalle, al di fuori della portafinestra, scorse un tavolo imbandito e anche dei festoni appesi. Lucas spalancò la bocca ma non riusciva a dire nulla.
“Guardate la sua faccia!”, esclamò Abe ridacchiando, “Qualcuno gli faccia una foto, per favore!” Vedendo che però nessuno gli dava retta, prese lui stesso il cellulare e scattò una foto alla faccia pietrificata di Lucas. “Questa va su Facebook”, disse, ridendo.
“Su cosa?”, chiese Henry, perplesso.
Abe alzò gli occhi al cielo. “È un social network… Lascia perdere”.
“Ma… ma…”, riuscì a balbettare Lucas, “Ma che succede?”
“Mi dicono che si chiama ‘festa a sorpresa’, Lucas”, disse Henry, facendogli cenno di entrare, visto che lui era ancora bloccato sulla soglia.
“Mi sembra abbastanza sorpreso”, osservò Jo, posando la torta sul bancone della cucina, “Questa però la mangiamo dopo. Prima c’è la cena”.
Quando si voltò, aveva in mano un pacchetto.
“Questo è un regalo da parte mia e di Abe”, gli disse, porgendoglielo.
Lucas finalmente si era reso conto di quello che stava succedendo e fece qualche passo in avanti, commosso.
“Ma… ma non dovevate”, disse, scuotendo la testa. Prese comunque il pacchetto e iniziò a scartarlo. All’interno, c’era un fumetto. Superman, il primo numero.
“Jo ed Henry mi hanno detto che ti piacciono i fumetti”, disse Abe, “Questa è una prima edizione, del 1939.”
“Ma… è troppo. Abe, Jo, grazie infinite, non dovevate”. Si passò una mano sugli occhi, senza riuscire a nascondere la commozione. Jo lo abbracciò e gli diede una pacca sulla spalla.
“Anche Henry ha un regalo”, disse.
“In realtà, è più un prestito”, la corresse Henry, porgendo a sua volta un pacchetto a Lucas, “Pensavo che ti sarebbe piaciuto leggerlo”.
Lucas aprì il pacchetto e vi trovò all’interno un quaderno rilegato in pelle. Dentro, c’erano delle annotazioni, scritte a mano in una elegante grafia in corsivo. Solo dopo aver letto alcune righe capì di che cosa si trattava.
“Ma sono i rapporti originali su Jack lo Squartatore!”, esclamò, gli occhi illuminati di entusiasmo, “Ma come li hai avuti?”
Henry gli lanciò un’occhiata eloquente e Lucas aprì la prima pagina del quaderno, dove c’era scritto, in alto a destra: dr. Henry Morgan. Londra, 1888.
“Gesù Cristo! Non ci posso credere! Grazie, Henry!”, fece per abbracciarlo, ma Henry arretrò di un passo: “Lucas, ti ricordi cosa avevo detto riguardo agli abbracci?”
“Oh, sì. Scusa”. Entusiasta, Lucas cominciò a leggere velocemente le pagine del quaderno.
“Direi che quello te lo puoi leggere dopo, Lucas”, gli disse Jo sospingendolo delicatamente verso la terrazza, “Adesso mangiamo”.
Lucas alzò lo sguardo su di loro, poi sulla tavola imbandita, e di nuovo su di loro. Ancora una volta, sentì gli occhi lucidi.
“Grazie, ragazzi”, disse, grattandosi imbarazzato il collo, “Grazie. È il compleanno più figo della mia vita.”
“Come puoi dirlo, Lucas? Ne hai ancora tanti, davanti a te, da festeggiare”, osservò Henry sedendosi al tavolo sulla terrazza.
“Non quanti ne hai tu”, scherzò Lucas. E dopo piatti ricolmi di cibo, bicchieri altrettanti ricolmi e una buona dose delle storie di Henry, Lucas si dimenticò di tutti i tristi pensieri che aveva rivolto alla sua solitudine.
 
“Sei sicura al cento per cento della tua decisione, Jo?”, le chiese Henry, mentre l’aspettava seduto sul bordo del letto.
“Sì”, rispose Jo, armeggiando con il vestito dentro il quale si era costretta, “Ci ho riflettuto molto, e ho deciso. Ringrazierò per l’opportunità, ma… dirò di no. Non voglio diventare tenente.”
Dopo aver rinunciato a cercare di agguantare la chiusura lampo, uscì dal bagno, tenendo l’abito stretto al petto per evitare che le scivolasse di dosso.
