Capitolo XVIII
Bianco e nero
La mattina era tornata come sempre, e con gran garbo e cordialità, il dorato sole prendeva in cielo il posto della bella e argentea luna, regina di ogni notte e superiore alle compagne stelle. Un nuovo giorno era iniziato, e finalmente, ero pronta. Vestivo elegantemente, in accordo con l’occasione per la quale mi ero preparata. Il matrimonio della mia amica Samira. Cercando distrattamente il mio diario, perso per pura sfortuna e poi ritrovato nel cassetto della mia scrivania, avevo anche ritrovato la sua prima lettera. Una scritta di suo pugno nella quale affermava di essersi fidanzata, e di sentirsi innamorata e felice come mai prima in vita sua. Erano ormai passati anni dall’inizio della loro relazione, e finalmente, dopo un’attesa che lei definiva interminabile, il suo tanto amato Soren le aveva chiesto di sposarlo, non offrendo in cambio della sua mano che amore e compagnia per il resto delle loro giovani vite. L’eleganza è oggi dalla parte di tutti noi, in quanto anche la piccola Terra, vestita di bianco, indossa scarpe del medesimo colore. Guardandola, non posso fare a meno di pensare che sia carinissima, e sorridendo, mi lascio anche sfuggire una risatina. Questa svanisce velocemente, e mentre camminiamo verso la chiesa poco lontana, sento il calore del sole sulla pelle. Per pura fortuna, oggi non piove, e a quanto sembra, la funzione dovrebbe iniziare a breve. Una volta arrivati, ci sediamo tutti su una delle lignee panche lì presenti, e rompendo il silenzio, una dolce musica da pianoforte accompagna l’entrata in scena dei miei amici. Con le lacrime agli occhi, mi volto a guardarla. Samira. Il suo vestito è di un rosa tenue, e la sua fine bellezza toglie le parole dalla bocca di ogni invitato. I minuti scorrono, e prima che noi tutti abbiamo modo di accorgercene, ecco il momento più atteso e importante. Il bacio che unendo le loro labbra suggellerà la loro promessa d’amore, e che Soren e Samira si scambiano con trasporto e castità al tempo stesso. Strofinandomi un occhio con la mano, tento di arrestare la fuga di alcune lacrime, e poi, nel silenzio generale, un suono a dir poco assordante. Spaventata, afferro saldamente la mano di Stefan, e il solido portone si apre. Tremo di paura, ed è allora che li vedo. Loschi figuri incappucciati, che attentano alla felicità di ogni persona presente. Spaventata, la gente fa di tutto per fuggire, e nella confusione generale, l’istinto mi parla. Chinandomi, prendo subito in braccio Terra, e provando a correre, inciampo perdendo disgraziatamente l’equilibrio. Cado, e un improvviso dolore alla gamba mi impedisce di muovermi. Provo a rialzarmi, ma non ci riesco. Di lì a poco, la stessa sorte tocca a Samira, che per pura fortuna, si rimette in piedi fuggendo e mescolandosi alla folla. Intanto, non riesco a capire nulla. Ho gli occhi chiusi, non voglio vedere nulla di quanto sta accadendo. Il tempo scorre, e ben presto, anche la testa inizia a farmi male. Le urla della povera gente preda del panico mi perforano i timpani, e mentre il dolore mi stordisce, mi faccio coraggio. Riapro quindi gli occhi, e ho appena il tempo di vedere uno di quei mostri avvicinarsi. In quel momento, un lampo di genio. Chiudere di nuovo gli occhi, e fingermi morta. Assistita dalla fortuna, scopro che il mio piano pare aver funzionato. Il silenzio regna, e finalmente tutto è finito. Siamo soli, e anche se a fatica, mi rialzo. Nascosta sotto una delle panche della chiesa, Terra si guarda intorno, e notandomi, mi tende la mano. Afferrandola saldamente, la aiuto a rimettersi in piedi, e una domanda mi sorge spontanea. “Sei ferita?” le chiedo, guardandola con occhi colmi d’insicurezza. “No.” Risponde, e quella semplice parola mi tranquillizza. Tremando ancora per lo spavento, quasi non si regge in piedi, ma aiutandola, la sorreggo. La gamba mi faceva ancora male, e camminando verso l’uscita, vidi qualcosa in terra. Un bracciale, che ad essere sincera, mi sembrava di aver già visto. Svuotando per un attimo la mente, mi sforzai di ricordare, e improvvisamente, un guizzo di memoria. Chinandomi, raccolsi quel monile, ed esaminandolo, capii che apparteneva a Samira. Assieme a questo, un brandello della stoffa del suo vestito. Doveva esserle caduto durante quel marasma, e la stoffa doveva essersi strappata durante la corsa. Stringendolo in mano, temetti per lei e per la sua incolumità. Ricordavo di averla vista fuggire e mettersi in salvo, ma in quell’istante non ero sicura di nulla. Forse ce l’aveva fatta, o forse no, e mentre il tempo scorreva, quel dubbio mi tormentava. Tacendo, raggiunsi l’uscita della chiesa con Stefan, e fra un passo e l’altro, non potei che concentrarmi su due colori. Il bianco del mio abito in un occasione così speciale, e il nero di una sfortuna che sembrava seguirci da tempo ormai immemore.