“Non riesco a chiudere la lampo”, disse, e si voltò in modo che Henry potesse aiutarla. Lui eseguì, poi la fece voltare per osservarla.
“Sei stupenda”, le disse, e Jo rispose lisciandosi la gonna con gesti nervosi.
“Mi sento ingessata. Come si fa a camminare con una gonna così lunga?” Nonostante tutte le sue lamentele, però, Jo dovette ammettere con sé stessa che quell’abito le stava bene. Lungo e a campana verso la fine, viola scuro, vita stretta e spalle sottili. La scollatura era un po’ audace, per i suoi gusti, ma le avevano assicurato che era un abito da gala assolutamente appropriato.
“Ce la facevano le donne due secoli fa su e giù per le carrozze, Jo, ce la farai anche tu a New York in macchina”, scherzò Henry. Jo vide, nel riflesso dello specchio in cui si stava guardando, che lui stava estraendo qualcosa dalla tasca.
“Ho un regalo per te”, le disse, porgendole un cofanetto piatto di velluto, “L’avevo messo da parte per festeggiare la tua decisione, qualunque essa fosse stata”.
“Ma non dovevi!”, obiettò Jo, ma si lasciò subito prendere dalla curiosità: “Che cos’è?”
Aprì il cofanetto: su un cuscinetto di velluto giaceva una collana, con un grosso ciondolo che reggeva una luccicante pietra rossa.
“Henry!”, esclamò Jo, a bocca aperta, “Non sarà mica… un rubino?”
“Certo che è un rubino”, annuì Henry come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
“Ma sei pazzo? Ti sarà costato una fortuna!”
“Non proprio. Era di mia madre”, spiegò Henry, e visto che Jo fissava ipnotizzata la collana, Henry la prelevò dal cofanetto e gliela passò intorno al collo, “Ci ho messo un secolo (letteralmente) a recuperare i miei vecchi cimeli di famiglia. Alcuni ormai sono andati irrimediabilmente perduti, ma alcuni gioielli sono riuscito a recuperarli. Questa collana e altre cose appartenute a mia madre sono riuscito a comprarli ad un’asta a Londra circa un decennio fa. Li conservavo per una persona speciale”.
Henry chiuse il gancetto della collana e il pesante rubino si posò sul petto di Jo, quasi illuminando il suo viso di luce riflessa.
“Ecco. Ora sei perfetta”, disse Henry, dandole un bacio sulla guancia, “Pronta per la tua cena di gala?”
 
La cena si sarebbe svolta in una sala del Waldorf-Astoria, hotel in cui Jo non aveva alcuna vergogna a dire di non essere mai entrata. Le livree, il luccichio dei marmi e gli inservienti addetti agli ascensori la facevano sentire a disagio: troppo lusso, troppo ossequio e troppa apparenza. Non vedeva l’ora che Henry arrivasse (lui sarebbe venuto in macchina con Lucas, per non destare sospetti), ma nel frattempo doveva mettersi alla ricerca del capitano, per comunicarle la sua decisione. Anzi, prima di tutto doveva trovare la sala dove si sarebbe tenuta la cena.
Ci mise parecchi minuti a trovare l’ala giusta dell’hotel, e quando entrò nella sala fu subito investita dall’alone costoso che alleggiava tutto intorno, nei vestiti, nei profumi e nel cibo. Il capitano, stretta in un abito di seta nero (era la prima volta che Jo la vedeva con qualcosa che non fosse il suo solito tailleur), stava sorseggiando champagne accanto a un uomo alto e brizzolato con guanti bianchi. Jo attese qualche secondo, guardandosi attorno, aspettando il momento giusto per avvicinarsi senza interrompere la conversazione. Stare lì, in piedi, senza un capannello di persone a cui fare riferimento, senza nemmeno un bicchiere in mano a cui ricorrere, era il suo incubo di imbarazzo peggiore.
“Bella serata, eh?”, le disse qualcuno che le si era avvicinato alle spalle. Jo si voltò e si trovò davanti a un omone ben piazzato, con la pancia che tirava sotto la giacca dello smoking, la fronte lucida e le guance già parecchio arrossate, forse per il caldo, o per l’alcool, o per entrambe le cose.
“Jimmy, del quattordicesimo”, si presentò, porgendole una mano.
Senza sapere in che modo sviare quella situazione, Jo si ritrovò costretta a presentarsi.
“Jo, ottavo distretto. Detective della omicidi”.
“Omicidi, eh? Non dovrebbe essere consentito avere delle detective così carine”, le fece un occhiolino che forse avrebbe dovuto lusingarla, ma Jo sorrise pacatamente, saettando gli occhi per la sala alla ricerca di una via di fuga, “Se lavorasse al mio distretto, sarei continuamente distratto.” Si fece impercettibilmente più vicino e Jo, altrettanto impercettibilmente, si ritrasse di un passo. Ci mancava solo uno di quei tipi appiccicosi di cui era quasi impossibile liberarsi. Il capitano era appena rimasta da sola e Jo voleva intercettarla prima che si ritrovasse di nuovo in compagnia.
“Posso portarle qualcosa da bere?”, continuò Jimmy senza dar prova di aver recepito i segnali di disagio di Jo.
“Ehm, no, grazie”, rispose Jo, cercando disperatamente una scusa per allontanarsi, “In realtà, ho…”
“… già ordinato da bere”, completò una voce che Jo riconobbe immediatamente. Henry comparve al suo fianco con un bicchiere di champagne e Jo tirò un sospiro di sollievo.
“Piacere. Io sono Henry”, si presentò lui prima che l’altro potesse aggiungere qualunque cosa, l’immagine della cortesia.
“Jimmy”, rispose l’altro, senza mostrare lo stesso entusiasmo di quando si era presentato a Jo.
“… sezione persone scomparse?”, azzardò Henry sempre cortesemente.
“Sì”, ammise Jimmy, che oltre al disappunto per aver fallito il suo tentativo di approccio ora si mostrava anche confuso, “Come fa a saperlo?”
“Ho tirato a indovinare”, rispose Henry prima di rivolgersi a Jo: “Jo, il capitano ti vuole parlare, subito”. Jo capì che in realtà quella era solo una scusa, ma accolse con gratitudine l’occasione di defilarsi. Sorrise tiepidamente a Jimmy prima di dirigersi verso il capitano. Quando la vide, Reece la salutò con un cenno del bicchiere.
“Jo! Sei arrivata, finalmente”. La squadrò da cima a fondo, ammirata. “Sei assolutamente uno splendore, Jo. Complimenti.”
“Grazie”, disse Jo imbarazzata. Si fece coraggio con un respiro profondo: “Capitano, a proposito di quella promozione, ci ho riflettuto, e… innanzitutto la vorrei ringraziare per l’opportunità che mi ha offerto, e per aver pensato a me. Non lo dimenticherò e le sarò sempre grata per questo.”
Il capitano le fece un cenno per farle capire che la stava seguendo, ma alzò interrogativamente le sopracciglia, forse già intuendo, dal tono che Jo usava, quale sarebbe stata la conclusione del discorso.
“Tuttavia, sono giunta alla conclusione che sicuramente ci sono agenti più in gamba e meritevoli di me di questa promozione. Quindi, sempre ringraziandola per l’offerta, vorrei però declinarla”.
Le sopracciglia del capitano si alzarono ancora di più. Rimase a fissarla per parecchi secondi, in silenzio. Poi disse:
“Jo, ne sei sicura? Una volta persa questa opportunità, non si ripresenterà più. Almeno, non per alcuni anni”.
“Sì, signora. Sicurissima”.
“Beh…”, il capitano sospirò e bevve un sorso dal suo bicchiere, “Allora non posso fare altro che accettare la tua decisione, Jo, anche se non capisco i motivi che ti hanno portato a prenderla”.
Jo non aveva alcuna intenzione di spiegare i suoi veri motivi, quindi si limitò a un grazie e a un cenno del capo.
“Credo che sia il momento di andare al nostro tavolo”, aggiunse il capitano, vedendo che tutti si stavano avviando verso i propri posti. “Come sta il figlio di Hanson?”, chiese, facendo riferimento al fatto che Hanson non era potuto venire perché uno dei suoi figli era ammalato.
“Credo bene”, rispose Jo, “L’ho sentito prima di venire qui. Ha la febbre, ma niente di grave”.
Il loro tavolo, piccolo e rotondo, era leggermente scostato dal centro della sala, verso sinistra. Henry e Lucas erano già seduti. Jo, mostrandosi il più possibile naturale, si sedette di fianco a Henry. Sapeva che l’assenza di Hanson aveva permesso a Henry di recuperare un invito (lo stesso era avvenuto con un altro detective che aveva ceduto il posto a Lucas), però Jo si sentiva in imbarazzo a essere allo stesso tavolo con Henry, Lucas e il capitano. Lei, Henry e Lucas erano accomunati dallo stesso segreto, e dalla stessa tensione che provavano nel mantenerlo tale: Hanson sarebbe stato un’utile aggiunta, un modo per riequilibrare le parti. Adesso, Jo percepiva una sottile ansia per ogni cosa che diceva o faceva, temendo di tradirsi.
Approfittando del fatto che il capitano stava parlando con Lucas, Henry si sporse verso di lei e le chiese, sottovoce:
“Com’è andata?”
“Bene. Ha accettato la mia decisione senza indagare troppo”, rispose Jo, cercando di mantenere un’espressione neutra. Stava per aggiungere qualcosa, quando il suo sguardo fu attirato da una figura alta e snella, bionda, che era in piedi accanto a un tavolo poco distante da loro.
“Mio Dio”, si lasciò sfuggire, “Ma quella non è la tua dottoressa?”
“La mia dottoressa?”, ripeté Henry perplesso, e seguì il suo sguardo fino alla donna bionda, “A parte la tua originale scelta di parole, che non sono sicuro di condividere, comunque sì, in effetti è Iona. Che cosa ci fa qui?” Alcune persone che stavano ostacolando loro la vista si spostarono, rivelando la persona con cui Iona stava parlando.
“Mio Dio”, disse Henry, imitando il tono di Jo di poco prima, “Quello non è il tuo milionario?”
“Il mio milionario?”, Jo si sporse di qualche centimetro e appurò che sì, era proprio Isaac. “Non posso crederci”, borbottò prima di potersi fermare, “Il mio ex e la tua ex insieme nella stessa sera.”
“Iona non è la mia ex”, la corresse Henry, “Non siamo mai stati veramente insieme… la stessa cosa non si può dire di te e Isaac”, aggiunse, senza comunque lasciar trapelare nient’altro che una semplice constatazione.
“Neanche noi siamo mai stati veramente insieme”, replicò Jo, sentendosi arrossire, “O meglio, un po’ più insieme di te e Iona, te lo concedo, ma non così insieme”.
“Per ‘non così insieme’ intendi niente sesso?”, chiese lui serenamente.
“Henry!”, esclamò Jo più forte del dovuto, e arrossendo ben oltre la normalità, “Non mi sembra il caso di… comunque no, niente di tutto questo!” Lucas e il capitano si voltarono a guardarli, sorpresi.
“Rilassati, detective”, disse Henry parlando pianissimo e cercando di evitare lo sguardo interrogativo del capitano, “Era solo una domanda. Nessun tipo di rimprovero o di giudizio. Ti assicuro che, nonostante i luoghi comuni, ai miei tempi ho visto e sentito cose che farebbero raddrizzare i capelli ai ragazzi d’oggi”.
“Va tutto bene, Jo?”, li interruppe il capitano, scrutando prima Jo, ancora rossa, poi Henry, l’esemplificazione dell’impassibilità, che sorseggiava placidamente dal suo bicchiere.
“Benissimo”, rispose Jo cercando di ricomporsi, “Stavo solo dicendo a Henry che ho visto il signor Monroe…”
“… che, tra parentesi, sta venendo qui”, aggiunse Henry facendo un cenno alle spalle di Jo.
Ci mancava questa. Jo si voltò e si ritrovò Isaac in piedi accanto a lei, il volto atteggiato in uno dei suoi sorrisi che sembravano esprimere indifferenza e tranquillità insieme. Jo scoprì di esserne irritata. Isaac tendeva ad avere sempre quella smorfia superficialmente simile a un sorriso, una specie di espressione perenne di menefreghismo, o di disinteresse, o di noia, o meglio un misto tra tutte quelle cose. Come aveva potuto non notarlo prima? O forse lo aveva notato e lo aveva ignorato, conquistata com’era da altre sue caratteristiche.
“Jo!”, la salutò, allargando le braccia, “Che piacere vedere che sei venuta alla nostra umile cena”.
Jo si alzò e rispose al suo saluto, stringendogli la mano e accettando un bacio sulla guancia, che lei ricambiò velocemente. Henry le aveva chiesto, un paio di settimane prima, se si sarebbe sentita in imbarazzo in presenza di Isaac: Jo si accorse che l’unico imbarazzo che provava era quello relativo alla sua incapacità di nascondere la propria indifferenza nei suoi confronti. Era molto più preoccupata dalla presenza della dottoressa Payne. Mai e poi mai lo avrebbe ammesso a sé stessa o a Henry, ma era gelosa al pensiero che lei fosse lì, quella sera.
“È una cena magnifica”, osservò diplomaticamente, e tornò a sedersi, cercando di coinvolgere anche il resto del tavolo nella conversazione, “Ti ricordi il resto della squadra, vero? Il capitano…”
“… sì, ci siamo già incontrati all’inizio della serata”, confermò Isaac, risalutando il capitano con un cenno.
“… Lucas, forse non lo hai mai conosciuto, di medicina legale…”, continuò Jo, mente Isaac salutava tutti cortesemente, “… Henry, il mio partner.”
“Ah sì, il dottore”, ricordò Isaac con un cenno del capo verso Henry.
“Esatto”, rispose Henry gentilmente, “Piacere di rivederla”.
Un silenzio imbarazzante minacciava di cadere su di loro. Il capitano, forse confusa dalla freddezza che percepiva tra Isaac e Jo, che lei credeva fossero tornati a essere una coppia, intervenne per mantenere viva la conversazione:
“I suoi finanziamenti sono di certo stati ben spesi, signor Monroe. Non ho mai visto così tanti poliziotti ubriachi insieme”.
“Sì fa quel che si può”, rispose lui sempre con quel sorriso-smorfia che irritava tanto Jo. “In realtà, ero venuto a congratularmi, Jo”, e si rivolse di nuovo a lei, “Ho sentito delle voci… a quanto pare d’ora in poi dovremmo chiamarti Tenente Martinez”.
Jo si morse il labbro, sorpresa che quella notizia (anzi, non-notizia, visto che lei non aveva accettato) fosse circolata così in fretta. Sperava che sarebbe rimasta una cosa tra lei e il capitano: com’era possibile che Isaac ne fosse a conoscenza?
“A quanto pare le voci circolano in fretta”, osservò in maniera neutra. Non voleva dire, davanti a tutti, che aveva rifiutato la promozione. Era una scelta sua, e come tale doveva rimanere privata. Percepì il capitano che la fissava, ma lei evitò di guardarla, rimanendo concentrata su Isaac.
“Beh, allora non mi resta che rinnovarti le mie congratulazioni”, disse lui, allargando le braccia come a voler includere tutti nel suo discorso, “E augurare a voi tutti una buona serata”.
“Grazie, Isaac”, rispose Jo con un sorriso tiepido. Quando (finalmente) si allontanò, Jo tornò a guardare gli altri membri del tavolo.
“Non sapevo della promozione, Jo!”, le disse Lucas sorridendo, “Congratulazioni, allora!”
“In realtà, Lucas”, intervenne Henry, vedendo che Jo non sembrava avere voglia di parlarne, “Jo non ha accettato.”
“Ah”, disse Lucas, e forse stava anche per chiedere perché?, quando uno sguardo di Henry lo incenerì e lo convinse che era meglio non indagare oltre, almeno non in quel momento.
“Perché non hai spiegato al signor Monroe che avevi rifiutato?”, chiese il capitano, incuriosita e perplessa allo stesso tempo.
“Beh, non sono affari suoi, no?” E con questa affermazione Jo seppe che aveva fugato ogni dubbio circa la sua presunta relazione con Isaac. Prima o poi, lei ed Henry sarebbero dovuti venire allo scoperto.
Dopo alcuni secondi di silenzio, Henry intervenne per spezzare la tensione:
“Altro champagne?”, chiese, e riempì i bicchieri di tutti mentre i piatti dell’antipasto comparivano magicamente davanti a loro.
 
Con l’aiuto delle ingenue battute di Lucas, i diplomatici interventi di Henry e la miriade di persone che li circondava e che offriva loro interessanti spunti di conversazione, la cena trascorse abbastanza allegramente. Jo, ogni tanto, rimuginava su Isaac e su come lui poteva essere venuto a conoscenza della sua promozione. L’unica spiegazione plausibile era che il capitano ne avesse accennato al capo della polizia, che a sua volta doveva aver fatto circolare la notizia. E poi, c’era Iona, la cui presenza Jo non riusciva a spiegarsi. Non era un membro del corpo della polizia: forse era venuta in veste di accompagnatrice di qualcuno? In quel caso, si sarebbe sentita decisamente sollevata. Non l’aveva più vista da quando l’aveva scorsa mentre parlava con Isaac, nonostante avesse scandagliato la folla con sguardo attento. Magari era stata solo una comparsa e se n’era andata senza partecipare alla cena.
Jo appoggiò il cucchiaino da dessert sul piattino, sazia. Era stata una cena abbondante, e ora l’aria si stava saturando dell’odore dei sigari e del caffè. Un signore anziano, in divisa da cerimonia, si era avvicinato al loro tavolo e stava parlando con il capitano. Jo ne approfittò e prese la mano di Henry sotto il tavolo, senza farsi vedere. Lui si chinò verso di lei con fare noncurante.
“Ti annoi?”, le chiese a voce bassa.
“Un po’. Non vedo l’ora di andare a casa, farmi una doccia e ficcarmi a letto”.
“Come sei pigra. Ci sono centenari più attivi di te”, e le fece un occhiolino veloce.
“Sapete ragazzi”, Lucas si era sporto verso di loro avvicinando la sua sedia, “Non so voi, ma mi sento un po’ un pesce fuor d’acqua.”
“Henry no”, rispose Jo scherzando, “Lui è nel suo elemento”.
“Mmh non sono d’accordo”, disse Henry con lo stesso tono, “Non per offendervi, ma ve lo devo dire. Voi yankee non siete un granché a organizzare feste”, e nel dire yankee accentuò scherzosamente il proprio accento.
Sia Jo che Lucas scoppiarono a ridere.
“Sai che ci vorrebbe, adesso?”, disse Lucas quando smise di ridere, “Uno di quei cicchetti che ha preparato Abe alla cena del mio compleanno. Non so cosa ci fosse dentro, ma era una bomba”.
“Ricetta segreta”, spiegò Henry serissimo, “Non sono ancora riuscito a capire gli ingredienti.”
“Adesso che ci penso, non vi ho ancora ringraziato per quella cena”, continuò Lucas, “Davvero, mi sono divertito un casino…”
“Figurati, Lucas. È stata una bella cena…”, rispose Henry, ma Lucas era partito in quarta:
“E poi… Henry, cavolo, immagina se ci fossimo conosciuti prima… cioè intendo conosciuti per davvero… sai che pacchia in laboratorio? In questi mesi ho imparato più storia che in tutti gli anni di scuola…”
“Beh, Lucas, in questi mesi ti ho raccontato sì e no un paio di decenni. Sporadicamente, per di più. Ci sono ancora più di…”, e Henry, istintivamente, abbassò la voce, “… più di duecentoquindici anni di cui parlare. Direi che il tuo divertimento è assicurato per almeno un paio d’anni”.
Dopo che ebbero bevuto il caffè (Henry ebbe la strana sensazione che il capitano lo stesse osservando con più attenzione del solito), un’orchestra attaccò a suonare musica da sala, e lo spazio davanti al palco si popolò di due o tre coppie stagionate che abbozzarono passi di valzer.
Molti si alzarono, rimanendo in piedi ai margini della pista, alcuni tentennanti finché non venivano convinti dal proprio partner a ballare. Henry guardò Jo in maniera eloquente.
“Non ci penso neanche, a ballare”, balbettò lei imbarazzata.
“In realtà”, replicò Henry, “Volevo chiederti se volevi… com’è che si dice…? Defilarti? Tagliare la corda?”
Jo sorrise di sollievo.
“Oh sì. Questa idea mi piace decisamente di più. Ma… insieme?”
Jo lanciò uno sguardo al capitano, che nonostante orbitasse da un conversatore all’altro sembrava sempre tenere gli occhi su di lei e Henry. O forse era solo Jo che si sentiva paranoica.
“Forse è meglio di no.”, rispose Henry, “Il capitano ci ha puntati”.
“Allora non sono solo io che ho questa sensazione”, sospirò Jo di nuovo.
“No no. Ci sta puntando come il missile di un sottomarino. Se vuoi vado via prima io… magari mi raggiungi tra una mezz’ora?”
Jo annuì, anche se non sprizzava gioia al pensiero di trascorrere una mezz’ora da sola senza sapere con chi parlare.
“Lucas ti farà da spalla”, aggiunse Henry intuendo il suo disagio.
“Jo, è la nostra occasione per sparlare di Henry alle sue spalle”, scherzò Lucas dondolando sui piedi.
“Scordatelo, Lucas. Ricordati che io poi vengo sempre a sapere tutto.”
Henry li salutò entrambi, evitando il capitano che intanto era impegnata in una conversazione, e si mischiò tra la folla, diretto verso l’uscita. Una voce giunse alle sue spalle:
“Te ne vai già così presto?”
Henry l’aveva riconosciuta, ma si girò comunque lentamente, per avere il tempo di pensare a come reagire a quella situazione. Iona, sinuosa e longilinea in un abito nero lungo monospalla, gli sorrise, sporgendosi verso di lui per dargli un bacio sulla guancia. Henry la salutò a sua volta, ma cercò di mantenersi il più formale possibile.
“È un piacere rivederti, Iona”, le disse, evitando di rispondere direttamente alla sua domanda. “Che cosa ti porta qui?”
“Beh, non hai saputo?”, gli rispose lei, continuando a sorridere, “Ora lavoro come psicologa della polizia. Mi occupo in particolare di stress post traumatico dovuto a sparatorie o ferite, sai… casi comuni tra gli agenti.”
“Davvero? Non lo sapevo”, osservò Henry sorridendo gentilmente, “Sono sicuro che stai svolgendo un lavoro splendido. I tuoi pazienti sottomessi sentiranno la tua mancanza.”
“Non completamente, svolgo ancora quel lavoro, ogni tanto”, gli fece l’occhiolino, “E come sai, la mia offerta di prova è sempre valida”.
“Ti ringrazio, Iona. Lo terrò in considerazione”.
Iona non era una stupida, e aveva capito, dall’atteggiamento di Henry nei suoi confronti (perfettamente cordiale, ma anche formale), che lui non era più disponibile. Armandosi di un altro sorriso e di un po’ di autoironia chiese:
“Allora, chi è la fortunata?”
Henry sapeva che negare non sarebbe servito a nulla. Era meglio essere sinceri, fornendo una versione riadattata della verità (cosa in cui, peraltro, lui era esperto):
“Non ti sfugge nulla, Iona. Non mi stupisce che ti abbiano scelto come psicologa del dipartimento”.
“In realtà, ho iniziato come sostituta del dottore che c’era prima di me… un certo Louis”, spiegò Iona, ma si interruppe quando vide l’espressione di Henry cambiare radicalmente, come se gli avessero dato un pugno in faccia. “… lo conosci?”, chiese, incuriosita.
“Mi è capitato di incontrarlo un paio di volte”, rispose lui asciutto, ricomponendosi, “Di sfuggita. Dunque il lavoro temporaneo è diventato permanente?”, continuò, riprendendo le fila del discorso.
“Sì, a quanto pare. Alla fine dell’anno dovrebbero offrirmi un contratto definitivo”.
“Sarebbero stupidi, se non lo facessero”, osservò Henry, tornato perfettamente in sé, “Ti auguro ogni bene, Iona. Davvero.”
“Grazie. Anche a te”. Questa volta si salutarono con una stretta di mano. “E se mai la tua… situazione, dovesse cambiare… sai dove trovarmi.” Gli fece un occhiolino e si voltò, sparendo tra la folla. Henry attese qualche secondo fino a che non la perse di vista, poi uscì dalla sala. Anziché dirigersi verso l’uscita, però, si rintanò in un vano laterale del corridoio, leggermente nascosto dalla vista. Lì c’erano un telefono e una sedia: si sedette, inspirando profondamente. L’accenno ad Adam lo aveva turbato più di quanto volesse ammettere. Lo sapeva che ormai era fuori gioco, eppure ricordarsi di lui lo metteva in agitazione. Non era tanto il pensiero di essere stato ingannato, anche se era un duro colpo alla sua autostima, visto che credeva fermamente nella propria intelligenza o intuito. Il fatto che qualcuno lo avesse ingannato, che fosse stato più furbo di lui, lo poteva anche accettare. Quello che non riusciva a sopportare era il pensiero di essere stato così ingenuo da esporsi. Là, in quello studio, anche se non sapeva che Adam era Adam, aveva commesso un grave errore: era stato sincero. Si era aperto con uno sconosciuto, e in quel modo aveva rivelato qual era la sua più grande paura: che le persone che lui amava si facessero male. Non avrebbe dovuto farlo, a prescindere. Era una sua regola: mai rivelare qualcosa che poteva mostrare chi era davvero. Indossare la maschera e continuare a portarla. Il pensiero di Iona in quello studio si sovrapponeva al ricordo di Adam, a lui che sedeva placidamente, e che con pazienza e astuzia carpiva le sue debolezze per poi usarle contro di lui. Non importava quante volte Adam l’avesse ucciso, o avesse provato a farlo: era la minaccia costante contro Abe e Jo a spaventarlo davvero.
Henry scosse la testa come a scacciare il pensiero: quella minaccia ormai era svanita. Ora le cose stavano andando bene. Doveva calmarsi o il suo turbamento sarebbe apparso all’esterno.
“Henry?”, Jo fece capolino dal corridoio, oscurando in parte le luci che si riflettevano sul marmo. “Tutto bene?”
“Jo. Che ci fai qui? Non dovevi aspettare una mezz’ora prima di uscire?”
“Ecco, io… ti ho visto uscire e mi sembravi turbato. Quando ho chiesto al portiere se ti aveva visto uscire in strada lui mi ha detto di no, quindi… sono tornata indietro e ti ho visto seduto qui. Va tutto bene?”
“Sì. Non ti preoccupare. Tutto bene.”
“Il fatto che tu mi dica non ti preoccupare mi fa preoccupare abbastanza”, osservò Jo, avvicinandosi a lui. Non c’erano altre sedie, ma Henry si scostò e le fece un po’ di spazio. Jo si sedette sul bordo della sedia, con la spalla premuta contro quella di Henry.
“Non è niente, davvero”, la rassicurò Henry, anche se non era riuscito ancora a togliersi di dosso completamente la sensazione di disagio causatagli dal ricordo di Adam.
“È per Iona?”, chiese Jo con cautela.
“Non proprio”.
Jo ormai lo conosceva abbastanza per capire quando era il momento di lasciare stare. Quando avesse voluto, Henry gliene avrebbe parlato, qualunque cosa fosse. Tuttavia c’era un altro pensiero, un po’ infantile, doveva ammetterlo, che tormentava Jo. E visto che erano soli, spalla contro spalla, nel vano di un corridoio, tanto valeva togliersi il pensiero.
“Henry, posso farti una domanda?”
“Pensavo che ormai ti fossi aggiudicata il diritto di farmi domande quando e come volevi, detective”, rispose Henry con un mezzo sorriso.
“Non è una solita domanda sul tuo passato. È una cosa personale”.
“Perché, le domande sul passato non sono personali?”
Jo sbuffò. “Sai cosa intendo”.
Anche Henry sbuffò. “Va bene, spara”.
“Perché ti piaceva Iona?”
“Prego?”
“Perché ti piaceva Iona?”, ripeté Jo, “Voglio dire, senza offendere nessuno, lei è sicuramente uno schianto, una donna intelligente, anche, sensuale e tutto quello che vuoi. Ma… sinceramente, non mi sembra proprio il tuo tipo. Soprattutto dopo tutto quello che mi hai raccontato.”
Henry ci rifletté per qualche istante.
“Non ti so dare una risposta”, disse, “Però immagino che sia proprio perché non era il mio tipo, che mi piaceva.”
“Cioè?”, chiese Jo, confusa.
“Voglio dire… immagino che sia stato più facile sentirmi attratto da una persona alla quale sapevo già in partenza di non potermi affezionare. Non so se mi spiego. Era qualcosa come… curiosità. Qualcosa di nuovo.”
Jo annuì, e scoprì con sorpresa che in effetti lo capiva.
“E oserei dire”, continuò Henry, “Che a me piaceva Iona come a te piaceva Isaac. Nemmeno lui mi sembra il tuo tipo, eppure siete usciti insieme.”
“Già. Immagino che come al solito tu abbia ragione, dottor Morgan”.   
“Capita, quando si ha una certa dose di esperienza alle spalle”.
Jo posò la testa sulla sua spalla, sospirando. Visto che erano in argomento, aveva un’ultima domanda da porgli, per togliersi ogni dubbio.
“Ti piace ancora? Iona, intendo”.
“Così mi ferisci nel profondo, detective”, replicò lui, voltando la testa per poterla vedere in viso, “Sei seria?”
“Sì, sono seria”.
“No”, rispose allora lui senza esitare, “Nel caso non te ne fossi accorta, sei l’unica persona che mi conosce veramente, e l’unica di cui mi fidi. A parte mio figlio.” Si fermò un istante, forse temendo di non essere stato abbastanza convincente. “Voglio dire, sei tu quella che ho scelto come confidente. Non Iona. E questa credo sia la dimostrazione più valida del fatto che ti amo”.
Jo sorrise contro la sua spalla, completamente rassicurata. A essere sinceri, era la prima volta (anzi, la seconda, se si contava quel ti amo pronunciato di sfuggita quando avevano cenato insieme la prima volta), che Henry le diceva esplicitamente ti amo. Nemmeno lei, a dirla tutta, l’aveva mai ammesso ad alta voce.
“Anch’io ti amo”, disse allora, “Che ne dici se mettiamo in atto il nostro piano di svignarcela? Chissenefrega della mezz’ora in più o meno”.
“Non potrei essere più d’accordo”. 
   
 
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